Geloso

Un tempo era comunemente conosciuto tra i preti un manuale, di cui purtroppo non conosco il titolo, che offriva un ampio commento sulle virtù e sui vizi. Ricordo che alla voce “gelosia” si diceva che la gelosia rappresenta la deformazione della nobilissima virtù dell’amore. Quando però la gelosia diventa un sentimento forte e morboso può diventare un vero peccato perché rappresenta una volontà di possesso esasperato, mancanza di fiducia nell’altro e quindi tende a limitare e condizionare la libertà della persona amata, libertà che è una prerogativa sacra di ogni persona.

Condivido appieno la definizione e pure il commento di questa imperfezione ed impoverimento della virtù dell’amore che è uno degli aspetti più nobili e più alti di ogni persona. Queste vecchie reminiscenze dei miei studi di morale e di ascetica mi sono ritornate a galla durante il periodo delle ferie estive e specialmente durante le domeniche un po’ prima e un po’ dopo il ferragosto. Tante volte ho scritto che la gente che frequenta l’eucarestia domenicale nella mia “cattedrale tra i cipressi” è il dono più bello che il Signore, che con me è sempre stato molto generoso, mi ha fatto negli anni della mia vecchiaia.

Amavo tanto i fedeli che partecipavano alla messa anche quando anni fa celebravo all’aperto sul cosiddetto “Altare della patria”, ma allora i presenti erano dispersi tra le tombe in un’area molto vasta, per cui spesso li vedevo solo da lontano, ora invece li ho tutti raccolti e vicini per cui il rapporto è molto più intimo. Naturalmente la chiesa è sempre gremita, non c’è mai una sedia libera. Tutti cantano, tanto che sono più contento di sentire la voce appassionata della mia gente che ascoltare il coro della Fenice; tutti, o quasi, si accostano alla comunione; tutti, mi pare, hanno un senso di cordialità e di amicizia con i loro vicini, tanto che il vocio prima della messa mi pare fin troppo intimo ma, iniziato il sacro rito, non si sente volare una mosca. Questa mia gente mi è così cara, così tanto sono loro affezionato, che mi pare sia perfino la più bella e la più simpatica assemblea eucaristica della mia città.

Ritorno ora sul discorso della gelosia. Date queste premesse, durante le domeniche estive talvolta ho notato qualche sedia vuota e che mancava all’incontro col Signore qualche volto noto e amato. Allora “confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli” che talvolta mi sono sentito geloso perché vorrei incontrare tutti, proprio tutti i volti cari dei fratelli e quando per qualche tempo non li vedo, me ne rammarico e sarei tentato di stare perfino male.

Spero che, come il buon Dio, anche la mia gente mi perdoni questo peccato che però spero sia veniale.

19.08.2014

La risposta

Ieri mattina, mentre attendevo l’orario per la celebrazione della messa, m’ha raggiunto, nella sagrestia della mia amata chiesa, una giovane signora. La invitai a sedersi e a dirmi i nomi dei suoi defunti da ricordare. Si trattava invece d’altro. Sua madre, che vive sola nonostante i suoi novantun anni, ha letto su “L’Incontro” dell’apertura del “don Vecchi 5” agli Arzeroni.

Capii subito che la figliola si sentiva estremamente imbarazzata pensando che le dicessi: «Perché non se la porta a casa sua?» e perciò disse subito: «Don Armando, io abito in un guscio di appartamento, ma soprattutto mia madre non verrebbe mai da me perché ama la sua indipendenza e poi non vuole essermi di peso». Continuò raccontandomi che sua madre era ancora totalmente autosufficiente, ma si sentiva sola nel grande condominio nonostante lei andasse a trovarla tutti i giorni e non le passavano mai le ore. Aveva letto su “L’Incontro” uno dei miei innumerevoli interventi a proposito dei nuovi 65 alloggi per chi è in perdita di autonomia e perciò aveva timidamente accennato di averne uno per un’eventuale domanda. Quindi la figlia voleva avere informazioni su come si svolge la vita all’interno di questa struttura, quanto si pagasse ed altro ancora.

Mentre mi parlava, questa cara figliola che ama veramente sua madre, s’é commossa da un lato pensando, con i vecchi schemi mentali, di mettere “in ricovero” sua madre, e dall’altro temendo forse che io pensassi che volesse sbarazzarsi di sua madre.

Le spiegai la dottrina dei nostri Centri, assolutamente convinto che dopo un momento di smarrimento per il cambio dell’ambiente, di certo sua madre si sarebbe trovata bene perché all’assoluta sua autonomia si sarebbe aggiunta la possibilità di incontrare la gente di questo “piccolo borgo” e nel contempo avrebbe goduto la bellezza e la comodità di questo grande albergo quanto mai signorile, che le poteva offrire passeggiate come si trovasse alle Bahamas d’inverno e a Cortina d’Ampezzo d’estate. Le dissi pure che, fatti quattro conti, avrebbe speso molto meno al “don Vecchi” che nel suo attuale appartamento.

Mentre parlavo mi ritornava alla memoria un episodio simile di alcuni anni fa. Due fratelli mi presentarono la domanda della loro madre che per motivi particolari non poteva più rimanere con la figlia. Lessi il certificato medico e, sfrontatamente, dissi loro: «Con tutte queste patologie vostra madre non può che presentarsi alle porte del cielo». La presentarono lo stesso. In realtà è ancora viva e pur con i suoi 96 anni è perfin troppo vegeta.

