Le pietre e la vita

Il matrimonio tra il grande fabbricato che sorge alla punta della dogana a ridosso della Basilica della Madonna della Salute e il “Marcianum” è stato di breve durata. Le vicende del Mose hanno affondato l’opera che il patriarca Scola considerava come il fiore all’occhiello della Chiesa veneziana e che, come tale, ha presentato al Papa Ratzinger.

Leggere sui giornali la comunicazione del patriarca attuale, il quale per motivi di ordine finanziario s’è sentito costretto a chiudere quest’ultima pagina altisonante ed impegnativa per la Chiesa di Venezia, mi ha costretto a riandare a quel vecchio e monumentale palazzo veneziano nel quale ho trascorso ben dodici anni della mia fanciullezza e della prima giovinezza. Il palazzone secentesco austero e massiccio è nato come convento dei Padri Somaschi. All’inizio del secolo scorso però venne occupato dal seminario che s’è trasferito da Castello alla punta della Salute.

Quando io vi entrai, nel 1942, ospitava ben 200 seminaristi dalla prima media all’ultimo anno della teologia. Il fabbricato non solo nel suo esterno è austero, ma pure l’interno era, fino a tre quattro anni fa, vecchio, cupo, soprattutto immenso. Eppure io vi passai dodici anni felici. Beata fanciullezza! Nonostante le regole, i cameroni di quaranta letti e le anguste camerette con le inferriate alla finestra quando ero chierico, vi passai tempi sereni e felici. Ricordo che alle 21 toglievano la luce e il “prefetto”, ossia l’assistente, chiudeva la porta a chiave.

Ai miei tempi, tutto sommato, il seminario aveva l’impronta del collegio dell’ottocento. Ripeto che, nonostante ci muovessimo sempre inquadrati a due a due, nonostante avessimo la divisa da questurino con tanto di cappello col sottogola, nonostante i corridoi fossero tanto bui, nonostante a motivo della guerra il cibo scarseggiasse assai, i miei ricordi sono belli. Ricordo con nostalgia non solamente quel tempo, ma anche quell’enorme palazzo.

Da quanto mi ha detto mio fratello don Roberto, che è entrato in seminario venti anni dopo di me, pure lui ricorda positivamente quel tempo trascorso in seminario; anzi, da quanto mi ha confidato, da dieci anni non vi ha messo più piede perché vuole ricordarlo così come l’ha vissuto.

Monsignor Vecchi vi ha operato delle modifiche significative, ma soprattutto il patriarca Scola l’ha trasformato in una università in linea col nostro tempo. Non ho capito a che cosa ora sarà destinato un fabbricato così enorme e così signorile. Qualcuno mi ha riferito che monsignor Pistollato, che attualmente è all’apice della Chiesa veneziana, ha affermato che ne faranno un albergo di lusso. Non mi meraviglierei, perché questo pare sia il destino di Venezia: una grande Veneland lagunare, con strutture alberghiere per turisti.

Pensavo poi che la cosa non sarebbe pure una novità in assoluto perché anche monsignor Vecchi, che aveva fiuto per gli affari, per alcuni anni ne aveva fatto una foresteria durante i mesi estivi, per racimolare un po’ di denaro per mantenere noi seminaristi. I vecchi monsignori di San Marco però misero fine all’iniziativa temendo che il profumo o qualche capello delle signore ospiti potessero mettere in pericolo la castità dei futuri preti. Ora staremo a vedere!

26.08.2014

I famigli

Monsignor Cè m’è parso sempre sorpreso e ammirato dal numero di volontari che ho sempre avuto accanto durante tutte le mie “imprese” del passato più o meno lontano, ma pure del presente. Io sono perfettamente conscio di questo dono del Cielo, anche se il mio volontariato assomiglia all’esercito di Brancaleone: disordinato, irrequieto e poco disciplinato, che ha creato spesso parecchie noie.

Ho sempre pensato che le difficoltà che questi volontari difficilmente governabili mi han creato, dipendessero dal fatto che nel reclutamento non sono mai andato per il sottile, non ho avuto mai uffici filtro, non ho mai fatto ricerche sulla fede e sulla moralità, sui comportamenti, sperando sempre che la mia testimonianza e quella dei miei diretti collaboratori avesse potuto incidere sulla loro coscienza e farne dei volontari motivati e generosi.

Il vecchio patriarca Cè, che di certo non conosceva i limiti e le magagne di quel gruppo assai consistente ma non troppo qualificato sia come efficienza che, soprattutto, come motivazione interiore, un giorno mi buttò là una proposta, probabilmente sotto una spinta emotiva piuttosto che di una motivazione ben ponderata: «Perché, don Armando, non dà vita ad una congregazione religiosa?». Il discorso non ebbe evidentemente seguito, non solo perché mancavano assolutamente i presupposti, ma anche perché io ero e sono lontano mille miglia da un’avventura del genere. Confesso però che ho sempre sognato di avere, come avviene spesso in certi conventi di frati, un gruppetto seppur minuscolo di persone che condividano l’avventura mettendone a disposizione tutto il proprio tempo e le proprie risorse umane. Non mi riferisco con ciò ai frati conversi, quelli che un tempo erano destinati alla questua o alla cura del brolo e della sagrestia, ma a quei “famigli” non pagati, che tutto sommato condividevano la vita dei frati, dal desco alla casa.

Finora il progetto m’è riuscito in parte: c’è Carlo, non troppo devoto ma sempre disponibile a tutto, almeno fin quando “dio Bacco” non lo tenta; ora c’è pure Giorgio, più lucido, determinato e specialmente con una lunga esperienza di convento alle spalle, che promette assai bene se la sua scelta diventerà definitiva; c’è poi un numeretto di persone, pur questo molto limitato, che mi pare condivida la causa e sia disponibile a far un po’ di tutto quando c’è necessità.

