I preti veneziani

Non sono mai stato troppo amante di frequentare “il palazzo” o la curia, nemmeno quando ero più giovane. Ora non lo sono anche a motivo dell’età. Ci sono stati tempi però in cui ho avuto un ruolo in certi organi istituzionali della Chiesa veneziana e penso di aver sempre ottemperato al mio dovere di parteciparvi e di farlo in maniera estremamente attiva, perfino troppo!

Adesso sono un osservatore attento, curioso e interessato alla vita del clero veneziano che, pur essendo molto ridotto, conta ancora quasi duecento membri. La mia attenzione si estende dagli ultimi arrivati ai più anziani che conosco molto meglio.

In una delle pochissime occasioni in cui il Patriarca è venuto al “don Vecchi” per un incontro sacerdotale, essendo io il “padrone di casa”, mi hanno fatto sedere vicino a lui. Più che un buon parlatore io sono un buon ascoltatore, ma essendo il Patriarca piuttosto riservato e di poche parole, pranzai piuttosto a disagio cercando con un certo affanno argomenti perché il pranzo non si riducesse ad un mortuorio.

In questa ricerca di dialogo chiesi al Patriarca genovese che cosa ne pensasse dei preti veneziani. (Ora mi pare che il clero veneziano sia abbastanza incolore e poco caratterizzato da personalità forti e particolari. Un tempo però era costituito da un repertorio molto diversificato). Il Patriarca mi rispose abbastanza asciutto che me l’avrebbe detto “fra un anno”. La cosa è finita lì perché non ho avuto altre occasioni per incontrarlo.

Oggi, appena aperta “Gente Veneta”, il periodico della diocesi, mi è balzata agli occhi una lunga lista di trasferimenti di preti da un incarico all’altro e, per una strana associazione di idee, m’è venuta in mente la battuta dell’anno scorso sulla qualità dei preti veneziani. Evidentemente, una volta conosciuti i preti, il Patriarca ha cominciato a porre in atto una sua strategia particolare per rivitalizzare la Chiesa veneziana che mi pare abbastanza appiattita, passiva e rassegnata. I nuovi incarichi, le rimozioni e i trasferimenti, mi sembrano molto consistenti a livello numerico. Mi auguro tanto che questi “rimescolamenti delle carte” abbiano buon esito.

Per Mestre di significativo c’è il cambio del parroco del Duomo, per il resto non mi pare ci sia un granché, soprattutto mi sembra di avvertire che sia scomparsa ormai completamente l’intenzione di dare volto ad un progetto pastorale cittadino ed unitario per questa città, che invece anela ad una sua autonomia, ad una sua specificità perché è notevolmente diversa da quella insulare.

In un tempo in cui c’è ancora in ballo un referendum per la separazione, questo orientamento mi preoccupa un po’.

Cambio al timone della Caritas veneziana

Il solito giornalista ben informato della curia, Alvise Sperandio, ha firmato questa mattina sul Gazzettino un trafiletto con varie notizie sui cambi di incarichi che normalmente avvengono con l’inizio dell’autunno nella Chiesa veneziana.

Ho letto con piacere una notizia che aspettavo da più di vent’anni: il cambio del direttore della Caritas veneziana. Monsignor Pistolato lascia la direzione e gli subentra un diacono permanente che ha appena ricevuto dal Patriarca l’ordinazione diaconale.

Monsignor Pistolato è ormai al vertice della Chiesa veneziana e perciò, molto opportunamente, il Patriarca l’ha sostituito con un uomo nuovo e con più tempo a disposizione. Mi pare ormai un luogo comune la constatazione che la permanenza di una persona, ad esempio un prelato, su un determinato compito, finisca per ingessare l’organismo a cui egli è preposto, mentre si spera che l’alternanza possa vivacizzare un organismo quanto mai importante all’interno della Chiesa, qual è la Caritas.

Io, non solamente perché da una vita mi occupo di questo aspetto vitale della Chiesa, ma soprattutto perché la gestione e la promozione della solidarietà, le ritengo importanti almeno quanto la catechesi e il culto, ho seguito sempre con molta attenzione questo settore della Chiesa; spesso ne sono stato pure un critico che ha tentato di pungolare e proporre, però con ben pochi risultati. Di certo sarà dipeso dal mio fare di inesperto, o forse anche da una divergenza di impostazione e di scelte ideali, fatto sta che attualmente nelle parrocchie l’organizzazione della carità langue quanto mai. Inoltre non mi sono mai accorto dell’esistenza di un progetto globale che metta in rete le varie iniziative rendendole quindi più efficaci nei riguardi dei poveri che hanno diritto di beneficiarne, e più capaci di esprimere il cuore della Chiesa veneziana.

Non conosco assolutamente il nuovo segretario della Caritas, non conosco le sue idee e i suoi programmi, comunque al più presto mi metterò in contatto con lui per fargli conoscere il “Polo solidale” del “don Vecchi”, per ricordargli che esiste una realtà chiamata Mestre, che la carità soprannaturale se non diventa operativa è pura aria fritta e soprattutto per chiedergli un progetto in cui tutte le realtà ed iniziative esistenti siano messe in rete facendo sì che le risposte alle attese dei poveri siano non solamente simboliche, ma reali.

Mi auguro che la conoscenza dell’esistente, delle forze in campo e dei bisogni della nostra gente, facciano sbocciare una sinergia che esalti questa dimensione della nostra Chiesa.

I vecchi e la Fede

In genere si pensa che la crisi religiosa investa soprattutto il mondo intellettuale e quello giovanile. Purtroppo le cose non stanno così.

