Il seme vive nel tempo

Molti anni fa conobbi in parrocchia una splendida coppia di sposi profondamente religiosi. Mi pare di vederli ancora! Si mettevano ogni domenica nel solito banco e partecipavano devotamente alla santa messa. Lui era un ottimo medico, lei, nata in Algeria o in Tunisia, s’era convertita da adulta al cristianesimo, però aveva una fede tanto semplice, ma altrettanto luminosa. Crebbero tre figli, come si diceva un tempo, “Nel santo timor di Dio”.

Una volta in pensione il marito fece volontariato, dedicando mezza giornata alla settimana al Ritrovo parrocchiale degli anziani. I miei vecchi gli chiedevano consigli sui loro immancabili acciacchi e lui, con voce pacata e sommessa, dava delle indicazioni, che di primo acchito sembravano elementari, ma in realtà erano ricche di saggezza. Egli, da medico, usava poco le medicine, convinto che il paziente ha in se stesso le risorse per reagire ai suoi malanni.
Morirono tutti e due santamente.

Ebbi modo di conoscere i figli, riscontrando sempre in loro lo stile sobrio e sereno dei loro genitori. Recentemente cercavo un negozio per aprire un mercatino in occasione del Natale per finanziare la nuova struttura per gli anziani in perdita di autonomia. Un’azienda ci ha donato una camionata di addobbi natalizi e perciò pensavamo di venderli a prezzi simbolici perché le famiglie possano dare un tono festoso alla loro casa in occasione della nascita di Gesù.

Fortuna volle che puntammo gli occhi su un grande negozio libero in una zona centrale della città. Altra fortuna: ci imbattemmo in un amministratore che dona tempo e capacità alla parrocchia e perciò ci rese facile il contatto con i proprietari che scoprii essere i figli dei due vecchi parrocchiani che, nel frattempo, avevano raggiunto i loro cari in Cielo.

Essi ci offrirono il negozio quasi fossimo noi a far loro un piacere. L’iniziativa ha ottenuto un buon risultato.

Comunque ritengo già un dono aver incontrato persone così disponibili e fiduciose che aprono il cuore per consentirci di impegnarci a favore di chi ha bisogno. Una volta ancora sono riconfermato nella validità dell’invito di Cristo a seminare sempre, comunque e dovunque, perché il seme prima o poi attecchisce e produce frutto.

Credo che i miei vecchi amici dal Cielo saranno di certo felici della scelta dei loro figli.

La rassegnazione: virtù o vizio?

Credo che nei libri di spiritualità e di ascetica la virtù della rassegnazione trovi posto tra le virtù morali, ossia tra i comportamenti positivi del cristiano. Rassegnarsi voleva dire accettare la volontà del Signore, gli eventi che ci superano senza che ci avviliamo e ci ribelliamo.

Ora non sono assolutamente certo di mettere nel mio codice morale positivo questa parola e il comportamento che essa esprime, anzi sarei portato a leggere questo termine e questo comportamento come una variante dell’ignavia, della pavidità e del quieto vivere ad ogni costo.

Tanti anni fa mi capitò di leggere un bel volume di un autore che allora era abbastanza conosciuto sotto lo pseudonimo di “Pittigrilli”. Questi affermava che spesso la viltà si veste con gli abiti più nobili ed apprezzati della prudenza. Nello stesso volume, diceva pure che certe parole nobili come: democrazia, libertà, pace, sono spesso una specie di paravento dietro cui c’è solamente sporcizia e meschinità.

In uno degli ultimi numeri di “Lettera aperta”, il periodico della parrocchia di Carpenedo, don Gianni, l’attuale parroco, di ritorno dal campo scout, ha pubblicato la foto di gruppo dei suoi ragazzi in pantaloncini corti e col cappellone scout. Avevo già detto che questo gruppo della mia vecchia parrocchia conta 200 elementi e che al campo in Trentino vi avevano partecipato in 180. Bene: altro è leggere 180, che è un bel numero, altro è vedere la foto panoramica con ben 180 giovani. Impressionante!