Conclusi: «Signora, faccia la domanda sperando che i miei collaboratori non frappongano ostacoli che si dimostrano sempre fasulli».

Mentre la signora se ne andava un po’ consolata, le dissi: «Ma mi conosce?» «Sono stata sua allieva alle magistrali e dopo quarant’anni di insegnamento ora sono in pensione». Fui doppiamente contento.

18.08.2014

Il baraccone

Da come si sono messe le cose sembrava che proprio il giorno in cui gli arabi sono entrati nell’Alitalia – che stava affondando – i dipendenti della nostra compagnia di bandiera, che negli ultimi dieci anni non avevano fatto altro che provocare enormi falle, volessero cominciare l’attività della nuova compagnia italo-araba con uno sciopero generale. Sono convinto che se ciò avvenisse sarebbe come il seguito naturale di una vita di privilegi, di una conduzione dissennata e di un lavoro per modo di dire, se oggi l’Alitalia può permettersi di volare con quasi cinquemila dipendenti in meno.

Quello dell’Alitalia è un esempio eclatante di quanto siano inefficienti, spendaccioni e fannulloni molti dipendenti di enti pubblici, statali, parastatali, regionali, provinciali, comunali e, peggio ancora, delle aziende a partecipazione pubblica.

Avevo un mio amico, con una grossa nidiata di figlioli, che gestiva una piccola azienda, il quale diceva che i dipendenti comunali erano una calamità per gli enti per cui lavoravano, ma purtroppo rappresentavano pure una piaga sociale ed un pessimo esempio per i dipendenti degli artigiani e dei piccoli commercianti. Lui si riferiva solamente ai dipendenti pubblici più vicini a lui, perché credo non conoscesse i privilegi e l’inefficienza dei dipendenti statali, degli enti a livello regionale e statale.

Il mio vecchio parrocchiano, Bruno Marchesin, è morto una ventina di anni fa per un infarto; non so proprio che cosa direbbe oggi di fronte allo scandalo dei dipendenti di Alitalia, dei dipendenti del Parlamento e del Senato che hanno uno stipendio tre volte tanto i colleghi che svolgono le stesse identiche mansioni nel mondo del commercio e dell’industria. Ho già scritto che all’inizio di uno dei mandati di Cacciari a sindaco gli dissi: «Se lei riuscisse solamente a riordinare seriamente la burocrazia del nostro Comune nei prossimi cinque anni, credo che avrebbe diritto di passare alla storia!»

Un altro amico, che ha fatto l’amministratore comunale, mi raccontò che, appena eletto assessore al personale del nostro Comune, spinto da zelo da neofita, si presentò alle otto del mattino presso gli uffici comunali e trovò gli impiegati che chiacchieravano e che leggevano il Gazzettino. Alzò la voce, però si accorse di trovarsi di fronte al muro di gomma di una tradizione inveterata. Fu sconfitto. Un mese dopo ritornò e con voce pacata si rivolse a questi dipendenti pregandoli di chiudere almeno la porta perché i cittadini in attesa della inutile carta almeno non li vedessero.

Per quello che mi riguarda come prete confesso che non ho mai visto, in esame di coscienza, segnalato questo peccato, non ho mai sentito una predica in proposito e mai ho letto una lettera pastorale su tali comportamenti. Eppure questi sono peccati mortali.

17.08.2014

L’Assunta

La festa dell’Assunta mi piace quanto mai perché mi sembra sia la facciata bella e piena di fascino della festa pagana del ferragosto.

Ogni anno, quando si avvicina la data della celebrazione di questo dolce “mistero” della nostra fede, il mio cuore si riempie di immagini di straordinaria bellezza e soavità. Ricordo quando moltissimi anni fa m’è capitato di entrare nel pomeriggio della festa dell’Assunta nella grande basilica gotica dei Frari. La chiesa era semideserta e il sole entrava in chiesa filtrato dai colori delle grandi vetrate, l’altare maggiore posto ai piedi della grandissima tela del Tiziano era ornato di fiori candidi e all’organo padre Rizzi, maestro insigne e compositore di tanti pezzi musicali di pregio, suonava in libertà, penso improvvisando, lasciando che il suo spirito, all’unisono con la vergine, cantasse il magnificat dell’esultanza, della lode e della speranza.

Ricordo ancora tanti anni fa che degli amici trentini mi vennero a prendere dal rifugio San Lorenzo di Misurina per portarmi a Cavalese in val di Fiemme a vedere la chiesa di quel borgo alpino. Lasciata la statale, ci inoltrammo a piedi in un viottolo che passava attraverso un bosco di grandi abeti secolari. Quando, terminato il bosco, apparve improvvisamente una radura verde con al centro una chiesa alpina con un altissimo frontale che sembrava infilzare il cielo azzurro. In quel frontale ad angolo acuto era dipinta l’Assunta che pareva a mezza strada tra il cielo e la terra. Credo di aver provato in quella occasione la stessa emozione di stupore e di dolcissimo incanto che le leggende antiche dicono provarssero gli apostoli quando videro la Madonna salire al cielo per immergersi e confondersi con la luce.

Come ricordo ancora ch’era diventata ormai una tradizione per me e per i fedeli di Carpenedo salire nel primo pomeriggio dell’Assunta a Villa Flangini nei dolcissimi colli asolani. Passavamo il pomeriggio con i nostri vecchi ospiti della bellissima villa settecentesca della parrocchia, facevamo merenda col pane cotto nel forno a legna di Asolo, imbottito di soppressa, e quando cominciava a far buio, salivamo con in mano i flambeaux, recitando il rosario fino all’antico eremo dei frati cappuccini nella cara ed intima chiesa di Sant’Anna. Ricevuta la benedizione uscivamo sul sagrato per vedere la nostra bellissima villa illuminata a festa, che sembrava uno splendido gioiello incastonato sulle prime pendici del monte Grappa.

