Dio, il Vescovo e Pannella

Domenica scorsa la predica si incentrava sul racconto dei due figli invitati dal padre a lavorare nella sua vigna. Il primo si rifiutò ma poi, avendoci pensato sopra, andò a lavorare; il secondo invece, disse di si, ma poi, svogliato, finì per non andare.

Mi collegai alla domenica precedente la cui parabola verteva sulla storia del padrone che dal primo mattino fino al vespero inoltrato uscì per ingaggiare operai per la sua vigna. Mi venne immediata l’applicazione, per nulla tirata, che il Signore vuole coinvolgere gli uomini di ogni tempo per realizzare il Regno, cioè creare un mondo nuovo nel quale ogni essere possa vivere in pace, felice, rispettato e ad ognuno non manchi il necessario sia per la sua vita materiale che per quella spirituale.

Mi tornò facile ribadire che ognuno deve ritenersi onorato di collaborare con Dio per creare una società migliore. Dal modo in cui l’assemblea ha ascoltato il messaggio, m’è parso che l’impatto con le parole di Dio fosse positivo e che ognuno avesse capito che non possiamo pretendere una società nuova e migliore se non aderisce all’invito di Dio ad impegnarsi personalmente.

La domenica successiva, ossia la scorsa, m’è parso che questo invito si rivolgesse ad ognuno in particolare e che soprattutto Gesù chiarisse chi in realtà può ritenere che la sua adesione sia reale, e non formale come quella del secondo figlio, cioè quello che disse di sì e poi non andò alla vigna. M’è parso che il discorso di Gesù sia stato tradotto in maniera molto esplicita da sant’Agostino quando afferma che ci sono figli che Dio possiede e la Chiesa non possiede ed altri che la Chiesa possiede (perché tantissime volte, durante la loro vita religiosa hanno fatto chiare e lucide professioni di fede che in realtà non hanno praticamente mantenuto) e quindi “che Dio non possiede”.

Sentii di dover ribadire ancora una volta che i riti, le preghiere e le pratiche di pietà sono un mezzo per diventare operai del Regno e perciò non possono essere fini a se stessi e di conseguenza non possiamo illuderci che essi possano diventare la risposta che Dio ritiene valida per essere considerati “operai del Regno”.

Fin dal primo momento in cui cominciai a riflettere sulla parabola di Gesù per preparare il sermone della domenica, mi venne in mente un esempio fin troppo evidente. Dissi: «Marco Pannella, il leader dei radicali che da sempre va ribadendo il suo ateismo e il suo anticlericalismo viscerale, nella sua vita s’è battuto da leone ed ha digiunato, mettendo in pericolo la sua esistenza, perché ad ogni popolo sia garantita la libertà politica e religiosa, perché sia abolita la condanna a morte, perché i Paesi occidentali versino di più per i Paesi in via di sviluppo, perché ai carcerati sia garantita una vita più civile. Pannella è di certo il figlio del “no”. Mentre in contrapposto il figlio del “si”, qual’è il vescovo polacco, nunzio apostolico in un Paese povero, è stato incarcerato da Papa Francesco perché pederasta e perché trovato in possesso di un arsenale di foto pornografiche.

Questi sono due esempi limite, però la parabola si riferisce anche alle posizioni intermedie, quali sono le nostre, figli del “si”.

Credo che nell’aldilà saranno tante le sorprese!

Discontinuità

Una decina di giorni fa il Patriarca ha insediato ufficialmente il nuovo parroco del duomo di San Lorenzo, la chiesa matrice della nostra città, monsignor Gianni Bernardi, che da qualche anno era il parroco della comunità di Santo Stefano a Venezia.

Il nuovo parroco ha fatto un passaggio da vertigini nel trasferirsi da una parrocchia di 1500 anime ad un’altra di quasi diecimila – la prima una comunità sonnacchiosa, pacifica, anziana, la nuova, quella mestrina, numerosa, dinamica, aperta al futuro e quanto mai articolata e attiva.

M’è capitata in mano, per caso, “La Borromea”, il periodico della parrocchia. La Borromea fu il primo foglietto parrocchiale che nacque da un viaggio pastorale che feci in Francia con monsignor Vecchi per esplorare le iniziative parrocchiali di quel Paese che, a quei tempi lontani era, presso l’opinione pubblica ecclesiale, il più avanzato a livello di catechesi, liturgia, animazione giovanile e per tutto il resto. Quella volta trovammo per caso, visitando una chiesa di Parigi, un primitivo prototipo di settimanale parrocchiale dal quale prendemmo spunto per dar vita al periodico di San Lorenzo a cui assegnammo, come testata – “La Borromea” – il nome di una campana che il cardinale Carlo Borromeo, tornando da Roma, ove aveva salutato lo zio Papa, aveva donato al parroco di San Lorenzo, essendo stato da lui ospitato nel viaggio di ritorno.

Questo foglio è cresciuto col tempo e da un paio di anni monsignor Bonini gli ha dato un taglio particolarmente innovativo facendolo stampare a colori in tipografia e comunicando, coi parrocchiani destinatari, quasi esclusivamente attraverso le foto, con brevissime didascalie. Don Bonini si è poi servito di un altro periodico, “Piazza maggiore”, col quale passava i contenuti del messaggio cristiano e dialogava con la parrocchia e i responsabili civili della città.

Dunque, come dicevo, alla vigilia dell’entrata del nuovo parroco, mi hanno recapitato un semplice foglio con la testata della “Borromea” contenente la lettera di saluto che monsignor Bernardi rivolge alla parrocchia e alla città. Il foglio appariva non solamente povero, ma davvero misero. Pensai subito: “Oddio, come ci siamo ridotti!” Temevo che da un foglio che da un punto di vista parrocchiale rappresentava l’eccellenza, si fosse precipitati al livello dei più miseri fogli che purtroppo a Mestre sono assai diffusi. Fortunatamente la domenica successiva ne è stato pubblicato uno con la linea del tutto uguale a quella di monsignor Bonini.