Don Gianni non è un rassegnato, ma quanti preti si nascondono dietro a certi paraventi come dietro alle foglie di fico, e dietro a certe parole pie come “santa rassegnazione”, che in realtà sono solo ignavia, quieto vivere, poltroneria.

Per questi motivi ho poca simpatia per la virtù della rassegnazione.

Don Didimo

Da poco è uscito ed ho letto il diario di don Didimo Montiero, il prete vicentino del secolo scorso che, dopo una girandola di parrocchie come cappellano, finì la sua “carriera ecclesiastica” come parroco di Bassano, ove divenne celebre per aver fondato “Il Comune dei giovani”.

Ho letto d’un fiato il diario di questo collega molto buono, un po’ ingenuo ma soprattutto pio ed amante della gioventù. Questa lettura di una vita pulita, fresca, piena di entusiasmo e di fede m’ha fatto bene, tanto che mi riaffiora sovente la sua immagine, come m’ha colpito la meschinità e la pochezza della “piccola gerarchia ecclesiastica” ottusa, arrogante ed invidiosa che a quel tempo era ben presente nel nostro territorio.

Questa storia di prete si abbina ad un’altra storia di un prete friulano del nostro tempio, don Piazza, che ha scritto un altro splendido volume “Fuori dal tempo”. Due preti tanto diversi, forse diametralmente diversi, ma ambedue veri preti. Quanto il primo era ingenuo, remissivo, dottrinalmente allineato, altrettanto il secondo è lucido, critico, problematico, sensibile alle tematiche religiose e civili del nostro tempo ed un pizzico contestatore, ma soprattutto espressione di una religiosità nuova e d’avanguardia,

Un tempo avevo letto molto sui preti, perché fino a quaranta, cinquant’anni fa essi interessavano l’opinione pubblica, poi il prete scomparve di scena. Ora mi fa piacere di aver incontrato queste due figure di certo minori, ma belle e capaci di far pensare.

I poveri e i mendicanti

Le due entrate del camposanto sono ambedue presidiate, con turni ben definiti, sia al sabato che alla domenica, dai mendicanti.

Gli atteggiamenti per impietosire i cittadini che vanno a visitare i loro morti, sono diversi ma tutti obbediscono a certi rituali collaudati. E’ fin troppo evidente che sono dipendenti di una organizzazione malavitosa che approfitta di loro e che molto probabilmente lucra sulla loro mendacità. Tant’è vero che quando li ho invitati al don Vecchi ove potevano trovare generi alimentari, frutta e verdura ed altro, non ne ho trovato uno che abbia approfittato di questa opportunità.

Io, lo dico con pudore ed una certa preoccupazione, diffido quanto mai di questi mendicanti. Non penso che il dar loro un euro sia male, sono convinto però che dobbiamo preoccuparci più seriamente dei poveri e dobbiamo organizzarci perché la nostra risposta al bisogno sia sempre la più adeguata ed esaustiva. Per questo non mi sono rassegnato ad abbandonare l’idea della cittadella della solidarietà con la quale la città e la Chiesa mestrina si attrezzino a soccorrere chi è in difficoltà e, nel contempo, combattano quella mendicità che umilia la persona che chiede, ma altrettanto quella che offre, perché il rapporto è sempre subumano e meschino.

Prete in pensione!

Otto anni fa, quando con la pensione il mio apostolato cominciò a svolgersi esclusivamente in cimitero, impegnato in una pastorale che si svolge prevalentemente sulla corda del dolore e del lutto, nella prospettiva dell’aldilà, mi sentivo un po’ mortificato e menomato perché mi sembrava di dover impegnarmi in un servizio pastorale ridotto, quasi monco, perché non potevo più spaziare nell’ampia gamma di valori umani: nascita, amore, famiglia, gioventù, società. Mi rimaneva solamente il compito di aiutare a buttare lo sguardo verso il domani per intravedere i primi tenui albori del “giorno nuovo”.