Ricordo ancora le bellissime messe celebrate all’aperto sull’altare della Patria del nostro cimitero mentre i fedeli erano sparsi tra le tombe. Ogni anno questo spiazzo diventava una grande cattedrale, con le colonne fatte dai cipressi secolari e il cielo aperto ed azzurro che ci faceva sognare la Vergine salire dolcemente finché la sua veste si confondeva con l’azzurro del cielo e il suo volto col sole luminoso.

Ma è stato altrettanto bello anche quest’anno celebrare l’Assunta nella nostra “cattedrale tra i cipressi” che sembra una baita di montagna; essa era gremita di fedeli che godendo della frescura della nostra chiesa hanno cantato le lodi a Maria come non avviene nemmeno a San Pietro.

Ebbi la sensazione che tutti camminassero tenendosi per mano verso il cielo seguendo le tracce lasciate dai passi della Vergine santa.

15.08.2014

Lo staff del Don Vecchi 5

Un medico amico, a cui debbo molto, mi ha segnalato la situazione difficile dei genitori di una collega della specialità di urologia della clinica universitaria dell’ospedale di Padova. Mi ha raccomandato con tanta convinzione questa coppia di coniugi greco-albanesi e mi ha chiesto di poter incontrare la sua giovane e brillante collega figlia di questi signori.

Un mese fa questa giovane donna è venuta al “don Vecchi” e mi ha parlato con tanta tenerezza e convinzione dei suoi genitori assicurandomi che erano disposti a qualsiasi lavoro pur di essere economicamente autosufficienti. Mi disse che il padre, quasi sessantenne, laureato in odontoiatria, ha fatto tutti i lavori possibili ed immaginabili, anche i più umili, ma sempre precari e di poca durata e che il fatto che il suo titolo accademico non sia riconosciuto in Italia gli impedisce di esercitare la sua professione.

Mentre questa cara ragazza perorava la causa dei suoi genitori, ebbi modo di avvertire in maniera toccante il suo affetto filiale, la stima e la disponibilità di questa cara gente.

Se risulta difficile trovare un lavoro per noi italiani qui nel nostro Paese, è pressoché impossibile per gli extracomunitari con una professione non riconosciuta e con una certa età trovare un lavoro che garantisca una certa continuità, seppure con un salario molto modesto.

Ne parlai un po’ a tutti i responsabili della Fondazione i quali ebbero tutti la stessa sensazione positiva, ed essendo quasi ultimata la nuova struttura accettarono l’assunzione. Infatti si avvertiva la necessità di una presenza e di una vigilanza costante.

Questo fu tanto vero che il giorno prima dell’arrivo dei due sposi una squadra di lestofanti, arrivati di notte con un camion, rubarono tutti i divani, quadri, termosifoni e frigoriferi. I nuovi “custodi”, o meglio fratelli, entrarono in punta di piedi nella nuova struttura e in poche settimane essa cambiò radicalmente d’aspetto, tanto è linda, ben curata e, pur non essendo ancora occupata dagli anziani, essa dà l’impressione di un ambiente vivo ed accogliente: i prati sono stati rasati, le piante degli interni curate, i gerani dei cortili interni tutti in fiore e tutti i meccanismi complessi di una struttura moderna sono tenuti sotto controllo.

La nuova grande casa per gli anziani ha così già un cuore che batte e quando i nuovi residenti entreranno nei loro alloggi, pur un po’ smarriti e disorientati, avranno un sicuro punto di riferimento che li accoglierà con affetto e disponibilità.

Ormai lo staff che guiderà questa esperienza pilota per dare una risposta adeguata alle attese degli anziani in perdita di autonomia è quasi al completo.

Dirige lo staff: la dottoressa Rosanna Cervellin, con la sua aiutante di campo: dott.ssa Viorica Dragutan, e i dottori Sergio Balica, Tommaso, coodiuvati dai volontari: Linda, Mariolina, Lorenzo. Oltre un altro gruppetto di volontari addetti alla cucina. A questi operatori s’aggiungono le assistenti di condominio e soprattutto i familiari, la presenza dei quali sarà assolutamente determinante per la buona riuscita di questa nuova sfida della Fondazione Carpinetum.

14.08.2014

Sto cambiando lavoro

Credo che il Signore mi abbia dato ancora sufficiente lucidità per riconoscere i miei limiti e le mie residue possibilità.

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una frase del famoso polemista convertito alla fede in età matura, che si rivolge a Dio con questa preghiera: “Mio Dio, donami abbastanza serenità per accettare quello che non si può cambiare. Mio Dio, donami abbastanza coraggio per cambiare quello che si può cambiare. Mio Dio, donami abbastanza saggezza per discernere l’uno dall’altro”.

Sulla falsariga di questo pensatore cristiano, ho sentito anch’io il bisogno di rivolgermi al Signore con questa preghiera: “Mio Dio, donami saggezza perché comprenda quello che non posso e non devo più fare. Mio Dio, donami abbastanza coraggio per tagliare su quello che non è più alla mia portata e ancora buona volontà per occuparmi a far bene quello che posso ancora fare. Mio Dio, aiutami a fare questa scelta non per egoismo o per comodità, ma per fare al meglio quello che riesco ancora a fare, date le mie residue forze fisiche e mentali”.