Mi auguro che questi “discepoli” o “frati conversi” aumentino e che il “don Vecchi” non debba essere condizionato dagli “assunti ufficiali” che quasi sempre si rifanno alle regole o ai privilegi sindacali e che non riescono a vedere nella Fondazione un qualcosa di più e di diverso di un’azienda qualunque.

Per ora ringrazio il Signore e lo prego perché cresca il numero e la qualità in maniera tale che ci sia sempre chi crede che valga la pena di spendere la vita per gli anziani.

26.07.2014

Povero Papa Francesco!

Ho già scritto fin troppo sul discorso delle ferie. Dovrei dare la mia testimonianza e poi starmene zitto. Purtroppo soltanto ieri ho confessato che sono un peccatore incallito che fa tanta fatica a convertirsi. Ci ritorno quindi ancora una volta nella speranza di dare una mano alla mia “categoria” non solamente a prender esempio da Papa Francesco, ma pure a tener conto di un mondo di poveri che fan fatica a sopravvivere e di una Chiesa che purtroppo non gode più di quella credibilità che è assolutamente necessaria per riscuotere il consenso delle masse e soprattutto dell’esempio di Gesù che è nato, é vissuto ed è morto in povertà ed in totale servizio agli uomini.

Qualche giorno fa una signora che porta “L’Incontro” nelle chiese che l’accettano, mi ha detto: «Don Armando, ne stampi almeno 150 copie di meno perché la chiesa “tal dei tali” rimane chiusa per tutte le ferie, un’altra apre solamente un paio di ore al mattino, ma pure quasi tutte le chiese di Mestre osservano un orario ridotto; sono poche le chiese che rimangono aperte più di quattro cinque ore al giorno». Un altro collaboratore che, conosce il mio desiderio di leggere i bollettini parrocchiali, mi ha fatto sapere che in molte parrocchie la pubblicazione è sospesa durante tutto il periodo estivo. Forse sono appena tre o quattro le parrocchie che continuano a pubblicare il bollettino parrocchiale durante l’estate, come se la formazione cristiana e l’informazione sulla vita della comunità non fosse più utile, o meglio necessaria, durante i mesi di luglio, agosto e, forse, mezzo settembre.

Per non parlare poi delle ferie dei sacerdoti ai quali pare non basti più la frescura, la pace e il silenzio delle nostre belle montagne, ma sperano di poterli trovare solamente in Africa, in America latina, negli Stati Uniti, in Inghilterra e perfino in Asia.

Si, ci sono dei preti benemeriti che girano come trottole per seguire i ragazzi, gli scout e la propria gente, però sembrano essere una minoranza.

Il Patriarca Scola ha fatto qualche anno fa un’affermazione che credo vada letta da un’angolatura ben precisa, tanto che ho sempre sperato che vi avesse dato, prima o poi, un’interpretazione autentica. Suonava così: “Le vacanze non sono solamente un diritto, ma un dovere”. Giustissimo, se si tratta di una breve pausa per riflettere, meditare e programmare per la nuova stagione parrocchiale, ma se si tratta di viaggi all’estero non mi pare che si possano queste ferie pensare in linea con lo spirito sacerdotale.

A questo proposito mi domando come riescano a fare vacanze del genere con lo stipendio dei preti che è discreto, ma di certo non può coprire questo tipo di viaggi. Un richiamo fraterno alla sobrietà, all’attenzione del momento difficile, ma soprattutto alla promessa di povertà fatta in occasione dell’ordinazione sacerdotale, penso che non sia proprio di troppo.

25.07.2014

Benedetto Sant’Agostino!

L’altra mattina mi ha raggiunto, nella vecchia cappella del cimitero, mentre la stavo riordinando, una vecchia conoscenza. Un “ragazzo cinquantenne” con un particolare tono di voce, che mi ha salutato dicendomi immediatamente: «Don Armando, non si ricorda di me?». In verità ricordavo un po’ confusamente un tipo del suo genere, ma ricordavo soprattutto, dalla tonalità della voce, che forse era uno che avevo tentato di aiutare ma che poi da una quindicina di anni era scomparso nel nulla.

Mi parlò della sua vita che, almeno da quello che mi diceva, era un po’ meno squallida di quella di tante persone in situazioni analoghe. Vive presso un pensionato vedovo che, per centoottanta euro in nero gli dà una stanza, fa qualche lavoretto di pochissimo conto, ma mi raccontava che si mantiene soprattutto con la stagione della vendemmia e della raccolta delle mele in Val di Non, ospite in una delle case di don Benzi ove gli chiedevano un euro per dormire e delle suore gli preparavano due panini per il pranzo. Tutto sommato era piacevole ascoltarlo, perché aveva una parlata calda e scorrevole.

Mentre mi raccontava dell’ospitalità nella struttura di don Benzi, il prete romagnolo dalla tonaca sdrucita ma dal cuore d’oro, una volta ancora ho provato ammirazione ed invidia per chi ha creato queste case con le porte spalancate per gli “ultimi” di questo mondo. Capii al volo che la visita non era del tutto occasionale e perciò gli diedi venti euro che gli servivano per recarsi alla raccolta delle primizie. Mi rimasero in portafoglio 5 euro, ma quasi subito è arrivato un altro abitué che si accontenta anche di cinque euro: lo svuotai. Ed ora sento il dovere di confessare ai miei amici una “colpa” per ottenere una loro “assoluzione”. Sentite la mia perfidia!

