Sdegno e comprensione

Tante volte ho scritto che da ragazzo, un po’ per quanto mi avevano insegnato i miei maestri di vita e un po’ per quello spirito un po’ romantico e di avventura che ho sempre avuto, consideravo le crociate come qualcosa di epico, alimentato da una tensione profondamente religiosa. Col passare degli anni ho scoperto tutte le brutalità, gli interessi e la carenza di contenuto autenticamente religioso che le ha promosse ed attuate.

Mi è parso che l’unica cosa che potevo fare era di rinnegarle radicalmente come fatto religioso e sentire, come cristiano, di dover chiedere perdono all’umanità. Fortunatamente lo spirito delle crociate è definitivamente tramontato nella Chiesa dei nostri giorni. Purtroppo però mi capita oggi, a dieci secoli di distanza, di registrare che il mondo islamico, che non si è agganciato all’evolversi della storia, sta continuando a fare quello che fece nel primo millennio, allora con una certa giustificazione perché era aggredito, ora senza alcun motivo perché è decisamente lui aggressore del cristianesimo e delle falde più moderate e civili dello stesso islamismo.

Quello che i maomettani fondamentalisti con la fondazione del nuovo califfato stanno facendo, è quanto di meno religioso e di meno umano e civile si possa fare. Tanto che se non fossi ben memore dei “peccati” dei quali si è macchiata la Chiesa al tempo delle crociate, d’istinto mi verrebbe da chiedere al Papa di promuovere un duro intervento militare da parte dei “principi cristiani”.

Questo triste evento rende evidente un problema di fondo: che la Chiesa di oggi, soprattutto nei membri più lucidi e intelligenti, finalmente ha capito che la religione non deve mai impugnare le armi, mentre il mondo islamico pare che sia ancora legato al medioevo predicando e promuovendo una religione antistorica, che invece di aiutare l’uomo a crescere e a realizzarsi, lo riduce schiavo di un ritualismo formale e di un proselitismo feroce e sanguinario.

L’importante però, per noi cristiani, è che dagli errori degli islamici impariamo che una religiosità che non comunica col progresso, con l’evoluzione e la civiltà, diventa, come dicevo, puramente formale, antistorica e fatalmente oppressiva per l’uomo.

I cristiani di oggi devono convincersi che l’Incarnazione, ossia il Dio che si rende presente nel cuore e nella ragione dell’uomo, non è un fatto relegato al passato, ma un evento che riguarda gli uomini che vivono oggi, con la loro cultura, la loro sensibilità, le loro problematiche. Infatti Dio oggi usa le vesti, la parola e il pensiero dell’uomo contemporaneo per parlare e salvare sia il singolo che la collettività.

Oggi il “Verbo” nasce nei campi profughi, nelle città bombardate e nella sofferenza dei cittadini dei Paesi in guerra e si riveste, parla come vestono e come parlano gli ultimi e i più abbandonati di questo povero mondo.

Molti cristiani hanno compreso tutto ciò, ma c’è ancora una massa che si porta dietro una religiosità rituale e formale che non “salva” alcuno. Molti cristiani non hanno ancora compreso tutto questo e i musulmani purtroppo ne sono lontani ancora mille miglia e perciò predicano “la guerra santa”.

03.09.2014

I “militi ignoti”

Chi segue “L’Incontro” ha certamente capito i miei limiti, specie a livello culturale. Io sono il primo a rendermene conto. Anche questa mattina ho letto con curiosità la rubrica che il giornalista Gervaso tiene ogni giorno sul Gazzettino e sono stato sorpreso perché ho avvertito che le sue conoscenze sono pressoché illimitate. Egli spazia con estrema disinvoltura nel vasto mondo della letteratura, mentre io sono costretto ad attingere ad un repertorio quanto mai limitato.

Vengo al motivo di questa premessa. Fortunatamente abbastanza di frequente vi sono persone che si complimentano con me per come è tenuta la “cattedrale tra i cipressi”: pavimento pulito, fiori e piante ben curate, ordine assoluto, buon gusto. Altri ancora mi fanno complimenti non solo per i contenuti, ma anche per l’impaginazione de “L’Incontro” e l’assoluta regolarità con cui lo si trova nei punti di distribuzione.

Io, pur con qualche disagio, incasso, senza riuscire a chiarire ogni volta che il merito è mio solamente in misura assai relativa perché, pur nell’ombra, c’è dietro di me un piccolo e meraviglioso esercito silenzioso, ma estremamente efficiente. Spesso, in occasioni come questa, ho citato ancora una volta – perché non spazio come Gervaso – Bertolt Brecht che, a proposito di Cesare che “conquistò la Gallia”, si chiede con ironia: “Ma Cesare non aveva neppure uno stalliere, un cuoco o un barbiere che in qualche modo l’aiutassero in questa portentosa impresa?”

Vorrei, una volta tanto, accennare a qualcuno di questi eroi “senza volto e senza gloria” che sono i veri protagonisti di questa bellissima avventura. Ne cito alcuni a mo’ d’esempio.

Per quanto riguarda la chiesa ci sono due giovani sposi – per me rimarranno giovani ancora per cent’anni – che ogni settimana scopano, lavano, profumano, curano i fiori. Quando li vedo accudire la mia chiesa mi sembrano due “solisti veneti” che manovrano scope e ramazze come dei preziosi “Stradivari”. Suor Teresa poi è l’impareggiabile artista delle confezioni floreali e del repertorio di tovaglie lavorate.

