Il gap pastorale

Che il mondo giri più rapidamente che in passato è certamente un dato incontrovertibile. Io sono ancora sufficientemente lucido da capire che sono fuori corso ormai da molti anni.

Un paio di anni fa è venuta da me una nipote intelligente e preparata che lavora in un’azienda importante, mentre io stavo impaginando “L’Incontro”.

Ho detto certamente ai lettori che la catena di montaggio del nostro periodico è assai complessa, lenta e laboriosa. Ma che molto dipenda da me forse non l’ho fatto per la vergogna di mostrare quanto io sia “arretrato”.

Le cose vanno così: io scrivo i testi a mano con la biro, la signora Laura li corregge ed inserisce in computer, suor Teresa li traduce in striscioline pari ad una colonna ed io ancora ritaglio le striscioline, le incollo su fogli già predisposti, uguali alle pagine del giornale. Quindi i tecnici esperti riportano il tutto nel computer e preparano le pagine perché possano esser stampate.

Torno alla nipote che, vedendomi fare questa operazione, mi disse sorpresa: «Ma zio, perché non fai tutto questo direttamente col computer? Risparmieresti tanto tempo!» Ho capito che aveva perfettamente ragione, ma soprattutto ho capito che sono assolutamente superato e soprattutto in arretrato perché non so usare il computer, cosa che oggi è assolutamente imperdonabile.

La tecnica, la scienza e pure il pensiero e la cultura oggi procedono velocissime. Tutti criticano l’Italia perché non investe di più sulla ricerca, sull’aggiornamento e perciò si trova in arretrato, non regge al mercato e risulta terribilmente superata.

Se questo discorso è purtroppo vero per me, lo è ancor di più per quanto riguarda l’aggiornamento e lo sviluppo della pastorale per le parrocchie. In questo settore siamo ancora all’età della pietra. Sono poche le persone intelligenti che hanno colto che questo gap ci danneggia in maniera irrimediabile col passare del tempo.

Ritorno alla lettura del volume sulla vita di monsignor Valentino Vecchi di cui ho parlato nel diario dei giorni scorsi. Ho letto questa mattina che nel progetto che monsignore venticinque anni fa ha presentato al patriarca Urbani, lui prevedeva fra l’altro l’apertura di una piccola tipografia per la stampa dei cosiddetti “bollettini parrocchiali”, ove ogni parroco poteva disporre di uno spazio specifico per le attività della sua parrocchia, mentre altri sacerdoti e laici qualificati avrebbero, in maniera competente, fatto un discorso di formazione e di nuova evangelizzazione.

Questa operazione avrebbe offerto periodici personalizzati alla propria comunità specifica e, oltretutto, con discorsi seri e ben fatti. Se poi ogni parrocchia avesse mandato ogni settimana il periodico ad ogni famiglia, il discorso sulla nuova evangelizzazione avrebbe cominciato ad essere un discorso serio. Il progetto non è andato in porto. Ora, se ogni parrocchia continuerà a produrre bollettini parrocchiali vuoti e deludenti, i discorsi sulla nuova proposta del messaggio di Gesù rimarranno una assoluta chimera.

“Fa’ ch’io veda!”

Già ormai da un paio d’anni mi sembrava che l’impianto di amplificazione sonora della mia chiesa del cimitero non funzionasse a dovere. Chiamai una ditta specializzata nel settore il cui esperto mi disse che si dovevano aggiungere altri due altoparlanti a metà chiesa. Lo feci. Furono aggiunti gli altoparlanti, ma la cosa non cambiò affatto. Chiamai un’altra ditta: mi dissero che doveva essere rifatto l’intero impianto perché per loro certe soluzioni moderne peggiorano piuttosto che migliorare l’ascolto. Non adottai questo suggerimento semplicemente perché era molto costoso. Infine chiamai un tecnico che conoscevo e stimavo molto perché, ai tempi di Radiocarpini, mi offrì delle soluzioni ottimali.

Si impegnò a fondo e riuscì a migliorare l’ascolto, ma a me pareva sempre che la mia voce, pur amplificata, risultasse cupa, incolore e sorda. Il guaio poi non era solamente quello di aver la sensazione che quell’impianto storpiasse la mia voce, ma mi rendeva anche più difficile e faticoso il parlare.

Sennonché qualcuno a cui chiedevo spesso di ripetermi il discorso perché io, non riuscendo a capirlo, pensavo che parlasse troppo piano e male, mi suggerì di sottopormi ad un esame audiometrico. Venne la sorpresa: nell’orecchio destro avevo un deficit del 50% e in quello sinistro del 75%. Mi prescrissero gli auricolari. La soluzione mi risultò poco gradita, da un lato per il costo di quattromiladuecento euro, e dall’altro per la sensazione di avere un corpo estraneo e di esser sempre in procinto di perdere questi auricolari. Tornato però dal medico, m’è parso che, per uno strano portento, la mia voce ai microfoni risultasse nitida, calda, quasi che l’impianto fosse migliorato del mille per cento.

Allora capii che l’inghippo non veniva dall’impianto, ma dal fatto che sono diventato sordo!

Una decina di anni fa mi capitò la stessa cosa per gli occhi. Una volta messomi gli occhiali, finalmente mi parve cambiato il cielo, la natura e le persone: tutto più luminoso e smagliante nei contorni e nei colori.

Qualche mattina fa mi è capitato di meditare su questo brano che trascrivo, che mi pare mi suggerisca di farmi fare una visita da parte di un padre spirituale o, meglio ancora, da Gesù stesso, perché ho paura che non sia il mondo e la vita che sono diventati più brutti, ma sia io invece a non riuscire a percepirla nel modo giusto.

Se qualcuno si trovasse nella medesima situazione, gli suggerisco di leggere il pezzo che trascrivo; può darsi che io e lui riusciamo finalmente a guardare la vita nel modo giusto.

