Tempo fa si è svolta a Roma un’imponente manifestazione dei vigili urbani di molte città italiane. Per me quella manifestazione è stata una sorpresa! Pensavo ingenuamente che, dopo quanto accaduto a Roma e a Palermo a Capodanno, anche i vigili urbani delle altre città si vergognassero di appartenere ad una categoria che si era infamata in maniera così ignominiosa di fronte all’opinione pubblica dell’intero Paese. Invece no, guidati dai soliti sindacati, si sono presentati con una faccia tosta difficilmente immaginabile per protestare e per reclamare ulteriori benefici. Ho capito così che in Italia anche il pudore è letteralmente scomparso. Avrei approvato se i manifestanti avessero chiesto una condanna esemplare per i colleghi fannulloni ed imbroglioni, invece no, hanno chiesto ulteriori benefici per la categoria. Io sono portato a pensare che tutto questo sia dovuto in buona parte ai sindacalisti che, per stare a galla, per non lavorare e per avere accesso a carriere ambite, hanno sempre predicato diritti e mai doveri. È legittimo aspirare a retribuzioni sempre più vantaggiose però, in questo momento così tragico per la crisi che attanaglia il nostro Paese e soprattutto per i milioni di italiani che non riescono a trovare lavoro, chi un lavoro ce l’ha deve essere già contento e chi ha un lavoro nella Pubblica Amministrazione, sia a livello statale che locale, deve essere doppiamente contento perché il suo lavoro è sicuro e il suo stipendio è certo! Non conosco i motivi della triste diatriba dei nostri dipendenti comunali, un paio di mesi fa, però sono tentato di pensare che, anche in questo caso, si tratti di una rivendicazione che tiene poco conto della solidarietà sociale.
Noi preti siamo ancora molto “ricchi”!
La crisi che ha investito i preti è almeno duplice, il primo aspetto è quello numerico: è infatti incontrovertibile che preti, frati e suore in questi ultimi cinquant’anni siano paurosamente diminuiti. Questo tipo di crisi però, che è pur reale, mi preoccupa meno perché storicamente è dimostrato che le crisi e le persecuzioni non hanno fatto altro che purificare e migliorare la “categoria” ma soprattutto perché il Signore, che non è solito scoprire le sue carte, chissà mai cosa ha in testa di alternativo! Il secondo aspetto si riferisce ai preti che si dice siano in “crisi di identità” ossia, in parole povere, che non sanno bene come collocarsi in questo tipo di società secolarizzata. Questa motivazione mi preoccupa più della prima perché mi pare svuoti dall’interno i contenuti della proposta cristiana in chi ha il compito di donarla agli uomini del nostro tempo. Avessimo anche molti preti, però non motivati, non profondamente convinti della validità della loro proposta, si smorzerebbe il loro entusiasmo, sarebbero incapaci di giocarsi tutto e di impegnarsi fino in fondo, riducendosi così a vivere una vita scialba, scolorita, arroccata all’ombra del campanile, in continua difesa della tradizione e di un piccolo gregge timido, pauroso e incapace di misurarsi con i problemi e la gente del nostro tempo. Bernanos, il celebre autore del romanzo “Il diario di un curato di campagna”, fa dire al prete che ne è il protagonista: “Non è colpa mia se vesto da beccamorto, ma io ho la gioia e ve la darei per niente se me la chiedeste!”. Oggi il sacerdote deve essere più che mai convinto di possedere, di certo non per merito suo, i valori più alti e le risposte più convincenti per le aspettative degli uomini d’oggi. Io quando celebro i funerali provo un’immensa ebbrezza nel poter affermare con convinzione che la nostra esistenza ha un senso, che c’è una meta, che ci aspetta la pienezza di vita e che il Padre ci attende a braccia aperte e per questo vale la pena di impegnarsi, di lottare e perfino di portare la croce. Mi auguro che tutti i preti riscoprano la loro grande ricchezza ideale.
Un nuovo alito di speranza
Premetto che ritengo di essere nella condizione di potermi avvalere di una saggia sentenza della cultura dell’antica Roma: “I vecchi hanno il diritto di dimenticare e di ripetersi”.
