Prendere la gente per il suo verso

E’ una vita che vado ripetendo ai miei colleghi che è più opportuno e giovevole per noi preti tentare di cogliere le opportunità che ci vengono offerte dalla vita piuttosto che sforzarsi di piegare la vita stessa ai nostri schemi mentali, spesso fuori tempo e spesso per nulla graditi.

E’ una necessità nutrire lo spirito ma ci sono vari modi per farlo. Frequentemente si organizzano con fatica e con pochi aderenti esercizi spirituali, ritiri, incontri biblici o corsi teologici, tanta fatica ma con scarsi risultati, poche adesioni e per di più dei soliti devoti!

A fine ottobre ho invece battuto un’altra strada, scoperta ormai molti anni fa: il mini pellegrinaggio a Monte Berico.
In un battibaleno abbiamo riempito tre pullman: 170 adesioni!

Viaggio piacevolissimo nella cornice incantata dei caldi colori autunnali, confidenze cordiali tra vecchi e nuovi amici. Il priore dei Servi di Maria ha narrato la storia del Santuario, punto di riferimento per la fede dei veneti ed io, con la mia omelia, ho affermato che la Madonna ci accoglie sotto il suo manto purché accettiamo il nostro prossimo, donando il meglio di noi stessi. Al termine un’apprezzata “signora” merenda, servita in una veranda che si apriva sul bosco, ha suscitato in tutti noi sentimenti di fraternità, amicizia, alimento della fede e riconoscenza. Nella bocca di tutti parole di letizia e di gratitudine.

Venezia da sognare

Domenica scorsa ho trascorso una parte del pomeriggio con gli anziani del Don Vecchi ascoltando un concerto di canzoni veneziane.

Da noi c’è un piccolo staff di volenterosi che cura l’aspetto ricreativo-culturale per il nostro “borgo”. C’è chi contatta i cori o i gruppi teatrali della città e chi si accolla la manovalanza di spostare divani e tappeti per creare la sala d’ascolto.

Domenica 12 ottobre si è esibito il coro “La barcarola”, che cura un repertorio esclusivo di canzoni veneziane; una ventina di coristi, soprattutto donne, hanno intrattenuto incantevolmente per un paio d’ore il numeroso uditorio. Hanno presentato canzoni nel vecchio dialetto veneziano di Castello o di Cannareggio, lo stesso dialetto veneziano parlato dal Goldoni. Mi sono lasciato andare, cullato da melodie piene di nostalgia e di amor patrio nei riguardi della Serenissima, recuperando la Venezia che ho conosciuto settant’anni fa, una Venezia calda, intima, familiare e romantica. Ora chi vuole conoscere la nostra città non ha che da sognarla, perché quella reale è una specie di Veneland, che Luciano Mistro, il nostro compaesano, ha tentato di trapiantare in quel di Marcon.

La festa della vita e del mondo

Nella ventottesima domenica dell’anno la liturgia prevede la parabola con cui Cristo ci illustra il progetto di Dio sulla nostra vita e sulla nostra società, realtà che il Vangelo definisce “Il Regno dei Cieli”.

Per quattro domeniche Gesù, sempre con una parabola diversa, ha messo a fuoco il suo pensiero su quest’argomento.

Prima di iniziare il sermone ho tirato il fiato e puntato bene i piedi per terra per affermare che Cristo concepisce la nostra vita e la nostra società come una festa, come una festa che canta l’amore. Mi sono fatto coraggio avendo letto prima della Messa “il Gazzettino” che come ogni giorno mi ha illustrato il mondo come un immenso immondezzaio sporco e nauseabondo.

Ho commentato: “Chi ha visto in via Poerio l’Osellino che il Comune ha avuto la cattiva idea di scoperchiare, avrà notato soltanto acqua sporca e melmosa, però se andasse alla sorgente scoprirebbe l’incanto e la poesia di un’acqua pulita e cristallina. Il progetto di Dio evidentemente non è quello del Comune di Venezia ma quello della sorgente.