Mi auguro tanto che continui così, anzi migliori, perché rimango del parere che se, anche ufficialmente, si sia orientati ad un assoluto centralismo diocesano, per quanto riguarda la Chiesa di Mestre in concreto la parrocchia del duomo rappresenti la mosca cocchiera, magari solamente per quanto le viene dall’autorevolezza delle sue scelte pastorali. Perché, lo si voglia o meno, San Lorenzo rappresenta la Chiesa mestrina, forse poco cosciente di sé, ma da tutti ritenuta tale.

Il Patriarca al “don Vecchi 5”

A tre mesi dall’inaugurazione ufficiale il Patriarca ha fatto una breve visita al “don Vecchi 5”. In verità la presentazione della nuova struttura alla città era avvenuta a maggio in maniera frettolosa perché l’assessore alla Regione, dottor Sernagiotto, che aveva puntato a “coprire” quella zona grigia compresa tra l’auto e la non-autosufficienza, “correva” per essere eletto al Parlamento europeo.

Forse questo amministratore della Regione voleva presentare all’opinione pubblica quella sua intuizione che avrebbe permesso agli anziani di allungare la loro autonomia e, nello stesso tempo, avrebbe risparmiato all’ente pubblico l’onere pressoché impossibile delle rette per non autosufficienti.

Sernagiotto penso che abbia considerato il “don Vecchi 5” come il fiore all’occhiello del suo servizio in Regione. Con la scelta di creare questa struttura intermedia volle dimostrare che è possibile raggiungere i due obiettivi suddetti.

La Fondazione dei Centri don Vecchi, senza volerlo, aveva già fatto questa esperienza nelle sue strutture esistenti perché esse, partite per ospitare persone autosufficienti, in vent’anni avevano mantenuto la domiciliarità anche per gli anziani che avevano perso molto della loro autonomia. Il “don Vecchi 5” è diventato così non solamente un’esperienza pilota che vuole aprire una soluzione innovativa per i problemi della terza e quarta età, ma pure una sfida sulla possibilità di garantire agli anziani altro tempo di vita da uomini e donne pressoché normali.

L’uscita di scena dell’assessore alla sicurezza sociale, dottor Sernagiotto, ha almeno per ora, congelato il secondo aspetto dell’operazione, aspetto che prevedeva un contributo, pur minimo, per garantire un maggior supporto all’anziano residente. A livello personale sono stato quasi contento dell’inghippo perché, senza contributo, il “progetto sfida” diventa più radicale “costringendo” le famiglie ad essere più vicine al loro famigliare, fornendogli quell’aiuto che è postulato dalla stessa natura.

Comunque l’esperienza è partita. Infatti tutti i 65 alloggi, sono già occupati e forse per l’autunno del 2015 potremo tirare le somme e farne un bilancio.

Tornando al Patriarca, egli ha parlato agli anziani, dimostrando di essere sufficientemente informato sulla “dottrina del don Vecchi”. Ha scoperto la dedica ai benefattori insigni e visitato molto rapidamente la struttura, perché impegnato in altri servizi. Don Gianni, il parroco di Carpenedo, che è pure presidente della Fondazione, ha presentato in maniera brillante l’opera destinata agli anziani in disagiate condizioni economiche. Io, sollecitato dal Patriarca a prendere la parola, ho precisato che ero il “passato prossimo” dell’opera, ma che mi avviavo rapidamente ad essere il “passato remoto”; comunque desideravo affermare con decisione che i Centri don Vecchi vogliono essere un segno visibile, comprensibile e concreto dell’attenzione della Chiesa di Venezia nei riguardi dei fratelli in difficoltà, anche se a molti pare che la Fondazione viva ai margini della vita ecclesiale.

Radiomaria

Ai vecchi tempi Radiomaria è stata una delle antagoniste di Radiocarpini, non di certo per una contrapposizione diretta, ma certamente per la linea editoriale.

Ben s’intende che, anche vent’anni fa, essa era una specie di Golia nel campo dell’informazione nel mondo ecclesiale, mentre Radiocarpini era anche allora tanto meno di David, il ragazzino di bell’aspetto e dai capelli fulvi che con la fionda e il ciottolo di torrente lo colpì a morte. Mentre noi puntavamo su un messaggio diretto al domani e alla ricerca dei lontani, Radiomaria guazzava fin da allora dentro una mentalità piuttosto bigotta, quanto mai legata alla tradizione e più che mai ancorata al passato. Radiocarpini però, nonostante i suoi nobili obiettivi, è morta anche ufficialmente qualche settimana fa. Radiomaria invece è cresciuta a livello mondiale e dispone di mezzi enormi.

Questa partita della mia vita è ormai chiusa da più di vent’anni, con la sola consolazione che la radio non è morta quando era nelle mie mani, ma è terminata per inedia, disinteresse e poca passione di chi l’ha ricevuta, povera sì, ma vitale.

Dopo l’abbandono dell’emittente della parrocchia, mi sono occupato d’altro e perciò ho finito per non interessarmi più della “concorrenza”.