Oggi pomeriggio mi sono recato agli Arzeroni ove sta crescendo molto velocemente la nuova comunità di anziani. A dieci giorni dall’apertura del “don Vecchi 5”, delle 64 suites per anziani ben quaranta sono state prenotate; è stato firmato il contratto di comodato gratuito e ogni giorno si avvicendano i furgoni che portano i mobili per arredare i nuovi alloggi per anziani “in perdita di autonomia”.

A questo proposito mi permetto di aprire una parentesi: lo si voglia o no, non è solamente dopo i settant’anni che comincia e cresce sempre più veloce il declino. Oggi va anche bene, ma ai tempi di Dante si pensava che la fase discendente della vita iniziasse al compimento dei 35 anni. Infatti l’Alighieri scrive nella Divina Commedia: “Nel mezzo del cammin di nostra vita…” e tutti i commentatori fissano il valico verso la vecchiaia attorno ai 35 anni. Comunque al “don Vecchi 5” ho trovato, si, i soliti deambulatori e le carrozzine, ma pure un contorno di figli, nipoti ed amici che, un po’ per curiosità di conoscere questa struttura assolutamente innovativa e un po’ per tirar su il morale dei loro anziani appena trapiantati, rallegravano con la loro presenza la grandissima hall d’ingresso.

Alcune anziane hanno approfittato per vantarsi di conoscermi ormai da una vita; altre, forse pensando di farmi contento, mi hanno chiesto se si faceva la messa. Comunque mi ha particolarmente colpito la presentazione che una giovane signora dal volto caro e pulito, mi ha fatto di sua madre: «Don Armando, le presento mia madre che è assolutamente atea». Sua madre non reagì più di tanto, anche perché era frastornata dalla novità e dall’andirivieni di tanta gente. Sembrava quasi che questa ragazza, certamente buona e religiosa, cogliesse al volo l’occasione perché un prete si prendesse a cuore la situazione particolare di sua madre.

Chiesi a questa anziana signora, per metterla a suo agio, dove abitava prima e che professione avesse esercitato. Mi rispose che per tutta la vita aveva fatto l’ostessa, vendendo “ombre” a quelli di via Pasqualigo. Il discorso è morto là perché non era certo il momento e il modo per affrontarlo. Mi auguro che la nostra testimonianza d’affetto e di attenzione nei suoi riguardi la possa aiutare a livello spirituale ad aprirsi all’amore del Padre.

Molti anni fa mi ero illuso che gli anziani accolti con amore nei nostri Centri facessero diventare il “don Vecchi” una specie di convento o di comunità religiosa. Ben presto però sono stato disilluso. La carità è un dono gratuito, non deve neppure a livello religioso aspettarsi dei ritorni. Incontrando la vecchia signora mi venne in mente un titolo, “Le chiavi del Regno” di Cronin, in cui si predica non solo l’assoluto rispetto per le scelte altrui, ma si ribadisce che “le chiavi del Regno” non le possiede soltanto la Chiesa.

Cercasi leader

Ho vissuto una vita intera facendomi sempre aiutare da volontari. Ho conosciuto quindi delle bellissime persone, uomini e donne di tutte le età che, mossi da principi umanitari o di religione, hanno dedicato il loro tempo e le loro competenze a favore del prossimo, da qualsivoglia difficoltà fossero afflitti.

Una decina di anni fa il mondo del volontariato, sia quello di ispirazione religiosa che quello laico, era il fiore all’occhiello del Nordest del nostro Paese. Non ricordo le cifre, ma so di certo che il numero di volontari dei vari settori nei quali erano impegnati era veramente enorme. Ora pare che ci sia qualche flessione, comunque il numero di cittadini, uomini e donne di tutte le età, è ancora veramente considerevole.

Qualche settimana fa ho riferito in una delle tante pagine di diario, che quando il cardinale Scola desiderò conoscere da vicino la realtà della mia vecchia parrocchia, ebbi modo di presentargli, in una memorabile serata, quasi quattrocento volontari impegnati nei settori più vari della vita parrocchiale. Anche attualmente, pur muovendomi io in uno spazio molto più ristretto, i miei volontari fortunatamente li posso ancora contare a centinaia. In genere sono persone care e generose verso cui nutro grande amore e riconoscenza. Senza di loro “Il polo solidale”, “L’Incontro” e i Centri don Vecchi dovrebbero chiudere o diventare realtà assolutamente inaccessibili ai poveri, mentre sono soprattutto loro che hanno bisogno e che noi vogliamo aiutare.

Per l’amore e la stima che nutro verso il volontariato, devo pur confessare che vi sono pure carenze, talvolta mancanza di motivazioni forti, talvolta mancanza di stile nell’operare, e più spesso ancora, purtroppo, una mentalità che li convince, essendo essi volontari, di poter essere meno fedeli agli orari, agli impegni e soprattutto ad esser cortesi verso un “prossimo” che, in verità, spesso lascia a desiderare e, più spesso ancora, ha comportamenti prepotenti, poco rispettosi e per nulla riconoscenti verso chi, senza alcun dovere specifico, tenta di aiutarlo.

Talvolta mi sono lasciato andare ad un’espressione un po’ colorita: “Conto solamente su un esercito di Brancaleone, disordinato, irrequieto e indisciplinato”. Comunque, nonostante queste truppe ben poco scelte, siamo riusciti e riusciamo ancora a realizzare e mantener vive delle bellissime imprese.