Breviario Laico

Stavo iniziando la lettura di “Breviario Laico” del Cardinal Ravasi, che un magistrato amico mi ha regalato un paio di giorni fa, quando Suor Teresa mi ha chiesto: “Cosa sta leggendo Don Armando?” ed io, quanto mai convinto, le risposi: “Sto leggendo un libro che mi dice: ‘sei un perfetto ignorante!’.

Il pensiero, le argomentazioni e le citazioni di questo prelato sono così sottili, intelligenti ed intense da far arrossire uno, che come me, prende spesso la penna in mano per comunicare qualcosa ai concittadini.

Dapprima sono arrossito e mi sono vergognato per il mio azzardo, poi ho ringraziato il Signore che ha arricchito la Chiesa ed il mondo con intelligenze così sublimi, infine ho concluso che la miriade di lettori dell’Incontro non capirebbero granché del “Breviario Laico” di Ravasi se un ignorante come me non lo traducesse in un linguaggio comprensibile anche per “i poveri di spirito”.

Comunicato

A motivo dell’età avanzata, don Armando, il quale dieci anni fa ha fondato “L’Incontro” e intrapreso il diario che ripubblichiamo in queste pagine, e l’ha diretto ininterrottamente durante tutto questo tempo, ha ritenuto opportuno passare la mano al giovane parroco della comunità cristiana di Carpenedo, don Gianni Antoniazzi, che prima gli è succeduto come presidente della Fondazione Carpinetum dei centri don Vecchi, ed ora pure come direttore de “L’incontro”.

Ad aiutare don Gianni, impegnato su più fronti, ci sarà Giusto Cavinato, che da molti anni collabora col nostro settimanale, ed un agguerrito gruppo redazionale.

In occasione “del cambio della guardia” don Armando chiude l’ormai nota rubrica “Il diario di un vecchio prete”, ma continuerà a collaborare in maniera meno impegnativa con la nuova rubrica “Appunti” e con qualche altro intervento quando egli ne avrà l’opportunità. I contenuti della rubrica “Appunti” saranno riportati in queste pagine.

Don Armando continuerà a firmare la testata (L’Incontro, NdR) finché don Gianni non avrà portato a termine le pratiche per diventare il direttore anche da un punto di vista legale.

La redazione de L’Incontro ringrazia don Armando per l’opera compiuta e gli augura di poter collaborare ancora per lungo tempo col nostro periodico, ed augura a don Gianni di riuscire a portare avanti questa “impresa pastorale” felicemente avviata e tanto promettente.

Ai lettori de “L’Incontro” (e del diario)

Ho confidato più volte agli amici che il mio è un diario per modo di dire perché scrivo quando ho tempo e quando mi pare d’avere qualcosa da dire ai miei concittadini. Oggi ad esempio è il nove ottobre e, dai conti che ho fatto, questa pagina dovrebbe uscire domenica 28 dicembre 2014.

Con questo numero ho deciso di mettere la parola “fine” su questa bella avventura che è durata dieci anni.

Stampiamo ogni settimana cinquemila copie de “L’Incontro”, il mio consulente digitale mi assicura che sono perlomeno diecimila i lettori del settimanale stampato in internet, lo staff redazionale, pur piccolo, è efficiente e affiatato, l’équipe dei tipografi è quanto mai valido e la rete di diffusione (che conta più di 60 punti di distribuzione dove è reperibile il periodico fin dal lunedì precedente il numero che porta il giornale) è quanto mai agguerrita. Nonostante la crisi dei periodici, il nostro va più che bene.

Affermato tutto questo, io però vi devo ancora annunciare che ho deciso di chiudere col settimanale. Sono vecchio, fra un paio di mesi compirò ottantasei anni e veramente non ce la faccio più!