Rarissime volte mi è capitato per caso di imbattermi in qualche trasmissione di Radiomaria, provandone non solo rifiuto, ma spesso anche disgusto. Però, da un paio di settimane, non so per quale arcano mistero, la radio dell’auto che mi hanno donato ha finito per sintonizzarsi appunto su Radiomaria. Normalmente nei miei brevi tragitti tra il “don Vecchi” e il cimitero, ascolto Radio radicale o RadioUno, ma capita che talvolta perda l’onda prescelta, come appunto m’è capitato recentemente, e finisca su qualche altra emittente. Questa volta, come dicevo, il caso ha voluto che abbia centrato, senza volerlo, Radiomaria. Spessissimo trasmette il rosario, che pur essendo una preghiera che mi piace, finisco per rifiutare per tutte le aggiunte, le leziosità e le infinite “varianti sul tema”. Talvolta però, quando imbrocco una conferenza o una meditazione, come l’altro giorno, allora son guai! Perché ho l’impressione che il direttore scelga di proposito o accetti personaggi che penso siano preti o frati veramente sbrodolosi che deformano, imbellettano o infarciscono il messaggio evangelico, che di per sé è sempre così asciutto, essenziale ed umano. Spesso non riesco proprio a seguire l’ascolto, ma nel contempo rabbrividisco al pensiero che una parte molto corposa del Popolo di Dio sia nutrita con pensieri così lontani e incomprensibili dal pensare comune.

Peccato che l’emittente, avendo un’opportunità così splendida, arrischi di impoverire, falsare ed immeschinire ciò che c’è di più sublime a questo mondo con qualcosa di decantante e fuori tempo.

Guerra di religione

Immagino che tutti stiano provando, come me, un senso di tristezza profonda, di smarrimento esistenziale di fronte a ciò che sta avvenendo in Pakistan, in Siria ed in Iran. L’avvento del califfato islamico, che sta dando avvio ad una campagna di odio e di violenza senza precedenti nei riguardi non solo del cristianesimo, ma anche di qualsiasi altra religione, mette i brividi e contemporaneamente fa sorgere in fondo all’animo un desiderio di reagire con la forza contro una brutalità ed un odio davvero esecrandi ed inconcepibili.

Ieri la televisione ci ha informato della decapitazione di un alpinista francese che non aveva proprio nulla a che fare con le questioni religiose, razziali e politiche, ma che amava solamente i monti di località vicine ai luoghi dove avviene un qualcosa che nessuno mai avrebbe pensato che potesse capitare.

Dobbiamo ricordarci, come già scrissi in passato, che sia il popolo ebraico che quello cristiano, di nefandezze ne han compiute quante mai nei secoli passati e che spesso l’han fatto nascondendosi dietro motivazioni di carattere religioso. Però non credo proprio che questi fondamentalisti islamici possano portare come giustificazione le conseguenze dei “peccati” cristiani perché ne son passati dei secoli da quei tempi!

Posso anche capire che il mondo occidentale, che oggi ben difficilmente può raffigurarsi come espressione del mondo cristiano, abbia sfruttato quei popoli, li abbia emarginati e trattati con boria e sufficienza, ma che si invochi la religione per giustificare tali aberranti crudeltà e la persecuzione violenta dei conterranei che credono in Cristo, diventa semplicemente assurdo.

Questa prepotenza e questa crudeltà dei fanatici dell’Islam e il proposito di cancellare dalla terra il cristianesimo, stanno provocando una reazione tale per cui a loro volta subiranno le conseguenze delle armi sofisticate che l’occidente possiede e provocheranno una “crociata laica” della quale certamente la Chiesa non è l’ispiratrice e tanto meno l’organizzatrice.

Papa Francesco ha sì affermato che bisogna assolutamente fermare questo odio e questa persecuzione assurda, antistorica e antiumana, ma non ha chiesto che lo si faccia con le bombe e le armi micidiali. Credo che il Papa sia ben cosciente che ci sono ancora ampi spazi per la trattativa, il dialogo e il compromesso.

Purtroppo i Paesi occidentali, con l’America in testa, e certi Paesi arabi che temono per i loro regimi medioevali e le ricchezze sconfinate delle loro classi dirigenti, pare non abbiano pure loro un minimo di saggezza e di umanità per ricorrere alla trattativa piuttosto che spargere altro sangue non solo dei fanatici, ma pure della povera gente che in queste cose è assolutamente fuori gioco.

Santo e sapiente il monito di Papa Francesco: «Non si versi mai sangue in nome di Dio!».

Il prezzo dell’impegno

L’essere critico verso una certa apatia, o perlomeno una mancanza di impegno generoso, dei preti nel loro servizio pastorale, mi determina ad essere particolarmente puntuale a segnalare i casi in cui riscontro un comportamento opposto

Se è vero, come pare, che la categoria ecclesiastica sta piuttosto seduta, priva di iniziativa e spirito di sacrificio, è altrettanto vero che vi sono certi sacerdoti che, a motivo del loro zelo e del loro impegno, sono disposti a “lavorare” in maniera soda e quanto mai generosa.

Sento il dovere di sottolineare la dedizione veramente particolare di una comunità che “coltiva” un vivaio di ragazzi e di giovani a dir poco splendido.

Mi spiace che la protagonista di questo zelo sacerdotale sia, ancora una volta, la comunità di cui è parroco mio fratello, perché questa segnalazione potrebbe essere letta come un caso di “nepotismo”, comunque i fatti sono documentabili e parlano da soli.

Ieri pomeriggio sono andato a Chirignago nella parrocchia di San Giorgio perché quella comunità ha organizzato una splendida mostra antologica per Giovanni Scaggiante, uno dei “maestri” più affermati della città. Ho avuto modo di essere quanto mai ammirato di come l’associazione culturale della parrocchia ha organizzato questo evento di carattere artistico con una signorilità e un buon gusto veramente splendidi.

Tornandomene a casa da questa piccola “divagazione”, nel pomeriggio di domenica andavo riflettendo come pure una comunità di periferia poteva produrre eventi culturali di vera eccellenza e come essa aveva capito che la vita parrocchiale non può essere monocorde, ma deve avere attenzione per l’uomo tutto intero. In quel mentre, nel telegiornale regionale di RaiTre, che normalmente ascolto, ho colto la notizia che un pullman di ragazzi e di giovani di una parrocchia di Mestre, a causa di un guasto al sistema frenante, dopo essere andato a cozzare contro la roccia, s’era letteralmente rovesciato.

