La peste di Camus

Da più di un anno le biopsie non hanno più registrato cellule neoplastiche, tanto che ormai mi ero illuso che ormai la mia “guerra personale” fosse terminata e che “il nemico” fosse stato vinto in maniera definitiva. Le cose non sono andate proprio così, non so se l’attuale sia una guerra di contenimento o sia una “pace armata”, comunque il nemico è rimasto, anche se meno virulento e temibile di un tempo.

Quando il medico curante mi ha ordinato un altro ciclo di interventi, non so se preventivo o di sbarramento, m’è venuto, per associazione di idee, da pensare al romanzo di Camus che ho letto moltissimi anni fa.

Lo scrittore algerino, ma di cultura francese, immagina che nella città di Orano, nell’Africa settentrionale, sia scoppiata la peste. Le autorità ordinano che sia formato, attorno alla città, un cordone sanitario, in modo che il morbo non si diffonda. Il cuore del romanzo consiste nel dialogo del medico col sacerdote, ambedue soggetti di nobile sentire ed altruisti, ma mentre il sacerdote si impegna contro la peste sorretto dalla speranza nell’avvento del Signore, il medico, che esprime il pensiero di Camus, ateo, e che è il vero protagonista del romanzo, si impegna quanto il prete, ma afferma: «Anche se noi riuscissimo a debellare la peste, i suoi germi si nasconderanno negli angoli più oscuri della città e prima o poi piglieranno il sopravvento». L’uomo infatti, per Camus, è comunque soggetto a soggiacere alla morte e prima o poi essa finirà per vincere la battaglia definitiva.

Chi s’è preso cura della mia salute ha riportato più di una vittoria sul nemico, però esso è sempre in agguato e non mi permette di abbassare la guardia. Ora io mi accingo ad affrontare una ennesima scaramuccia, nella speranza di riuscire a far ancora qualcosa di buono, comunque so che al tramonto succederà una nuova e più bella aurora. Questo non è poco!

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