Ho già l’età per potermi rifare a questa sentenza e perciò lo faccio con tranquillità e soddisfazione! Ho scritto, anche recentemente, che quando, con Monsignor Vecchi cinquant’anni fa, aprimmo “Il Ristoro” di Ca’ Letizia non pensavamo, come invece poi è avvenuto ed avviene tutt’ora, ad una “mensa per barboni” ma sognavamo un “ristorante” per gente con pochissime risorse economiche. Non rimpiango di certo la piega che ha preso Ca’ Letizia, perché ha fatto e continua a fare un gran bene, però mi è rimasto nell’animo il vecchio progetto del “ristorante popolare” che possa permettere anche ad un operaio che guadagna mille duecento euro al mese, che ha un affitto di seicento euro e un bambino che frequenta la scuola, di poter dire, in occasione dell’anniversario di matrimonio o dell’onomastico o compleanno della moglie o del piccolo: “Questa sera vi porto fuori a cena!”, cenando con dieci euro al massimo in una sala signorile, servito a tavola da camerieri in divisa, con un menù semplice ma gustoso e vario.
Finora questo sogno è rimasto solamente una chimera. Ora però che ho letto su “Il Messaggero di Sant’Antonio” che a Milano un manager della ristorazione invita ogni sera a cena un centinaio di “poveri veri”, sapendo che i proprietari del catering “Serenissima Ristorazione”, che appronta centomila pasti al giorno, abitano in Veneto e sono dei buoni cristiani, ho messo a punto questo progetto:
a) chiederò alla Fondazione Carpinetum l’uso gratuito della sala da pranzo capace di ospitare centoventi persone.
b) chiederò agli scout se mi assicurano ogni sera una decina di ragazze e ragazzi almeno diciottenni per fare da camerieri.
c) chiederò infine ai proprietari del suddetto catering, che ha attualmente un centro cottura al Don Vecchi, se sono disponibili ad offrire almeno cento-centoventi pasti a sera con un menu fisso ma buono ed abbondante a due euro a persona. A questo scopo inizierò una novena a Padre Pio e a Santa Rita e poi procederò nel tentativo!
Vent’anni sono stati sufficienti per vedere qualche risultato
Torno ancora una volta sulla convinzione che noi, uomini di chiesa, dobbiamo utilizzare con maggior convinzione, con maggior competenza e con maggior frequenza i mezzi di comunicazione sociale che la società moderna ci mette a disposizione e ripeto che purtroppo preti, parrocchie e diocesi lo fanno ancora poco e male continuando ad affidarsi a sermoni spesso noiosi e soporiferi. Vengo all’intima conferma. I Centri Don Vecchi in definitiva sono un modo attuale per fare carità, però questa modalità, come purtroppo tante altre, è ancora circoscritta ad una città poco significativa quale è Mestre. Ho più volte scritto che “T.V. 2000” di Radio Vaticana ha trasmesso in diretta un bel servizio sul Centro Don Vecchi di Campalto. Il servizio è andato in onda di prima mattina e nonostante credessi che quell’emittente non fosse tra quelle più seguite, da quella trasmissione abbiamo ottenuto questi risultati:
a) Un manager milanese, di estrazione cattolica, ci ha chiesto un incontro per visitare le nostre strutture e documentarsi direttamente sulla nostra esperienza con lo scopo di trapiantarla nella realtà della Chiesa Ambrosiana.
b) Due docenti dell’Università di Padova hanno già preso contatti per programmare, nel mese di maggio, la visita di un pullman di universitari italiani e stranieri che intendono verificare la nostra esperienza, non solo alternativa alle attuali Case di Riposo ma innovativa nell’affrontare, con soluzioni più idonee e aggiornate, le problematiche della terza e quarta età.
c) Il Lions Club di Marghera Venezia ha chiesto, non solamente di visitare almeno un paio dei nostri centri ma, di pranzare assieme ad un gruppo di anziani presso il nostro “Seniores-Restaurant”.
Questi interventi sono giunti quanto mai graditi perché ripagano la nostra fatica, riconoscono valide le esperienze che stiamo portando avanti ma soprattutto testimoniano che è tempo di superare il modo di esercitare la carità cristiana basata sull’offerta di un pacco natalizio ai poveri o di qualche euro a chi bussa alla porta della canonica!