La notizia era sommaria e lacunosa, ma siccome durante la visita alla mostra avevo appreso che i giovani di quella parrocchia, per iniziare l’anno di attività, erano in uscita in Friuli, temetti fin da subito che si trattasse dei ragazzi di mio fratello don Roberto. Una serie di telefonate purtroppo confermò la mia ipotesi. Per fortuna fin da subito mi hanno informato che, nonostante l’incidente gravissimo, sembrava che, al di fuori di qualche ammaccatura, non ci fosse nulla di grave per l’incolumità dei giovani.

Per un paio di giorni la stampa locale ha parlato in lungo e in largo dell’incidente. Il triste evento mi riportò ai tanti giorni di ansia di quando avevo centinaia di ragazzi in giro per il mondo, esposti ad ogni pericolo che sempre può capitare perché, finché le cose vanno bene, ci può essere anche un cenno di gradimento per l’impegno del sacerdote nell’educare i giovani, ma se niente niente capita qualcosa di meno felice: povero prete! Tutti gli stan contro!

Grazia volle che a me non sia mai capitato nulla di grave, ma tremo ancora per tutti i sacerdoti che sono ancora “nella mischia”.

Un ulteriore distacco

Oggi ho terminato il mio servizio presso la mia vecchia parrocchia che ho lasciato ormai da dieci anni.

Don Gianni, che è succeduto al mio successore, don Danilo Barlese, essendo rimasto assolutamente solo perché anche monsignor Fabio Longoni, che celebrava tutte le domeniche e pure nei giorni feriali in parrocchia, è stato chiamato a Roma in Vaticano quale esperto della pastorale del lavoro, mi aveva chiesto un aiuto e io, ben volentieri, per circa un anno ho celebrato la prima messa della domenica alle ore 8.

Inizialmente ho provato un certo disagio, da un lato perché influenzato dal detto popolare che non è mai opportuno “tornare sul luogo del delitto” e dall’altro, timoroso di ritornare in una chiesa in cui i miei cari parrocchiani mi avevano conosciuto di certo un po’ più lucido e pimpante di come sono ridotto ora sulle soglie degli ottantasei anni.

Inizialmente dunque mi sono sentito un po’ impacciato e soprattutto mi pareva di conoscere ben pochi dei fedeli che partecipavano abitualmente, ogni domenica, alla Santa Messa (in dieci anni mutano tante cose anche in una parrocchia abbastanza stabile qual è quella di Carpenedo). Poi, pian piano, ho preso dimestichezza, ho avvertito che si stava instaurando un’intesa ed un dialogo seppur silenzioso, tra di noi, tanto che dopo alcuni mesi non solo mi sentivo a mio agio, ma attendevo ogni domenica l’incontro con questa piccola comunità di credenti con cui mi sono unito per camminare assieme verso la Terra Promessa.

A me è sempre capitato così, non mi sono mai piaciuti gli incontri sporadici in cui il prete può fare anche bella figura tirando fuori il meglio del suo “repertorio”. Ad essi preferisco un dialogo che continua, accomuna i cuori, ma pure le idee.

Questa mattina uscirò un po’ più tardi di casa, passerò davanti alla mia vecchia chiesa mandando un caro saluto a lei e alla piccola comunità, specie di anziani, che per più di un anno hanno ascoltato e pregato assieme a me nostro Signore alla prima messa della domenica. Sarà, spero per loro, una felice sorpresa, trovarsi il nuovo celebrante, don Claudio Breda, più giovane di me di almeno trent’anni, sacerdote che ho conosciuto da ragazzo quando accompagnava il vecchio zio, pure sacerdote, che l’ha cresciuto e avviato al sacerdozio.

Anche questo nuovo distacco lo vivo come un ulteriore gesto che mi prepara al passaggio finale. Comunque ringrazio il Signore per il modo con cui, progressivamente e dolcemente, mi taglia i legami che ancora mi legano a questo mondo per poi – come diceva Papa Roncalli – recidere l’ultima gomena perché il vento gonfi le vele per avviarmi all’altra sponda.

“Gente Veneta”

Nutro la convinzione che criticare per amore non sia solo un diritto, ma un dovere per ogni cristiano, specie quando c’è desiderio di migliorare la qualità della fede e della proposta cristiana. Pure sono convinto che questa critica, porti essa un contributo in positivo o in negativo, sia tanto necessaria da diventare, come ho già detto, un dovere.

Spesso i capi della comunità cristiana o vanno frequentemente fuori sintonia con la sensibilità e le attese del mondo di oggi, o rendono il loro operato poco produttivo perché i loro responsabili, col loro ossequio untuoso e di maniera e con la loro presunta obbedienza cieca, li lasciano soli non offrendo loro motivo di verifica e di confronto.

Io passo per essere un criticone, mentre in realtà ho coscienza di intervenire poco e di non favorire di frequente il dialogo e il confronto, soprattutto nelle questioni controverse. Quando però mi imbatto all’interno della mia Chiesa, in qualcosa di valido, sento altrettanto il dovere di sottolineare questi elementi positivi.

Anche ieri, come ogni venerdì, ho ricevuto “Gente Veneta”, il settimanale della diocesi. Vi ho dato una prima occhiata riservandomi di leggere attentamente i “servizi” più importanti, senza trascurare la cronaca, che offre il polso della vita diocesana. Non penso che il piccolo manipolo di giornalisti che scrive questo giornale abbia delle grosse gratificazioni a livello economico e temo che non le abbia neppure a livello di gratificazione morale, perché quando le cose vanno bene generalmente le si dà per scontate. Io però, che in maniera elementare e marginale bazzico da dilettante entro quel piccolo mondo della stampa, sono in grado di testimoniare, in modo quanto mai convinto, che l’équipe che scrive ed impagina “Gente Veneta” è veramente meravigliosa.