Era primavera e con mia sorella volevamo vedere lo sbocciare dei fiori selvatici, uno spettacolo speciale di quella zona. Era una mattina di sole, ma la campagna era di un monotono grigio-verde. Mia sorella disse scherzosa: “I fiori più belli sono laggiù”. Guardai avanti: ancora niente. Ad un tratto fermò l’auto e invertì la direzione di marcia. Rimasi senza fiato! Davanti a noi c’era una distesa a perdita d’occhio di margherite arancioni, bianche e gialle. “Ci sono sempre state!” spiegò lei “ma sono come i girasoli. Chiudono la corolla di notte o col brutto tempo e quando splende il sole si girano verso la sua luce. Guidando fin qui potevamo vedere solo la parte grigia dietro la corolla”. Prima ero come cieco, ora posso vedere! Ho paragonato quest’esperienza al miracolo di Gesù, quando ridava la vista ai ciechi. Spesso vediamo solo gli aspetti monotoni o negativi della vita, andiamo da Gesù! Lasciamo che sia Lui a guidare il nostro cambio di direzione!

Evoluzione o involuzione pastorale?

Quando è uscito il volume di Paolo Fusco sulla vita e le opere di monsignor Valentino Vecchi e qualcuno me ne ha regalato una copia, vi diedi un’occhiata assai sfuggevole pensando “con lui sono vissuto così tanti anni, prima da studente e poi da cappellano, che non dovrei avere proprio nulla da scoprire di nuovo”. Così misi da parte il volume riproponendomi di leggerlo quando fossi stato un po’ più libero.

Il volume è uscito nel 2001, era il tempo in cui avevo presentato le dimissioni da parroco come esige il codice di diritto canonico. Poi ci fu un tiramolla perché il Patriarca e il suo vicario insistevano perché rimanessi ancora qualche anno avendo difficoltà a sostituirmi. Io allora ero pressato da due pensieri altrettanto gravi e angosciosi. Da una parte temevo che una comunità così complessa ed articolata finisse per implodere ed io dover assistere allo sfascio di una realtà che avevo tanto amato e per la quale mi ero veramente spremuto tutto. Dall’altra parte, essendo sempre stato un prete estremamente attento all’evoluzione così rapida del nostro tempo, temevo pure di non aver più la lucidità per interpretare i tempi nuovi e quindi di darne una risposta adeguata.

Comunque, nel trasloco da una “villa veneta” di parecchie centinaia di metri quadri, ad un quartierino di appena 49 metri, dovetti liberarmi di tutto quello che non mi era essenziale. Per i libri non potevo disporre che di un modesto armadio e perciò dovetti liberarmi di una biblioteca raccolta in cinquant’anni di vita e tra i tanti volumi ci fu anche quello sul mio vecchio maestro.

Me ne dispiacque, ma fortunatamente, proprio in questo ultimo tempo, me n’è stata donata un’altra copia che sto leggendo avidamente e con estremo interesse. In questi giorni sto rivedendo e pure scoprendo una documentazione di cui non ero in possesso e di cui non ero a conoscenza, circa il progetto pastorale cittadino che monsignor Vecchi propose al patriarca Urbani. Allora non se ne fece nulla perché Venezia, in tutte le sue articolazioni, ha sempre considerato Mestre come “una città di campagna” – come dicono, con un certo sussiego e sicumera i veneziani – ma ora sto constatando che c’è una involuzione ed una regressione veramente da far spavento da un punto di vista pastorale.

Il progetto di monsignor Vecchi, a più di un quarto di secolo, appare semplicemente avveniristico, mentre ora non solo non c’è progetto, ma neppure gli elementi base per poterlo sognare in futuro. Sto dicendomi: “Dove sono andati a finire l’AIMC, i Maestri cattolici, la Fuci, i Cappellani del lavoro, il Centro sportivo italiano, l’Associazione imprenditori, l’Azione Cattolica e tante altre realtà? Mi pare di dover constatare, con tanta amarezza, una involuzione quanto mai preoccupante.

Carità e solidarietà

Nota: come le altre, questa riflessione risale a svariate settimane fa.

L’altro ieri mi ha telefonato una giornalista de “La Nuova” per avere un parere sull’intervento sui questuanti del giovane parroco di Carpenedo, don Gianni Antoniazzi. Quello dei poveri è sempre stato un problema, ma ora con l’invasione dei poveri della Romania, della Moldavia, dell’Albania e di qualche altra nazione che se la passa male, il problema è diventato ancora più grave.

Per primo ha dato fiato alle trombe per segnalare il disagio che “l’azienda dei poveri” sta creando in città, don Fausto Bonini, il parroco dimissionario del duomo di San Lorenzo, denunciando l’invadenza e la prepotenza di questi giovani mendicanti che di certo fanno parte di un’organizzazione che li sfrutta. Ora sono pressoché scomparsi i poveri di casa nostra, rappresentati da persone minorate o in grave disagio mentale che la nostra società disinvolta, efficiente e spietata ha abbandonato sulla strada come “rifiuti di uomo”. Mentre è subentrato il “sindacato” dei poveri, organizzato, espertissimo in tutte le forme di mendicità che dall’insistenza giunge al ricatto e ad una certa “violenza”.

La stampa ha raccolto la presa di posizione, abbastanza insolita per un prete, e ne ha fatto oggetto di interesse pubblico. L’amministrazione comunale ha fatto le solite dichiarazioni fasulle e per nulla efficaci, e tutto continua come prima.

Il Comune, come sempre, se ne frega, specie ora che non ha più un sindaco. I vigili (mi dicono che Venezia abbia un esercito di quattrocento agenti) sono “impegnati” nei loro uffici e non gradiscono questo compito fastidioso che li costringe a lasciare le loro scrivanie e a stare per strada.