Il seme quando è buono prima o poi produce
Don Gino Cicutto, ora parroco di San Nicolò di Mira, è stato assegnato alla mia parrocchia nel 1972, quando era ancora chierico per fare esperienza, poi nel 1973 fu ordinato sacerdote e assegnato a Carpenedo come cappellano. Don Gino mi è caro per mille motivi: appena arrivato in parrocchia perse il padre, mi fu vicino negli anni amari della contestazione e, poiché era un ragazzo intelligente e collaborativo, nacque tra di noi un’intesa profonda ed affettuosa che si mantenne viva sia quando fu mandato a fare il parroco in Viale San Marco sia quando fu trasferito a Mira. Don Gino mi invia sempre il foglio della sua comunità ed io faccio altrettanto con L’Incontro e perciò, anche se non ci telefoniamo e non ci vediamo di frequente, il rapporto rimane caldo e affettuoso. Ho scritto tante volte che leggo con interesse e purtroppo spesso con amarezza tanti bollettini parrocchiali che frequentemente trovo insignificanti e miseri però, sia “Proposta” di mio fratello don Roberto che “S. Nicolò” di don Gino, o “Lettera aperta” di don Gianni, li seguo con particolare attenzione. Il settimanale di don Gino rispecchia la sua persona: calmo, ordinato, pacato ed equilibrato, mai polemico anzi sempre conciliante e sereno. Don Gino, che credo faccia da direttore, giornalista e tipografo, tiene da sempre una rubrica: “Appunti” che rispecchia un po’ il mio “Diario” ma si differenzia da esso perché lui non è mai spigoloso e polemico come invece capita a me, ma sempre pacatamente positivo. Ebbene in uno degli “Appunti” di qualche settimana fa c’è un messaggio che solo io potevo cogliere fino in fondo perché coinvolto nella sua riflessione. Dice infatti don Gino che, venendo da me, apprese la mia simpatia e la mia condivisione totale circa le prese di posizione di don Mazzolari, prete inviso alla gerarchia di quei tempi perché profeta di una Chiesa aperta ai poveri, ai lontani e perfino agli oppositori e, ora don Gino, conclude rilevando come le proposte di Papa Francesco sulla Chiesa “casa di misericordia” ben si coniughino con il pensiero scomodo di don Mazzolari. Mi ha fatto felice sapere che la mia testimonianza di più di quarantani fa è stata un seme che continua a germogliare e a produrre frutti e mi ha fatto concludere che nulla di quanto si semina con amore e convinzione va perduto!
Convinzione feconda
Leggo da molti anni una rivista bimestrale delle Suore Apostoline che tratta prevalentemente di scelte vocazionali. “Se Vuoi”, così si chiama la rivista, tra le righe suggerisce le domande: “Che cosa il Signore vuole da me? Qual è il mio posto nel progetto di Dio?” e poi, neanche troppo velatamente, incoraggia la risposta radicale di dedicare l’intera vita a Dio e al prossimo. La rivista, che è di visioni larghe, non si limita a suggerire la scelta religiosa ma tenta anche di incoraggiare la scelta di una famiglia realizzata con maggiore consapevolezza ed inquadrata alla luce della fede ed infine non trascura neppure l’impegno ad aiutare tutti a comprendere che la vita è un magnifico dono da spendere sempre anche per gli altri. Nell’ultimo numero che mi è arrivato, ho trovato un bel servizio sulla testimonianza della Delbrêl, una splendida ragazza che, partita da un ateismo radicale e da una militanza di comunista convinta, folgorata dal Signore, sceglie di testimoniare la sua fede e il suo amore per l’uomo girando per i sobborghi più degradati delle periferie parigine. La sua testimonianza, in linea con la spiritualità dei nostri giorni, è discreta, silenziosa, aperta a tutti e in atteggiamento di comprensione e di accettazione del bene che può provenire anche da posizioni opposte a quella cristiana. Nel servizio mi ha colpito soprattutto un’affermazione di questa donna che interpreta, nella maniera più positiva, la proposta cristiana calata nella realtà del nostro tempo. Ella dice infatti: “La fede vince sempre e là dove pare non vinca, non è essa che perde ma è che la nostra presunta vita di fede, che non è né autentica né evangelica, che fallisce!”. Questa affermazione mi pare in linea con quella di Gandhi, la guida spirituale indù, che affermava: “L’amore vince tutto e sempre e quando pare che non vinca non dipende da esso, ma dal fatto che quello offerto non è vero amore!”. La crisi religiosa dei nostri giorni non è causata dall’incapacità di presa della proposta cristiana sulla gente d’oggi ma dal fatto che essa è impoverita e adulterata dai cristiani attuali!