E’ ormai da tanto che rifletto su questo problema, conscio che non sono più sufficientemente disponibile ad accettare il nuovo senza resistenze, a elaborare il pensiero in maniera lucida e saggia così da essere utile a qualcuno, a portare il peso e la responsabilità di dover decidere senza farmi perdere la serenità e la pace.

Queste considerazioni mi stanno facendo riflettere se sia giunto il momento di chiudere con “L’Incontro”, di lasciare la direzione dei Centri don Vecchi e il coinvolgimento in prima persona con le associazioni di volontariato del Polo solidale. Ricordandomi però del proposito fatto da tempo che “desidero incontrare la morte da vivo” sto elaborando un nuovo progetto di vita che sia compatibile con le risorse della quarta età nella quale mi sono già inoltrato da un pezzo.

La prima bozza di programma che mi passa per la testa è quello di trascorrere l’intera mattinata nella mia “basilica tra i cipressi” per le celebrazioni liturgiche e per offrire disponibilità a chi vuole incontrare un sacerdote che non ha fretta e che è disposto ad ascoltare, condividere e pregare.

Mentre il pomeriggio lo vorrei dedicare ai residenti dei Centri don Vecchi, soprattutto a quelli che non escono e che rimangono sempre a casa per la loro parziale autonomia. Di questi “parrocchiani” ne ho 250 al “don Vecchi” di Carpenedo, 65 in quello di Marghera, 70 in quello di Campalto e 65 agli Arzeroni. Ora sto aspettando dal Signore la risposta alla mia preghiera e poi farò una scelta coerente.

13.08.2014

Apertura degli archivi segreti

Alcuni anni fa don Franco De Pieri, erede e ultimo collaboratore di monsignor Vecchi, ha dato vita ad una fondazione che portava il suo nome. In occasione di una qualche ricorrenza significativa della vita e della morte di monsignore, attraverso questa fondazione, don Franco ha pubblicato un opuscolo che raccoglieva le testimonianze di diverse persone che avevano avuto rapporti con questo sacerdote il quale ha ben meritato nei confronti della nostra città.

Sono cosciente che ad oltre trent’anni dalla sua morte molti mestrini conoscono il nome di don Vecchi perché i nostri Centri, che abbiamo voluto portassero il suo nome, l’hanno reso universalmente noto, pochi però conoscono la vita e le opere di questo monsignore. Per questo motivo ho pubblicato su “L’Incontro” testimonianze che lo riguardano estrapolandole da suddetto opuscolo.

Avendo esaurito tali testimonianze, ho chiesto al prof. Andrighetti, che sapevo aveva anche lui pubblicato un volume sui sermoni e sulle meditazioni di monsignore, se aveva qualche scritto da offrirmi. Il signor Andrighetti, con tanta gentilezza, mi ha regalato non solamente il suo volume, ma anche quello scritto dal giornalista di Gente Veneta Paolo Fusco.

Il volume di Fusco mi era già stato donato, ma l’ho smarrito al tempo del trasloco da Carpenedo al “don Vecchi”. Ho cominciato a leggere la biografia di Fusco non solamente perché Fusco ha uno stile agile e piacevole, ma anche perché per più di un trentennio sono vissuto a stretto contatto con monsignore, prima perché suo allievo al liceo, poi come suo cappellano a San Lorenzo e quindi come sacerdote nella chiesa mestrina di cui lui era il delegato del Patriarca.

La storia di monsignore è perciò quanto mai intersecata anche col mio passato e quindi ero quanto mai curioso di conoscere certi retroscena che non avevo mai conosciuto: opinioni nei miei riguardi da parte dei protagonisti della Chiesa veneziana di quei tempi ed anche progetti, reazioni di monsignore che m’erano ignoti.

La lettura del volume mi ha dato la sensazione della scoperta di trame sconosciute della storia, che vengono a galla solamente quando i preposti agli archivi o l’autorità autorizzano la loro consultazione. Fusco ha fatto un lavoro immenso e sta facendomi conoscere un monsignor Vecchi che assolutamente non conoscevo.

Tornerò di certo su questo volume perché ha fatto luce obiettiva su decenni della storia della Chiesa veneziana. A mò di esempio sono venuto a sapere che monsignore ambiva ad essere il responsabile della Chiesa mestrina, mentre Patriarca e curia erano e sono ancora lontani mille miglia da questa visione.

Monsignore desiderava abbandonare la mansione di parroco per vivere appieno quella di delegato patriarcale – e questo lo sapevo perché aveva già comperato la sede a tale scopo – non sapevo però che mi aveva ingenuamente proposto come parroco di San Lorenzo, cosa che era inimmaginabile. Anche don Vecchi fu un ingenuo.

12.09.2014

Il magone

Il “mestiere” del prete è difficile, ma quello di un prete che crede doveroso occuparsi dei poveri è quasi impossibile.

Mentre mi accingo a buttar giù queste povere note, la televisione ha appena dato notizia della morte di don Gelmini, una delle più belle figure di prete in Italia, che ha lasciato questo mondo portando con sé un dramma atroce e lasciando anche a chi lo ha stimato un punto di domanda amaro.

Approfitto di queste righe per esprimergli comunque la mia ammirazione, se non altro per la sua scelta di non coinvolgere la Chiesa nel suo dramma e nel voler difendersi di persona e non all’ombra della tonaca e della Chiesa.