Quando mi capita di rifiutare certe richieste, che io ritengo eccessive per le mie tasche, quasi sempre nostro Signore “mi punisce” facendomi arrossire come un peperone, mandandomi qualcuno che mi fa un’offerta consistente, dicendomi così, anche senza aprir bocca: «Non ti fidi di me? E hai allontanato a mani vuote o soltanto con qualche soldarello un altro mio figlio e tuo fratello che ti ho mandato perché tu l’aiutassi?». Rimango ogni volta turbato e mortificato.

Questa mattina, in rapporto a queste esperienze, mi è passato per la mente un pensiero ignobile: “Ed ora, non mi dici niente Signore? Ora che una volta ti ho ascoltato?”. E poi, nel profondo del mio animo, una vocina tenue ed imbarazzante mi pareva continuasse: “Se sei contento, dammene un cenno!”. Tornato a casa col sacchetto contenente le offerte della colletta, che quasi sempre non superano i cinque o sei euro, lo aprii curioso e sfrontato per tanta confidenza che stavo prendendomi con nostro Signore, e vi trovai 100 euro accartocciati. Ho pensato subito a san Pietro che disse: «Signore, allontanati da me perché sono un peccatore!».

24.07.2014

“Picconate”

Qualche sera fa, a “Rai storia”, hanno trasmesso un bel servizio su Francesco Cossiga, ex presidente della Repubblica italiana, assai discusso e criticato soprattutto alla fine del suo mandato.

Io non conosco più di tanto Cossiga, lo sapevo figlio di quella terra forte ed aspra che è la Sardegna, ho avuto modo di rendermi conto che fosse un uomo intelligente, di vasta cultura e soprattutto un cristiano convinto. Ricordo che in uno dei tanti scontri dialettici di carattere politico e religioso aveva biasimato il suo avversario accusandolo di avere poca cultura teologica, materia di cui talvolta lui faceva sfoggio. Non è proprio frequente – se si eccettua il mistico Giorgio La Pira o forse il (un po’) bigotto presidente Scalfaro – incontrare politici italiani che parlino volentieri e in maniera competente di religione. Ma soprattutto credo che Cossiga sia passato alla storia italiana come il presidente delle “picconate” frequenti e decise.

Il conduttore della trasmissione, esperto di politica, ha inquadrato questo bisogno quasi sadico di picconare una società e le sue istituzioni ormai ingessate e poco propense ad aprirsi ai tempi nuovi. Non sono in grado di valutare se l’azione di Cossiga sia stata opportuna o provvidenziale, sono quindi costretto a lasciare ai posteri “l’ardua sentenza”. Però devo confidare che mentre continuavo a seguire la trasmissione e a seguire il discorso del conduttore, per una strana associazione di idee, e soprattutto di immagini, fui portato a seguire quasi in parallelo l’azione di Papa Francesco nei riguardi della Chiesa, per concludere, dentro di me, che il nostro Pontefice, pur a modo suo e con forme assai diverse, è per la Chiesa un autentico “picconatore” che in poco tempo ha demolito in maniera progressiva e sempre più radicale, il modo di vivere la religione, di rapportarsi con la cosiddetta “gerarchia”, di smantellare una mentalità sacrale per far ritornare la Chiesa ad un costume da Vangelo.

Vi sono alcune immagini che, pur non accompagnate da parole, hanno letteralmente sbriciolata una impalcatura barocca, gerarchica e non in sintonia con la cultura e l’evolversi della sensibilità dell’uomo moderno. Lasciate che vi confidi questi flash che rimangono indelebili nel mio animo: l’essersi scelto il nome di Francesco, la sua richiesta di benedizione ai fedeli, l’augurare buon appetito, rifiutare indumenti particolarmente sfarzosi, salire in aereo con la borsa nera in mano, dare il bacio alla presidente poco benevola dell’Argentina, telefonare anche a semplici fedeli, mandare un obolo ai poveri, salire in pullman con gli altri prelati, il dialogo con Scalfari, scegliere come abitazione Santa Marta, parlare coi netturbini del Vaticano, sedersi tra gli altri in un banco qualunque per ascoltare la predica, andare alla mensa prendendo il vassoio per il pranzo, usare l’utilitaria per spostarsi. Sono queste “picconate” silenziose, garbate, rispettose. Ma in poco più di un anno con esse ha demolito un muro più solido di quello di Berlino!

Può darsi che Papa Francesco passi alla storia come il papa “picconatore”, comunque di fatto lo è stato. Eccome!

23.07.2014

Antonio Stella

Goffredo di Buglione, che penso sia stato un frate un po’, o forse molto, esagitato a cui andava stretto il convento, attraversò i vari Paesi d’Europa predicando la crociata per la liberazione del Santo Sepolcro al grido di: “Dio lo vuole!”.

Le cose andarono veramente male perché con queste motivazioni religiose veramente inconsistenti i cristiani si macchiarono di una marea di sangue e di infinite nefandezze.

Partendo da questa premessa, mi guardo bene dal tentare di promuovere oggi una crociata contro la burocrazia, un po’ perché mi manca il talento per galvanizzare le folle, ma soprattutto perché, pur avendo delle motivazioni più solide di quelle di Buglione, non vorrei che succedessero cose simili a quelle tanto deprecate delle vecchie crociate in Terrasanta.

Ho la sensazione poi che Renzi, che a livello di affabulazione è infinitamente più esperto di me, si sia fatto ingoiare dalle sabbie mobili che un po’ alla volta pare lo stiano inghiottendo. Per l’abolizione del Senato ha scatenato una bagarre tale che non si sa proprio dove vada a finire, per il voler fissare un tetto massimo per lo stipendio dei manager degli enti pubblici pare che tutto si sia incagliato, per la riduzione della retribuzione scandalosa degli addetti al Senato e al Parlamento le cose non vanno meglio.