La nota più dolente in questa mia esperienza di vita è che abbiamo una estrema carenza di leader, di capi preparati, motivati e competenti. Mentre riusciamo a reclutare ancora un numero considerevole di volontari a livello di manovalanza o poco più, il mondo imprenditoriale non ci passa questo tipo di piccoli “capitani di industria”, pur in pensione, di cui il mondo del volontariato ha estremo bisogno.

Lancio ancora una volta un accorato appello perché “quadri” e dirigenti in pensione, dopo aver fatto una carriera nei settori più diversi, lo facciano pure con i volontari.

Preoccupazioni

Ho cominciato dalle medie a sentirmi ripetere che la storia è maestra della vita”, ma essendo la storia figlia della cronaca, pure la cronaca dovrebbe insegnare qualcosa a noi, gente del nostro tempo, così dovremmo imparare anche da questa una lezione di vita.

Mi rifaccio alle notizie che due o tre volte la settimana appaiono sul Gazzettino circa le manovre che si sono cominciate a fare per individuare quelli che dovranno governare il nostro Comune. Fin subito, dopo il fallimento dell’amministrazione Orsoni, che non è caduta solamente per l’incidente di percorso del sindaco, ma soprattutto per l’incapacità di chiudere il bilancio, ho pensato che per Venezia sarebbe una vera fortuna avere il commissario ancora almeno per due tre anni, per risistemare alla meno peggio questo carrozzone che fa acqua da tutte le parti, operando di bisturi per i tagli necessari perché il Comune possa sopravvivere per rendere più efficace la burocrazia elefantiaca che è diventata ormai un peso insopportabile per la città.

Qualche tempo fa, in occasione di uno dei tanti convegni perditempo per individuare le caratteristiche del nuovo sindaco, avevo auspicato che si puntasse su un imprenditore di successo il quale fosse il più lontano possibile dai partiti politici e che amministrasse con oculatezza, saggezza e decisione la grande azienda del Comune, che come tutte le aziende ha le sue entrate, ma anche le sue uscite, ma che come tutte le aziende serie deve far quadrare il bilancio, non deve avere esuberi di personale, deve eliminare gli sprechi, le spese inutili, deve poter licenziare i fannulloni, eliminare passaggi burocratici inutili, ma soprattutto non deve essere in balia dei sindacati e dei dipendenti.

Il sindacato non può continuare ad essere pagato dall’amministrazione, ma fatto da volontari oppure stipendiato dai suoi aderenti e deve agire collaborando, non ridursi ad un organismo pagato dai cittadini perché viva per piantar grane solamente.

I primi approcci dei quali ci ha informato la stampa, vanno esattamente nel senso opposto. Sono apparsi i nomi dei vecchi personaggi che non si sono mai misurati con la vita reale, ma sono cresciuti non dico all’interno dei singoli partiti, ma al seguito di certi capetti che per ottenere il potere sono disposti a tutto, perché non sono per nulla preoccupati del bene della comunità, ma soltanto dell’affermarsi della propria fazione.

Una volta ancora non mi resta che far mia la preghiera di don Zeno Saltini il quale si rivolse al Cielo con queste parole: “Angeli dalle trombe d’argento, suonate l’accolta di tutti gli uomini di buona volontà, voi che conoscete i nomi e gli indirizzi, perché si mettano assieme per servire il Paese e per non lasciarlo ancora una volta in mano ai parolai, ai ciarlatani e ai vendivento!”.

Scoperta tardiva

Penso che la gente non si renda conto delle grandi difficoltà che un prete incontra dovendo ogni settimana “predicare” alla comunità. Se uno si accontenta di fare un fervorino in cui ripete con parole proprie il racconto della pagina del Vangelo della domenica, magari facendo qualche considerazione d’ordine morale, la cosa non è impossibile, ma se un prete sente la responsabilità di passare una verità che morda, che dia dei dubbi ad un certo perbenismo imperante nella comunità dei fedeli, se sente il dovere di far crescere il cristiano, di impregnarlo di mentalità evangelica, allora le difficoltà crescono alquanto e diventa una vera impresa offrire ogni domenica qualcosa che desti l’interesse e metta in crisi la coscienza, passando qualcosa di già saputo e di scontato.

Scendo ad un esempio: questa mattina la pagina del Vangelo da trattare era quella che, nel gergo del mondo ecclesiale, è definita comunemente “la correzione fraterna”. Gesù insegna alla comunità che non si può rimanere indifferenti agli errori dei singoli, ma si deve invece aiutare il singolo a crescere e maturare in spirito evangelico e perciò offre un metodo che presuppone che l’intervento per correggere un errore – cosa molto facile che avvenga – sia sempre animato dall’amore e l’intervento per la correzione degli sbagli altrui sia graduale e progressivo, fino a coinvolgere direttamente l’intera comunità cristiana.

Ho cominciato quindi il sermone con due premesse assai convinte. Se Cristo fa giungere questo intervento, significa che la comunità a cui esso arrivava – e nel mio caso quella che stamattina gremiva la mia chiesa prefabbricata tra i cipressi del nostro cimitero – ne ha bisogno. Cristo non parla mai a vanvera e per niente, quindi tutti, o perlomeno molti, ne hanno bisogno e quindi devono sentirsi interpellati personalmente.

Secondo: ogni cristiano, vivendo in comunità, ha delle precise responsabilità verso i membri che la compongono, quindi non può rimanere indifferente agli errori suoi, ma neppure a quelli degli altri. Egli non può e non deve disinteressarsi degli altri.