Vengo al mio più piccolo dramma, ma sempre dramma. Un paio di giorni fa mi ha telefonato un signore – che poi si è rivelato in realtà poco signore e molto povero – chiedendomi un appuntamento su suggerimento di un medico che mi conosceva molto bene. Insistei che mi dicesse il motivo di questo incontro ma capii subito che voleva chiedermi soldi. L’informai della nostra organizzazione di carità che reputo efficiente, che però non ha scelto e non può distribuire soldi. Gli indicai la Caritas, la San Vincenzo e il Comune.

Egli però ebbe buon gioco a dire che in questi giorni tutto è chiuso per ferie. Però cadde la linea e quindi mi misi il cuore in pace. Questa mattina però mi telefonò il “medico” che l’avrebbe curato, insistendo a non finire perché lo ricevessi per conoscere meglio la situazione del suo paziente. Ebbi qualche dubbio, perché altre volte sono caduto nel trabocchetto del presunto “amico benefattore”, che in realtà trescava col mendicante. Comunque venne puntuale all’appuntamento.

Memore del consiglio di una “piccola sorella di Gesù”, seguace di Charles De Foucault, la quale un giorno mi disse che anche una piccola offerta è un segno di fraternità, mi precipitai con in tasca una busta con dentro 15 euro che volevo dargli appunto come segno di solidarietà. Lo accolsi nella hall del “don Vecchi”. Era male in arnese e da quella esperienza che mi son fatto, quello era una vita che non lavorava. Lui invece, nel proseguo del discorso affermò che era solamente da tre anni. Mi raccontò che il medico, dottor Rossi, dell’ospedale di Venezia, l’aveva curato e che l’aveva pure aiutato, ma che ora doveva tornare ad Imola per sottoporsi a sedute nella camera iperbarica e, a segno del suo bisogno, mi mostrò il dito mignolo di una mano fasciato alla meno peggio. Gli dissi che pure a Marghera c’è una camera iperbarica e poi mi parve di dover essere onesto dicendogli quello che monsignor Vecchi mi ha insegnato: “Fare la carità è buona cosa, ma è meglio costruire una struttura per chi ha bisogno, perché così risolvi un problema per molti e molti anni, mentre l’elemosina è un tappabuchi che non risolve niente”.

Lui non fu molto convinto di questa tesi. Per non tirarla alla lunga tirai fuori dalla tasca la busta e gli dissi che c’erano dentro i 15 euro in segno di solidarietà. Rifiutò con sdegno; probabilmente puntava al colpo grosso di 50 euro.

Altre volte mi era capitata la stessa cosa, ma il richiedente finiva sempre per rassegnarsi ad un’offerta minore dello sperato. Questo no! Mi disse grazie, seccato, e se ne andò senza accettare nulla.

Nonostante abbia seguito l’esperienza pregressa: – il consiglio di monsignore e quello della “piccola sorella di Gesù” – mi è rimasto nell’animo un magone amaro.

11.09.2014

Io, tu, Dio

Credo che il cardinal Ravasi sia pressappoco il “ministro della cultura” della Chiesa cattolica. Io ho avuto modo di conoscerlo attraverso dei “talloncini” che per anni ha pubblicato sul quotidiano dei vescovi italiani “Avvenire”. In prima pagina, appena sotto il titolo, pubblicava ogni giorno un “pezzo” quanto mai contenuto come numero di righe, ma di straordinaria intensità di pensiero.

So che Ravasi è un sacerdote lombardo, che era il titolare della Biblioteca Ambrosiana e che svolgeva un’intensa attività di ordine culturale. Di questo sacerdote possiedo alcuni volumi regalatimi da amici, che raccolgono i suoi interventi sulla stampa e, tra gli altri, uno che risponde alle obbiezioni e alle problematiche più difficili del cristianesimo e della Chiesa. La sensazione che ho avuto da questa lettura è quella di trovarmi di fronte un uomo di una intelligenza sopraffina e di una cultura vastissima, anzi mi verrebbe da dire illimitata.

Leggendo queste opere, tante volte mi sono chiesto: “Come è mai possibile tanta intelligenza ed altrettanta cultura?”. Per me leggere le opere di Ravasi è sempre stato difficile perché lui vola troppo in alto e faccio fatica a seguirlo; usa dei passaggi assai difficili che mi fanno prendere coscienza della mia inadeguatezza a seguire discorsi tanto impegnativi.

Delle signore del gruppo “I figli in cielo” – mamme che hanno perduto tragicamente figli giovani, – che non so per quale motivo lo conoscevano, mantenevano con lui rapporti tanto familiari da riuscire a portarlo, due o tre anni fa, a celebrare e a fare una lezione sull’aldilà in basilica di San Marco. Queste signore mi hanno riferito che in realtà è un uomo semplice e alla mano.

La Chiesa, prima gli ha offerto questo importante dicastero e poi, un anno fa, gli ha concesso la porpora cardinalizia.

Ravasi poi è stato un collaboratore del cardinal Martini di Milano e con lui ha creato la famosa “Cattedra dei Gentili”, attraverso la quale la Chiesa ha tentato un dialogo positivo con i credenti.

Date queste premesse, qualche giorno fa un mio amico, per la seconda o terza volta, mi ha portato il periodico della Confindustria “Il sole 24 ore”, ove Ravasi pubblica la rubrica “Breviario”. Nell’ultima copia che mi ha portato, sotto il titolo “Io, tu, Dio”, ho letto un trafiletto che riporto integralmente, perché credo che questa tesi di Ravasi sia una tesi che anch’io confusamente ho cercato di mettere a fuoco per tutta la vita e ritengo la “chiave” con cui ho tentato e sto tentando ancora di aprirmi al mistero di Dio.