Come dicevo, il parroco di Carpenedo è intervenuto sul Gazzettino; la presa di posizione è rimbalzata da una pagina all’altra, ma penso che questi “poveri” abbiano capito che questi interventi assomigliano alle “grida” di manzoniana memoria, anche se non sanno che cosa siano “le grida”.

Dunque i giornalisti della “Nuova”, in costante ricerca di notizie, mi hanno telefonato, sapendo che sono uno dei pochi preti che tenta di avere idee piuttosto chiare e poi ha il coraggio di dirle pubblicamente.

Per quanto mi riguarda, mi rifaccio ancora una volta al pensiero di don Vecchi, mio maestro, che mi diceva: «Armando, se fai la carità ad un povero fai bene, se però questi soldi li destini ad una struttura per i poveri, ne aiuti molti e per molti anni, ma soprattutto risolvi i loro problemi». Non dimentico però il parere di una “Piccola sorella di Gesù” che, con discrezione, mi ricordava che anche un piccolo gesto è sempre un gesto di cortesia e di fraternità e perciò qualche spicciolo lo do ancora. Questo però lo faccio avendo alle spalle quattro associazioni di volontariato che ogni giorno dispensano vestiti, mobili, generi alimentari, frutta e verdura e che in un anno compiono quasi quarantamila interventi.

Non so però se le parrocchie e il Comune hanno un retroterra così solidale che conforti le loro coscienze.

La vecchia canonica

Qualche giorno fa don Gianni, il mio giovane successore nella parrocchia di Carpenedo, mi ha mostrato con un certo orgoglio i restauri che sta conducendo nella sua canonica.

Il nuovo parroco, a tre anni dal suo arrivo, ha affrontato in maniera radicale il restauro del vecchio edificio. La canonica di Carpenedo, addossata alla chiesa, risale al 1700, quindi è più vecchia di un secolo e mezzo della parrocchiale. La casa del parroco è un palazzotto che si rifà, ma in tono molto minore, alle vecchie ville venete. Sia al piano terra che al primo piano c’è un vasto salone sul quale si aprono le porte di quattro stanze. Nel sottotetto c’era il granaio, in cui i parroci depositavano “il quartese”, ossia il contributo che i parrocchiani, quasi tutti contadini, versavano per il mantenimento del parroco.

Quando io nel 1971 andai ad abitare in quello stabile, esso era veramente in malarnese. Alla struttura ordinaria dell’edificio i miei predecessori avevano apportato delle varianti secondo le loro necessità e i loro gusti, interventi che avevano abbastanza deturpato le linee originali assai ordinate e pulite. Comunque, a parte l’impoverimento della sistemazione della struttura, tutto era estremamente fatiscente. Ricordo che mio fratello don Roberto, e don Gino che poi diventò il mio cappellano, volendo ridipingere le imposte, consumarono un quintale di stucco per rabberciare alla meglio i balconi.

Nella fase iniziale della mia presenza dovetti pensare ad altro: al patronato che non c’era, all’asilo che era rimasto pressappoco quello del 1911, l’anno in cui fu costruito, al cinema, talmente malandato che tutti lo chiamavano “il peoceto”.

Anche per quanto riguarda il mobilio, esso era più che povero; quando infatti mi chiesero di fare il parroco di Carpenedo, non possedevo neppure un cucchiaio e neppure qualche lira per acquistarlo. Ricordo che caricammo sul furgoncino della San Vincenzo i mobili dell’appartamentino della signorina Rita, che aveva accettato di condividere la mia avventura pastorale come perpetua. I suoi mobili erano tanto pochi per arredare quell’edificio così grande che lei aveva definito “non una casa ma un municipio”.

Col tempo feci ripassare il tetto, costruire tutti gli infissi, rifare il marmorino dei muri esterni, i pavimenti che erano quasi tutti di tavole ormai marce per l’umidità. A me, allora, la canonica parve una reggia, tanto che quasi mi vergognavo di abitare in una casa così grande e così bella.

Come gli uomini, così i preti passano, mentre gli edifici rimangono e spesso hanno impressa qualche piccola traccia di chi li ha abitati. Mi auguro che anche la vecchia canonica di Carpenedo, ora diventata davvero una villa veneta, possa continuare queste storie di preti impegnati e in linea con i loro tempi.

Più vita agli anni

Io sto camminando molto velocemente verso gli 86 anni. Spesso mi chiedo su quanti anni di vita potrò ancora contare. Se ascolto i miei acciacchi mi rendo perfettamente conto che la macchina dà segni di stanchezza e di cedimento, però ho fortunatamente ancora intelligenza da capire che comunque il tempo è certamente poco.

In questi ultimi tempi, come ho già scritto, sto riprogrammando il mio impegno in rapporto alla mia età e alle mie forze, comunque rimane ancora una domanda di fondo: “Avrò davanti a me ancora tre, quattro anni di vita?”. Va bene che Nino Brunello, che viene a suonare il violino alla messa della domenica, ne ha 97 suonati e non ha neppure un esame fuori norma, ma lui è un’eccezione. Di uomini di quella vitalità credo ce ne siano uno su diecimila.

Ma il problema che ora mi pongo e che mi assilla è un altro, un problema a cui purtroppo nel passato non avevo mai pensato. Una trentina di anni fa, in una uscita mensile che facevamo con gli anziani del Ritrovo, siamo andati a Mantova dove si diceva che ci fosse un gruppo della terza età quanto mai efficiente. Infatti ci ospitarono, ci fecero da guida nella visita a quella splendida città dei Gonzaga e il responsabile di quel bellissimo gruppo di anziani, mi parlò dell’obiettivo che loro stavano perseguendo. Fu in quell’occasione che, per la prima volta, venni a conoscere questa specie di sentenza: “Finora abbiamo lavorato e ci siamo impegnati ad aggiungere più anni alla vita, ora è tempo che ci impegniamo a dare più vita agli anni”. Da quel che venni a sapere circa l’attività di quel gruppo, compresi che tutto tendeva a far si che i suoi membri – tutti della terza età – vivessero ancora una vita piena ed intensa.