Per quanto riguarda “L’Incontro” l’esercito dei volontari è ancora più numeroso e altrettanto efficiente. A cominciare da Laura che, ogni settimana, passa ore e ore sul computer per sbrogliare la complicata matassa dei miei scritti, per tagliare periodi infiniti, per aggiungere punti, virgole e punti e virgola e inserire il tutto nelle rigide regole della sintassi e della grammatica, con le quali ho poca confidenza.

Non vi sto a parlare del piccolo esercito di tipografi che il lunedì, di buon mattino, sono già al lavoro perché alle dieci e mezza i miei vecchi sono pronti per la piegatura. La macchina che un paio di mesi fa ha dato forfait, ha stampato quattro milioni di copie.

Poi vengono gli strilloni e gli addetti alle messaggerie che riforniscono le sessanta postazioni, persone con tanto di laurea e di licenza magistrale per adempiere a questo compito così “delicato”.

Una volta tanto rendiamo onore con una corona di alloro a questi eroi senza nome.

02.09.2014

Autocritica

Qualche settimana fa ho letto un articoletto di un giovane collega. L’articolo mi ha messo un po’ in crisi. Verteva sulla recente decisione del nostro Patriarca di chiudere il Marcianum. Questa notizia ha avuto una certa ripercussione in città, ma soprattutto nella diocesi di Venezia perché il patriarca Scola s’era giocato pressoché tutto in quella grande impresa che sembrava del tutto riuscita e il patriarca Moraglia si sta pur giocando notevolmente, prima con la chiusura della scuola diocesana ed ora con la chiusura del Marcianum.

Il collega, riferendo questa notizia, loda in maniera sperticata il vecchio Patriarca ed in maniera altrettanto entusiasta il nuovo Patriarca.

Io sono ben lontano dal giudicare queste due eminenti personalità del mondo ecclesiastico, perché me ne mancano gli elementi di giudizio. Molto probabilmente sono ambedue dei santi uomini, però mi vien da pensare, da come sono andate le cose, che probabilmente il primo sia stato un po’ sventato e il secondo almeno un po’ pavido. Non mi riesce proprio di affermare che ambedue siano stati ugualmente saggi, ugualmente prudenti, perché se fosse stato così avrebbero dovuto arrivare ambedue alle stesse conclusioni. Penso che il primo si sia lasciato prendere la mano dall’euforia ed abbia giocato un po’ d’azzardo, e l’altro si sia lasciato prendere un po’ la mano dalla paura ed abbia mollato con troppa facilità. Comunque lascio “ai posteri l’ardua sentenza”.

Ma questo discorso mi pone un problema più grave, che mi coinvolge più fortemente e penso dovrebbe coinvolgere anche gli altri preti e fedeli. Mi pare che sia invalso nella Chiesa il costume un po’ codino di dare giudizi anche alquanto severi sullo Stato, sulla politica e su tutto l’universo mondo, mentre per quello che riguarda le cose della Chiesa si debba dire solamente bene.

Anche in questa occasione mi sono stati di conforto i giudizi non certamente lievi del cardinal Martini sulla Chiesa in genere e in particolare sulla gerarchia ecclesiastica. E poi, prima ancora, Rosmini, con la sua denuncia delle “cinque piaghe della Chiesa”, non è stato di certo più tenero.

Io rimango convinto che chi ama la Chiesa e se ne sente parte integrante deve trovare il coraggio e l’onestà di fare autocritica, quando è giusta. Ritengo ancora che nella misura in cui uno ama la Chiesa, in quella stessa misura deve avere il coraggio di esprimere con pacatezza, onestà e amore, il suo giudizio non solo a cose avvenute, ma anche prima che avvengano, se i responsabili ne danno la possibilità. Papa Francesco mi pare sia maestro a questo riguardo.

01.09.2014

Grano nonostante la zizzania

Nella pagina di diario di lunedì di questa settimana ho sentito il bisogno e il dovere di fare qualche modesta considerazione sulla mala pianta dell’integrismo, che sarebbe tentato di estirpare comunque quello che è ritenuto male e di instaurare uno stato confessionale per il quale il bene, la virtù, e i valori che noi riteniamo naturali e positivi, siano imposti per legge.

Il discorso è partito dalla lettura della parabola che racconta che “il Padre” ha seminato “il grano buono”, ma mentre i servi dormivano l’uomo nemico ha pure seminato la zizzania e quindi, a motivo del loro zelo intempestivo e comunque tardivo, propongono di estirparla.

Nel mio sermone domenicale sono partito con una puntualizzazione sulla quale non mi sono fermato più di tanto, ma su cui voglio tornare perché è molto importante.

Se è vero, com’è vero, che la redenzione non è un fatto del passato, ma in pieno svolgimento – vedi la tesi di Mario Pomiglio contenuta nella sua opera magistrale “Il quinto Evangelo” – vuol dire che tutto l’impianto della parabola riguarda pure il mondo di oggi, il nostro mondo.

Quindi io posso tranquillamente e legittimamente tirare la conclusione che il buon Dio sta spargendo a piene mani anche oggi la buona semente, anche se è purtroppo anche vero che “l’uomo nemico” sta facendo altrettanto e non di notte, ma spudoratamente di giorno, adoperando, con la lucidità e la perfidia dei figli del secolo, la “gramigna”, i mass media. Però pure oggi procede dall’alto la semina senza sosta, da parte di Dio, dei semi del bene. Bisognerebbe, come suggerisce il giornalista cattolico Luigi Accattoli nel suo volume “Fatti di Vangelo”, che fossimo più attenti a scoprire questa semente positiva per nutrire la nostra speranza, per goderne e, semmai, per favorirne la crescita.