Oggi lo offro agli amici come “una perla” evangelica di grande valore.

BREVIARIO

Io, tu, Dio

Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre. Mi ha impressionato – a tal punto da rimanermi infissa nella memoria – una battuta del filosofo francese Emmanuel Lévinas: «Io non so chi sono prima di incontrare te». L’altro è lo specchio che ti permette di conoscere il tuo volto perché con te condivide l’umanità, l’anima, la mente, la vita. Ebbene, la considerazione sopra citata fa un passo in avanti e ci invita a scoprire nell’altro anche il volto di Dio. A suggerire questa esperienza è quel visionario che fu William Blake, poeta e artista nutrito delle Sacre Scritture. La sua intuizione è debitrice di una pagina evangelica nella quale Cristo rivela che il suo viso si cela dietro i profili miseri degli ultimi dei nostri fratelli affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati (Matteo 25,31-46). È nell’amore autentico che incontri il tuo io, l’altro e Dio.

Gianfranco Ravasi

10.09.2014

Essere non avere

Il cieco di Gerico disse a Gesù: «Fa che io veda» e Gesù a lui: «Vedi, la tua fede ti ha salvato!». Sono convinto che ieri il Signore abbia fatto anche a me questo miracolo. Vedere è veramente uno splendido dono di Dio, però quando si vedono cose belle e positive.

Tanti anni fa ho letto un magnifico racconto di André Gide, l’autore che più di altri mi ha fatto capire quanto grande sia il dono della vista. Il racconto è di una estrema delicatezza, ma pure di grandissima efficacia. Un pastore protestante, che é pure medico, visitando i fedeli della sua comunità si accorge di un’adolescente cieca che può essere curata e riavere la vista. La cura e la ragazzina ci vede.

A questo punto Gide diventa veramente insuperabile, facendo sentire al lettore l’ebbrezza infinita con cui questa adolescente scopre l’azzurro del cielo, le danze degli uccelli, il verde del giuncheto e le acque blu del mare. Il lettore pare che riscopra la bellezza del creato, o meglio che la scopra per la prima volta. Anche a me l’altro ieri è capitato di fare questa scoperta inebriante. Specie negli ultimi tempi non ho visto che il marciume di amministratori pubblici, di magistrati e di imprenditori a proposito del Mose. I miei occhi si sono riempiti dello squallore desolante dei nostri senatori, del loro comportamento squallido, dei loro discorsi inconcludenti, tutti tesi a buttare a mare una riforma attesa da quarant’anni, una litigiosità esasperata e faziosa. Questi stessi occhi han dovuto sopportare le manfrine dei sindacati, la lotta senza quartiere di una folla di dipendenti dell’Alitalia decisi a voler mantenere i loro privilegi impossibili, il carrozzone che in questi ultimi anni a causa di imprenditori avidi ed incapaci e di una folla di tre quattromila dipendenti in più che come unico compito avevano quello di percepire i lauti stipendi. (Infatti la nuova compagnia spero che potrà funzionare meglio senza questa inutile e pesante zavorra che ha affondato più volte la nostra compagnia di bandiera).

Su questo sfondo cupo e desolante poter vedere finalmente trentamila giovani scout dai volti freschi e puliti che, seduti per terra, ascoltano gioiosamente Papa Francesco, accolgono in maniera goliardica e scanzonata il giovane capo di governo con il fazzolettone scout al collo, accompagnato da Agnese, la sua giovane sposa, e con i due figlioletti pure scout accanto, sentire il capo di governo, e soprattutto il segretario di quel partito che per sessant’anni occupava le Botteghe Oscure sotto il simbolo della falce e martello, è stato per me un dono immenso.

A tutto questo si è aggiunto l’aver sentito le parole di Renzi, a cui è stata consegnata “la carta del coraggio”: «Siate i giovani che credono all’essere e non all'”avere”, siate non la speranza del domani, ma quella di oggi», è stata pure una delizia per le mie orecchie.

L’aver visto e sentito questi “miracoli” e queste meraviglie ha fatto rifiorire la mia speranza e la mia gratitudine al buon Dio.

09.09.2014

La nostra utopia non è una chimera

Penso che qualche parroco sia un po’ seccato perché questo vecchio “collega” ormai pensionato mette tanto spesso e con tanta decisione il naso non in una delle “cinque piaghe della Chiesa”, come Rosmini prima, e Martini poi, hanno denunciato, ma in qualche altra non meno grave. Mi riferisco al discorso su cui sono tornato innumerevoli volte, ossia la carenza di strutture e di servizi caritativi nelle nostre parrocchie.

Tante volte, con pochissimi risultati, almeno apparenti, ho scritto che la carità, o meglio la solidarietà – come io preferisco dire – è la cenerentola delle preoccupazioni e delle realizzazioni parrocchiali. Talvolta m’è venuto perfino da pensare che certe parrocchie che rifiutano “L’Incontro” lo facciano perché infastidite da queste denunce che il nostro periodico fa spesso a questo proposito e con estrema decisione. La giustificazione più frequente circa la mancanza di servizi sociali nelle parrocchie è addebitata alla carenza di mezzi economici da cui paiono afflitte da sempre certe comunità parrocchiali. A questa obbiezione vorrei ribadire ancora una volta che la carità cristiana non deve ritenersi – a mio umile parere – una passività a livello economico, ma una voce attiva nel bilancio parrocchiale.