Ora non è più così, mi sento pago della mia missione, pienamente realizzato nel mio sacerdozio, non solamente perché conto su una bellissima comunità, numerosa, affiatata, coesa e viva, ma perché mi inebria il fatto di poter seminare a larghe mani speranza a gente disorientata, attonita e smarrita di fronte al mistero della morte, ma soprattutto ancora legata ad una visione di un Dio piccolo, vendicativo, pignolo.

Il mio popolo della domenica è quanto di più bello un prete possa sognare, ma pure mi è tanto caro anche “il popolo del funerale” al quale posso parlare del cuore del Padre, della meta che ci aspetta, della risposta a tutti i perché, della vita nuova.

Il lavoro pastorale della mia vecchiaia non è meno bello ed esaltante di quello della mia giovinezza.

La figlia della Chiesa

Questa estate sono state a visitare la mia “cattedrale tra i cipressi” tre suore delle “Figlie della Chiesa”. Questa congregazione è nata mezzo secolo fa e si dedicava, al tempo in cui ero giovane sacerdote a San Lorenzo, alla diffusione della buona stampa. Attualmente queste suore gestiscono la chiesa di San Girolamo ove, alcuni giorni alla settimana, organizzano l’adorazione dell’Eucaristia.

Avendo sentito che in quella chiesa per un paio di mesi non si diceva messa la domenica, ma che soprattutto durante il mese di agosto la chiesa era rimasta chiusa per tutto il giorno, mi permisi di dire: «Birbanti, come mai?» Ad una di loro, una spagnola di mezza età, scappò detto: «Dobbiamo pure fare un po’ di vacanza anche noi!».

A parte il fatto che aprire il mattino e chiudere la sera la chiesa, non credo infranga il “precetto del riposo estivo”, dapprima mi è venuto da pensare che io mantengo aperta ininterrottamente la mia cattedrale senza sentirmi un martire, poi avrei voluto ricordarle che il nostro Maestro Gesù morì in croce, nonostante in Palestina fosse caldo. Questo però lo tenni solamente per me.

Economia

Io sono assolutamente inesperto di politica e, peggio ancora, di economia. Come uomo della strada e cittadino di questa nazione, ascolto, cerco di farmi un’idea per assumere dei comportamenti coerenti alla situazione in cui ci troviamo. Ogni tanto mi pare di sentire dei ragionamenti che mi convincono e che mi aiutano a tirare delle conclusioni.

Qualche giorno fa a Radio Radicale ho sentito un professore universitario che ha affermato che in questi ultimi vent’anni i nostri governanti per “farsi vedere belli” e per motivi elettorali, hanno contratto un debito veramente colossale a tassi molto alti ed invece di investire questo denaro in ricerca, in rinnovamento delle industrie e in conquista dei mercati, ha spendacciato, riempiendo il Paese di una folla di statali e parastatali parassiti che non producono che lungaggini e difficoltà e soprattutto hanno abituato i cittadini ad un genere di vita del tutto superiore alle nostre risorse. Ora non si tratta solamente di sanare in poco tempo l’enorme deficit che ci ha portato al disastro, ma soprattutto di rieducare il nostro popolo alla produttività, all’economia, al rifiuto del consumismo e dello sperpero.

Questo risanamento di certo è molto più impegnativo di quello economico e tutte le agenzie sociali devono impegnarsi a farlo e non solamente il governo.

Libia e Siria

Se il comportamento delle persone è talvolta o spesso egoista, prepotente, illogico, crudele e dissennato, quello degli Stati lo è immancabilmente sempre.

Non ho mai capito perché chi è al potere non si lasci mai dirigere dalla propria coscienza, non coltivi mai i valori della giustizia, della pace, della convivenza, della ricerca del bene comune, del dialogo e perfino del compromesso, ma punti sempre a perseguire il maggior vantaggio economico e politico per il proprio Paese, tentando di cogliere con tutti i mezzi tutto quello che può carpire con la diplomazia o, più spesso, con la forza, incurante dei diritti degli altri Stati.