A Mestre fa da protagonista in questo settore, per motivi soprattutto storici, “Il Gazzettino” e, da una decina d’anni, fa da comprimario “La nuova Venezia” che, specie in quest’ultimo tempo, è migliorata alquanto, ma “Gente Veneta” ha ben poco da invidiare ai due quotidiani locali che hanno personale, mezzi tecnici ed economici infinitamente superiori e questa testata dei cattolici non è affatto la parente povera della stampa cittadina.

La piccola équipe, formata da Paolo Fusco, Giorgio Malavasi e Serena Spinozzi Lucchesi, Alessandro Polet e da alcuni collaboratori quali Gino Cintolo, Marco Monaco e qualche altro collaboratore locale, fa degli autentici miracoli offrendo ai lettori servizi quanto mai documentati e sempre puntuali sulle problematiche della vita della città, del Patriarcato e del territorio.

Credo che i cattolici del nostro Patriarcato possano essere veramente orgogliosi e fieri del giornale della Chiesa di Venezia e riconoscenti verso queste persone che lavorano con fede, amore, competenza personale e grande generosità. Peccato che la radio e la televisione, che sono parti integranti di questo strumento pastorale, abbiano dovuto chiudere.

Il lumino rosso

Vi sono certi riti e certi segni religiosi ai quali un tempo si dava grande importanza, ma che, in questi ultimi venti, trent’anni non dicono quasi più nulla, pur continuando ad essere presenti nelle nostre chiese. Essi sono diventati quasi dei soprammobili ai quali nessuno bada più.

Quando abbiamo aperto la “cattedrale tra i cipressi” del nostro cimitero, il marmista Pedrocco di via del cimitero, che io ho sposato molti anni fa, con un gesto di grande generosità mi ha donato il tabernacolo in marmo bianco con la figura di Gesù su fondo oro scolpita sulla porticina ed una bella acquasantiera, pure fatta da lui, in marmo rosso di Carrara. Il tabernacolo illuminato rimane la custodia dell’Eucaristia; accanto abbiamo posto un lume rosso a luce elettrica che accendiamo al mattino non appena aperta la chiesa. Ma credo che sia l’acquasantiera, più che il lumino rosso, a non essere notata quasi da nessuno. Per una quindicina di giorni mi dimenticai di riempirla d’acqua benedetta, ma nessuno è venuto mai a dirmelo e, meno ancora, non mi è mai capitato di vedere alcun fedele intingervi le dita per farsi il segno della croce entrando in chiesa. Ricordo che a catechismo mi hanno insegnato che quel gesto significava che il cristiano sentiva il bisogno di purificarsi prima di entrare nella casa di Dio per incontrare il Signore.

Al lumino rosso accanto al tabernacolo un tempo si dava ancora maggior importanza. Quante volte genitori e catechisti mi hanno insegnato che quella lampada rossa indicava la presenza reale di Gesù ed aggiungevano che nelle chiese protestanti non si usava metterlo perché loro non credevano alla presenza reale di Cristo nel segno eucaristico e perciò quei templi erano freddi, quasi disabitati, perché non c’era Gesù ad accogliere i suoi fedeli.

Il lumino rosso ora si accende quando giro l’interruttore – un gesto quasi banale – ma un tempo c’era quasi un rituale che sapeva di mistero e di sacralità: il sagrestano con attenzione rinnovava l’olio, metteva lo stoppino nuovo che era tenuto a galla da tre piccoli sugheri. Ora quasi nessuno avverte più il monito di questi segni.

Romano Guardini, il grande teologo italo-tedesco, ha scritto un bellissimo libro su “I santi segni”: l’inginocchiarsi, i gradini, le campane, il segno della croce e tanti altri gesti cristiani che contengono dei messaggi per lo spirito. Recuperarli non sarebbe male, anche se oggi della nostra fede abbiamo tante altre cose più importanti da recuperare. Comunque, da parte mia, ho deciso che a fine anno, tempo in cui andrò “in pensione” una seconda volta, e quella definitiva, passerò, come il curato d’Ars, l’intera mattinata nella mia “cattedrale” per offrire un segno, mi auguro, ancor più vivo del lumino rosso, di quel Gesù che ascolta, consola, perdona ed offre speranza; sperando che i fedeli comprendano di più questo segno fatto di fede e di vita.

Monsignor Vecchi

Che io abbia stima, riconoscenza ed affetto per il mio vecchio insegnante, prima di lettere, poi di filosofia, ed infine parroco di San Lorenzo, penso sia abbastanza noto. Tra i miei maestri è quello che certamente cito di più e penso di essere stato, tra i suoi allievi, quello che maggiormente ne ha memoria. Ciò, se non fosse altro, per aver dato il suo nome ai cinque Centri don Vecchi.

A Mestre penso che siano veramente pochi i cittadini che non conoscano don Vecchi, anche se spesso solamente per averne sentito ripetere il nome in riferimento agli alloggi per anziani.

Ho già scritto che, per un seguito di vicissitudini, sapevo che il giornalista di “Gente Veneta”, Paolo Fusco, ne aveva scritto la biografia e qualcuno mi aveva pure regalato questo volume, ma l’ho perduto – e solamente, circa un mese fa, avendone avuto in dono una seconda copia dall’ingegner Andrighetti, ho avuto l’opportunità di leggere questa corposa e dettagliata biografia.