Recentemente ho letto su “Gente Veneta” una relazione sulla nuova iniziativa fatta dalla Caritas della diocesi di Venezia con apertura di una mensa e di un dormitorio per i poveri a Marghera. Analizzando quello che c’è scritto sotto le righe dell’articolo, ho concluso che il peso economico che la diocesi deve sobbarcarsi, deve essere consistente e che probabilmente deve provenire dall’otto per mille di cui fruisce.

Scrissi che mi ripromettevo di visitare la nuova struttura, della quale la diocesi pare molto fiera, per accertarmi anche su questo aspetto non irrilevante. La dottrina che supporta tutto il Polo solidale del “don Vecchi”, fa sì che esso sia in attivo sia a livello globale che a livello delle quattro associazioni che lo compongono, più la Fondazione Carpinetum.

Questa dottrina presuppone che nessuno è tanto povero da non avere qualcosa da offrire a chi è più povero di lui. Da ciò nasce che assolutamente nulla viene offerto gratuitamente, ma ad ognuno è richiesto un piccolo contributo “offerta”, che poi viene usata per altri poveri.

Con simile dottrina ognuno deve rendersi conto che nulla piove dal cielo in maniera gratuita; non solamente, ma ognuno deve fare la sua piccola parte, seppur minima, per creare una città solidale il cui benessere diventi frutto dell’impegno di ognuno.

Con questa dottrina non solamente sono nati i cinque Centri “don Vecchi”, che mettono a disposizione degli anziani poveri quasi quattrocentocinquanta alloggi, ma ripeto che ognuna delle quattro associazioni, più la Fondazione, non solamente non pesano su alcuno, ma pure producono un certo reddito.

Alla prova dei fatti la nostra non è una chimera, ma una splendida utopia che, applicata in maniera più vasta, creerebbe una città solidale.

08.09.2014

Formule alternative

Avendo vissuto una vita intera da prete ed essendomi occupato principalmente di cose della religione, sono portato a notare e valutare i fenomeni, anche minimi e banali, che avvengono all’interno della Chiesa e della religione. Ultimamente ho posto la mia attenzione su due fenomeni estremamente marginali che certamente non compromettono assolutamente la fede, ma che a mio parere indicano un cambiamento di tendenza.

Quando è stata aperta la nuova chiesa prefabbricata del cimitero, l’impresa Pedrocco, che lavora i marmi in via Ognissanti, con estrema gentilezza e generosità, mi ha regalato il tabernacolo e l’acquasantiera. Abbiamo collocato l’acquasantiera di marmo rosso di Verona alla porta della chiesa, ma quasi nessuno ormai, entrando, pare intinga più le dita della mano per segnarsi col segno della croce. Talvolta mi dimentico di rimettere l’acqua benedetta, ma nessuno mai si meraviglia o me lo chiede, mentre i miei parrocchiani di un tempo me l’avrebbero fatto osservare come una cosa grave.

Secondo: nella vecchia cappella sono collocate delle ceriere sia elettriche che con ceri di paraffina. Mentre un tempo ogni settimana raccoglievo 15-20 scatole di ceri usati, ora non si raggiunge neanche il dieci per cento di quella quantità.

Mi fermo qui, ma potrei continuare col digiuno del venerdì, con il “perdon d’Assisi”, le veglie, le novene, i primi nove venerdì del mese ed altro ancora.

Mi ripeto che non è minacciata la fede per questi cambiamenti. Vi sono però degli aspetti della vita religiosa molto più importanti che mi pongono dei problemi seri, ai quali penso dovremmo cercare di dare una risposta. Anche per questo voglio fare due esempi. Nei miei trentacinque anni da parroco nella comunità di Carpenedo, parrocchia di antica tradizione, ma ancora viva da un punto di vista religioso, in tempi ormai un po’ lontani celebravo una novantina di matrimoni all’anno. Ora il mio successore, che è un parroco attivo e quanto mai zelante, mi riferisce che ne celebra appena una decina.

Non mi fermo ad analisi e motivazioni che sono complesse, ma concludo che il sacramento del matrimonio, così come era concepito e realizzato, è di certo in crisi.

Vengo ad altro sacramento, quello della confessione. Nel 1956, quando sono arrivato a San Lorenzo e nella ventina di anni che ci sono rimasto, al sabato in due, tre sacerdoti andavamo in chiesa alle tre del pomeriggio e confessavamo fino alle otto. Attorno al confessionale c’erano due code di fedeli che aspettavano il proprio turno anche per un’ora. Per non parlare per Natale e Pasqua.

In questi ultimi anni mi chiamano a confessare in parrocchia per delle celebrazioni comunitarie organizzate tre quattro volte l’anno, ma mai ho confessato per più di un’ora e mezza e più di una quindicina di persone.

Circa questi due sacramenti credo che il problema sia veramente grave e che si debbano trovare soluzioni diverse per raggiungere lo stesso risultato che si raggiungeva nel passato. In proposito avrei qualche idea, ma penso di doverci riflettere in maniera più approfondita. Mi auguro che anche altri ci pensino.

07.09.2014

Bravo Alfano!

Un tempo per far prendere coscienza che ognuno, al di sopra della propria fede, cultura e religione, deve farsi partecipe dei drammi del mondo intero e rendersi parte attiva per risolverli, si diceva che l’uomo deve essere “cittadino del mondo”. Oggi mi pare si sia abbandonata questa locuzione, ma la sostanzia non cambia.