Ricordate che qualche anno fa, nel presentare il volume annuale, vi scrivevo che avevo davanti a me due grandi esempi che offrivano due soluzioni opposte per la vecchiaia: quella di Papa Vojtyla, che decise di rimanere al suo posto nonostante tutto, fino all’ultimo respiro, e quella di Reagan, che sentendo avvicinarsi la fine, si accomiatò dalla nazione per attendere in silenzio la fine. Io non sapevo quale delle due soluzioni era più opportuno che imboccassi.

Quasi un paio di anni fa me ne se ne presentò una terza, quella di Papa Ratzinger, che avvertendo il peso e le nebbie della vecchiaia, con un atto insolito ma coraggioso per un Papa, si dimise. Ben s’intende che cito questi esempi di personaggi illustri; io sono mille miglia al di sotto del loro livello, però l’avviarsi alla fine è come per tutti.

Già qualche tempo fa vi dissi che mi riproponevo di dedicare la mattinata alla cura della mia cara “cattedrale tra i cipressi” per leggere, pregare e incontrare chi avesse bisogno di me, e il pomeriggio per incontrare, confortare e sorreggere i miei coinquilini dei Centri don Vecchi. I residenti dei cinque Centri sono ormai mezzo migliaio, molti dei quali sono attualmente più vecchi e più fragili di quanto non sia io attualmente.

Spero che questa non sia una fuga, perché desidero tanto che “la morte mi incontri vivo”, come confidava tanti anni fa un mio amico colpito dal cancro.

Tuttavia Giusto Cavinato, della redazione del periodico, giustamente mi fa notare che gli pare un peccato lasciar andare un’impresa così promettente ed amata dai nostri concittadini. Quindi, pur rimanendo fermo nella mia decisione, qualora mi si chiedesse un qualcosa che ancora possa e riesca a fare, di certo non mi tirerò indietro. Essendo però possibile che questo sia l’ultimo incontro, vi saluto con affetto, vi chiedo scusa per la mia irruenza e vi auguro buon anno.

09.10.2014

vostro don Armando Trevisiol

Contrappeso

Nelle pareti dell’aula ove frequentavo il catechismo, quasi ottant’anni fa, erano affissi dei cartelloni che avevano una funzione didattica per aiutare la fantasia a memorizzare le nozioni molto asciutte ed impegnative del vecchio catechismo di san Pio X. Penso che a quel tempo fossimo pressappoco agli albori della nuova catechesi, i cartelloni erano piuttosto schematici e primitivi. Tra le nebbie del mio lontano passato ne ricordo solamente due: uno, che è stato pressoché un incubo della mia fanciullezza e rappresentava un triangolo con dentro un occhio ben spalancato, con sotto una didascalia, a spiegazione del disegno: “Dio ti vede sempre ed ovunque!”.

Mi è rimasta per molti anni la sensazione di un Dio spione, inquisitore e carabiniere. Debbo confessare che quell’immagine non mi ha mai giovato molto a livello spirituale. Mi ha liberato fortunatamente da quell’incubo la lettura della parabola del “Figliol prodigo” che ha trasformato quell’occhio indagatore nel volto aperto e cordiale del Padre. Il padre del figliol prodigo ha quasi cancellato dalla mia coscienza l’immagine di quel Dio implacabile del triangolo che mi ha messo, nell’infanzia, non solo paura, ma pure angoscia.

Ricordo però un’altra immagine di quei cartelloni della catechesi: una vecchia bilancia. Su uno dei piatti c’era un cumulo di oggetti con sotto scritto “peccati” e sull’altro una specie di piccola perla con scritto “virtù”. Immagino che volesse dire che il peso specifico della virtù è di molto superiore a quello della cattiveria, motivo per cui un’opera buona ha la capacità di controbilanciare tanta cattiveria.

Ultimamente, quando telefono alle famiglie del defunto per il quale m’è stato chiesto di celebrare il commiato per avere una minima idea della testimonianza che lui può offrire alla comunità, spessissimo, per non dire quasi sempre, i famigliari me lo dipingono come una persona buona e generosa. Forse esagerano un po’, talvolta però mi capita di incontrare una bella figura d’uomo e di cittadino, la cui eredità umana e spirituale vale la pena di essere offerta alla comunità.