Un paio di anni fa tutto il mondo occidentale pareva che non potesse più tollerare la dittatura del tiranno della Libia, Geddafi e, Francia in testa, l’hanno rovesciato con una tempesta di bombe. Oggi Assad di Siria pare che non sia per nulla meno spietato e feroce con i suoi concittadini, però la Francia e pure Napolitano, mi pare che rimangano assolutamente “indifferenti al grido di dolore” che si alza dal popolo siriano. Fin quando i governanti continueranno a non ascoltare la voce della propria coscienza per ascoltare la “ragion di Stato”?

Anomalo?

La congregazione religiosa dei Paolini, fondata da don Alberione, si dedica in maniera specifica all’apostolato attraverso i mass media.

Un tempo questi religiosi gestivano delle librerie in tantissime città, avevano un’agenzia per la distribuzione dei films, stampavano un settimanale per ragazzi, “Famiglia cristiana”, il mensile “Jesus” ed un altro mensile, “Vita pastorale”, periodico che viene inviato gratuitamente a tutti i sacerdoti del nostro Paese. In quest’ultima rivista c’è una rubrica condotta dai più famosi liturgisti della Chiesa italiana, che rispondono ai quesiti posti dai sacerdoti.

Fino ad un paio di anni fa leggevo questa rubrica, non tanto per avere informazioni sui vari quesiti di ordine liturgico – perché in questo settore me la sbroglio da solo – ma per la curiosità di conoscere fin dove si spingeva la pignoleria di certi preti che pareva avessero la mania di interessarsi del “sesso degli angeli”.

Io di certo non appartengo alla categoria dei preti che hanno lo sfizio di cambiar parole, formule e gesti, ma neanche ritengo di dover sacrificare il mio spirito all'”idolo” delle rubriche e delle formule liturgiche. La mia tendenza attuale è puntare all’essenziale, considerare il rito in tutte le sue espressioni con solamente uno strumento per trasmettere il messaggio, ma tenermi a buona distanza dal “magico” e soprattutto privilegiare tutto quello che oggi può essere compreso dalla sensibilità dell’uomo di oggi. Se posso condensare il mio senso liturgico in una formula, confido che lo sia tutto quello che è bello, è comprensibile e soprattutto aiuta ad accostarmi al mistero ineffabile di Dio, il resto per me è sicuramente antiliturgico.

Gli eterni scontenti

L’estate scorsa è stata veramente torrida. Da quanto hanno detto gli esperti in meteorologia, erano decenni che non si verificava un’estate così calda. La radio e la televisione ci hanno poi terrorizzato intimando ai vecchi di non uscire, i medici e i dietologi ci hanno ripetuto fino all’ossessione di bere molti liquidi, di mangiare verdura e gli economisti e gli esperti di commercio hanno fatto stime su stime dei danni provocati dall’arsura.

In questo clima la gente, sia per il caldo reale che per quello annunciato dai mass-media, per tutta l’estate si è messa al sicuro nei “rifugi anticaldo”; chi ha potuto evadere, è scappato in montagna, mentre la maggior parte s’è rintanata in casa o nei pochi locali refrigerati.

La prima burrascata di fine agosto, con trombe d’aria, improvvisi diluvi, ha di colpo dissetato i campi e abbattuto la temperatura. Al “don Vecchi” in tre, quattro giorni il prato è tornato verde, però la gente, nonostante questo, ha continuato a brontolare.

Sabato, dopo la messa prefestiva, sono uscito nel parco per vedere il verde dopo la prima frescura. Un piccolo crocchio di anziane, che devotamente avevano partecipato alla messa, come me erano uscite nel vialetto del parco per sedersi in una delle tante panchine, quando sentii una che diceva: «Io sento freddo» ed un’altra: «Per fortuna mi sono portata la sciarpa». E tutte, dopo qualche minuto, sono rientrate in casa.