Dopo queste due premesse ho tentato di proporre la verità che m’è è parsa più importante: il Padre ha mandato suo figlio non solamente perché ci aiuti a scoprire e a percorrere il sentiero che porta in Paradiso, ma per insegnarci a vivere, a cogliere la vita appieno come una cosa bella e preziosa, come un dono straordinario.

Ho quindi speso tutte “le mie cartucce” per affermare che diventa vero discepolo di Gesù chi vive una vita positiva e felice, chi è libero, giusto, pacifico, solidale e ricco d’amore.

Se il prete non riesce a passare in maniera pregnante questo messaggio, credo che sia un fallito perché Gesù ha affermato: «Sono venuto perché abbiate la gioia e la vostra gioia sia grande!».

Preti in pensione

Questa mattina sono stato a San Girolamo a celebrare le nozze d’oro di uno dei collaboratori più vicini e più determinanti nella bella avventura dei Centri don Vecchi: Rolando Candiani, il figlio del famoso pittore mestrino.

La chiesa di San Girolamo una volta ancora mi ha offerto quella atmosfera sacra e serena propria di un tempio che per molti anni fu ufficiato da un vecchio prete, antico stampo, don Artemio Zordan.

Questa celebrazione voleva essere una testimonianza di riconoscenza e di affetto verso Graziella e Rolando Candiani la cui vita e storia di questi ultimi vent’anni s’è mescolata ai miei sogni e pure alle mie preoccupazioni. La vicenda dei Centri don Vecchi è stata di certo una bella vicenda, positiva e riuscita, però in realtà non è stata una passeggiata su un sentiero coperto da petali di rose, ma carico di difficoltà senza fine.

Durante la celebrazione m’hanno sempre accompagnato la testimonianza di due sacerdoti: quella di don Artemio, cappellano storico di San Girolamo, prete all’antica, però capace di educare la gioventù del suo tempo, e quella di don Fausto, prete all’avanguardia che ha condotto fino ad oggi in maniera intelligente ed innovativa la bella parrocchia del duomo di San Lorenzo.

Un tempo si faceva il prete a vita. Oggi non più: è di certo una conseguenza della mentalità, a mio giudizio non sempre positiva, del sindacato che ha indotto pure la Chiesa ad allinearsi con la società, stabilendo – per me innaturalmente – una data per uscire dal ministero pastorale attivo.

Don Artemio, il vecchio rettore di San Girolamo, che di certo non brillava come innovatore, ha cresciuto generazioni di bravi ragazzi che lo ricordano con affetto e riconoscenza, e tra questi c’era pure, stamattina, Rolando, lo sposo che rinnovava il suo patto d’amore con Graziella dopo cinquant’anni di vita in comune.

La presenza di don Fausto, che a giorni abbandona l’apostolato attivo nel duomo di San Lorenzo, mi ha riconfermato nella convinzione che l’ottemperanza pedissequa alla norma che fissa a settantacinque anni l’età della pensione dei preti, è una solenne castronata che impoverisce la Chiesa veneziana, anche perché ho l’impressione che non vi sia un progetto illuminato per recuperare queste belle potenzialità.

Io ho conosciuto don Fausto ragazzino ai Gesuati, il mio rapporto con lui è sempre stato corretto, però dialettico e sano, per cui non sono mancate pure le divergenze che per me sono un fatto non solo naturale, ma pure arricchente.

Più volte ho ribadito che don Fausto a Mestre rappresenta la punta di diamante per la pastorale. Non conosco parroco più lucido nell’impostazione della comunità cristiana, più aggiornato nel cavalcare la sensibilità dell’uomo d’oggi, più capace non solo di interpretare, ma di dar risposta ai problemi dell’uomo. Il suo “licenziamento” per limiti di età e la mancanza di un progetto lucido per utilizzare questa sua esperienza, mi pare una vera carenza della Chiesa veneziana.

Una creatura ormai matura

La vita è un’esperienza sempre nuova, anche quando si vivono gli ultimi albori della propria esistenza. Mentre per la giovinezza c’è una folla di educatori che tentano di aiutare il ragazzo e poi il giovane, a crescere, ho invece la sensazione che ci siano pochi o nessun educatore che aiuti il vecchio a vivere in maniera lucida e serena il tempo del suo vespero e del suo tramonto.

Ripeto ancora una volta che la mia cultura in ogni campo, compreso quello dell’età senile, è molto limitata. Onestamente ho letto delle bellissime preghiere, messe in bocca a preti anziani, per chiedere a Dio saggezza, serenità, coraggio, equilibrio e comprensione, alcune delle quali ho pubblicato nel mensile “Sole sul nuovo giorno” e me le rileggo con gaudio interiore e profitto. Ho pure letto qualche articolo, però ben poca cosa in rapporto alle problematiche che interessano la terza e la quarta età.

La tecnica ha inventato protesi di ogni genere per le carenze fisiche: occhiali per la vista, protesi per i denti, auricolari per l’udito, deambulatori per le gambe, pace makers per il cuore, stimolanti per altri organi, ma per quello che riguarda le patologie psicofisiche, o meglio esistenziali degli anziani, mi pare che la cultura… sia piuttosto carente e quanto mai indietro.

Io mi sto muovendo a tentoni, talvolta goffo e talvolta maldestro, in queste sabbie mobili degli ultimi tempi, delle quali non ho conoscenza. Penso sia opportuno offrire la mia testimonianza sperando di essere utile, o perlomeno donare qualche elemento di confronto per la gente della mia età, ma di certo non mi avventuro neppure di un millimetro nel campo della tecnica. Sono assolutamente rassegnato, ho abbandonato le mie armi di fronte al computer e a tutte le diavolerie connesse ad Internet. La conquista più avanzata è stata quella del telefonino, però l’unica operazione che conosco è quella di telefonare, meno però quella di ricevere tutte le telefonate.