Spesso, ritornando ai vecchi ricordi del catechismo, ho la sensazione che il piatto della bilancia nel quale è collocato il bene e la virtù, possa benissimo fare da contrappeso a tutto il male del quale i giornali ci informano con tanta puntualità e pignoleria.

Poi mi riconfermo in questa mia positiva scoperta con due metafore: quella del principe del foro veneziano avvocato Carnelutti che affermava che il male è come i papaveri rossi (ne bastano alcuni perché tutto il campo di grano rosseggi, mentre il bene è come le viole, profumate ma timide e nascoste). E quell’altra di monsignor Vecchi che affermava che quasi nessuno pensa alle pietre nascoste sotto la malta, che sono quelle che sostengono l’edificio.

Quindi a questo mondo c’è ancora spazio per la speranza.

Che alternativa?

Questa settimana mi sono giunte contemporaneamente due “note” su un problema su cui vado riflettendo da molto tempo, ma che finora non ho ancora risolto nonostante mi sia lambiccato il cervello.

Il problema è questo: pare che i mass media, che sono gli strumenti più determinanti per creare opinione pubblica e modo di pensare, per loro natura, quasi per una legge incisa nel loro DNA, siano portati in maniera assolutamente prevalente ad informare il pubblico sugli aspetti negativi del comportamento umano.

A questo proposito, sull’ultimo numero de “L’Incontro”, la nostra collaboratrice Laura Novello ha scritto, col suo stile estremamente brillante, un pezzo eccezionale. Il titolo dell’articolo è: “Ci siamo persi il telegiornale!” ed inizia così: “Siamo rientrati tardi, ci siamo persi il telegiornale! Sai che cosa ci siamo persi!” A questo punto comincia una raffica di notizie cupe, balorde, negative, dissacranti, senza che ci sia tra esse uno spiraglio di luce, di bontà e di bene.

Le cose stanno veramente così; una volta o l’altra mi verrebbe da metter in fila tutti i titoli di un quotidiano qualsiasi, ne verrebbe fuori una litania quanto mai lugubre ed avvilente.

La signora Laura aggiunge quest’altra nota altrettanto vera: “La televisione ci racconta simili disgrazie come parlasse del costo delle patate.
Non è che ci stiamo facendo l’abitudine e diventiamo tutti dei poveri zombie instupiditi e insensibili, incapaci di scandalizzarci?”.

Sarei tentato di riportare tutto l’articolo perché è così puntuale, intelligente e purtroppo vero!

Quando ero ragazzino i miei preti insistevano di non andare coi “cattivi compagni” per non correre il pericolo di fare come loro, e di non leggere giornali poco attenti alla morale o al bene per non finire di pensare male come loro. A quel tempo a noi aspiranti dell’Azione Cattolica sconsigliavano persino “Il Corriere dei piccoli” e “L’Avventuroso”; solamente “Il Vittorioso” era il settimanale che ci consigliavano perché là finiva per vincere sempre il buono, l’onesto e il generoso. Il discorso sui film era ancora più rigido: guai ad andare a vedere il film “proibito” o persino quello “sconsigliato”!

Ora che sono vecchio ed emancipato ho la sensazione, o forse la certezza che molto del pessimismo, dell’egoismo e del permissivismo della gente dei nostri giorni nasca proprio dalla frequentazione di questi “cattivi compagni” che possono aver nome “Il Fatto quotidiano”, “Il Manifesto”, “Repubblica”, e perfino “Il Gazzettino”.

La seconda nota m’è giunta via e-mail da un certo Pier che pare segua con attenzione scrupolosa “L’Incontro”. Eccovi il testo.