Il primo obiettivo – più anni alla vita – è stato certamente raggiunto, almeno nei Paesi del nostro mondo occidentale. Infatti oggi un settantenne si considera quasi un giovanotto e solamente quando si è passato il varco degli ottantacinque anni si comincia a pensare e a considerarsi vecchi. Nei nostri Centri la media è di 84 anni, però vi sono parecchi residenti che hanno superato i novanta. Ammesso che il Signore, per la sua enorme generosità, mi concedesse altri cinque anni (però, ben s’intende, lascio a Lui fare le scelte che crede ed io Gli sono già enormemente grato per quello che mi ha già dato) la domanda che oggi mi pongo è: “Ma che cosa ne farò di questo spicchio di vita? Ha senso questo dono se non sarò capace di vivere questo tempo in maniera serena, lieta, positiva per me e per gli altri?”. La vita è bella solamente se si è capaci di viverla bene, di goderla, di coglierne tutto quello che in essa c’è di positivo e di gradevole.

Siano tanti o pochi i giorni che mi rimangono, spero di viverli comunque bene.

Sono nato scomodo

Sto leggendo da un paio di settimane, la vita di monsignor Vecchi. Al dottor Andrighetti, che sapevo che aveva pubblicato un volume sui pensieri, le prediche e le riflessioni di monsignor Vecchi, chiesi se me ne poteva regalare una copia perché mi piacerebbe pubblicare, almeno ogni tanto, qualcosa dei pensieri, dei progetti e dei sogni di questo prete al quale Mestre, a mio umile parere, deve molto.

Sono infatti convinto che la stragrande maggioranza dei miei concittadini conoscano questo nome, se non altro per i Centri per gli anziani che ho voluto dedicare alla sua memoria e che sono ormai una realtà universalmente conosciuta. Credo però che a trent’anni dalla sua morte pochi ricordino la sua testimonianza e il suo impegno per la città e soprattutto per la Chiesa di Mestre.

Sempre sulla vita di monsignor Vecchi, un altro volume, curato dal dottor Paolo Fusco, esimio e brillante giornalista di “Gente Veneta”, il settimanale della diocesi, è stato pubblicato col titolo “Valentino Vecchi – Inchiesta su un sacerdote, una Chiesa, una città”. Credo che tutti leggerebbero volentieri questo volume perché, tutto sommato, rappresenta il volto di Mestre dal 1961 al 1984, un periodo quanto mai significativo, agitato, ma pure importante per Mestre. Questa lettura mi fa riscoprire una stagione quanto mai significativa della mia vita, che un po’ l’affievolimento della memoria ed un po’ il tempo che passa veloce, avevano coperto con una fitta coltre di dimenticanza.

Confesso poi che il dottor Fusco ha fatto veramente un’opera certosina nello scandagliare non solo la superficie degli eventi che caratterizzano questo tempo e i suoi protagonisti, ma ha scovato pure molto nel profondo, portando a galla un’infinità di notizie e di situazioni di cui non ero assolutamente a conoscenza.

Leggendo questo volume ho scoperto che mentre io pensavo d’aver avuto una parte comprimaria in questa storia, la trama della vita di monsignore era molto più complessa; le problematiche sue e mie pensavo fossero di ordine preminentemente pastorali, ma ora scopro che molti progetti del mio vecchio parroco di allora spaziavano su ambiti tanto diversi e che la mia persona e il mio apporto sono stati abbastanza marginali. Mi scopro, in quella lettura, una volta ancora un sognatore con posizioni radicali sulle tematiche di fondo circa la vita, la società e la fede. Capisco che mi rendo scomodo e pure polemico a chi ambisce una carriera o ha dei progetti diversi dai miei, mi rendo conto che la mia presenza talvolta non deve essere proprio piacevole per il confronto con una personalità intransigente come la mia.

La testimonianza globale di monsignor Vecchi mi ha fatto certamente del bene. Spero che anche la mia, pur in misura minore, l’abbia fatto anche per lui.

Forza Matteo!

Credo che sia la prima volta, dal ’45 ad oggi, che la Cgil critichi un uomo del partito che, dalla liberazione in poi, è stato il suo fratello gemello e che Renzi, il segretario del partito di Togliatti, Ingrao, Longo e Pajetta, risponda a tono alla Camusso, segretaria di quel sindacato che non aveva mai staccato il cordone ombelicale dal partito della sinistra italiana.

Talvolta mi vien da pensare che Matteo Renzi, come Papa Francesco, abbia rotto l’incantesimo di organizzazioni che col tempo sono diventate come cariatidi, rigide e sacrali. Nei discorsi, negli atteggiamenti e nelle battute, pare che Renzi non abbia più nulla di quei capi di governo sussiegosi, impettiti, misurati nelle parole e nei giudizi, e che porti invece nella politica italiana e nei palazzi del potere un’aria scanzonata, un linguaggio disinibito che fa saltare tutte le regole del protocollo, della diplomazia; pare che porti dentro a questo mondo compassato della politica e del governo una ventata di giovinezza e di novità. Questo vale per il nostro Paese, ma più ancora per la vecchia Europa, saccente e prepotente più che mai.

Un giorno ho visto il nostro Matteo che, smessa la cravatta e il vestito buono, s’è versato addosso un secchio di acqua gelida per promuovere la campagna di informazione e di ricerca a favore della Sla. Mai avrei immaginato di vedere un capo di governo così scanzonato, così libero dai protocolli e dalla tradizione.