Vorrei invece fare qualche confidenza ai miei coetanei per quanto riguarda l’impresa dei Centri don Vecchi. So bene che sono l’unico a Mestre ad averla fatta, ma sono certo che pure altre persone di altre città ne hanno fatto di simili. Ho avuto un’intuizione circa la domiciliarietà dell’anziano, ho sviluppato l’idea con l’aiuto di tanti altri concittadini e ne è venuta fuori una bella cosa (almeno io ne sono convinto, ma ne ho avuto il conforto di molti altri).

I primi quattro Centri sono nati “a mia immagine e somiglianza”; mi sono arrabattato, ho spinto, sono sceso a qualche compromesso, però sono quelli che ho sognato. Per quanto riguarda il quinto, quello degli Arzeroni, le cose sono andate un po’ diversamente; ho di certo tentato di dare il mio contributo, ma la forma non è la mia, ma di altri.

Sto avvertendo quanto mi costa voler collaborare, pur cosciente di essere superato, di non dover premere più di tanto, di dovermi fidare dell’intelligenza e delle scelte altrui.

Passare da protagonisti a osservatori benevoli e positivi, m’è costata la fatica di Sisifo.

Il culto dei morti

Non ho la stoffa né la cultura per disquisire su come la civiltà di un popolo sia strettamente legata al culto dei morti. Però, da semplice “untorello” per merito di qualche nozione che ci viene dalle antiche necropoli, dalla storia greco-romana, da quella biblica o da quella cristiana, documentata dalle catacombe, posseggo una sufficiente documentazione per poter dire qualcosa su questo argomento. Per non parlare poi della seppur modesta frequentazione dei cimiteri monumentali delle nostre antiche città, o di quella ai più recenti cimiteri che la riforma Napoleonica ha voluto cinti di mura e collocati all’esterno dei centri abitati, ma più ancora sulla visita ai piccoli cimiteri del nostro Tirolo, tutti raccolti attorno alle chiese, così ricchi di poesia e di umanità.

Se poi mi rifaccio alle mie esperienze personali che mi vedono testimone dell’evoluzione degli ultimi sessant’anni di pratica sacerdotale a Mestre, mi posso permettere di affermare con sicurezza che c’è stato un affievolirsi costante del culto dei morti a Mestre.

Negli anni sessanta partivamo dal Duomo di San Lorenzo per accompagnare a piedi la salma in cimitero, con la croce che apriva il corteo funebre, seguito normalmente da dieci, quindici corone, con le botteghe che calavano le serrande al passar del corteo, la gente che si fermava, si toglieva il cappello e si faceva il segno della croce.

Per il giorno dei santi e dei morti già all’imboccatura di via Spalti, accanto alla chiesa del Ricovero, c’era una tal folla che si faceva tanta fatica a procedere.

In mezzo secolo quasi tutto è cambiato: trasporti rapidi con due tre automobili al seguito, chiese semideserte, pochi fiori, assenza assoluta di abiti da lutto e di lacrime. Tutto è assolutamente veloce, quasi il funerale sia una scomoda incombenza da risolvere comunque e al più presto.

Pure la visita alle tombe dei propri cari è diventata piuttosto rara ed imperano i fiori di plastica che si e no sono cambiati una volta all’anno in occasione dei “morti”.

Eppure sono convinto che il culto dei morti aiuti ad aver una visione più realistica della vita, le dia più giusto valore, soprattutto aiuti l’uomo a recuperare i messaggi di coloro che ci hanno preceduto e faccia sentire l’uomo meno solo, sentendo che può rifarsi sull’aiuto di chi è scomparso solo fisicamente, ma su cui può ancora contare. Il pensiero cristiano aiuta ad inquadrare il mistero della vita e della morte.

Ogni volta che, rifacendomi alla fede, affermo con convinzione che in fondo alla strada “c’è qualcuno che ti aspetta” o, meglio ancora “lassù c’è qualcuno che ti ama”, ho la sensazione che i fedeli, che in questo modo cerco di far riflettere sul grande dono della fede, tirino un sospiro di sollievo.

L’apostolato

Mi pare che nella Chiesa il primo punto del fronte che ha ceduto sia quello delle missioni. Il motivo che aggrava questo cedimento è che quel settore del fronte era tenuto dai corpi più forti, generosi e motivati, ossia dai missionari.

Ho sempre pensato ai missionari come ai volontari più generosi ed ardimentosi, quelli che hanno preso seriamente il monito di Gesù: “Andate, predicate l’Evangelo di Dio e battezzate nel nome del Signore!”. Ho sempre pensato ai missionari come a un corpo di élite, come all’avanguardia cristiana, gli arditi della Chiesa che sono capaci di passare la frontiera e portare il messaggio di Gesù in terre lontane. I missionari che ho incontrato nella mia lunga vita mi sono sempre sembrati i cristiani più belli, per la loro generosità, il loro coraggio e la loro capacità di lasciare la propria terra per portare il messaggio di Gesù a creature che vivevano “nelle tenebre”.

Ricordo che quando ero ragazzino si stampava una collana di brevi volumi di color giallo nei quali si raccontavano le stupende avventure dei missionari che vivevano nei paesi più abbandonati del mondo. Quanto mi hanno entusiasmato e fatto sognare quei racconti! Quando poi veniva in seminario qualche missionario a parlarci della loro vita, l’entusiasmo andava alle stelle.