OGGETTO:
PARERI SU L’INCONTRO
Copio da don Armando: Confesso che gli anticorpi che mi provengono dalla meditazione e dalla preghiera precedente, molto spesso fanno fatica a proteggermi dal male che ogni giorno il Gazzettino mi offre, domandandomi per di più ogni giorno un euro e venti.
RISPONDO
Considero che il Carducci vecchio ogni giorno si faceva portare dal nipote il quotidiano, nel quale trovava solo cose storte della società d’allora. Il nipote sempre più preoccupato delle ire desolate dello zio nel leggere, decise con varie scuse di non recapitarglielo più. Da allora ben poco è cambiato in meglio. Preferibile eliminare a priori la delusione occupandosi d’altro.
Concludo: Credo che dovrò ripensare più seriamente al pericolo dei “compagni cattivi” e guardarmi meglio dai “lupi vestiti d’agnello”!

Baruffe chiozzotte

Nota della redazione: questa riflessione risale a ottobre. Successivamente la concessione è finalmente giunta.

I miei rapporti col Comune, ossia con gli uffici e con i suoi dipendenti, non sono mai stati idilliaci. Credo che i motivi di fondo siano questi.

  1. Ho la convinzione profonda che tutta la struttura comunale sia al servizio del cittadino e non viceversa. Non accetto di dovermi mai presentare col cappello in mano a mendicare un servizio che mi è dovuto.
  2. Non accetto e non accetterò mai una burocrazia lenta, farraginosa e cartacea. I dipendenti del Comune devono essere lesti, efficienti, rispettosi come qualsiasi altro dipendente di qualsiasi negozio o impresa. Quindi non accetto la “casta” dei dipendenti pubblici.
  3. Non ho mai avuto una grande opinione di quei Consigli periferici di carattere consultivo, perché ho l’impressione che siano composti da personaggi della sottopolitica, verbosi e inconcludenti.

Dato questo mio modo di pensare più di una volta ho avuto modo di entrare in rotta di collisione con rappresentanti del Comune.

Al momento in cui sto buttando giù queste note, sto attendendo da sette mesi la concessione edilizia per il “don Vecchi sei”, la struttura che tende a creare opinione pubblica e cultura verso le emergenze abitative. Mi sono scontrato ancora una volta, tanto che qualcuno mi ha minacciato di chiedere all’avvocatura del Comune di sporgermi querela.

Pure in passato mi è capitato qualcosa del genere con la municipalità, che allora si chiamava “Consiglio di quartiere”. Avendo ottenuto in affitto dal demanio militare quarantamila metri quadri della superficie attorno al forte di Carpenedo perché i ragazzi potessero giocare, ho chiesto ad un imprenditore di spianare il terreno e poi, essendomi accorto che il pallone rischiava di andare in strada con pericolo per gli automobilisti e per gli stessi ragazzi, trovai chi si è offerto di proteggere il campo con una rete alta parecchi metri.

Ma mentre si stava mettendo in atto questa operazione, un membro del Consiglio di quartiere di Rifondazione comunista, passando di là si accorse di quanto il prete stava facendo. Il Consiglio di quartiere mi convocò in veste di imputato.

A verbale si imputava alla “ditta don Armando Trevisiol” di aver manomesso il terreno, mettendo in pericolo le ninfee nane esistenti in quel luogo. Per non aver grane, ma soprattutto per la difficoltà di seguire i ragazzi, restituii al demanio il terreno che, ben presto, si coprì di gramigna e rovi, altro che di ninfee nane! Ognuno può immaginare quale opinione ebbi di questi pubblici amministratori.

Ora ho protestato per il fatto che gli stessi amministratori, mi minacciano di farmi querelare solamente perché ho ritenuto doveroso protestare per l’eterna lentezza del Comune, che finisce per impedire ai cittadini volonterosi di supplire alle sue carenze e a gente che soffre per mancanza di lavoro di poterne avere uno sicuro almeno per un paio d’anni.

Credo che protestare non sia solamente un diritto, ma un sacrosanto dovere!

La vigna

Domenica scorsa la pagina del Vangelo che la Chiesa ci ha offerto per la riflessione settimanale ha riportato una terza parabola di Cristo sulla “vigna”, quasi a perfezionare il discorso su un argomento estremamente importante.