Oggi la gente brontola per i prezzi, brontola per i politici, brontola per il caldo ed un minuto dopo, per il freddo. Pare che tutti, o quasi, siano solamente capaci di brontolare, non trovando niente di bello e di buono a questo mondo, non ricordandosi della miseria della loro infanzia, del patrimonio della saggezza e dell’antico costume italico pare che la nostra gente non abbia ereditato di meglio che lo “jus mormorandi”, mentre ha dimenticato perfino la saggezza del “bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno”.

Ho l’impressione che sia invalso un costume di autolesionismo che ci impedisce di cogliere quel tanto o poco di bene che ancora c’è. Pare poco vera l’affermazione che “i vecchi sono depositari della saggezza”.

Il patriarca Scola, milanese di mentalità, più di una volta è sbottato a dire che i veneziani devono finire di piangersi addosso e lagnarsi di tutto. Il mondo bisogna prenderlo come viene ed anche se non si arriva alle conclusioni di Bertoldo che era felice quando andava male perché dopo sarebbe andata meglio, credo che dobbiamo tutti imparare a cogliere il meglio di ogni evento.

La peste di Camus

Da più di un anno le biopsie non hanno più registrato cellule neoplastiche, tanto che ormai mi ero illuso che ormai la mia “guerra personale” fosse terminata e che “il nemico” fosse stato vinto in maniera definitiva. Le cose non sono andate proprio così, non so se l’attuale sia una guerra di contenimento o sia una “pace armata”, comunque il nemico è rimasto, anche se meno virulento e temibile di un tempo.

Quando il medico curante mi ha ordinato un altro ciclo di interventi, non so se preventivo o di sbarramento, m’è venuto, per associazione di idee, da pensare al romanzo di Camus che ho letto moltissimi anni fa.

Lo scrittore algerino, ma di cultura francese, immagina che nella città di Orano, nell’Africa settentrionale, sia scoppiata la peste. Le autorità ordinano che sia formato, attorno alla città, un cordone sanitario, in modo che il morbo non si diffonda. Il cuore del romanzo consiste nel dialogo del medico col sacerdote, ambedue soggetti di nobile sentire ed altruisti, ma mentre il sacerdote si impegna contro la peste sorretto dalla speranza nell’avvento del Signore, il medico, che esprime il pensiero di Camus, ateo, e che è il vero protagonista del romanzo, si impegna quanto il prete, ma afferma: «Anche se noi riuscissimo a debellare la peste, i suoi germi si nasconderanno negli angoli più oscuri della città e prima o poi piglieranno il sopravvento». L’uomo infatti, per Camus, è comunque soggetto a soggiacere alla morte e prima o poi essa finirà per vincere la battaglia definitiva.

Chi s’è preso cura della mia salute ha riportato più di una vittoria sul nemico, però esso è sempre in agguato e non mi permette di abbassare la guardia. Ora io mi accingo ad affrontare una ennesima scaramuccia, nella speranza di riuscire a far ancora qualcosa di buono, comunque so che al tramonto succederà una nuova e più bella aurora. Questo non è poco!

Sommersi e salvati

Tra i fedeli con i quali prego ogni domenica, c’è un magistrato che mi onora della sua amicizia e che spesso mi dona un film, un CD di musica sinfonica e, più spesso, qualche volume. Questo mio caro amico ha fiuto nello scegliere le sue letture e si rende pure conto di quello che mi interessa.

L’ultimo volume donatomi è “Sommersi e salvati” di Primo Levi, uno dei pochi ebrei che fisicamente è uscito dal lager di Auschwitz, ma la cui tragica esperienza non gli risparmiò la vita; infatti Levi è morto suicida sotto il peso insopportabile di questa sua tragica esperienza.

Di Primo Levi avevo letto, in proprio, “Se questo è un uomo!”, una lettura che mi ha segnato per la vita, facendomi scoprire gli abissi dell'”homo, homini lupus”, l’uomo capace di sbranare l’altro uomo. Il volume mi portò davanti agli occhi, alla mente e al cuore, la brutalità di certi elementi del popolo tedesco traviati da un uomo pazzo e sanguinario. Poi lo stesso magistrato mi regalò “La tregua”, in cui Levi narra del suo ritorno fortunoso tra la ragnatela di una burocrazia insensata ed assurda.