Non so se Renzi ce la farà a ridonare speranza, fiducia, ottimismo e voglia di sognare e di sfidare il destino cupo agli italiani, ma anche solamente il tentativo di farlo mi pare una cosa importante. Di Renzi soprattutto mi piace la disinvoltura, mi piace che non soffra di complessi, ma parli con coraggio e chiarezza, dica ad ognuno quello che si merita senza subire il complesso di rispettare certi “mostri sacri”, quelli che se si toglie loro i galloni e quell’autoritarismo o quella sfrontatezza alla Grillo, sono poveri uomini come tutti gli altri.

E’ vero che il nostro scout, ormai con i pantaloni lunghi, è un po’ sbruffoncello, ha la battuta sagace, si muove come un ragazzone ancora poco maturo, però rappresenta il positivo, l’ottimismo, la giovinezza, la speranza e la sfida. E questo non è poco, perché l’alternativa sarebbe purtroppo il ghigno, il sarcasmo, l’invettiva e l’ironia del comico sbracato, irridente e presuntuoso ancor più di Matteo.

Per me Matteo è ancora una speranza ed ogni sera perciò gli dico una preghiera perché essa non svanisca.

Una università diversa

Una quindicina di anni fa operava a Mestre un giovane frate antoniano che viveva nella parrocchia del Sacro Cuore in via Aleardi. Questo sacerdote aveva l’incarico di occuparsi dell’assistenza religiosa degli operai di Marghera. Il nostro polo industriale stava già allora sfaldandosi, ora poi è ridotto ad un cumulo di rovine.

I padri antoniani sono stati gli ultimi sacerdoti, seguendo la strada aperta da don Armando Berna, che han fatto dell’evangelizzazione degli operai di Marghera lo scopo principale della loro vita. Ebbene, fra questi c’era questo giovane frate, particolarmente intelligente, che aveva grande fascino sui giovani di Mestre.

In quel tempo, nella mia parrocchia di allora, avevo una quarantina di giovani della San Vincenzo, divisi in due gruppi, che ci facevano sognare e che rappresentavano la primavera dell’impegno caritativo della comunità cristiana. Essi allora subivano il fascino di questo giovane seguace del poverello di Assisi ed un giorno lo invitarono a parlar loro e ai loro amici sull’azione caritatevole della Chiesa. Partecipai anch’io all’incontro. Quel frate aveva veramente un fascino particolare, sapeva parlar bene,ma soprattutto entusiasmava quando parlava del servizio ai poveri.

Nel dibattito che seguì la conferenza, qualcuno gli chiese se era laureato ed egli, con disinvoltura affermò: «Si, mi sono laureato all'”università della strada”», riferendo le esperienze che i suoi superiori gli avevano fatto fare a favore degli ultimi. Quel “titolo accademico” mi impressionò alquanto capendo che i preti, ma non solamente, devono fare esperienze, vivere per i poveri, con i poveri e come i poveri. Parlare, anche in maniera forbita, sulla carità, può destare anche entusiasmo, però solamente l’esperienza concreta matura una sensibilità atta a capire, condividere e far proprio il dramma dei poveri.

L’altro giorno mi è capitato di leggere il decalogo dell’amore che passava sotto il titolo “La prova del mille”, scritto da madre Teresa di Calcutta, in cui venivano offerte dieci regole che sono la prova del nove della carità. La prima di queste regole afferma: “Mille discorsi sulla carità non valgono un’opera buona”.

Credo veramente, come diceva san Vincenzo, il fondatore delle “conferenze”, che solo salendo le scale dei poveri, sedendo nello squallore delle loro case, si matura alla vera carità. Don Ciotti in una sua intervista pubblicata recentemente, confessava che il suo vescovo, il cardinal Pellegrino, l’aveva nominato “parroco della strada”.

Oggi il nostro Papa Francesco pare che ci spinga un passo più in là quando ci invita ad andare nelle “periferie dell’uomo” e ce ne dà poi un esempio personale, quanto mai fulgido, con le sue telefonate, con le sue interviste ai “poveri della fede”, la sua vita di pontefice che ha abbandonato ogni sfarzo nel vestire, nel parlare e nell’agire, perché parlino solamente le sue scelte e i suoi gesti.

Per la Chiesa è ormai tempo di uscire dalle sue sagrestie, dai suoi campanili e dai suoi riti per essere solidale con chi soffre e con chi è solo e povero. E’ tempo di “scendere per strada”.

Preoccupazione esagerata

Qualche tempo fa è morto don Gelmini, dopo una lunga malattia ed una vicenda giudiziaria che purtroppo non s’è conclusa proprio a causa della sua morte.

Questo prete, essendo stato accusato da parte di giovani drogati che egli aveva accolto nella sua comunità, aveva chiesto al Papa di essere ridotto allo stato laicale perché voleva provare la sua innocenza da cittadino normale e non aver sconti o difese supplementari per essere prete. Già per questo, se non fosse per l’opera veramente colossale a favore della gioventù, penso che meriti la stima e il rispetto di tutti.

Ora, in occasione della sua morte, sono stato quasi costretto a riflettere e ad onorare una certa serie di preti e di laici che hanno subito condanne ed hanno sofferto dalla Chiesa, a causa della loro appassionata ricerca della verità, o per un amore veramente radicale al prossimo, oppure ancora per un bisogno profondo di aiutare la Chiesa a porsi sul solco della storia e a dialogare col mondo di oggi.

Io non ne conosco che alcuni di questi cristiani e preti progressisti, però essi sono delle personalità forti, coraggiose, aperte al dialogo e in ricerca di nuovi e più ampi orizzonti. Mentre altri preti, che si nascondevano dietro vecchi canoni o dietro una tradizione chiusa e sorda al mondo, han ricevuto solo onori. Non oso condannare la gerarchia, perché l’amore alla Chiesa che di certo li animava, forse li ha resi eccessivamente prudenti, o forse succubi della pressione della maggioranza, che è di natura conservatrice, però reputo che certe testimonianze cristiane di uomini che potranno anche aver fatto qualche sbaglio per eccesso di zelo, vanno recuperate e, come si diceva in gergo politico, riabilitate. Perlomeno vanno sottolineati gli aspetti nobili e validi del loro modo particolare di amare la Chiesa.