Ho già detto in un intervento precedente, che il “Regno” di cui parla Gesù, a mio umile parere, riguarda non tanto l’aldilà, ma l’aldiquà, ossia la società in cui noi viviamo.

Dio ci ha offerto la vita e il mondo, due realtà che ha curato con infinito amore, ma che ha affidato a noi perché ne godiamo in maniera sempre più completa e perché col nostro impegno facciamo sprigionare tutte le potenzialità di cui essi sono portatori.

Nel sermone mi sono soffermato soprattutto su tre aspetti.

Primo. Il mondo che nella parabola è chiamato “vigna”, è una realtà ancora stupenda nonostante tutto lo scempio che ne abbiamo fatto e che continuiamo a fare. Ho tentato di far prendere coscienza della meraviglia della natura e dell’uomo.

Sotto il discorso c’era il ricordo di un racconto di André Gide. Il grande artista d’oltralpe immagina che un pastore protestante, che è pure medico, nel suo giro pastorale incontri un’adolescente completamente cieca. Da sanitario esperto, scopre che può essere guarita, la cura ed ella vede il mondo per la prima volta. A questo punto l’arte dello scrittore usa gli occhi stupiti ed incantati di questa ragazza per aiutare i lettori a scoprire la bellezza della natura.
Io sono grato a Gide per avermi offerto questa “chiave di lettura” del Creato, che mi inebria ogni giorno. Ne ho parlato alla mia gente con tanta convinzione che mi è parso che sia uscita di chiesa guardando persino i cipressi con occhi nuovi e scoprendoli come una vera meraviglia del Creato

Secondo. Il mondo che il Signore ci ha offerto è già di per sé un dono regale, ma Dio vi ha nascosto delle potenzialità che sono altrettanto portentose, potenzialità che noi dobbiamo scoprire e porre in atto per il bene dell’intera umanità. Prova di questa possibilità sono le costanti scoperte che gli scienziati vanno facendo e che offrono prospettive nuove e meravigliose per i bisogni dell’umanità. Però questo compito di far emergere “l’oro dalla terra” non è solo compito di qualcuno particolarmente dotato, ma di tutti, proprio di tutti.
Il fondatore degli scout condensa questo compito dicendo ai ragazzi che educa: «Procurate di lasciare il mondo un po’ più bello ed un po’ più buono di quello che avete trovato».

Terzo. Questo compito di contribuire a portare a pienezza il mondo non è lasciato alla discrezione di ognuno, ma da ogni uomo il Signore si aspetta che faccia la sua parte in rapporto alle sue possibilità. A questo riguardo la parabola dei talenti parla chiaro. Certo che dare un volto migliore alla terra è un sogno ed un’utopia veramente meravigliosa. Ognuno deve agire e rispondere come il manovale che trasportava pietre e che rispose a chi gli chiedeva cosa stava facendo: «Sto costruendo la cattedrale!”.

Grosse manovre

A quasi ottantasei anni di età mi pare che sia più che naturale, comprensibile e giusto che uno non riesca a seguire tutto quello che succede nella sua città. Io poi, avendo interessi di ordine pastorale e, come indotto, quelli di ordine caritativo, non riesco a percepire quello che sta avvenendo nel sottobosco politico in previsione delle prossime consultazioni elettorali per l’elezione del nuovo sindaco.

Qualche giorno fa, quasi per caso, in un incontro avuto con un collega più giovane, sono venuto a conoscenza delle trame e delle cordate che si vanno organizzando per la nuova amministrazione comunale. Sapendo in quale miserrima situazione si trova il nostro Comune a livello finanziario ed organizzativo, pensavo che non ci fosse nessuno, se non un pazzo da manicomio, che si desse da fare per cacciarsi in una situazione a dir poco angosciosa e disperata. Signor no! Ho appreso nomi e cognomi di pretendenti, tutti provenienti dalla vecchia casta, anche se giovani di età, che si stanno dando da fare in tutti i modi per offrirsi a rialzare le sorti di questo nostro disastrato Comune.