E’ ormai da anni che cerco di scoprire questi “semi positivi”. Quando ero parroco ogni settimana ho tentato di indicare nella rubrica “I fioretti del 2000” uno di questi episodi che si possono inserire nel “Quinto Evangelo”, ossia nel Vangelo in cui si raccolgono i germi del bene che il Signore semina con immutata generosità nella nostra società.

Sento il bisogno di indicarvene almeno uno, che ho scoperto appena questa mattina, Un paio di anni fa, durante un “funerale di povertà” al quale han partecipato in fondo alla chiesa tre quattro barboni svogliati e disattenti, c’era pure un bel ragazzone con tanto di barba e capelli neri che, dopo la messa, mi disse che nelle sue uscite notturne per aiutare gli sbandati, aveva conosciuto ed aiutato “il morto”. Mi raccontò quindi la sua esperienza. Due tre amici studenti – lui faceva architettura – e lavoratori, avevano affittato un appartamento a Marghera ed ospitavano, per carità, facendo vita comune, uno o più sbandati per recuperarli ad una vita civile.

Dopo l’incontro, in cui ero rimasto estremamente edificato da questa scelta, non seppi più niente. Questa mattina mi ha telefonato quel ragazzone, che spero si sia nel frattempo laureato, il quale mi chiedeva di potermi incontrare perché desiderava confrontarsi con me per avere un parere su una struttura di accoglienza che la sua minuscola comunità, senza voti e senza regole, sognava di ampliare.

Volete che questa notizia non debba esser inserita nel “Quinto Evangelo” che sta registrando anche oggi l’opera di Dio?

21.08.2014.

Geremia

Ieri la prima lettura della messa era un brano del profeta Geremia. Questo giovane profeta dell’Antico Testamento è uno dei personaggi che maggiormente conosco ed amo e che col tempo mi è diventato un punto di riferimento e di conforto. Qualche volta però, leggendo Geremia, constato i miei limiti in rapporto alla missione che ho avuto la temerarietà di accettare facendomi prete.

Non è che io abbia grande dimestichezza con i profeti dell’Antico Testamento – Isaia, Osea, Eliseo, Elia e i loro oracoli appartengono ad un tipo di cultura e di civiltà che mi rimangono pressoché indecifrabili o comunque non comprensibili con facilità. Geremia l’ho conosciuto attraverso una strada più facilmente percorribile per un occidentale dei nostri tempi: il romanzo. Non so chi mi abbia passato l’opera che me l’ha ha introdotto come non è riuscito a fare il corso pluriennale di biblica, durante la teologia studiata in seminario.

Il romanzo dell’ebreo tedesco Franz Werfell mi ha immerso nel pensiero, nella storia e nella religiosità del popolo ebreo in maniera semplice e immediata: mistero dell’arte! Questo scrittore l’ho già citato recentemente perché egli è pure l’autore de “I quaranta giorni del Mussa Dagh” sulla persecuzione dei turchi nei riguardi degli armeni e per aver scritto anche una splendida “biografia” della veggente dei Pirenei “Bernadette”, quale atto di riconoscenza per essersi potuto salvare dai nazisti durante l’ultima guerra. Nel suo romanzo “Ascoltate la voce”, presenta la vita e la missione profetica di Geremia, questo giovane timido e pauroso di cui s’è servito il Signore per parlare e guidare il “popolo eletto”.

La vita di Geremia è quasi un pretesto per parlare dei grandi eventi che seguono la storia di questo popolo, quali la deportazione a Babilonia. Con un racconto quanto mai interessante questo ebreo tedesco immerge il lettore in quella cultura ed in quella religiosità che hanno sorretto e dato un volto specifico ed unico a questo popolo che nonostante tutto, è riuscito a sopravvivere e a conservare il suo Dna.

Tornando alla prima lettura della messa di ieri mattina, come mi hanno toccato la coscienza: il lamento di Geremia “ahimè, Signore, ecco io non so parlare” e il Signore a dirgli: «Va da coloro che ti manderò ed annunzia quello che io ti ordinerò. Non temerli, io sarò con te». Poi il Signore conclude il dialogo: «Ti mando per sradicare e demolire, per distruggere ed abbattere, per edificare e piantare».

Durante il proseguo della messa non ho fatto che ripetermi che non devo preoccuparmi del mio limite e della mia fragilità, ma soltanto annunciare ciò che il Signore mette nella mia coscienza e di farlo con coraggio e determinazione assoluta.

20.08.2014

La cenerentola

Ho letto da qualche parte una sentenza quanto mai sapiente che per me rappresenta un motivo di conforto e di liberazione da un certo incubo che mi viene dal fatto di scoprire che racconto delle cose che ho già detto. Spesso mi ripeto questa sentenza: “Gli anziani hanno diritto a dimenticare”. Lo facevo ancor prima, ma ora non ho più scrupoli né ripensamenti, dico certe cose con candore, come fosse la prima volta che le dico.