I miei amici mi permettano di fare alcuni nomi di persone che hanno sofferto dalla Chiesa, pur avendola amata in modo così nobile e alto da servirla nonostante essa sia stata tanto pesante nei loro riguardi.

A don Gelmini, apostolo dei tossicodipendenti, debbo aggiungere don Zeno, il fondatore di Nomadelfia, la città il cui unico codice di vita è l’amore evangelico. Don Zeno, venutogli a mancare l’aiuto di un benefattore insigne, pieno di debiti a motivo dei suoi “figlioli”, chiese pure lui la riduzione allo stato laicale per far fronte alle sue difficoltà e per non coinvolgere la Chiesa.

Come non ricordare il nostro conterraneo di Pellestrina, don Marella, che fondò a Bologna la città dei ragazzi, che mendicava sulla pubblica via per dar loro da mangiare, e che fu espulso dalla Chiesa per aver ospitato un amico scomunicato per le sue idee moderniste.

E ancora, come non onorare la memoria di don Mazzolari, confinato nella piccola parrocchia di Bozzolo ed impedito di predicare; o don Milani, confinato in una comunità di quaranta persone nell’alto Appennino.

Purtroppo nella Chiesa non sono pochi i preti coraggiosi, intelligenti ed aperti al nuovo, messi da parte mentre tanta altra gente mediocre ed allineata ha avuto una carriera facile. Purtroppo anche nella Chiesa spesso predomina la paura del nuovo che invece porta con sé il volto del Risorto.

Ferragosto con i fagioli

Ho un fratello che ha undici anni meno di me che è subentrato nella piccola bottega di falegname che mio padre ha aperto più di settant’anni fa. In realtà, pure mio fratello ha chiuso l’attività circa un anno fa a motivo di un incidente sul lavoro, dell’età e soprattutto della tassazione impossibile da parte dello Stato.

Luigi, si chiama così mio fratello. E’ un po’ all’antica ed ha quindi una certa considerazione nei miei riguardi perché sono ormai il vecchio di casa. Determinato da questa mentalità, mi telefona abbastanza di frequente raccontandomi le cose di casa e del paese, realtà che – non so se per pigrizia o per vecchiaia – trascuro alquanto.

La sera dell’Assunta mi ha fatto una delle sue solite telefonate chiedendomi, in maniera scherzosa – perché sa come la penso sul mito, o peggio l’idolo del ferragosto – che cosa avevo fatto di bello durante la giornata. Io gli risposi che la mattinata l’avevo passata nella splendida “cattedrale tra i cipressi” e il pomeriggio nel magnifico parco del “don Vecchi”. Allora mi raccontò il suo particolarissimo ferragosto.

In paese un signore possiede un bell’appezzamento di terreno che quest’anno ha completamente coltivato a fagioli invitando tutti i paesani interessati a raccoglierli “a parte”, ossia metà a chi li raccoglie e metà al proprietario del terreno. Quindi per ferragosto mia cognata, mio fratello e le due nipotine, una volta andati a messa come i buoni cristiani, han passato il resto della giornata a raccogliere fagioli. Alla sera si sono portati a casa 30 chili di ottimi fagioli freschi.

Il padrone del campo poi deve essere veramente un signore d’animo nobile perché, a mezza mattinata, ha offerto a tutti pane e soppressa e vino del Piave e a mezzogiorno, per chi voleva, offriva pure il pranzo.

L'”avventura agostana” di mio fratello mi ha fatto tornare in mente che quando ero ragazzino, specie durante la guerra, ho vissuto anch’io avventure simili, ma molto più amare e meno gratificanti. Ricordo che a quei tempi c’erano dei grossi proprietari terrieri che nelle terre “bonificate dal Duce” usavano lo stesso metodo, ma davano, a chi lavorava la loro terra, il terzo e perfino il quarto del raccolto. Mia madre, perché papà era in Germania, si portava dietro una decina di ragazzi in bicicletta per raggiungere, a dieci chilometri di distanza, la terra da lavorare. Coltivavamo granoturco, fagioli, olio di ricino e patate. Credo che per la mamma non fosse un’avventura ma un dramma, governare quella piccola ciurma di ragazzi indisciplinati, ma soprattutto non avvezzi al lavoro e a quel lavoro specifico.

Là non c’era merenda o pranzo, ma solamente una parca colazione seduti per terra all’ombra di un albero, quando eravamo fortunati di trovarlo. Ricordo che per certi lavori ci affidavano una coppia di buoi, però erano ben diversi da quelli della poesia “T’amo pio bove”, perché non erano né pii né obbedienti…

Comunque debbo a queste esperienze la coscienza di dovermi spendere al meglio in ogni cosa di cui mi occupo.

Due pesi e due misure

Già altre volte sono tornato su questo argomento, però penso sia doveroso ritornarci ancora perché lo ritengo un problema che siamo ben lontani dall’aver risolto.

Sento però il bisogno di fare un paio di premesse molto precise perché non nascano interpretazioni negative o equivoci che tornino a discapito dell’obiettivo che vorrei raggiungere.

Primo: io amo profondamente la Chiesa cattolica a cui ho dedicato tutta la mia vita e che ho tentato di servire con tutte le mie risorse. Secondo: ritengo che la Chiesa cattolica sia, tra tutte le confessioni cristiane e tra tutte le religioni, la comunità di credenti più fedele ai messaggi di Gesù e nel contempo la comunità che offre le risposte più adeguate ai bisogni e alle attese dell’uomo di tutti i tempi, ed ogni volta che ho parlato o scritto della Chiesa, l’ho sempre fatto per amore, mosso dal desiderio che sia sempre più fedele al messaggio di Gesù e sempre più a servizio dell’uomo.