Pur non conoscendo più di tanto questi pretendenti, non ce n’era uno, proprio uno, di quelli che mi sono stati citati, che riterrei idoneo per un compito così grave. Tanto che il mio interlocutore e l’amico che era assieme a lui mi chiesero: «Ma tu chi vedresti come sindaco di Venezia?».

A parte il fatto che a me interesserebbe di più il sindaco di Mestre che non quello di Venezia, anche se temo che dovrò andarmene da questo mondo senza vedere l’una o l’altra di queste due città pensare finalmente ai fatti propri, io pregherei il Patriarca di indire almeno un mese di digiuno e di penitenza perché il buon Dio convinca un imprenditore che abbia dimostrato con i fatti di saper condurre un’azienda, ad accettare la croce pesante di amministrare Venezia, almeno fino a che non abbia tirato su un gruppo di allievi promettenti.

Comunque il sindaco che sogno dovrebbe essere un uomo che non si lascia condizionare né dai sindacati né, meno ancora, dai centri sociali; uno che tenga in pugno la sua squadra e pretenda che ogni assessore faccia altrettanto con i propri dipendenti comunali, uno che lavori e lavori per le cose utili per la comunità e non per creare problemi in più oltre a quelli che ogni cittadino ha già per conto proprio.

Il sindaco che sogno dovrebbe mettere il naso sui bilanci di tutte le società partecipate, perché i bilanci siano almeno alla pari, controllare che le due città siano pulite e ordinate, che i vigili siano sempre in strada perché siano osservate da tutti le norme e le leggi. Qualcuno potrà pensare che domando troppo; però, senza presunzione, ho personalmente constatato che quando si hanno le idee chiare e ci si impegna seriamente, le cose possono andare anche così. Se qualche aspirante sindaco ha dei dubbi, venga al “don Vecchi” per rendersi conto che si può anche amministrare bene la propria azienda.

Stordimento

Pur leggendo frettolosamente i quotidiani, quasi ogni giorno rimango colpito da qualche notizia che mi lascia stupito, meglio ancora interdetto!

Un paio di giorni fa ho appreso, con evidente sorpresa, che Muti, il famoso direttore d’orchestra, abbandonava il Teatro dell’opera di Roma. Dapprima ho pensato che si trattasse di un normale avvicendamento, come avviene nel mondo della lirica, ma poi lo stupore è diventato indignazione apprendendo la motivazione di questo abbandono. Il maestro di fama mondiale ha detto che ormai era impossibile lavorare in quell’ambiente a causa dei continui scioperi che rendevano ormai impossibile un lavoro men che meno serio.

La cosa non è finita qui perché il telegiornale di un paio di giorni fa ci ha informato che questo teatro ha accumulato un “buco nero” di ottanta milioni di euro! Il finale di questa vicenda per me è ritornato finalmente al bello; infatti un responsabile del teatro ha comunicato d’aver licenziato in tronco sia i cantanti che gli orchestrali. Era ora! L’avesse fatto anni addietro, quando il bilancio ha cominciato a tingersi di rosso!

Pensavo che tutto fosse finito lì. Anche qui da noi la banda cittadina, una quindicina di anni fa, ha “suonato il silenzio” in occasione della sua morte. Ci siamo rassegnati e se non avessimo altre rogne potremmo anche dire che viviamo lo stesso anche senza la banda.

A Roma le cose non sono andate così: uno dei tanti sindacalisti, che di certo è stato pure lui la causa del fallimento, costituendo una presenza improduttiva nell’azienda teatrale, ha annunciato che il sindacato sarebbe ricorso alla magistratura per impugnare il provvedimento. Può anche darsi che i cittadini debbano sborsare altri soldi per pagare quei poveri magistrati che hanno ancora cinque o sei milioni di cause inevase!