Vengo anche oggi al motivo di questo ennesimo uso della “sapienza antica”: io leggo con attenzione e curiosità i cosiddetti “bollettini parrocchiali”. Leggo, talvolta con ammirazione e purtroppo, più spesso, con delusione, non solamente quello che è scritto in chiaro, ma anche e soprattutto quello che posso intuire sotto le righe, anche se non scritto. Vi si scopre un po’ di tutto. Ogni “bollettino” finisce per pubblicare sempre la stessa foto della parrocchia e soprattutto quella del suo parroco. Non si tratta invero di quei ritratti di un tempo, dipinti ad olio in cornici ridondanti dove il parroco veniva ritratto con il breviario in mano, seduto su una poltrona con tanto di braccioli e di seduta e schienale di velluto rosso o damascato. Non sono, quelle dei bollettini parrocchiali che si trovano in ogni chiesa, fotografie classiche, ma immagini un po’ crude, quasi fatte col telefonino, che ritraggono il volto della parrocchia e del parroco non in posa, ma nella realtà della vita quotidiana, spesso vestita in mal arnese.

Non molto tempo fa, in un numero pregresso – perché spesso nel banco stampa si trovano anche numeri vecchi di questi bollettini – ebbi modo di imbattermi nella pubblicazione del bilancio parrocchiale di una comunità abbastanza numerosa e non di periferia ed ho letto, con la solita curiosità che mi viene da una deformazione professionale di “spiare la concorrenza” seppure ora, da vecchio pensionato, parrebbe non avessi più motivo di curiosare nelle vicende degli altri.

Ebbene il bilancio era prova che quel parroco sceglieva la linea della trasparenza, come si dice oggi, però una trasparenza che gli nuoceva piuttosto che dargli vanto. Il bilancio, piuttosto pignolo, informava sui conti del personale, delle utenze, degli interessi, delle uscite più varie. Tutto sommato, di primo acchito, mi è sembrato un bilancio rispettabile e coraggioso. Però mi è cascato l’asino quando sono giunto alla voce “carità” nella quale attivo e passivo si bilanciavano, ma dove appariva subito che la voce “carità” era rappresentata da una cifra irrisoria di fronte alle altre cifre quanto mai consistenti.

Una volta ancora mi vien da denunciare che la voce “carità” risulta troppo spesso la cenerentola tra le altre cifre. Mi auguro che la testimonianza di Papa Francesco, del quale tutti si dichiarano entusiasti ammiratori, incida molto di più sulla coscienza dei parroci e delle relative comunità.

19.08.2014

La parrocchite

Molti anni fa scrissi un articolo su una “malattia” che colpisce soprattutto i parroci, ma talvolta anche i loro collaboratori più devoti e più bigotti. Da quel che ricordo l’articolo rappresentava una mia reazione piuttosto vivace ed incontrollata alla presa di posizione piuttosto risentita da parte di un parroco che era indignato perché un suo “parrocchiano geografico”, non trovando nulla di soddisfacente per cui impegnarsi nella sua parrocchia, aveva scelto di collaborare con la San Vincenzo della città della quale io ero assistente.

L’occasione, o forse il pretesto del mio intervento, ebbe questa origine, ma era da molto tempo che riscontravo, con delusione, talune manifestazioni di gelosia da parte di certi preti quando qualcuno dei loro parrocchiani, per i motivi più diversi, o frequentava un’altra chiesa o, essendo egli propenso ad impegnarsi in un settore di volontariato non presente nella sua parrocchia prestava altrove la sua collaborazione. Questo senso del possesso dei corpi e delle anime dei fedeli, proprio di un monarca assoluto o da satropo orientale, lo giudicavo assurdo, fuori tempo e del tutto biasimevole.

Mi pare che questo articolo sulla “malattia”, che ho denominato “parrocchite” e della quale ho descritto i sintomi, le complicanze e i danni che riporta sulle coscienze delle persone perbene, ebbe un certo successo come clamore, ma destò reazioni del tutto negative, tanto da essere io accusato come un prete che “ruba fedeli” alle altre parrocchie. La cosa è purtroppo vera perché quando ero parroco a Carpenedo, in un sondaggio promosso dalla diocesi, è risultato che ben 700 extraparrocchiani frequentavano la mia chiesa. Il brutto, o soprattutto il sorprendente, non fu che “i danneggiati” si siano dati da fare per frenare l’esodo attraverso un maggior impegno e una maggior vitalità della propria parrocchia, ma che si sono limitati alle più facili e comode critiche sul mio operato.

Questo discorso l’avevo dimenticato da un pezzo, forse perché ormai molti parroci non si accorgono più dell’esodo della loro gente; però, qualche giorno fa, uno dei miei volontari che ogni settimana distribuisce “L’Incontro”, mi ha riferito che un certo prete, che per carità cristiana non nomino, ha protestato col proprietario di un negozio della “sua” parrocchia perché ha accettato di esporre sul bancone il nostro periodico, che pare abbia invece incontrato il gradimento della “sua gente” dato il numero di copie che vengono ritirate ogni settimana.

Mi auguro che si trovi finalmente una medicina che curi “la parrocchite” in maniera efficace, perché è una malattia che di certo fa molto male alla qualità della vita parrocchiale.

18.08.2014

Il ripensamento della Chiesa veneziana

Circa un paio di anni fa uno dei miei vecchi cappellani che il nuovo Patriarca aveva nominato, anche se in via provvisoria, suo vicario generale, ossia il più diretto collaboratore, mi aveva confidato che il nostro nuovo vescovo era seriamente preoccupato per la situazione finanziaria della diocesi che risultava estremamente pesante. Ed avendomi egli chiesto come stavamo noi dei Centri don Vecchi in quanto a finanza, gli dissi che la situazione era assolutamente tranquilla, anzi eravamo, pur moderatamente, in attivo. Al che egli, con una certa “impudenza”, mi chiese semmai avessimo potuto aiutare la diocesi.