In passato non avevo cercato il volume più di tanto, perché pensavo di aver conosciuto molto bene di persona monsignor Vecchi, avendo vissuto accanto a lui in un rapporto molto stretto per moltissimi anni. Ora, avendo terminata la lettura del volume, “Inchiesta su un sacerdote, una chiesa, una città. Valentino Vecchi”, molti aspetti sepolti da decenni sono riemersi alla memoria e altri li ho scoperti in maniera assolutamente nuova. Il biografo deve aver fatto una ricerca veramente certosina scoprendo una documentazione che neppure sapevo esistesse, tanto che anch’io, che pur pensavo di conoscerla bene, con molta sorpresa ne sono venuto solo ora a conoscenza.

Finita la lettura, in maniera globale, non è mutato il mio giudizio nei riguardi del vecchio maestro, però qualche ritocco sono costretto a fare rispetto a come lo ricordavo. Mi soffermo solo su alcuni aspetti assolutamente positivi.

  1. Monsignor Vecchi fu il primo in assoluto a pensare ad una pastorale di tipo globale per le comunità cristiane della nostra città. Se confronto il suo progetto con la situazione attuale, devo concludere che a Mestre in questo campo siamo regrediti di almeno cinquant’anni. I suoi ripetuti, e quasi testardi tentativi, sono andati a vuoto per la passività e il rifiuto di Venezia.
  2. Monsignor Vecchi, nonostante non amasse tanto fare il parroco nella parrocchia che gli fu assegnata – e non si sentisse tagliato per quel “mestiere” – la svecchiò e la portò ad essere, a livello di impostazione pastorale, senza dubbio di smentita, la punta di diamante non solo a Mestre e Venezia, ma pure nel Veneto. Furono veramente tante le iniziative concrete da farne di certo la mosca cocchiera.
  3. A monsignore piaceva parlare, progettare, scrivere e filosofeggiare, però fu il primo, e purtroppo l’unico, a creare gli strumenti concreti perché questa crescita e questa pastorale d’insieme, potessero realizzarsi. Scrissi, e Fusco lo riportò nel suo volume, che Vecchi fu un “generale” di genio, però senza collaboratori, ma soprattutto senza la fiducia e l’appoggio dello “Stato maggiore”.

Scozia docet

O io sono così fragile da lasciarmi suggestionare da certi eventi, o i mass media hanno una tale capacità di suggestionare l’opinione pubblica da rendere importantissimi anche fatti marginali; fatto sta che ho seguito le vicende del referendum tra l’Inghilterra e la Scozia ed ho atteso il risultato con l’ansia con cui avrei seguito un evento che mi riguarda direttamente.

Della Scozia, dei suoi problemi e delle sue vicende conosco ben poco, aldilà delle cornamuse, degli uomini in gonnellino e delle antiche vicende della regina cattolica Maria Stuarda con la relativa decapitazione ordinata da Elisabetta, sua contendente protestante.

Ultimamente mi s’è aggiunta un’altra notizia: pare che nel mare della Scozia vi siano importanti giacimenti di gas e petrolio e perciò gli scozzesi ambiscono di beneficiare da soli dei proventi relativi senza doverli dividere con gli inglesi. Mi pare però che tutto questo non sia sufficiente a giustificare il tifo di un prete ultraottantenne!

La cosa che forse potrebbe essere di qualche mia giustificazione, è la preoccupazione che se la Scozia avesse vinto il referendum, le richieste di autonomia si sarebbero aggiunte a cascata: in Spagna, in Veneto e perfino a Mestre che mal sopporta, ormai da più di mezzo secolo, il “dominio” veneziano.

In questi giorni mi ha colpito un’affermazione del leader scozzese di fronte alle offerte di concessioni che gli inglesi, preoccupati della possibilità di separazione, gli avevano fatto: «Troppo poche e troppo tardi!» Questo discorso, tradotto in italiano, potrebbe essere un monito per il nostro Governo riguardo la richiesta di una maggior autonomia da parte di Zaia, governatore del Veneto, o quella dei promotori del referendum tra Mestre e Venezia e perfino la timida richiesta di autonomia della Chiesa mestrina da quella veneziana. Arriva sempre ad un certo momento il “troppo poco e il troppo tardi!”.

Per quello che riguarda il Veneto, e Mestre in particolare, non mi pare che la richiesta sia così impellente e così grave, ma per quest’ultima dovrebbe far pensare il fatto che questa è la settima volta che Mestre tenta la carta dell’autonomia. Da parte mia non mi pare che si debba battere con violenza la strada della separazione, ma mi parrebbe saggio tenere seriamente conto quella di una maggior autonomia effettiva. Mi pare che sia giunto da un pezzo il tempo di affrontare con pacatezza e con realismo queste richieste che vengono dalla gente.

Sto apprendendo con orrore quanto sia costata all’Ucraina la richiesta di scelte autonome ed ora alla zona nord della stessa nazione, quella parte che è di cultura russa, il desiderio di autonomia.

Non credo che nessuno sia così scervellato e così egoista da voler tornare agli staterelli di un tempo, ma ognuno dovrebbe essere così saggio da permettere che i vari gruppi che hanno cultura, tradizioni ed aspirazioni proprie possano vivere come a loro piace, tentando però di non arrivare a rotture rovinose per tutti.

Per quanto concerne invece il rapporto fra la comunità cristiana di Venezia e quella di Mestre, più che di separazione, si tratterebbe di tener solamente conto della disomogeneità.

La Maddalena

Mi sono domandato più volte, e finora non sono ancora riuscito a capirlo fino in fondo, perché nutro una simpatia particolare per i convertiti. Ho sempre avuto l’impressione che sia i convertiti che ho conosciuto sulle riviste o nei libri, sia quelli che ho incontrato personalmente durante la mia lunga vita, abbiano una ricchezza umana, un entusiasmo per Cristo e una fede più calda e profonda degli altri cristiani.