Detto questo però, ho ancora la sensazione che manchi all’interno della Chiesa una giusta valutazione dell’importanza del confronto tra interpretazioni, proposte e progetti che tenda alla sua purificazione e al suo miglioramento.

Ritengo poi che non si sia ancora acquisita, come apporto positivo, ogni forma di autocritica, atteggiamento che permetterebbe la possibilità di criticare altre realtà per i loro errori o deficienze e nel contempo metterebbe in luce e darebbe la possibilità di correggere errori, deficienze che pur ci sono anche nella Chiesa, come in ogni organismo umano.

In questa mia umile riflessione oggi vorrei sottolineare un aspetto particolare: nella Chiesa non c’è ancora lo stesso trattamento tra chi forse può peccare per certe idee, proposte o progetti che possono essere giudicati dalla gerarchia progressisti, e quelli che invece possono esser giudicati conservatori.

Per rimanere nell’ambito del clero, non ho mai sentito che si siano presi provvedimenti per i preti che pensano e agiscono come se vivessero uno o due secoli fa, mentre si è sempre stati tanto attenti a chi è in ricerca, fa tentativi per aggiornare il pensiero cristiano e coniugarlo con la cultura e il progresso del pensiero che sono in costante evoluzione. Non mi è capitato quasi mai che certi preti cosiddetti progressisti siano chiamati a guidare comunità cristiane importanti, mentre sempre pare si cerchino persone prudenti, allineate, ossequienti e tranquille per questi compiti.

Anche nella storia più recente della Chiesa italiana vi sono preti intelligenti, generosi, appassionati, che sono controllati a vista, mentre vi sono dei “don Abbondio” codini, tranquilli, ossequienti e legati alle norme (che sono sempre in ritardo con la vita) che pontificano indisturbati.

Aiutare la Chiesa ad emanciparsi da questa mentalità e da questa prassi, penso sia una virtù e un segno di amore piuttosto che un peccato ed una mancanza di rispetto e di obbedienza vera ad essa.

23.08.2014

Ladri da “Don Vecchi”

Quando un luogo è affollato e c’è un continuo andirivieni di persone senza dei controlli attenti e rigidi, si usa dire che quel luogo è un “porto di mare”.

Credo che non ci sia definizione più precisa per definire la vita al “don Vecchi”. Nonostante dei miei cari ed intelligenti collaboratori mi abbiano, specie all’inizio, suggerito e pure invitato ad un presidio più attento e rigoroso, io ho sempre preferito che il nostro “villaggio di anziani” non abbia ponti levatoi, sbarre, chiavi di eccesso e controlli capillari. M’è sempre parso giusto favorire questo andirivieni di anziani, di famigliari, di amici, di operatori e di badanti. Per la gran parte della giornata la porta si apre automaticamente con la fotocellula e quando la fotocellula non permette l’aprirsi della porta, c’è un mondo intero che possiede le chiavi per farlo.

Io sono nato in campagna, la porta di casa era sempre aperta e quando ci si allontanava, la chiave la mettevamo sotto il tappeto. Al “don Vecchi”, per mia volontà, le cose vanno allo stesso modo. Tutto sommato c’è andata anche abbastanza bene. Molti anni fa un drogato del quartiere per un paio di volte ha trovato il tesoretto che i nostri anziani avevano nascosto sotto il materasso. Poi abbiamo avvisato tutti di non tenere i soldi in casa, se no peggio per loro. Pare che i residenti abbiano fatto tesoro di questo avvertimento.

Negli ultimi quindici anni per ben due volte però, nottetempo, hanno asportato la cassaforte della comunità che era in direzione. Credo che abbiano faticato tanto per trovarci dentro due tremila euro soltanto. Nuovo ordine alla direzione: non tenere mai soldi in cassa!

Sennonché l’altro ieri, dalle tredici e trenta alle quindici e trenta, mentre i residenti sono impegnati a fare il “pisolino quotidiano”, nuova incursione in direzione: scassinate due porte, messi a soqquadro tutti i cassetti, però anche questa volta per un bottino ben magro: cento, duecento euro di spiccioli e forse, se gli addetti ai lavori avessero inserito l’allarme che abbiamo collocato dopo il furto, non avremmo avuto neppur questo danno.

Quello che amareggia di più è che i ladri si sporcano le mani tentando di rubare a dei poveri vecchi che hanno le pensioni più modeste, perché questi sono gli anziani che accogliamo nei nostri Centri don Vecchi.

Don Gastone Barecchia, il famoso cappellano militare degli alpini in Russia, ormai centenario, che per quasi mezzo secolo ha fatto il cappellano nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia, ci diceva che in carcere erano quanto mai disprezzati quelli che rubavano nelle chiese, tanto che una delle offese più grandi che si facevano in questa prigione era “Sei un ladro da chiesa!”

Spero che d’ora in poi diventi pure un’offesa per i ladri, dire “Sei un ladro da don Vecchi”, perché qui è fin troppo facile rubare e anche se i furti sono pressoché inconsistenti.

22.08.2014

Oggi

Normalmente inserisco all’interno de “L’Incontro” degli inserti. Qualche settimana fa ne ho dedicato uno a Etty Hillesum.

Ho conosciuto questa ragazza ebrea olandese, travolta dalla tragedia dell’olocausto, morta, non ancora trentenne in uno dei peggiori lager nazisti, leggendo il suo diario che recentemente è stato nuovamente pubblicato. Confesso che gli scritti di questa giovane mi hanno offerto le riflessioni più umane e religiose che abbia mai letto in questi ultimi vent’anni.