Infine mi ha regalato quest’ultimo, “Sommersi e salvati”, volume in cui Levi si lascia andare solo marginalmente al racconto, mentre fa un’analisi lucida e spietata dei comportamenti umani. In questo volume veramente sublime questo ebreo torinese mostra una intelligenza, un intuito ed una capacità di analisi insuperabili.

Ho letto il libro d’un fiato, ma dovrei rileggerlo mille volte per recuperarne tutta la sapienza.

San Paolo fu rapito al terzo cielo e quando mise i piedi per terra disse: «Ho visto cose che occhio umano non ha mai visto e sentito cose che orecchio umano non ha mai sentito». A me è capitata la stessa cosa a proposito del negativo dell’umanità. Di questa lettura dovrei dire mille cose; non ne dico alcuna perché mi è pressoché impossibile e perché spero che ai miei amici venga voglia di leggerlo. Voglio solamente confidarvi la conclusione, a livello emotivo e razionale, a cui la lettura del volume mi ha fatto giungere: “Hitler è stato una bestia feroce impazzita, ma i suoi seguaci, nella loro globalità, non furono da meno. E oggi i tedeschi della Merkel purtroppo fanno gli arroganti per la loro forza economica. Essi sono i figli di chi si è prestato ad eliminare milioni di ebrei, minorati fisici, zingari, dissidenti politici e nemici della mania della superiorità.

Un Papa mancato ed un cristiano realizzato

Proprio un paio di giorni fa ho scritto della mia profonda ammirazione per il cardinal Martini che “da ricco che era s’è fatto povero”. E confessavo che l’odierna sua “povertà” mi convinceva molto di più di quando si presentava in tutta la sua imponenza di Cardinale di Santa Romana Chiesa e di successore di sant’Ambrogio, l’arcivescovo della diocesi più grande e importante d’Italia.

Non ho ancora finito di leggere il suo ultimo volume, scritto mentre il Parkinson gli stava rubando la parola e la vita. Ho udito però alla televisione la morte di questo vecchio vescovo che ha continuato a lavorare fino all’ultimo e ho ripreso in mano il volume “Qualcosa in cui credere” cercando la data in cui fu scritto. Non l’ho trovata, comunque non credo che di Martini sia uscito nulla di più recente.

Ho riletto con tenerezza e commozione la frase scritta in copertina, in cui egli denuncia non solamente la sua fragilità fisica, ma pure la sua fragilità spirituale. Al grande cardinale sembrava che venissero meno le certezze proclamate con enfasi dalla cattedra prestigiosa di Sant’Ambrogio, per vestirsi dei dubbi, delle perplessità e della fragilità spirituale degli uomini del nostro tempo. La sua ricerca dimessa è la confessione di cercare di trovare un terreno ancora solido su cui mettere i piedi della sua vita.

Questo cardinale che ha messo nell’armadio la porpora per vestirsi della veste povera della fede del cristiano di oggi, lo sento vero, lo sento un povero come me, che offre e chiede a sua volta il braccio per non cadere e per continuare il cammino fino alla fine.

La stampa s’è buttata a capofitto e per qualche giorno guazzerà dentro la vita e la testimonianza di questo uomo di Dio. Ho letto che Martini è stato perfino “un Papa mancato”. Di queste cose non me ne intendo e non mi interessano, però posso dire che per me è stato un cristiano felicemente incontrato.

Il diritto alle vacanze e il dovere della carità

Ricordo che quando ero assistente alla San Vincenzo sono arrivato al limite della rottura con i seppur bravi volontari. Per quanto tentassi di ripetere che i poveri d’estate han più bisogno di sempre, non ci fu verso che riuscissi a far desistere qualcuno dall’osservare “il comandamento delle ferie”.