Essendomi ricordato quanto un funzionario della curia mi aveva a sua volta confidato e cioè che la diocesi ne avrà per vent’anni di debiti da pagare, compresi che sarebbe servito ben altro di quello di cui la Fondazione, che poi è sempre proiettata in nuove avventure solidali, avrebbe potuto disporre.

Il discorso non è finito lì, perché è proseguito con lo scandalo del Mose, con qualche coinvolgimento se non di carattere giudiziario, comunque almeno in una compromissione ideale con un certo modo di pensare e di agire non proprio evangelico. Quindi è giunta l’intervista del Patriarca su un “ripensamento ed un riordino nella gestione economica”. Infine il “botto” di qualche giorno fa con le relative dimissioni date, o richieste, con la chiusura prima della scuola patriarcale, poi della facoltà di diritto economico, del pensionato internazionale e non so di che altro.

Quello del patriarca Scola è stato un sogno ed un’avventura bella fin che si vuole, ma di certo molto, anzi moltissimo, al di sopra della possibilità della Chiesa veneziana. Mi spiace veramente per il mio vescovo attuale perché credo che sia stato quanto mai amaro e penoso gestire questa situazione fallimentare che dovrà pagare cara in prima persona. Comunque, tutto sommato, penso che queste scelte che la situazione economica ha costretto a fare, tutto sommato siano provvidenziali perché hanno aiutato la Chiesa veneziana ad orientarsi verso quella povertà e semplicità evangelica che doveva essere il suo naturale obiettivo e non una soluzione imposta da elementi che nulla hanno a che fare con gli orientamenti di Papa Francesco e, prima ancora, di Gesù Cristo.

Mai, come in questo momento, mi sono sentito vicino e solidale col nostro Patriarca, con cui vorrei condividere il peso di questa croce, però spero che il cammino sul quale la Provvidenza ha messo la Chiesa veneziana e che non è ancora terminato, debba procedere con lucida scelta verso una Chiesa povera, libera e senza compromessi anche solamente occasionali.

17.08.2014

Una banda di manigoldi

Il popolo sta allontanandosi ogni giorno di più dalla politica. Lo dimostra il crescente disprezzo verso questa categoria di concittadini che pretende con dei comportamenti dissennati ed interessati di rappresentarci nella gestione della cosa pubblica.

Il progressivo e vistoso assenteismo alle elezioni è la prova inoppugnabile della disistima nei riguardi della mentalità e delle scelte delle persone che si sono dichiarate, pur dietro un vistoso e consistente compenso, disponibili a rappresentarci per trovare le soluzioni più idonee a risolvere i pur difficili problemi del nostro Paese.

A scanso di ogni equivoco dichiaro in maniera convinta che io ritengo che la politica sia una cosa sana e doverosa e ritengo ancora che chi accetta questo servizio sia, almeno da un punto di vista ideale, un cittadino meritevole e degno di stima e di ammirazione. Ritengo ancora che nella classe politica ci siano sempre state delle bellissime e nobili persone che hanno scelto questo compito come un servizio degno di rispetto.

Ho fatto questa lunga premessa per affermare che non condivido l’idea che la politica sia una cosa sporca e che, schifati da certi comportamenti, sia lecito farsi da parte per lasciare che gente senza scrupoli profani ed infanghi questo servizio. Anzi la constatazione delle deludenti “magagne” e furberie di politici disonesti deve spingere, soprattutto i benpensanti e gli onesti, a non abbandonare il campo, anzi ad impegnarsi con maggior serietà e dedizione.

Detto questo, è altrettanto onesto e doveroso denunciare le malefatte, le ruberie, le faziosità e la sete di potere talmente forte da tentare in ogni modo e ad ogni costo di garantirsi comunque la rielezione. E, a questo riguardo, sento il dovere di dire la mia, quasi disperato a livello politico.

In questi giorni si sta discutendo sull’abolizione del senato. Sembra, quasi a tutti che questa seconda camera, il senato, soluzione poco presente negli altri Paesi progrediti, soprattutto per le funzioni attuali, sia giusto sopprimerla, o perlomeno riordinarla perché sia più funzionale e produttiva. Ebbene, oggi ho appreso dai vari telegiornali, che a tal proposito si sono presentati più di ottomila emendamenti. Neanche i bambini della scuola materna arriverebbero a tale insensatezza e a tale aberrazione!

Non appena ho udito la notizia, non sono riuscito a trattenermi dall’affermare: «Siete una banda di manigoldi troppo pagati che date scandalo al Paese e meritate la gogna!» Come faceva la Serenissima, bisognerebbe esporli dentro alle gabbie al pubblico ludibrio e disprezzo. Ma accanto a questa esasperata condanna non posso tacere di farne un’altra più triste ed accorata nei riguardi di tanti cittadini onesti, capaci e probi, che per pigrizia e per tornaconto personale non si offrono per mandare a casa questi mascalzoni e per offrire la loro capacità ed onestà per un servizio così nobile e necessario.

16.08.2014

L’integrismo nostrano

Domenica scorsa la Chiesa ha proposto all’attenzione dei cristiani la parabola del buon seme e della zizzania. Credo che tutti la conoscano, però penso che sia opportuno riassumerla in poche parole. Un signore seminò del buon seme nel suo campo, ma purtroppo “l’uomo nemico” nottetempo vi seminò la gramigna. Quando quello e questa germogliarono, i contadini si accorsero del brutto inghippo e proposero al loro padrone di sradicare la gramigna. Sennonché quel proprietario, uomo saggio, ordinò che si lasciasse crescere anche la gramigna per non incorrere nel pericolo di danneggiare anche il grano ed avocò a sé la cernita a fine stagione.