Poi pian piano tutto si rabbuiò, si cominciò a discutere sull’opportunità del proselitismo, si cominciò a preoccuparsi, anche giustamente, di dover rispettare le tradizioni, la cultura di quei popoli, ci si preoccupò di non imporre, sotto il pretesto missionario, il tipo di civiltà occidentale, e cose del genere.

Non è che gli ordini religiosi abbiano chiuso con l’esperienza missionaria, però mi pare che non ci sia più quel fermento, quell’entusiasmo verso le missioni e i missionari che un tempo erano presenti nelle parrocchie.

Ricordo che una quarantina di anni fa in parrocchia aiutavamo un’anziana missionaria più che ottantenne che avevamo denominato “la vecchierella di Dio”, che ci parlava con tale entusiasmo della sua gente di terra d’Africa, dei battezzandi, dei suoi poveri, che veramente destava un interesse quanto mai vivo tra i miei parrocchiani. Oggi questo non capita di certo.

Un altro settore della frontiera cristiana che mi pare sia in grave sofferenza, è quello dell'”apostolato”. Quando ero ragazzino e facevo parte degli aspiranti dell’Azione Cattolica, i miei sacerdoti ed educatori non facevano che parlare del dovere di “conquistare” i compagni sbandati e lontani dalla Chiesa. Crescendo poi, leggendo l'”Adesso” di don Mazzolari, mi nacque nel cuore l’assillo di preoccuparmi e farmi carico degli “ultimi”, e tra questi non c’erano solo i poveri e gli infelici, ma anche coloro che s’erano allontanati da Dio. Mi è sempre rimasto nell’animo il dovere e pure il bisogno di far giungere la proposta cristiana anche ai “lontani”.

Ora la Chiesa parla, sì, della nuova evangelizzazione, ma mi sembra un discorso accademico e fuori dalla vita reale.

Il testamento

La Chiesa prescrive ai parroci di far testamento. Nel 1971, quando sono diventato parroco di Carpenedo, il vicario generale della diocesi me l’ha ricordato ed io, da parroco neofita, l’ho fatto, anche se non avevo assolutamente nulla di cui disporre e da lasciare.

Più volte ho scritto delle condizioni di assoluta indigenza in cui mi trovai quando mi chiesero, nei tempi turbolenti della contestazione, di prendere in mano il timone di una comunità che nel settantuno si trovava nell’occhio del ciclone. Ho pure scritto che il giorno dopo l’ingresso in parrocchia una commissione di giovani mi venne a chiedere di sospendere la messa festiva delle dieci per fare un’assemblea pubblica per dibattere i problemi della chiesa.

Il mio trasloco fu quanto mai spartano, caricai le poche e povere masserizie dell’appartamentino della “signorina” Rita, che accettò di diventare la mia governante, sul vecchio furgoncino della San Vincenzo ed arredammo alla meglio un paio di stanze della canonica.

Comunque la curia è più furba di quanto non sembri: mi fece sottoscrivere una polizza con “La Cattolica” per assicurarsi di venire al coperto di eventuali danni al patrimonio che avessi provocato.

Uscito dalla parrocchia una decina di anni fa, dopo 35 anni da parroco, sentii di dover rivedere il mio testamento perché avevo delle responsabilità verso chi mi aveva aiutato e s’era fidato di me. La vita però corre veloce e le situazioni cambiano più velocemente ancora, quindi un paio di giorni fa, pur con qualche disagio, ho tirato fuori la cartellina blu su cui c’è scritto “Testamento”.

Ho riletto il testo, che dieci anni fa ho vergato, con un certo disagio ed una certa trepidazione e ho compreso che, a parte l’introduzione – allora c’era un po’ l’abitudine di fare “un testamento spirituale” – i contenuti erano davvero superati. A quel tempo avevo il progetto del “Samaritano”, la casa per ospitare i famigliari dei degenti dei pazienti dei nostri ospedali, progetto che era soprattutto legato a quello del direttore della ULSS, dottor Padovan, che sognava il Centro Protonico per curare i tumori, ma sopra al quale Zaja aveva messo una pietra tombale (mentre proprio stamattina ho letto che nella regione a statuto speciale di Trento ne è stato inaugurato uno che servirà solamente ai trentini).

Mi avvio verso gli ottantasei anni, di acciacchi ne ho avuto più di uno ed avverto quindi lucidamente che è giunto il tempo di prepararsi per partire. Con questo non è che io voglia mettermi in poltrona, ma desidero lasciare le cose in ordine. Ho quindi riletto il testamento, l’ho adeguato alla nuova situazione e, una volta ancora, ho pensato di aiutare gli anziani in difficoltà. Il nuovo clima della Chiesa, la nuova sensibilità entrata nella coscienza dei cristiani circa il bene e il male, circa quello che ci aspetta, mi hanno rasserenato alquanto per cui ho pensato alle ultime cose con molta serenità.

Scrivo tutto questo perché spero che questa testimonianza di fiducia nel buon Dio possa aiutare anche il mio prossimo.

Il medico e il prete

Ho già ripetuto più volte che almeno i tre quarti della mia attività di prete sono costituiti attualmente dal suffragio cristiano: anniversari, commemorazioni, funerali. Anche quando commento il Vangelo nei giorni feriali e in quelli festivi, celebrando in una chiesa le cui pareti confinano col campo ove attualmente si seppelliscono i morti e dalle cui finestre si vedono campi di croci, qualsiasi argomento io debba trattare, rimango sempre condizionato dall’ubicazione della mia “cattedrale tra i cipressi”.