Sto ascoltando con estrema curiosità le battute di Renzi che sta tentando di demitizzare il sindacato riducendogli i privilegi e i giorni pagati perché non ingarbuglino ulteriormente le cose. Penso però che non ce la farà.

Qualche anno fa mi hanno detto che il biglietto per andare alla Fenice per ascoltare un concerto o un’opera, veniva a costare venti-trentamila lire, mentre la gente che ha poco da fare ne sborsava appena quindici o venti perché il resto era addebitato ai milioni di cittadini con la pensione di cinquecento euro al mese, o ad operai ed impiegati che dopo giornate faticose e difficili, ricevono mille, milleduecento euro al mese.

Renzi, pidiessino degenere e ripudiato

So anche troppo bene che quando si parla di politica si finisce, se non per scontrarci, almeno per dividerci.

Mi pare che la politica talvolta assomigli alle scelte religiose; esse in fondo in fondo, non sono un fatto irrazionale, ma le motivazioni che spesso esistono sono così lontane, quasi incise nell’inconscio, che difficilmente possono essere comprese dagli altri, motivo per cui la discussione, il confronto e il dialogo risultano sempre difficili.

A me piacerebbe tanto che anche nel campo della politica potessimo dialogare, confrontarci senza massimalismi, senza la presunzione di poter accampare certezze e verità indiscutibili, senza perdere l’amicizia, la stima e l’affetto a motivo di orientamenti e di propensioni o di scelte d’ordine politico. Io sono convinto che spessissimo i politici sono persone acute, intelligenti per cui non solo sanno motivare brillantemente le loro tesi, ma spesso sanno pure portare in campo aspetti particolari e sempre hanno qualcosa di originale da offrire. Sono meno certo che sempre siano obiettivi, disinteressati e soprattutto desiderosi che si arrivi ad una soluzione positiva od anche ad un compromesso onesto per recuperare il più possibile quanto c’è di valido nella tesi dell’altro (che non vorrei neppure fosse definito un avversario).

Da parte mia spero che sia così, o almeno mi sforzo che sia così. Quindi confesso candidamente che quando i protagonisti dei vari schieramenti politici fanno delle osservazioni intelligenti, razionali, rispettose e degne di attenzione, li ammiro e sono loro riconoscente perché mi arricchiscono di ulteriori motivazioni. Quando però avverto partigianeria preconcetta, “interessi di bottega” e faziosità lampante, allora passo facilmente dall’attenzione, dall’ammirazione e dalla riconoscenza, al rifiuto e talvolta sono tentato di arrivare al disprezzo.

Questa lunga premessa d’ordine teorico m’è stata sollecitata da due trasmissioni che ebbero come oggetto il nostro capo del Governo, Matteo Renzi. La prima aveva come protagonista dell’intervista, nella rubrica “In Mezz’ora”, condotta dall’Annunziata, la Camusso. Alla segretaria della CGIL, l’organizzazione sindacale di sinistra che fino ad un paio di anni fa è sempre stata la cinghia di trasmissione col partito comunista, ora, alla vecchia guardia, Renzi appare come una specie di figlio degenere. Durante la trasmissione il volto cupo e grintoso della Camusso e il suo modo di giudicare il cattolico Renzi, mi hanno fatto venir in mente il peggior Pajetta d’altri tempi o, peggio ancora Stalin, tanto che persino nell’aspetto mi pareva di notare una certa rassomiglianza.

La trasmissione dell’Annunziata l’avevo cercata di proposito, mentre dopo cena mi sono imbattuto per caso nella trasmissione del duo Fabio-Littizzetto: il gatto e la volpe. La faziosità di Fazio mi è nota da molto tempo, però nella trasmissione di domenica scorsa questo conduttore con la barbetta bianconera alla Belzebù ha superato se stesso per la malizia, l’astiosità e il livore contro il vecchio capo scout che, per fortuna, l’ha messo all’angolo ad ogni round con colpi magistrali, tanto che qualsiasi arbitro gli darebbe l’OK tecnico.