Prego sempre per il “povero Matteo” affidandomi particolarmente a santa Rita, che dicono sia esperta nelle cose impossibili, suggerendole poi di costituire un pool, assieme a sant’Antonio e a Padre Pio, perché se non si mettono di mezzo loro me la vedo proprio brutta! La burocrazia è stata una delle principali cause del fallimento del comunismo reale in Russia, però credo che ora minacci anche la nostra povera democrazia che è di certo più fragile del monolitico partito comunista russo.

Da alcuni giorni qualcuno mi ha informato che sul canale 48 della televisione si trasmettono in continuazione notiziari di informazione. Quest’oggi ho aperto per caso la televisione su quel canale mentre stavano intervistando il celeberrimo giornalista Antonio Stella che, una volta ancora, denunciava la morsa mortale della burocrazia statale e parastatale che soffoca nella sua melma ogni tentativo di innovazione.

Antonio Stella, per chi non lo sapesse, è il giornalista che ha pubblicato un paio di volumi sulla “casta”, quell’agglomerato di parolai inconcludenti che sta affondando l’Italia. Nella brevissima intervista ha raccontato due perle così significative che sento il bisogno di renderne partecipi i miei amici. Una signora, andata a Lourdes cieca, è tornata a casa guarita e, da persona onesta, ha denunciato la guarigione perché le togliessero la pensione di cecità che non le spettava più. L’INPS s’è opposto perché, non credendo lo Stato laico ai miracoli, per esso doveva continuare ad essere considerata cieca!

La seconda perla della burocrazia: per uno svarione un cittadino vivo e vegeto era stato considerato morto da due anni. Il cittadino ha dovuto documentare, con tanto di certificati, che era vivo. I burocrati non si accontentarono però della sua certificazione per l’anno corrente, ma pretesero anche quella dell’anno pregresso. Altro che liberazione del Santo Sepolcro, liberarci da questa pestilenza è il più impellente bisogno.

22.07.2014

Il pope dei moldavi

Qualche mattina fa mi ha raggiunto nella sagrestia della mia “cattedrale” il pope della chiesa ortodossa moldava. Già mi aveva contattato alcune settimane prima per chiedere il mio aiuto, cosa che ho fatto, però senza alcun risultato.

Questo pope (vengono chiamati pope i sacerdoti delle chiese ortodosse dei paesi dell’est, come pure quelli del medio oriente), è un giovanottone robusto ed aitante, con moglie ed una figlia, che si guadagna da vivere facendo l’autista, perché la sua Chiesa gli passa “coerentemente” con i magri stipendi della Moldavia, ben 50 euro al mese! Il problema di questo ministro del culto è quello di trovare un locale per le messe domenicali, il catechismo per i bambini e per tutto quello che attinge all’attività di una parrocchia. Attualmente celebra a Marghera in una stanza di 50 metri quadri che gli costa 200 euro di affitto al mese.

Nel primo incontro mi chiese se l’aiutavo a trovare un capannone a modico affitto che lui, con i suoi fedeli, avrebbe adattato a chiesa. Condividendo fino in fondo il motivo di questa richiesta, feci per due tre volte un appello su “L’Incontro”, senza però ottenere risposta alcuna. La nostra città è, lo si voglia o no, in posizione di diffidenza e di rifiuto nei riguardi degli extracomunitari, perfino per quel che riguarda le cose della religione.

L’altra mattina il pope è ritornato tutto speranzoso, avendo scoperto che la chiesetta falsogotica dell’ex ospedale Umberto Primo è stata lasciata in piedi. Perché non venga profanata le hanno murato la porta. Quella chiesa io la conosco assai bene perché è stata restaurata dal commendator Chiozza, il cittadino che più di 30 anni fa avrebbe costruito pure il nuovo ospedale di Mestre se i democristiani di sinistra, partito al quale pure Chiozza apparteneva, non gli avessero messo i bastoni fra le ruote per motivi di faide interne. La conosco bene perché vi ho celebrato tante volte quando mi fu chiesto di sostituire i padri camilliani come cappellano dell’ospedale.

Per venire incontro al pope il primo inghippo era di sapere se l’immobile apparteneva alla ULSS 12 o al Comune. Mandai il pope da Venturini della municipalità. Stamattina il sacerdote moldavo mi riferì che apparteneva al Comune e perciò mi chiedeva di dargli una mano per contattare il responsabile. Ora, col commissario, non saprei più a che santo rivolgermi. Avendo saputo che tra Mestre e Venezia i moldavi sono seimila, il gruppo etnico più numeroso, dapprima pensai che uno sciopero delle badanti moldave metterebbe in ginocchio le famiglie dei vecchi di tre quarti della città. Poi suggerii di far firmare una petizione da parte dei moldavi e dei preti mestrini in appoggio alla richiesta. Infine mi è venuto in mente di far stampare una lettera circolare e farla spedire da ogni singolo moldavo al commissario. Spero che questa “crociata” abbia un esito più positivo di quello per la conquista del Santo Sepolcro!

21.07.2014

L’ultimo Francesco

Qualche settimana fa ho scritto che stavo leggendo una particolare e strana vita di san Francesco. Due giovani fidanzati, in occasione del mio sessantesimo anniversario di sacerdozio, mi hanno regalato una vita di san Francesco, volume appena uscito.

Credo che con lo sviluppo e l’enorme presenza dei discepoli del santo in tutto il mondo, siano innumerevoli le vite di san Francesco. Ogni scrittore, pur rifacendosi ai dati storici – credo che già uno dei primi discepoli del Santo di Assisi abbia steso una biografia, quindi ci sono fonti dirette e sicure – mi pare che ogni biografo abbia “letto” la vita del poverello di Assisi da una angolatura particolare, da un lato perché condizionato dalla sua personale sensibilità e dall’altro perché non avrebbe alcun senso ripetere in maniera pedissequa ciò che altri hanno già scritto.