Fin dal primo momento di riflessione pensai: “Qui ci starebbe bene una bella lezione sull’integrismo, cioè sulla tentazione di chi si crede nel giusto eliminando radicalmente chi ritiene sia dannoso alla società”. Immediatamente mi venne in mente il fondamentalismo islamico che a questo riguardo sembra perfino insuperabile nella sua arroganza, prepotenza e mancanza di rispetto per chi la pensa diversamente.

Poi m’è parso che il discorso fosse troppo comodo perché l’Islam, specie quello fondamentalista, è in arretrato sulla civiltà di almeno mezzo millennio. Sarebbe una pretesa assurda che in poco tempo possa recuperare tanto ritardo! Preferisco riflettere sull’integralismo di casa nostra. Non è vero forse che noi cattolici sul divorzio, sull’aborto, sull’eutanasia, o comunque su quelli che vengono definiti “i valori non negoziabili” siamo integristi?

Dichiaro, senza riserve mentali, che a livello di coscienza penso che queste scelte siano errate, contro natura e dannose ai singoli e alla società. Ritengo però anche, sulla scorta del suggerimento di Cristo, che non sia giusto, anzi sia immorale, imporre per legge questi valori cristiani a chi non li condivide.

Con questo non dico che il cristiano se ne debba stare alla finestra con le braccia conserte a vedere come vanno le cose, ma anzi credo che debba impegnarsi a fondo con la sua testimonianza e come pure col suo contributo razionale per mettere in guardia i cittadini dall’errore di queste scelte e dalla loro nocività.

E’ doveroso invece pretendere che la società rispetti le mie scelte e quelle altrui; questo è il compito fondamentale di una società moderna. Il tempo dello stato confessionale è tramontato da molto ed è bene che sia così perché di danni e abusi sulla libertà degli altri questa mentalità ne ha già fatti fin troppi. Il cristiano deve essere soprattutto un testimone onesto, credibile, però rispettoso di quelli che ritiene siano in errore imparando da Dio stesso questo comportamento.

C’è un salmo che afferma che Dio è talmente rispettoso della libertà delle sue creature, che perfino fornisce loro il tempo e le forze perché lo possano offendere. E’ tempo di pretendere libertà e rispetto per le nostre scelte e di garantire nel contempo la libertà ai nostri concittadini di comportarsi in maniera anche opposta alle nostre convinzioni. A questo riguardo penso che i radicali siano di qualche passo più avanti anche di noi cristiani.

15.08.2014

Amarcord

Non sarei onesto se non confessassi che in occasione della celebrazione, seppur in sordina, dei miei sessant’anni di sacerdozio, non sia stato risucchiato dai ricordo del mio passato di prete.

Nel numero 29 di “Gente Veneta”, il settimanale della diocesi, il bravo giornalista Paolo Fusco ha pubblicato un’intervista che mi aveva fatto qualche giorno prima per telefono. La stessa cosa ha fatto per don Angelo Centenaro e per don Luigi Stecca, i due sacerdoti ordinati con me nel giugno del 1954.

Ho letto con attenzione e forse con più curiosità, i tre “pezzi” nei quali Fusco ha tentato di riassumere vita, morte e miracoli di noi freschi di sessant’anni di sacerdozio. Mi pare sia naturale che mi abbia interessato maggiormente quanto questo bravo professionista della carta stampata ha scritto su di me.

Una volta letto il pezzo, vergato con garbo e generosità, mi sono domandato se sono proprio io il vecchio prete di cui parla Fusco, se è proprio mia la vita descritta da questo giovane che ho incontrato come obiettore di coscienza in redazione di Radiocarpini.

L’articolo è frutto di una telefonata di una ventina di minuti e di un curriculum che gli ho mandato per fax. Con Fusco sono abbastanza spesso in contatto perché gli chiedo spesso aiuto quando ho bisogno di informare l’opinione pubblica del versante religioso sulle vicende dei Centri don Vecchi. Nel suo articolo ha indugiato maggiormente sulle iniziative e le vicende nelle quali sono stato coinvolto, un po’ meno sul mio sentire cristiano o sul mio vivere “il mistero” della fede, della Chiesa e del sacerdozio cattolico.

Sono convinto che il mondo che è emerso è stato soprattutto quello delle opere, piuttosto che quello sotterraneo della coscienza, del sentire e del pensare. D’altronde questo è comprensibile perché il nostro rapporto pur cordiale, affettuoso e ricco di stima, non ha mai attinto all’interiorità.

Leggendo l’intervista avrei tantissime altre cose da aggiungere, però quello che le ha generate è un mondo interiore molto più tormentato, irrequieto e preoccupato. Per far emergere questo, che forse è il supporto di tutte le mie scelte e le mie reazioni, ci vorrebbe certamente più spazio e soprattutto più volontà da parte mia di “scoprirmi”, volontà che per ora non ho.

Qualche mese fa un altro dei miei ragazzi, Francesco Bottazzo, che lavora per “Il Corriere del Veneto”, mi ha proposto di scrivere la mia biografia, cosa che ho rifiutato decisamente a motivo del mio essere schivo e riservato per le cose che riguardano il mio intimo. Comunque chi fosse interessato a conoscere un po’ di più di questo vecchio prete, non ha che da leggere “L’Incontro” e mettere assieme tanti piccoli tasselli e ne verrebbe fuori una figura un po’ più tormentata e sempre in ricerca di quella apparentemente vincente che emerge dall’articolo di “Gente Veneta”.