Qualche giorno fa ho celebrato il commiato cristiano di un vecchio medico di Mestre del quale era abbastanza noto, se non l’ateismo, almeno un notevole scetticismo riguardo la Chiesa e la fede. Questo fatto mi ha condizionato abbastanza, tanto che mi sembravano poco adatti gli schemi a cui spesso sono costretto a rifarmi. La morte e l’aldilà presentano purtroppo fatalmente le stesso problematiche, motivo per cui non c’è molto spazio ideale sul quale impostare il discorso.

Mentre mi arrovellavo, non tanto per trovare immagini ed argomenti con i quali far bella figura, ma per approfittare dell’occasione per fare una catechesi efficace ai molti presenti che appartenevano al mondo della sanità, emerse dalla mia memoria un vecchio ricordo di molti anni fa che quasi mi si impose e mi costrinse a riflettere su quello che un medico ed un prete rappresentano nella vita e nella società.

Un giorno molto lontano stavo uscendo dalla cappellina ottocentesca su cui sbocca la vecchia entrata del camposanto, quando incontrai il dottor Caprioglio, il padre del famoso architetto di Mestre, Gianni, e del medico di oculistica, Giancarlo. Probabilmente aveva fatto una visita alla tomba di sua moglie. Conoscevo bene questo pediatra appunto perché padre dei due ragazzini che avevo incontrato a San Lorenzo più di mezzo secolo fa e che sono diventati, col passare degli anni, due ottimi professionisti. Credo che questo dottore abbia curato, assieme al dottor Montesanto, i bambini di tutta Mestre. Era una persona semplice, buona e veramente credente.

Incontrandomi appunto sul vialetto, scambiammo qualche parola di circostanza, quando lui mi disse: «Fortunato lei, don Armando! Vede, nonostante tutti i miei sforzi, i miei pazienti finiscono prima o poi per morire, ed io finisco per essere sconfitto, mentre lei risulta sempre vincitore perché i suoi pazienti prima o poi ottengono la vita nuova e migliore che lei va insegnando.»

Anche il famoso Camus, nel suo splendido romanzo “La peste”, tratta lo stesso argomento; infatti nel racconto sono coprotagonisti il prete e il medico nella città assediata dal morbo letale. In realtà Camus, tutto sommato, da non credente ha uno sguardo di simpatia per il laico, pur lasciando intravedere che l’alternativa all’opera e al messaggio del medico, rimane il sacerdote.

Questo ricordo m’ha fatto bene perché senza boria e, meno ancora, euforia, ho pensato che il buon Dio mi ha assegnato la parte del vincente.

Il “portafoglio clienti”

In passato ho sempre inviato al mio vescovo i periodici della parrocchia, non certo per farmi bello della sua vitalità, che mi costava alquanto, ma perché mi sembrava giusto che il superiore venisse a conoscenza di quello che pensava uno dei suoi sacerdoti e di quello che avveniva in una delle tante comunità della Chiesa di San Marco della quale egli era primo responsabile.

Il cardinale Angelo Scola, appena entrato a Venezia, leggendo l’organigramma della parrocchia che ogni anno viene pubblicato nella rivista mensile Carpinetum, rimase incuriosito e dopo pochi mesi dalla sua presenza in diocesi, mi chiese di fare una “visita privata” alla parrocchia. Venne, vide e si rallegrò alquanto della complessità e dell’articolazione della vita parrocchiale.

Non molti mesi dopo fece anche una visita pastorale, in maniera ufficiale, alla nostra comunità. Celebrò nella chiesa, naturalmente assai gremita, e dopo la celebrazione lo invitammo nella Sala dei 300, presso il Centro don Vecchi, ove il gruppo “Insieme” preparò un rinfresco coi fiocchi.

In quell’occasione il Patriarca superò se stesso, si offrì a tutti, colloquiò con i responsabili di tutti i gruppi facendosi fotografare assieme ai componenti di ognuno di essi.

Ora sento il dovere di giustificare questo discorso. Al Centro ho riempito un armadio di tutte le pubblicazioni che ho fatto durante i trentacinque anni in cui sono stato parroco a Carpenedo e ogni tanto, specie quando sono più stanco o quando avverto più nostalgia per la vita in parrocchia, tanto più variegata e vivace di quella che conduco ora al “don Vecchi”, mi capita di estrarre qualche volume a caso in cui sono state raccolte queste pubblicazioni e mi lascio andare ai ricordi del passato, ricordi di realtà che mi sono quanto mai costate, ma che ora mi ritornano alla memoria avvolte in una cornice di nostalgia e di dolcezza.

Qualche giorno fa ho estratto un volume nel quale sono raccolti i numeri di un paio di anni della rivista ufficiale della parrocchia, il mensile Carpinetum, in cui è documentato fotograficamente questo incontro col Patriarca nella Sala dei Trecento. Da un lato mi ha destato commozione e nostalgia il volto di tanti collaboratori cari e generosi – quella sera col Patriarca ce n’erano quasi quattrocento – e dall’altro lato mi è stato di molto conforto l’aver lasciato al mio successore un “portafoglio clienti” assai consistente. Non so se chi è venuto dopo di me sia riuscito a farne di nuovi, so purtroppo che più di qualcuno dei vecchi si è perduto.

Nozze in villa

Nota: come le altre, questa riflessione risale a svariate settimane fa.