Io sono innamorato della spiritualità di questo santo, così fresca e solare, per cui ho letto più di una biografia e sempre con ammirazione e profitto interiore. Lo scoprire la nuova vita, “Il gioioso mendicante”, scritto da Louis De Wohl ed edita da Rizzoli (Bur), gennaio 2014, mi ha incuriosito quanto mai e mi ha spinto a dedicarvi più tempo di quanto non dedichi normalmente alla lettura. Il fatto poi che questi miei cari ragazzi mi abbiano fatto questo omaggio, mi ha portato a pensare che avessero già letto il volume ed, entusiasti, abbiano voluto rendere partecipe della “scoperta” anche il loro vecchio prete.

Penso però che le cose non siano andate così; molto probabilmente, come avviene quasi sempre, avranno detto al libraio: «Vogliamo fare un regalo ad un prete, che cosa ci suggerisce?». I librai, che spesso non sono tali, ma solamente commessi di libreria, suggeriscono al cliente un volume – magari recente, ma che è poco richiesto – perché non rimanga nei loro scaffali. Comunque sono contento di aver letto questo “romanzo” che inquadra un’epoca della quale l’autore ha colto soprattutto gli aspetti più legati alla mentalità del tempo, inserendo la vicenda esistenziale del giovane di Assisi con i fatti contorti di quel tempo ricco di comuni bellicosi, tempo delle crociate, delle beghe tra gli aspiranti alla nomina dell’imperatore del Sacro Impero, della Chiesa tutta intenta a riaffermare la sua autorità e soprattutto della vicenda esistenziale di un conte decaduto, tutto impegnato a riavere il ducato della sua famiglia con ogni mezzo lecito e meno lecito.

Praticamente il protagonista non risulta san Francesco, ma questo bellimbusto che si innamora di Chiara di Assisi, si mette al soldo di un monarca ambizioso, traffica con i turchi e, sempre per via del sognato ducato, viene infine messo alla porta con un calcio nel sedere dall’epigone meschino di Carlo Magno, fondatore del Sacro Romano Impero.

Col senno di poi, avrei forse fatto meglio a rubare tempo ai miei impegni quotidiani. Forse, per scusarmi, ho pensato di metterlo in conto delle vacanze estive, comunque l’immagine bella, splendida del Poverello che c’è dentro di me, non è stata affatto sciupata dal discorso lezioso e quasi frivolo di questo autore che si dimostra dotto, brillante e ottimo conoscitore del tempo e della mentalità della società di san Francesco.

20.07.2014

Il pensatore che zoppica

Questa mattina ho terminato di leggere il volumetto dell’editrice Bompiani “Carlo Maria Martini-Umberto Eco – In che cosa crede chi non crede in Dio?”, che un magistrato amico ha avuto lo squisito pensiero di regalarmi.

Gli amici miei, ai quali confido le mie povere esperienze di ricerca religiosa di vecchio prete, forse ricordano che dissi, almeno tre settimane fa, le mie difficoltà di comprendere quanto questi due uomini di cultura – il cardinale di Milano e lo studioso non credente Umberto Eco – si sono scambiati attraverso un diario epistolare.

Come mai tanto tempo per leggere un volume di piccole dimensioni e di soltanto 123 pagine? Due sono i motivi. Il primo: il testo mi risultò talmente difficile che dovetti leggere e rileggere pur senza capire tutto. Forse questo dipende dai miei limiti di intelligenza e di cultura e forse ancora dalle nebbie della vecchiaia avanzata. Avendo una domenica citato il volume durante il sermone, una signora volle a tutti i costi che le fornissi i termini per acquistare il volume. Mi piacerebbe che venisse a dirmi cosa ne ha capito. Il magistrato che me l’ha regalato, persona colta e intelligente, mi disse che “è stimolante”. A me è parso che mi abbia messo in un ginepraio o, peggio, in un labirinto, per cui ho faticato tanto a uscirne.

Il secondo motivo è che un altro mio caro e giovane amico, assieme alla sua fidanzata, in occasione dei miei 60 anni di sacerdozio, mi ha regalato una vita di San Francesco, “Il gioioso mendicante” di Louis de Wohl della Rizzoli, un volume che invece è scritto come una favola incantevole. Perciò ogni tanto, soprattutto quando Eco e Martini mi “mettevano in difficoltà”, mi rifugiavo da San Francesco dicendomi, quando mi pareva di perder tempo: “Rimane pur sempre la vita del più santo degli italiani e il più santo dei santi!”, mettendo così in pace la mia coscienza e riposandomi a leggere “il romanzetto”.

Ritorno però allo scambio epistolare tra Eco e Martini. Mi è piaciuto il garbo, il rispetto reciproco, la ricerca onesta di ambedue di trovare i punti di incontro tra le tesi cristiane e quelle laiche, la grande intelligenza e la grande cultura: Martini più pacato e riflessivo, Eco invece che si lascia andare spesso allo sfoggio di erudizione e agli artifici del letterato. Comunque due belle teste!

Ho letto, vi confesso, con un po’ di trepidazione, il volume, temendo che Eco – cosa che non è assolutamente avvenuta – mettesse in difficoltà Martini e, di riflesso, mettesse pure in difficoltà il mio impianto di pensiero su Dio e su tutto l’indotto.