Spendo due parole per inquadrare la storia e la testimonianza di questa ragazza che, partendo da una vita frivola e poco morale, incontra uno psicoterapeuta, se ne innamora, poi però, nonostante queste premesse e questo rapporto ambiguo, approfondisce il discorso religioso, arriva alla fede e la vive in maniera così profonda da diventare testimone di una religiosità veramente sublime che la portò a condividere lucidamente il dramma del suo popolo, immolandosi con esso.

Spesso vedo citare, sulle riviste più serie, pensieri di questa donna che a mio parere sarebbe opportuno conoscere meglio perché ha veramente molto da dare.

Torno all’inserto de “L’Incontro”. La Hillesum afferma: «Una volta vivevo sempre in una fase preparatoria di qualcosa di diverso, di grande e di vero. Ora questo sentimento è cessato, vivo pienamente; la vita vale la pena di viverla ora, oggi, in questo momento e se sapessi di dover morire domani direi: “mi dispiace molto, ma così com’è stato è stato bene”».

Questa riflessione mi ha costretto a riflettere perché capita anche a me di non vivere appieno quello che sto facendo, quello che sto vivendo; invece di viverlo come preparazione o come premessa del domani, di quel domani che scivola sempre più avanti come qualcosa di imprendibile e di evanescente, mi pare di capire che il dono della vita lo debbo cogliere oggi, anche se quello che sto facendo può sembrarmi banale e soprattutto che il suo valore sia dato dal sogno o dal progetto che sto rincorrendo e che quasi certamente finirò per rincorrere per tutta la vita.

Ho confidato ai miei amici che sto leggendo un libro di Fusco che racconta la vita di monsignor Valentino Vecchi, un prete che ho conosciuto, col quale ho condiviso molte avventure e molti progetti. Il volume di Fusco sta riportandomi alla memoria le mille imprese, le mille realizzazioni; infatti il mio vecchio parroco ha vissuto una vita molto intensa, ha realizzato tante opere, veramente colossali. Però che cosa oggi queste realizzazioni possono aggiungere di intensità, ebbrezza, gioia, speranza, al suo passato? Quasi tutti lo hanno dimenticato, chi abita le strutture che lui ha creato con tanti sacrifici, tante ansie e rischi, le da per scontate, neppure si domanda a chi deve questi doni. Così sarà certamente per me e per tutti. Se voglio esser saggio non posso far altro che accettare quello che la vita mi porge in ogni momento, spremere dal presente il nettare, la ricchezza per vivere una vita vera e non esser come Godot che attende, cerca e spera ciò che non arriverà mai.

21.08.2014

Fanatismo e indifferenza

In questi ultimi anni i mass media hanno giustamente messo in risalto il volto peggiore dell’Islam. A me, prete, verrebbe talvolta da invidiare le moschee strapiene di uomini che si prostrano col volto fino a toccare la terra per lodare il Signore, anche se lo acclamano chiamandolo con un nome diverso da quello con cui io mi rivolgo allo stesso Signore. Ma se poi comincio a pensare che quegli uomini si vestono di nero, si coprono il volto e commettono, in nome di quel Dio che pregano, i delitti più esecrandi, allora provo orrore per quella religione che non ha proprio nulla di sacro e religioso e si manifesta sostanzialmente peggiore di ogni forma di ateismo anche più radicale.

Il secolarismo occidentale, che sta lentamente soppiantando la religione cristiana, persegue, tutto sommato, valori che sono infinitamente più alti, più sacri e più umani di quelli dei praticanti più ortodossi dell’Islam.

I mass media ci passano ogni giorno le notizie più fosche e più disumane e ci mostrano le immagini più crudeli e meno immaginabili dei seguaci dell’Islam che stanno promuovendo il nuovo califfato.

I nostri benpensanti d’occidente si affrettano a dire che questi figuri sono i fondamentalisti dell’Islam ma che nel mondo arabo ci sono pure i moderati. Mi domando però dove sono, cosa fanno questi musulmani moderati per contrastare e condannare questa aberrazione della fede e della religione! Sì, ogni tanto si sente qualche timida voce da musulmani che vivono in Europa, dove non solo i governanti laici, ma pure i cristiani più lucidi e più ferventi si battono perché sia loro garantita la libertà di professare la loro fede e perfino si danno da fare perché abbiano i luoghi di culto necessari.

La medaglia di questo nostro mondo, come tutte le medaglie, ha due facciate: una è quella dell’Islam irrispettoso, settario e intollerante delle altre fedi, l’altra non è meno deludente e meschina. Riempiono questa faccia della medaglia i cristiani e il loro modo di professare la fede, le associazioni cristiane e i governi dei Paesi che si richiamano, come tradizione e come cultura, al cristianesimo rimangono indifferenti come se la cosa non li riguardasse.

Gli unici a muoversi finora sono stati Papa Francesco e gli Stati Uniti. Papa Francesco, che ha mandato aiuti ai cristiani perseguitati dalla ferocia dei soldati del nuovo califfato ed ha invitato i popoli del mondo a pregare e a fermare tanta ferocia e tanto settarismo che sono in realtà la negazione e la bestemmia più grave che la creatura umana può concepire; gli Stati Uniti, che però stanno contrastando il terrore con altro terrore, la violenza con altra violenza.

Purtroppo l’ONU, che dovrebbe far coalizzare tutti gli uomini e i governi di buona volontà, se ne sta zitto, e pure i vescovi, i preti e i cristiani stanno facendo le ferie e perciò non hanno tempo per pregare, creare opinione pubblica ed operare perché col dialogo ed ogni pressione non violenta si possa arrivare ad un rapporto più tollerante. Il fanatismo dell’Islam è esecrabile, però pure l’indifferenza dei cristiani è altrettanto ignobile e condannabile.

20.08.2014