Se mi rifaccio ai primi, nutro per san Paolo, sant’Agostino, san Girolamo e per altri ancora del passato lontano o recente, una simpatia istintiva, nutro per loro un’ammirazione che ho per pochi altri personaggi della tradizione cristiana.

Questa mattina ho letto il brano del Vangelo che narra l’approccio e la confessione pubblica di Maria di Magdala, là nella casa di Simone, di fronte ad una tavolata di personaggi notabili per la loro fin troppo dichiarata fedeltà al messaggio della Bibbia, di credenti un po’ bacchettoni e formalisti. Una volta ancora, durante la lettura del racconto, ho compreso il bisogno di perdono e di redenzione della Maddalena, la donna di strada che aveva cercato amore presso chi le poteva dare solo passione. La donna di questa pagina del Vangelo era stata turbata nello spirito, ma il male, fortunatamente, non aveva ancora intaccato la parte più delicata del suo cuore che cercava solamente tenerezza e comunione. Maddalena trova finalmente in Gesù ciò che confusamente cercava e, una volta trovato, non le interessa per nulla il giudizio maligno, sprezzante ed amaro di chi è solamente preoccupato di un perbenismo di facciata.

L’emozione che ho provato durante la lettura di questa pagina del Vangelo ha portato a galla un episodio dolce ed edificante del mio passato. Roberto Joos, brillante giornalista del Gazzettino, era pure un pittore affermato che ho conosciuto durante una bella stagione vissuta con i pittori della nostra città. Joos mi propose un giorno di dipingere una tela per la mia chiesa. Nonostante mi avesse chiesto di scegliere io il soggetto del quadro, volli che lo facesse lui. Egli scelse la Maddalena. Portò in chiesa una bella ragazza e lavorò a lungo ritraendo il momento in cui Maria di Magdala, con uno sforzo immane, volta le spalle al mondo di prostitute e di drogate a cui era legata e si aggrappa alle ginocchia di Gesù come l’appiglio che la può salvare dal naufragio.

Il quadro è proprio di una stupenda dolcezza, esprime il bisogno di pace interiore e di chiarezza. Anche se un vecchio parrocchiano, come il fariseo del Vangelo, mi rimproverò dicendo che quel quadro avrebbe adescato i nostri giovani perfino in chiesa.

Nevegal

Qualche settimana fa abbiamo chiuso la “stagione autunnale” delle uscite organizzate per animare la vita piuttosto abitudinaria dei residenti presso i Centri don Vecchi.

Fin dall’inizio di questa iniziativa l’abbiamo denominata “mini pellegrinaggio” o, meglio ancora, “gite pellegrinaggio” perché uniscono il “sacro” con il “profano”. Ai residenti ben presto si sono uniti gli anziani del “Ritrovo” della parrocchia di Carpenedo ed anche un certo numero di anziani provenienti dall’intera città.

L’iniziativa è quanto mai attesa e gradita, infatti anche in questa occasione, i due pullman, capaci di 112 persone, si sono riempiti in un battibaleno.

L’organizzazione è ormai molto vicina alla perfezione. Presiedono al “minipellegrinaggio” i coniugi Ida e Fernando Ferrari, i quali prendono contatto con il santuario prescelto e fissano i tempi di partenza. Accanto a loro lavora uno staff quanto mai affiatato ed efficiente: il signor Sergio, olimpico per la serenità e le battute sornione, che riceve le prenotazioni, i coniugi Anna e Gianni Bettiol, Graziella e Paolo Silvestro e Luciana e Massimo Di Tonno, che preparano la merenda, aiutano i più fragili o quelli in carrozzella a prender posto sui pullman e a riordinare le sale dopo la merenda che segue alla messa. Una signora del Centro don Vecchi di Campalto intona con voce sicura e guida il canto. A me è riservato il compito di preparare la presentazione degli obiettivi che ci prefiggiamo con l’uscita, le numerose preghiere dei fedeli per coinvolgere e precisare il tema specifico per ogni pellegrinaggio, la celebrazione dell’Eucaristia e, in particolare, l’offerta del messaggio specifico mediante la predica.

Dunque questa uscita ci ha portato al Nevegal. In un’ora e mezza di percorso abbiamo raggiunto la meta. Il nuovo santuario dedicato alla Madonna di Lourdes è collocato in un anfiteatro, una radura verde in mezzo ad un bosco del monte Nevegal a mille metri sul livello del mare. La grotta è in stile moderno e la chiesa, per fattezze e colore, sembra una grandissima baita di montagna. L’ambiente è davvero suggestivo anche se la sua costruzione data solamente da vent’anni.

M’ero fissato, per l’occasione, il discorso che non servono miracoli particolari per rendere sacro e benedetto un luogo particolare, perché tutto quello che ci circonda è già miracolo e quando una qualsiasi comunità di discepoli di Gesù prega animata dalla fede, può incontrare il Signore. La preghiera ci rende coscienti di tutto quello che abbiamo ricevuto e ci aiuta a godere di più del dono di Dio.

L’incontro all’altare è stato di intensa spiritualità e più che mai graditi sono stati la merenda e il lungo tempo per le chiacchiere.

I nostri pellegrinaggi, fra i tanti pregi, hanno pure quello di rendere lieta la preghiera, la meditazione e lo stare assieme.

“Felicissima”

Già ho scritto che quando mi libererò da certi impegni – e a questo proposito mi sono già fatto un cronoprogramma presiso – ho in animo di dedicare mezza giornata alla mia chiesa del cimitero, rimanendovi dal primo mattino fino a mezzogiorno: pregando, studiando, ricevendo chi volesse incontrarmi e svolgendo quelle mansioni religiose proprie di questo luogo particolare.

Mentre il pomeriggio voglio dedicarlo interamente ai quasi cinquecento residenti presso i cinque Centri don Vecchi, cosa che in quest’ultimo tempo non ho fatto perché troppo impegnato in altre faccende.