Essendo titolare della chiesa del cimitero di Mestre, mi capita piuttosto raramente di “celebrare delle nozze”. In verità in questi ultimi dieci anni, da quando faccio il prete da pensionato, mi è capitato perfino due volte di celebrare, una volta le nozze d’argento ed un’altra i trent’anni di matrimonio, di una coppia di sposi. In tutti e due i casi si è trattato di fedeli abbastanza originali, piuttosto anticonformisti e non timorosi della jella. Ben s’intende l’ho fatto durante due messe normali, senza banchetti rossi e senza la marcia nuziale di Mendelssohn.

Di matrimoni normali ne celebro ormai due, tre all’anno, e sempre si tratta di qualcuno dei miei ragazzi o figli di giovani che ho sposato quaranta, cinquant’anni fa.

Quindi per me ora celebrare un matrimonio è un avvenimento molto raro, tanto che mi emoziona alquanto.

Un tempo, specie una ventina di anni fa, ne celebravo perfino una novantina all’anno, ma ora forse si raggiunge questo numero soltanto sommando quelli di tutte le parrocchie di Mestre.

Essendo di natura un po’ romantica, m’ero fatto una certa fama, per cui la richiesta mi veniva anche da giovani fuori parrocchia, con grande stizza dei relativi parroci che non solo per i matrimoni, ma pure per il catechismo, i battesimi, le messe ed altro, mi consideravano poco rispettoso dei confini e dei loro “diritti”.

Ora per me celebrare le nozze è un avvenimento particolare. Questo pomeriggio ho sposato due ragazzi in una cornice da favola. Lo sposo, avvocato di grido, non solamente è cresciuto nella mia comunità, ma avevo pure celebrato le nozze dei suoi genitori, mentre la sposa, pure lei avocato affermata, appartiene anche lei ad una famiglia cui sono legato da molti anni da rapporti di amicizia e d’affetto.

Questi ragazzi, nonostante abbiano superato i trent’anni, sono rimasti legati alla tradizione e quindi non han voluto solamente le nozze all’altare, preparandosi seriamente alla celebrazione di questo sacramento, ma han pure desiderato una cornice romantica scegliendo per il sacro rito la bella villa dei conti Marcello-Franchin sul Terraglio. La chiesetta, restaurata di recente e veramente deliziosa, posta accanto alla villa padronale, è immersa in un enorme parco di prato verde e di alberi secolari. La cornice era un po’ mondana perché il centinaio di invitati apparteneva alla medio borghesia, comunque non ha per nulla sommerso il clima spirituale della celebrazione.

Io sono per natura per le cose sobrie, però confesso che m’ha fatto piacere e m’ha commosso questo rito sentito e vissuto con estrema serietà, nonostante la cornice romantica. Non capita spesso di ritrovare atmosfere così care e cariche di sentimento e di tradizione.

Le sorprese di Dio

Non so se sia un fenomeno tipico della vecchiaia, oppure sia un qualcosa che fa parte della nostra natura e della nostra vita, il fatto che un discorso, un evento che hai vissuto e sperimentato tante volte, ti appaia sotto una luce diversa e ti offra un bellissimo frutto che non hai mai colto fino a quel momento.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere durante la santa messa, un episodio arcinoto dell’Antico Testamento. Narra infatti la Bibbia che un certo Naam, abitante della Siria e funzionario di alto livello, fu colpito dalla lebbra. Un ebreo suggerì allora al suo re di mandarlo in Israele ove c’era un profeta che lo poteva guarire. Ci andò, accompagnato da grossi doni da fare al profeta. Questi, dopo qualche precisazione, gli disse che Dio lo poteva guarire, ma che comunque lui ne era solamente un suo strumento. Infine però gli prescrisse di bagnarsi per sette volte nelle acque del fiume Giordano.

A me sono sempre sembrati strani questi tipi particolari di ritualità, comunque a Naam parve che la prescrizione di Eliseo fosse fin troppo semplice, scontata e perfino banale perché si era immaginato che l’intervento del profeta dovesse essere più complesso. Stava quindi per andarsene senza essere guarito. Fortunatamente per Naam un servo “gli apre gli occhi” e lo incoraggia a provare questa soluzione e la guarigione arriva.

Tantissime volte in passato avevo letto questa storia un po’ strana, come una dei tanti strani eventi e comportamenti dell’Antico Testamento. Ma questa volta “si sono aperti anche a me gli occhi” e m’è parso di scoprire in questo evento una grande verità di cui devo sempre tener conto. Quante volte crediamo di non ricevere il bene da Dio solamente perché Egli non arriva sotto la forma che noi ci aspettavamo. Da sempre mi è stato insegnato che il cuore della fede è fidarsi sempre e comunque di Dio, qualsiasi sia il modo col quale Egli voglia aiutarmi. Mentre sarei anch’io portato a vedere e ringraziare il Signore solamente quando mi si presenta secondo i miei schemi mentali e secondo le mie convinzioni.

Il popolo ebraico aveva come forte e unica speranza l’avvento del Messia e quando il Messia finalmente arrivò, non lo riconobbe e non lo accolse perché non si era presentato secondo le sue logiche e il suo modo di attendere.

Gli interventi di Dio, sia che Egli li presenti con benevolenza, o viceversa, sono sempre a mio favore perché Dio rimane sempre fedele alla sua promessa. E’ intelligente e saggio chi è sempre pronto ad aprire la mente e il cuore al bene, qualsiasi sia la forma con la quale Egli li offra, fosse perfino la malattia e la morte.