Una trentina di anni fa arrivai alla minaccia: «Se voi continuate a voler chiudere la mensa dei poveri ad agosto, io chiamo le suore della città a mantenerla aperta». Fu un fiasco, perché non ci fu suora che avesse risposto al mio appello. Il risultato massimo che riuscii a raggiungere fu quello di ridurre la chiusura a venti giorni piuttosto che tutto il sacro mese di agosto.

Quest’anno non è andata meglio degli altri. Hanno guadagnato la medaglia d’oro solamente la “Bottega solidale” e il “Chiosco di frutta e verdura del “don Vecchi”, mentre per il resto il KO è stato più o meno vistoso.

Comunque sempre KO è stato: per il Ristoro, la mensa della San Vincenzo, per la mensa dei Padri Cappuccini di via Olivi, per il Banco Alimentare di Carpenedo Solidale. Ancor più grave la sconfitta della mensa dei Somaschi di Altobello, la cui chiusura è arrivata al record di un mese e mezzo.

Proprio questa mattina ho letto nel breviario l’omelia di san Giovanni Crisostomo, il quale, ancor millesettecento-ottocento anni fa ammoniva i cristiani che era illusorio spender denaro per il corpo di Cristo che è in chiesa, mentre si trascurava quello che sta in mezzo a noi nelle vesti del povero.

Anche la Chiesa del nostro tempo ha tanta strada da fare per mettere in pratica l’insegnamento di Gesù. Io non ho l’autorevolezza del Crisostomo, comunque sento il dovere di dare questa deludente notizia.

Eutanasia e accanimento burocratico

Il problema dell’eutanasia, la scelta di suicidarsi in maniera indolore e con l’assistenza medica in una struttura ospedaliera, è ricorrente presso l’opinione pubblica del nostro Paese.

Ben s’intende i radicali sono, come sempre, in prima fila nel richiedere che anche in Italia, come in Svizzera o in Olanda, si legalizzi questa fine della vita, ritenendo che il cittadino sia l’arbitro assoluto della propria esistenza. Si toglie quindi a Dio il compito di stabilire l’inizio e la fine della vita, per affidarlo a qualche mestierante senza scrupoli della medicina o della chimica.

Questo problema ha toccato il culmine della notorietà, un paio di anni fa, con il caso Englaro e qualche settimana fa è stato rintuzzato in occasione della morte del cardinale Martini il quale ha rifiutato l’accanimento terapeutico, che in verità tutt’altra cosa dall’eutanasia.

Per una strana concomitanza di idee mi è venuto un confronto con un’altra forma di accanimento per il fatto che da decenni mi capita di essere impelagato in pratiche infinite per ottenere dal Comune e da enti similari i permessi per aiutare il prossimo.

I burocrati di questi enti pare che invece di aiutare i volonterosi che hanno una sensibilità sociale, abbiano un gusto perverso per complicare e per rendere più difficile l’espletamento di pratiche spesso assurde. Si preferisce che la gente viva e muoia nella melma piuttosto che facilitare chi si impegna per aiutare i poveri.

Le pratiche sono spesso stupide, assurde, formali, incomprensibili: il tutto per incensare un'”idealetto” chiamato regolamento o legge, dimenticandosi che la legge è fatta per l’uomo e non viceversa.

“L’accanimento burocratico” è molto peggiore di quello terapeutico, fa diventare penosa ed amara l’esistenza e porta all’atrofia e alla morte della solidarietà. A questo masochismo assurdo s’aggiunge spessissimo la faziosità e la partigianeria.

Qualche giorno fa ho avuto modo di visitare una struttura comunale per anziani autosufficienti, una struttura costosissima la cui retta si avvicina ai duemila euro. Ebbene, mi è sembrata quanto di peggio si possa immaginare se confrontata con uno dei Centri don Vecchi: equivale alla differenza fra una stamberga e una reggia. Eppure la burocrazia comunale invece di bonificare le sue strutture se la pigliano con quelle del privato sociale che sono infinitamente più belle e nelle quali si paga infinitamente meno.