In queste ultime settimane però mi sono recato almeno due o tre volte la settimana al Centro degli Arzeroni. Dare l’avvio ad una comunità di una settantina di residenti al limite, o appena oltrepassato il limite dell’autosufficienza, credetemi, non è proprio la cosa più facile di questo mondo.

L’intesa tra chi ha progettato la struttura e chi ha un suo progetto molto preciso e sofferto che abbia a funzionare offrendo agli anziani un ambiente caldo ed efficiente, spesso lascia a desiderare alquanto perché in genere per l’architetto l’obiettivo più importante e pressoché assoluto è l’estetica, mentre per chi deve organizzare la vita, specie di persone anziane, che sono poco duttili per le loro condizioni fisiche e mentali, gli obiettivi sono ben altri: la funzionalità, la rispondenza alle abitudini e agli stili di vita degli anziani e, non ultimo, l’economicità, perché i soggetti che abbiamo scelto di accogliere sono i più poveri della nostra città. Una volta che questi due progetti si mettono a confronto e si devono assolutamente coniugare, spesso nascono notevoli difficoltà. Al don Vecchi degli Arzeroni le cose non sono andate molto diversamente. A questa difficoltà s’aggiunge il fatto che la Fondazione non può permettersi se non il personale strettamente essenziale e complica ulteriormente la cosa che la catena di comando sia composta esclusivamente da volontari – perciò ognuno vi porta le sue idee che non può imporre ed uno si deve coordinare con quelle degli altri. Confesso che spesso i miei sonni sono stati turbati da incubi notturni suscitati da queste problematiche.

Questo pomeriggio, dopo aver chiuso la mia “cattedrale”, ho fatto una capatina all’ultima struttura per gratificare i volontari, per oleare i rapporti e portare avanti la soluzione che io credo ottimale. Temevo, perché c’era la prima prova del nove per l’efficienza del pranzo. Devo felicemente confessare che ho trovato l’ambiente migliore di quanto sperassi: volontari motivati e disponibili e soprattutto i primi ospiti felici.

Temevo che avvenisse al “don Vecchi” quello che mi capitava di vedere ogni anno al “Germoglio”, la scuola materna della parrocchia nella quale per le prime due o tre settimane mi pareva di trovarmi in una “valle di lacrime”, motivo per cui l’inserimento dei bambini doveva essere graduale e progressivo.

La prima anziana che ho incontrato mi ha subito detto, forse per farmi contento: «Sono felicissima, mi trovo tanto bene!». Un’altra poi mi ha portato a vedere la sua suite che s’apre sul giardino di villa Angeloni: un appartamentino arredato con estremo buon gusto, ordinato e pulito. I responsabili poi mi han detto che in tre settimane sono stati ormai assegnati ben 50 dei 65 alloggi disponibili.

Se “il buon tempo si vede dal mattino”, ho di che consolarmi.

Delusione

Non solo la gente di Chiesa, ma pure i lontani e i non credenti, pretenderebbe che i preti fossero autentici discepoli di Gesù, gli dessero volto e parola nel mondo di oggi. Questa pretesa è comprensibile e legittima, ma poco realistica data la fragilità dell'”uomo” che è il supporto naturale del sacerdote.

Una volta un prete a cui qualcuno, in maniera poco delicata, faceva notare i suoi limiti e i suoi difetti, si difese dicendo: «Anche a me piacerebbe essere come il poverello di Assisi; finora non ci sono ancora riuscito però, mi creda, ci sto provando». In un’altra occasione un pastore protestante parlò al Laurentianum di Mestre della riforma, dei motivi che l’avevano determinata e degli obiettivi che si proponeva di raggiungere. Un cattolico un po’ bigotto e molto supponente, in maniera poco rispettosa gli fece notare che non aveva ottenuto grandi successi, neppure tra i protestanti, la volontà di rinnovare la Chiesa e di renderla più evangelica, che in fondo anche loro continuavano ad avere gli stessi limiti che rimproveravano alla Chiesa cattolica. Il reverendo rispose, molto pacatamente, facendo notare che ogni uomo è limitato e non sempre raggiunge presto e bene quello che vorrebbe essere e così accade anche per i protestanti. Quando l’obiettore replicò in maniera polemica, enumerando quelli che, secondo lui, erano i difetti della Chiesa riformata, il pastore – che penso fosse veramente un sant’uomo – rispose: «Io peso settanta chili e i miei settanta chili di carne me li porto dietro, voglia o non voglia»!

Mi pare che sempre, in ogni tempo, la gente pretenda da chi occupa una mansione così nobile, come altre nella società, e persegue obiettivi importanti, una serietà di impegno e di coerenza che è piuttosto arduo perseguire e quando riscontra che un prete non lo fa, rimane male e deluso.

Anch’io, che pure ho scelto all’interno della società una missione particolarmente significativa, e che avverto la difficoltà di essere coerente, pur tuttavia divento alquanto critico quando altre persone che hanno mansioni affini non sono all’altezza del loro compito. In questo caso avverto una profonda e amara delusione.

In questi ultimi anni e soprattutto in questi ultimi giorni, sono i magistrati il motivo della mia delusione. Il compito dei magistrati è certamente tra i più alti e sublimi perché tale è amministrare la giustizia! Il fatto che questi magistrati – spero almeno che non siano tutti – abbiano reagito negativamente perché il Governo ha intenzione di sforbiciare i loro stipendi che sono i più alti in assoluto; che non accettino di pagare i loro errori, che pretendano di conservare un mese e mezzo di vacanze, che abbiano sempre da criticare e minacciare sciopero quando non garbano loro certe leggi fatte dal Parlamento e non accettino le critiche, pur essendo i meno produttivi dell’intera Europa, non solo mi delude, ma mi indigna.