Proprio un paio di giorni fa ho scritto della mia profonda ammirazione per il cardinal Martini che “da ricco che era s’è fatto povero”. E confessavo che l’odierna sua “povertà” mi convinceva molto di più di quando si presentava in tutta la sua imponenza di Cardinale di Santa Romana Chiesa e di successore di sant’Ambrogio, l’arcivescovo della diocesi più grande e importante d’Italia.
Non ho ancora finito di leggere il suo ultimo volume, scritto mentre il Parkinson gli stava rubando la parola e la vita. Ho udito però alla televisione la morte di questo vecchio vescovo che ha continuato a lavorare fino all’ultimo e ho ripreso in mano il volume “Qualcosa in cui credere” cercando la data in cui fu scritto. Non l’ho trovata, comunque non credo che di Martini sia uscito nulla di più recente.
Ho riletto con tenerezza e commozione la frase scritta in copertina, in cui egli denuncia non solamente la sua fragilità fisica, ma pure la sua fragilità spirituale. Al grande cardinale sembrava che venissero meno le certezze proclamate con enfasi dalla cattedra prestigiosa di Sant’Ambrogio, per vestirsi dei dubbi, delle perplessità e della fragilità spirituale degli uomini del nostro tempo. La sua ricerca dimessa è la confessione di cercare di trovare un terreno ancora solido su cui mettere i piedi della sua vita.
Questo cardinale che ha messo nell’armadio la porpora per vestirsi della veste povera della fede del cristiano di oggi, lo sento vero, lo sento un povero come me, che offre e chiede a sua volta il braccio per non cadere e per continuare il cammino fino alla fine.
La stampa s’è buttata a capofitto e per qualche giorno guazzerà dentro la vita e la testimonianza di questo uomo di Dio. Ho letto che Martini è stato perfino “un Papa mancato”. Di queste cose non me ne intendo e non mi interessano, però posso dire che per me è stato un cristiano felicemente incontrato.