Croce e delizia

Il diario è, o dovrebbe essere, di per se stesso, l’immagine e l’espressione dei sentimenti di chi lo scrive. Credo che il mio diario rispecchi fin troppo bene lo stato d’animo e la reazione agli eventi nei quali sono coinvolto.

Faccio ancora una volta questa premessa per giustificare il mio intervento su un argomento su cui mi sono espresso anche in questi ultimi giorni, cioè il volontariato.

Ho scritto recentemente che nutro una certa preoccupazione per il presente e per il prossimo futuro delle quattro associazioni di volontariato che rappresentano l’osso portante del “Polo solidale” del “don Vecchi”, presso il quale ogni giorno accorrono migliaia di concittadini e di extracomunitari a chiedere aiuto. Le difficoltà in questo settore non mi sono assolutamente nuove. In passato sempre si sono ricomposte, però ogni volta mi preoccupano fino all’angoscia per il timore che possa venir meno questo aiuto ai poveri e che venga a mancare alla nostra Chiesa veneziana la testimonianza più significativa della sua concreta attenzione al dramma dei fratelli più poveri.

Un esercito di volontari, non pagati, non fortemente motivati, non addestrati per quello che devono fare, è difficile da guidare, ma se questo esercito recluta i suoi “soldati” dal mondo veneziano in cui impera sovrano ed incontrastato l’individualismo, la cosa diventa ancora più difficile.

Qualche giorno fa ho ricordato che i volontari della comunità di Sant’Egidio che ho incontrato negli anni scorsi mi sono apparsi profondamente motivati da valori religiosi. La scelta di mettersi a disposizione del prossimo poggia sulla parola di Cristo, mentre la mia gente l’ho reclutata così come veniva e m’è parso per molto tempo di non dover premere più di tanto sui princìpi e i valori cristiani di fondo, pensando che il fatto stesso che si mettessero a disposizione del prossimo li mettesse automaticamente in linea con l’insegnamento evangelico.

Tra i duecento volontari che lavorano al “don Vecchi” vi sono fortunatamente anche dei cristiani seri e coerenti, non sempre però la loro testimonianza incide più di tanto e pare riesca a dare un tono e delle fondamenta più solide di quel senso di pura beneficenza che sembra essere l’elemento più diffuso. A loro merito, per quello che riguarda la costanza, la presenza nei giorni concordati, va detto che, eccetto qualche elemento, quasi tutti pare abbiano accettato di svolgere con serietà il servizio scelto.

In questa situazione avvertendo più che mai la mia fragilità, non mi resta, come Mosè, che stare con le mani alzate in preghiera e dare la mia povera testimonianza di fedeltà e perseveranza nonostante il passare degli anni. Spero tanto che basti e soprattutto arrivi un giovane prete a riordinare questo esercito di Brancaleone irrequieto, poco disponibile e non del tutto motivato.

Anticorpi insufficienti

Forse ho detto fin troppe volte che ho scelto di essere mattiniero per poter dedicare gli albori di ogni nuovo giorno alla mia anima e al buon Dio. Mi alzo alle cinque e un quarto e per le sei, dopo aver dedicato un qualche tempo alla cura della mia persona e dopo aver riordinato la mia stanza da letto, sono pronto per la preghiera. Normalmente spalanco la porta-finestra che dà sul terrazzino oltre il quale c’è il verde di un grande campo e il rumore lontano dei veicoli che percorrono via Martiri della Libertà. Aprendo la porta-finestra ho l’impressione di mettermi in comunione col mondo. Poi apro il breviario per “incontrare il Signore”, ascoltare il suo messaggio e parlargli delle mie cose personali e di quelle della società in cui vivo.

La Chiesa mi “impone” un percorso obbligato che è quello dei salmi, della lettura del Nuovo e Vecchio Testamento. Più volte ho confessato che per me non è un percorso facile perché se gli ebrei di oggi con gli arabi della Striscia di Gaza, che pur considero oltremodo fanatici, non sono degli agnellini innocenti, i loro padri, cioè quelli della Bibbia, sono stati ben più sanguinari e spietati con gli abitanti dei paesi vicini. Per quanto tenti di decodificare il testo per togliergli di dosso i vestiti culturali del tempo, spesso mi riduco veramente all’osso e mi riesce a malapena di salvare il seme di quello che presumo essere il messaggio di Dio.

Poi, rifacendomi alla mia infanzia, recito le preghiere tradizionali che mi sembrano tanto più rasserenanti. Termino con una breve meditazione su una frase della Bibbia commentata da cristiani comuni della Chiesa metodista d’America. Il testo però riporta pure la testimonianza di fedeli di tutto il mondo appartenenti a questa confessione cristiana. Queste riflessioni mi fanno bene perché mi fanno incontrare il pensiero e la testimonianza cristiana di un cristianesimo semplice, entusiasta e tanto pio da sembrare perfino immune dal peccato originale, ma soprattutto dal razionalismo esasperato e dissacrante del nostro vecchio mondo.

Dopo do una scorsa veloce al Gazzettino, quotidiano che, come tutti gli altri, pare paghi un numero consistente di giornalisti perché raccolgano tutte le immondizie, le cattiverie e le meschinità dal mondo intero. Confesso che gli anticorpi che mi provengono dalla meditazione e dalla preghiera precedente, molto spesso fanno fatica a proteggermi dal male che ogni giorno Il Gazzettino mi offre, domandandomi per di più ogni giorno un euro e venti.