Ora, con estrema sincerità, devo confidare agli amici che m’è parso che Eco zoppichi terribilmente sulla domanda di fondo: “In che cosa crede chi non crede?”. Il pensatore laico, come è avvenuto per Scalfari su discorsi analoghi, si arrampica affannosamente sugli specchi, scivola da tutte le parti e non convince in maniera assoluta quando tenta di indicare le fondamenta portanti del suo pensiero. Gli atei vanno bene e riescono, quando tentano di demolire – questo però non è il caso di Eco né di Scalfari – ma s’ingarbugliano in discorsi astrusi e non convincono affatto quando tentano di giustificare il loro ateismo. Per fortuna e per grazia di Dio la mia fede ne è uscita indenne, anzi si è rafforzata dal confronto tra Eco e Martini.

19.07.2014

Concimaia e profumeria

Due tre anni fa ad uno dei tanti funzionari statali che si occupano dei problemi della tossicodipendenza, è venuta in mente la balzana idea: una disposizione che contempli che soltanto un laureato in psicologia possa dirigere una comunità terapeutica per il recupero dei tossicodipendenti.

Questo provvedimento avrebbe voluto dire che coloro che hanno “inventato” queste comunità, con i relativi metodi per il recupero dei drogati, sarebbero stati esclusi dalla direzione delle più importanti di queste comunità.

A questo proposito a me è capitato di assistere ad una trasmissione televisiva nella quale si chiedeva a don Antonio Mazzi un parere in proposito. Il noto sacerdote, che in questo settore rappresenta uno dei più grandi esperti, con l’irruenza e l’arguzia che gli sono proprie, ha usato, per criticare questa proposta, un’espressione quanto mai colorita ed efficace: «Questo vorrebbe dire che se qualcuno pianta un cartello sopra una concimaia con scritto “profumeria”, essa diventa tale solamente per questo cartello».

Penso che poi di quella proposta non se ne sia più fatto niente, anche se credo che gli aderenti alla categoria degli psicologi prima o poi riproporranno l’infelice trovata.

Io da sempre sono per abolire il “valore legale” dei titoli accademici, perché solo chi dimostra di avere i requisiti è giusto che eserciti qualsiasi professione, perché le “carte”, soprattutto in Italia, non garantiscono quasi niente.

Questo discorso di don Mazzi mi è ritornato alla memoria in questi giorni essendo venuto a conoscenza di certe nefandezze compiute da gente che è ritenuta o che si presenta come cristiana e quindi discepola di Gesù. Ho sentito una volta un vecchio parroco che affermava con sicumera che “i cristiani si contano alla balaustra” (un tempo si faceva la comunione inginocchiati sul gradino del colonnato che divide il presbiterio dalla chiesa). Non è vero un fico secco, perché questo discorso assomiglia del tutto a quell’insegna “profumeria” collocata sulla concimaia.

Il titolo di cristiano ognuno deve conquistarselo “sul campo”, essendo uomo giusto, libero, solidale, onesto, fiducioso nella paternità di Dio ed altro ancora.

Forse è tempo che “buttiamo via” i registri dei battezzati, perché essi costituiscono una vecchia fotografia. Il titolo di “cristiano” o “cattolico” ognuno se lo deve conquistare ogni giorno sull’agone della vita.

18.07.2014

Esuberi

Si parla e si pensa quasi sempre male dell’organizzazione statale, parastatale o comunque degli enti pubblici e sempre con ragioni più che evidenti, ma questa settimana le notizie che leggo sui giornali mi stanno letteralmente esasperando tanto che ho deciso di fare un ritiro spirituale, non tanto per cambiare idee, ma per trovare un po’ di pace pensando a qualcosa di più alto.

Proprio in questi giorni pare che finalmente vada in porto la trattativa con gli emirati arabi per salvare, a poco tempo di distanza da un altro salvataggio, la compagnia di bandiera Alitalia. Metto pure sul piatto il motivo di questa ipersensibilità a questo problema. Le vicende dell’Alitalia purtroppo sono più che note: voragini di debiti, soldi pubblici a non finire per tenere in piedi questo carrozzone inefficiente e spendaccione, Intervento di Berlusconi con una soluzione dimostratasi disastrosa e inconcludente.

Nel primo tentativo di salvataggio licenziarono due o tremila dipendenti tra i quali mio nipote, giovane e brillante comandante, che è andato a cercarsi lavoro in Qatar, lasciando moglie e figlio in Italia. A due tre anni di distanza, dopo che lo Stato, con soldi pubblici, aveva coperto il buco di questo ente pubblico, siamo alle solite. Una nuova voragine di passività, tanto che mancavano i soldi persino per il carburante.

Questa volta la cordata di salvataggio non è quella solita dei soliti maneggioni italiani, i presunti capitani di industria, ma ci si è rivolti agli arabi i quali, fatti bene i loro conti, si accorgono che vi è un altro migliaio di esuberi. Ciò significa che l’Alitalia, in pochi anni, ha assunto tre quattromila persone più del necessario.

Qualche giorno fa la signora Luciana Mazzer ha scritto sull’Incontro che s’è giudicato per direttissima un povero gramo che in un ipermercato ha rubato qualcosa da mangiare: costo cinque o sei euro. Ma a cosa ci stanno a fare Napolitano, il Parlamento, il Senato, la magistratura, se permettono di perder tempo per giudicare un ladruncolo per fame, se poi non giudicano e condannano i ladri di miliardi?

17.07.2014

Gli enti nocivi

In passato si è fatto un gran parlare della soppressione degli “enti inutili”. In Italia non ricordo quale sia stato il partito politico che ha scoperto questa “carta vincente” e per qualche anno ne ha fatto la sua bandiera. Mi pare che in realtà sostanzialmente non sia successo nulla, o peggio che paradossalmente si sia creato un altro ente, diventato pur esso inutile, per sopprimere gli enti suoi simili.