E’ finita l’epoca delle piccole patrie, dell’arroganza nel ritenere il proprio Paese, la propria cultura e la propria religione migliore delle altre, è finito il tempo di appartarsi paghi della pace e del benessere della propria gente. Oggi tutti, o perlomeno gli uomini più aperti, si debbono sentire compartecipi e corresponsabili di tutto quello che avviene nel mondo intero.

Io confesso d’aver assimilato in modo profondo ed assolutamente convinto questa impegnativa, ma magnifica verità. Così come mi fa felice e mi offre entusiasmo e speranza la visione dei trentamila giovani scout che hanno scritto nei prati di San Rossore: “la carta del coraggio” e come mi fanno felice le folle sterminate che tanto frequentemente vanno a sentire la parola buona ed incoraggiante di Papa Francesco, altrettanto mi angosciano le guerre fratricide che oggi insanguinano tanta parte della nostra terra.

Talvolta sono perfino assalito da incubi notturni e da angoscia al pensiero e alla visione di tante rovine e di tanto sangue provocato in tante parti del mondo da uomini dissennati, avidi di potere, fanatici, irresponsabili, che coinvolgono e fanno pagare a creature innocenti il prezzo della loro follia e della loro spietata ferocia.

Pensavo che le mostruosità avvenute durante l’ultima guerra mondiale, che ebbero come truci protagonisti Hitler, Stalin, Mussolini e tutti i satrapi di secondo piano, avessero raggiunto il fondo insuperabile della follia. Invece no! oggi c’è perfino di peggio. Quando penso a quello che avviene in Siria, in Ucraina, a Gaza, in Libia ed ora in Iraq, provo un senso di desolazione, di smarrimento e di impotenza. Negli altri scacchieri c’è almeno qualche pretesto di nazionalismo o di interessi d’ordine economico che non giustificano niente, ma almeno sono compresi nell’avidità e nella sete di potere – antiche magagne dell’uomo – ma ora che si promuova una “guerra santa” (il termine stesso rappresenta una esecranda bestemmia contro Dio), che si pretenda oggi la conversione all’Islam con la forza, che si segnino le case dei cristiani per distruggerle, che si compiano le più grandi nefandezze in nome di Dio, è quanto di più mostruoso si possa immaginare.

Io che ho sempre condannato senza appello le crociate di cinque secoli fa, debbo essere vigile perché dal fondo del cuore sentirei la tentazione di sognare che i paesi cristiani, o solamente civili, promuovessero una crociata contro la barbarie.

Spero almeno che l’esempio di Alfano di espellere su due piedi l’imam di San Donà che predicava l’odio, valga per tutti i musulmani che vivono in Italia e siano espulsi anche se mostrassero solo la minima simpatia per i seguaci del califfo della morte e del’orrore.

06.09.2014

Avvisaglie

Non passa una settimana che da una parte o dall’altra non appaia Cacciari, il sindaco filosofo, a dire la sua. Cacciari, ben s’intende, è un uomo intelligente che non solo sa bene di filosofia, ma mastica bene pure la politica. Ho l’impressione però che gli operatori della carta stampata, della televisione e delle cose che riguardano il nostro bel Paese, lo considerino quasi un santone che sa un po’ di tutto e ha una sentenza per ogni problema.

Cacciari non si nega mai, anzi ho l’impressione che gli piaccia fare il padre nobile un po’ su tutto, ma in particolare su quanto concerne la nostra città. Per me, tutto sommato, è stato uno dei più bravi sindaci di Venezia dal dopoguerra in poi; è stato autorevole, sensibile alle problematiche sociali, bravo comunque a vendere la sua merce. Sarei felice se Venezia riuscisse a trovare un nuovo sindaco almeno come lui, anche se non sarà tanto facile.

Io spero che i politici, squalificati e con poco credito come lo sono attualmente, nemmeno tentino di proporre un primo cittadino cresciuto nelle loro file, ma cerchino altrove un candidato che almeno in partenza abbia un minimo di credibilità.

E’ pur vero che il sindaco dimissionario è stato una creatura di Cacciari e che le cose non sono andate bene anche prima del Mose. Cacciari ha capito che a Venezia sarebbe stato possibile fare un sindaco solo se godeva di un po’ di credito della sinistra e del mondo moderato. Ha fatto la proposta, ha imposto questa persona al PD e c’è riuscito; purtroppo l’incidente di percorso l’ha fatto cadere, comunque è stata un’esperienza poco riuscita perché Orsoni aveva una squadra rissosa e non è riuscito ad imporsi. Forse non aveva sufficiente personalità o mestiere.

Ora, a mio umile parere, non basta più neppure la formula proposta da Cacciari, bisogna che emerga un uomo assolutamente nuovo, non solamente non legato ad un partito, ma apertamente lontano da ognuno di loro, un uomo che abbia i piedi per terra, che abbia forte personalità, che abbia dato prova di saper governare un’azienda e che si sia dimostrato onesto nel suo operare.

Ho letto su “Gente Veneta” che il mondo cattolico sta muovendosi almeno per definire i tratti indispensabili per il nuovo sindaco e che si invita a pregare perché emerga un candidato idoneo. Da parte mia spero tanto che il cosiddetto mondo cattolico si limiti a pregare. D’istinto invece sarei portato a sperare che un imprenditore sano fosse disposto a sacrificare alcuni anni della sua vita per raddrizzare le gambe a Venezia, la vecchia matrona tutta piena di sé, ma ormai inconsistente.

Dicono che s’è fatto avanti uno che voleva comprare l’isoletta di Poveglia; spero tanto che non intenda comperare anche l’arcipelago di isole che compongono Venezia.

04.09.2014