Il piedestallo

Ricordo che forse due o tre anni fa ho scritto un paio di volte sull’ex allenatore della nostra nazionale di calcio, tessendone le lodi.

Da quello che mi ricordo la mia ammirazione per Prandelli nasceva dal fatto che preferiva al ruolo di tecnico, quello dell’educatore che puntava a fare della squadra un gruppo di amici e che aveva a cuore non solamente di formare un gruppo di bravi professionisti del calcio, ma uomini veri, ricchi umanamente.

Avevo letto poi da qualche parte che sia quando frequentava l’oratorio in parrocchia che quando cominciò a fare l’allenatore di squadre minori, non tollerava la violenza, la scorrettezza, la slealtà, lo scambio di denaro e soprattutto una vita viziata da parte di questi giocatori che sono sempre strapagati. Queste scelte e questo orientamento mi pareva quanto mai serio, lodevole e umanamente tanto nobile.

Avevo letto ancora che sua moglie si era ammalata di tumore e lui l’aveva assistita con grande amore, arrivando ad allontanarsi per due anni dalla sua professione per rimanere in famiglia con i suoi due figli per essere più vicino alla sposa ammalata. Tutto questo non aveva fatto che aumentare la mia stima e la mia ammirazione. Mi è parso tanto bello che in un settore che interessa le masse popolari, un uomo integro, dalle idee chiare e dalla vita sana, offrisse una testimonianza quanto mai preziosa ed esemplare.

Sennonché mi caddero le braccia quando lessi per caso in un giornale che dovendo andare in un paese estero per una partita, aveva portato con sé la sua nuova “compagna”. Io voglio essere tollerante, voglio accettare la fragilità umana, però non sono affatto propenso a dare la mia stima a chi si lascia trascinare dalla moda corrente e pur potendosi sposare regolarmente, indulge in un rapporto non limpido e comunque non conforme al pensiero cristiano.

Se Prandelli si ritiene un cattolico, come mi pare abbia affermato, trovo che questo comportamento sia in netta contrapposizione. A questo motivo, che mi ha costretto a toglierlo dal piedestallo in cui io – parlo per me – l’avevo messo, se n’è aggiunto un altro. Dopo la débacle della squadra italiana ai campionati del mondo, egli si è dimesso, forse riconoscendo i suoi errori a livello tecnico. La stampa, in occasione di queste dimissioni, l’ha esaltato perché avrebbe potuto continuare, visto che aveva un contratto che gli garantiva un milione e mezzo per un altro paio di anni. Ma a questo presunto gesto di dignità seguì un’altra notizia: lo stesso Prandelli avrebbe firmato un contratto con un Paese estero che gli garantiva quattro milioni e mezzo all’anno. “Povero” Prandelli! Penso, almeno io, di non lasciarlo sul piedestallo!

Finalmente!

In questi giorni, con mia infinita sorpresa, un mio collega, un po’ più giovane di me, prima a voce, poi per iscritto, mi ha manifestato la sua ammirazione per il “diario” che io vado scrivendo da una vita ma che lui ha scoperto solo recentemente su “L’Incontro” e mi ha pure incoraggiato a continuare per il bene della Chiesa di Mestre. La sorpresa è stata ancora più grande perché, sempre nella sua missiva, mi ha confessato che in passato non aveva nei miei riguardi una posizione del tutto positiva. Riaffermo che sono stato veramente sorpreso perché mai, o quasi mai, un collega sacerdote mi ha confidato di leggere i miei scritti, anzi più di uno ha proibito nel tempo che “L’Incontro” fosse in distribuzione nella sua chiesa.

Talvolta sono andato in crisi al pensiero che i miei colleghi reputassero pericoloso per i loro fedeli il mio messaggio e la mia proposta cristiana, che per quanto la giudichi in maniera critica, si rifà, o vorrebbe rifarsi, totalmente al messaggio di Gesù. E’ vero che non sono preoccupato di usare una terminologia e delle riflessioni troppo attente di piacere ai capi, ma nella sostanza ho sempre cercato di proporre una Chiesa libera, povera, aperta al confronto ed estremamente convinta della validità del suo messaggio.

Aldilà di qualche espressione un po’ decisa, credo di non aver mai sfiorano i limiti dell’ortodossia, comunque mai intenzionalmente ho voluto farlo. In molte occasioni, invece, m’è venuto da pensare – ma questo non è di certo virtuoso da parte mia – che certi colleghi e soprattutto certi parroci, temessero il confronto tra il nostro periodico e il loro foglietto.

Un carissimo amico, cristiano convinto e coerente, al quale ho confidato che il foglietto del suo parroco – che è appunto uno di quei parroci che rifiutano il nostro periodico – è veramente inconsistente, anzi desolante, mi ha fatto osservare che ognuno ha le sue doti particolari e perciò si deve comprendere anche chi è meno dotato. Ho trovato saggia e valida questa osservazione, però da un lato rifiuto chi si comporta da despota, o peggio da satropo nel suo territorio e dall’altro lato penso che far spazio a chi ti può dare un aiuto e fargli una supplenza, sia non solo intelligente, ma anche virtuoso.

Comunque sono stato contento di incassare questa approvazione che spero mi faccia da contrappeso alle critiche e ai rifiuti di altri “confratelli”.