Ogni tanto salta fuori qualche bravo giornalista che si piglia la briga di elencare una interminabile litania di enti, creati nel tempo, che continuano a vegetare, pagando spesso in maniera consistente consigli di amministrazione e burocrati che pare percepissero lo stipendio per creare difficoltà e mettere intoppi a quei pochi cittadini che, armati di buona volontà e di coraggio, tentano di aprire strade nuove per produrre ricchezza e benessere.

Qualche giorno fa Renzi ha soppresso l’ente veneziano “Magistrato alle acque” perché non adempiva al compito per cui era stato creato, e per di più i suoi dirigenti hanno approfittato del loro ruolo per lucrare a livello personale. Qualcuno però, anche in questo caso, si è perfino lagnato perché questo rudere del passato è stato rimosso.

Ci sono certi mostri sacri, vere cariatidi inutili – perché non sorreggono alcunché – che anzi ingannano, col loro aspetto esterno che col tempo ha quasi assunto un aspetto sacrale.

In questi giorni è toccato alla Sovrintendenza ai beni artistici e al territorio di dimostrare la propria inefficienza, la propria inutilità e perfino la capacità di provocare danni enormi mortificando ed impedendo a chi ha intelligenza e buona volontà di lavorare e produrre. I quotidiani locali hanno scoperto che i funzionari di questo ente hanno praticamente impedito la realizzazione del Palais Lumière, questa enorme struttura che avrebbe dato lavoro immediato e futuro a cinquemila operai, a motivo di un vincolo in realtà inesistente.

Ho letto sulla stessa stampa che Cardin ha speso, per questo progetto mancato, ben dodici milioni di euro. Quasi certamente direzione e funzionari di questo ente quanto mai arrogante, che pontificano su tutto senza averne l’intelligenza, spessissimo mettono i bastoni fra le ruote agli imprenditori per motivi spesso puramente formali ed arbitrari, rimarranno al loro posto pur avendo provocato alla collettività, per la loro leggerezza, danni di miliardi di euro.

Io ho forse il dente avvelenato per l’ostruzionismo ostinato che ho incontrato nei riguardi di Villa Flangini, della canonica e della chiesa, avendo incontrato una chiusura ed una prepotenza inconcepibili. Comunque credo che sia giunto il tempo di far pagare i danni non solamente a chi ruba, ma pure ai responsabili di questi enti che dovrebbero salvaguardare la nazione da abusi, ma che invece finiscono per essere spesso di danno per la loro presunzione e la loro inefficienza.

16.07.2014

“Vacche magre” nella Chiesa veneziana

E’ noto ormai da secoli l’evento descritto dalla Bibbia nel quale si racconta che in Egitto ad un periodo di grande prosperità è succeduto un tempo di carestia.

Lo scrittore biblico, rifacendosi alla cultura e alla società agreste di allora, dedita soprattutto alla pastorizia, descrive quella che noi definiremmo la crisi economica come il tempo delle vacche grasse e quello delle magre.

Molti paesi del mondo purtroppo non hanno nemmeno la fortuna dell’alternanza perché permangono da secoli nel periodo delle “vacche magre”. Invece noi, nazioni della vecchia Europa, forse avvertiamo di più la crisi perché abituati all’agiatezza e all’opulenza, spesso derivanti dallo sfruttamento dei più poveri.

L’Italia, il Veneto, Venezia e perfino la nostra diocesi sono pure pressati da qualche tempo da questa stagione amara. Non sfugge da questo fenomeno d’ordine economico neppure la Chiesa veneziana. Al nostro Patriarca, per sua disgrazia, è toccato in eredità il tempo delle “vacche magre” e molto saggiamente ha dovuto ricorrere, nella non felice situazione, al “taglio”, non essendo sempre compreso e confortato dalla condivisione di preti e laici.

Ricordo che uno dei pochi amici che ho in curia, in tempi non sospetti, mi disse che la nostra diocesi ne avrà per almeno vent’anni per saldare debiti pregressi. Proprio anche in questi giorni il Gazzettino informava la cittadinanza che il Patriarca sta continuando nella sua amara necessità di “tagliare”.

Alcuni tagli mi hanno lasciato soltanto spettatore curioso, perché non coinvolto e perché critico per natura da tanto tempo ad una impostazione della curia, a mio parere “poco risparmina”. Mi sorprende che quelle rare volte che telefono in curia ad uffici diversi mi senta rispondere, subito dopo il comprensibile centralinista, da una delle segretarie dei titolari di quegli uffici. Io penso di svolgere un’attività assai più rilevante e complessa, senza che mai mi sia passato per la mente di assumere una segretaria.

Ci sono però altri tagli che, almeno in linea di principio, ritengo indice di una tendenza che chiude al domani. Tagliare sulle segretarie, sui doppioni, sulla pomposità, mi va bene. Ma tagliare sugli strumenti innovativi nel settore della proposta cristiana, mi rende più dubbioso.

Qualche settimana fa ho letto della rinuncia dei vescovi del Veneto a Telechiara, l’emittente televisiva d’impostazione cristiana. L’altro ieri l’annuncio dell’abbandono di “Radio in blu”, la “figliastra” di Radiocarpini, l’emittente radiofonica nata nella mia parrocchia e consegnata alla diocesi dopo 20 anni di onorato servizio, con circa duecento volontari ed una serie di ripetitori che coprivano il Veneto per giungere fino a Ravenna.

“Radio in blu” in verità aveva perso lungo la strada i suoi fondamentali connotati di emittente religiosa, motivo che attenua la mia amarezza. Questo ripiegamento su posizioni del passato, è qualcosa che mi preoccupa perché è il percorso proprio dei gamberi.

16.07.2014

La rinuncia degli onesti apre la strada agli avventurieri

Tantissime volte, in occasione delle ricorrenti elezioni, mi sono sorpreso nel constatare che dieci, ventimila persone si offrivano per gestire al meglio la cosa pubblica. Mi sono sorpreso poi ulteriormente del fatto che non solo essi si offrivano spontaneamente per assolvere un compito tanto impegnativo e difficile – cosa quanto mai nobile e generosa – ma spendevano o rubavano un sacco di quattrini in propaganda per poter fare quest’opera così impegativa. Una volta poi eletti, quei pochi tra la grande massa dei pretendenti, riempiono le pagine dei giornali per la rissosità, le contrapposizioni e gli scandali, la cattiva gestione della cosa pubblica e le ruberie.

Qualcuno mi ha detto che i politici e i gestori delle civiche amministrazioni appartengono ad una categoria di persone particolari, che hanno facile dialettica, che si appropriano con facilità dei problemi della società e che sono portati, quasi per istinto personale, ad impostare la propria azione per accattivarsi la fiducia della gente in modo da garantirsi la rielezione e favorire la parte politica a cui fanno capo per sostenersi reciprocamente al potere.

Io spero, e pure sono convinto, che fra i tanti vi sia pure chi intraprende questa missione per motivi più alti e più nobili. Comunque penso che la maggioranza dei politici abbia un “peccato originale” che ha bisogno di un “battesimo” radicale.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere una pagina del breviario di un testo appartenente al vecchio testamento e precisamente al Libro dei Giudici, che mi ha fornito la chiave di lettura sulla “vocazione” dei politici e che mi ha messo ulteriormente in guardia da questa gente. La riporto integralmente perché può offrire un criterio di scelta quando siamo chiamati a votare. Il testo sacro tratta della scelta per il governo degli alberi, ma penso che vada bene anche per gli uomini:

«Gli alberi decisero di eleggersi un re. Dissero all’ulivo: «Regna su di noi». Rispose loro l’ulivo: «Rinunzierò al mio olio, grazie al quale mi onorano dèi ed uomini ed andrò ad agitarmi sugli alberi?». Dissero gli alberi al fico: «Vieni tu, regna su di noi». Rispose loro il fico: «Rinunzierò alla mia dolcezza e al mio frutto squisito e andrò ad agitarmi sugli alberi?». Dissero gli alberi alla vite: «Vieni tu, regna su di noi». Rispose loro la vite: «Rinunzierò al mio mosto che allieta dèi ed uomini e andrò ad agitarmi sugli alberi?». Dissero allora tutti gli alberi al rovo: «Vieni tu, regna su di noi». Rispose il rovo agli alberi: «Se in verità ungete me come vostro re, rifugiatevi alla mia ombra; se no esca un fuoco e divori i cedri del Libano».

Concludo: se gli uomini probi, onesti, capaci e di retto sentire pensano ai fatti loro, avremo al Governo e in Parlamento soltanto “rovi”!

15.07.2014

Calcio in pallone

Premetto che non sono un fanatico dello sport, calcio compreso. Mi pare poi di avere mille ragioni per non esserlo, sulla prima delle quali penso agisca nel mio inconscio un’esperienza della mia adolescenza, per quanto non credo che sia quella determinante.

Io sono entrato in seminario dopo la prima media e questo ha fatto si che il mio parroco mi considerasse già una specie di curatino in miniatura, tanto che mi incaricava di seguire i ragazzini della parrocchia le domeniche pomeriggio perché non andassero al cinema a vedere “i film proibiti”. Dopo i vesperi andavo perciò nel campo sportivo del paese, che si trovava in un luogo isolato, per assistere quella piccola ciurma di ragazzi che a piedi scalzi giocavano al pallone. Fungevo un po’ “da arbitro”, ma soprattutto da vigilante perché non nascessero risse. Ricordo ancora la mia solitudine e la malinconia di adolescente nel passare i miei pomeriggi ad assistere a partite interminabili con quella banda di ragazzi indisciplinati e rissosi.

Per me il calcio è sempre rimasto legato a quella precoce “esperienza pastorale di cappellano” anzitempo. Diventato adulto penso di aver superato questo blocco presente nel mio subconscio, ma ad esso sono succeduti altri motivi di rifiuto di certo ancora più consistenti. Da sempre ho capito che chiamare giocatore chi gioca al calcio è voler assolutamente usare un termine improprio; potremmo più giustamente chiamare questi giocatori “giocolieri” o dei professionisti che fanno gli acrobati col pallone.

Comunque questo discorso del lessico è molto marginale, mi meraviglia e mi indigna invece che questo tipo di operaio, o impiegato, degli impianti sportivi abbia stipendi astronomici che non hanno nulla a che fare con quelli di qualsiasi altro operaio o impiegato. Perciò ritengo una delle piaghe della nostra società che un mestiere per nulla qualificato, e meno che meno utile, faccia percepire uno stipendio inimmaginabile per qualsiasi altro operaio.

E se non si potessero ridurre questi compensi pazzi non so per quale motivo, non capisco poi perché l’amministrazione statale, che è così efficiente nel tassare la povera gente, non tassi quegli stipendi del novanta o novantacinque per cento, in maniera che anche i calciatori possano percepire uno stipendio netto al massimo di quattro o cinquemila euro al mese. E sarebbero già tanti, perché qual è quell’artigiano, anche il più qualificato, che offre prestazioni assolutamente più utili alla società, che arrivi ad uno stipendio tale? Gli stipendi dei calciatori sono una ignominia, una ingiustizia patente ed un disordine sociale! Questo vale per tutti i giocatori del mondo, ma ancor più per quelli italiani.

Credo che mi resterà per molto tempo nella memoria il Balotelli nazionale, quasi smarrito ed intontito a centro campo con quella sua cresta colorata in testa da cappone spennato e disorientato, in mezzo agli avversari che si davano un gran daffare per far fare le valigie anzitempo alla nostra nazionale.

14.07.2014