Anche da noi
Un paio di settimane fa ho confidato, agli amici de “L’Incontro”, che mi sono sentito quanto mai gratificato dalla decisione di un giovane barbiere dell’alta Italia che ha scelto di lavorare anche il lunedì, tradizionale giorno di riposo per questa categoria di lavoratori, e di mettere a disposizione dei poveri il ricavato della sua fatica. Qualche giorno fa sono andato da Valter, il mio barbiere, che conduce, assieme a sua sorella, uno dei più eleganti saloni della nostra città. Valter è un gran bravo ragazzo che, pur diplomato al Pacinotti, ha scelto di dedicarsi a questo lavoro artigianale, lavoro che svolge con scrupolo, competenza e grande cordialità. Piano piano è riuscito ad acquistare il suo negozio in via Trezzo e recentemente lo ha fatto restaurare trasformandolo in uno dei saloni più eleganti e frequentati di Mestre. Sono anni che affido a lui la mia chioma, in parte perché il suo negozio è a due passi dalla mia vecchia parrocchia, ma soprattutto perché mi piace incontrare un professionista serio che lavora bene e con gusto. Io frequento raramente il barbiere perché mi pare di avere sempre cose più interessanti e urgenti di cui occuparmi ma, ogni tanto, finisco con l’andarci, un po’ perché mi sento a disagio per la mia capigliatura scapigliata e ribelle ma soprattutto perché le “mie” vecchie brontolano per il mio aspetto. L’ultima volta che ci sono andato, per una naturale associazione di idee, mi è tornato alla mente il parrucchiere benefico della televisione e quasi con sorpresa mi sono detto: “Mi sono sentito edificato perché quel barbiere, a me sconosciuto, lavora un giorno alla settimana devolvendo il ricavato in favore dei poveri e perché non dovrei provare lo stesso sentimento per il “mio” barbiere di fiducia che da una vita, conoscendo il mio impegno in favore dei vecchi poveri, mi taglia i capelli accettando solamente cinque euro?”. Talvolta ci sorprendono le cose belle che leggiamo sui giornali e non ci accorgiamo di quanto ci sia di bello, nobile e generoso anche nella nostra vita di ogni giorno! Al che ho rinnovato il proposito di annotarmi tutte le cose buone in cui mi imbatto giornalmente per lodare il Signore e credere nell’uomo.
Mantengo il “record” ma sono contento che esso sia insidiato
Venerdì, appena arrivato il nuovo numero di “Gente Veneta”, il periodico della nostra diocesi, ho sfogliato rapidamente il settimanale per dargli una prima occhiata esplorativa, ripromettendomi poi di leggere, con più calma, gli articoli che avrei trovato interessanti. Aperta la pagina dedicata alla riviera del Brenta sono stato subito colpito da una foto che occupava quasi mezza pagina del giornale e che ritraeva un folto gruppo di chierichetti. Pur non avendo tempo non sono riuscito ad esimermi dal leggere la breve didascalia da cui ho appreso che la parrocchia di San Nicolò di Mira, in cui è parroco don Gino Cicutto, il mio cappellano di trent’anni fa, conta su ben ottantatré chierichetti. Di primo acchito ho tirato un sospiro di sollievo constatando che la mia vecchia parrocchia di Carpenedo manteneva ancora il primato con i suoi cento chierichetti ma, immediatamente dopo, mi sono sentito enormemente felice nell’apprendere che il mio allievo di un tempo aveva imparato bene “il mestiere” ma, soprattutto, perché quel numero fa sapere, a tutte le 128 parrocchie del Patriarcato, che se c’è deserto attorno ad esse non è perché questa sia una nemesi storica ma semplicemente perché c’è mancanza di coraggio e di impegno! Questa testimonianza però non finisce qui perché quegli ottantatré ragazzi hanno tutti di certo un papà ed una mamma e quasi tutti anche un nonno e una nonna che probabilmente vanno a Messa, non fosse altro che per vedere le loro creature in tunica bianca servire sull’altare! Quei chierichetti, inoltre, hanno certamente anche compagni e compagne che si porranno la domanda: “Perché non ci vado anch’io?”. La crisi religiosa è determinata da molte cause di cui alcune indipendenti dalla nostra volontà ma, il disimpegno e il quieto vivere sono ascrivibili unicamente alla nostra responsabilità, tuttavia, se lo volessimo, sarebbero impedimenti facilmente superabili.
Un mio convincimento non condiviso
Ho già scritto parecchie volte che io condivido fino in fondo la scelta fatta dal Lussemburgo. Questo piccolo stato, una decina di anni fa, ha scelto di sciogliere il proprio esercito mandando i propri soldati a coltivare la terra o a lavorare nelle fabbriche e vendendo come ferro vecchio i propri cannoni e carri armati. Quella gente, così intelligente, ha capito che con le armi non si risolve proprio nulla. Avrei comunque ritenuto i lussemburghesi intelligenti anche se la loro scelta fosse stata dettata solo dalla constatazione che, in caso di belligeranza, il loro esercito sarebbe contato meno di una pulce al confronto di quello di elefanti come: America, Russia, Cina ed altri ancora! Dal momento però che né Napolitano, né Mattarella e neppure il caro Renzi, che dovrebbe ben sapere che nella legge scout è scritto: “Lo scout è amico di tutti e fratello di ogni altro scout”, si sono decisi a seguire l’esempio del Lussemburgo, di fronte a questo muro di gomma rappresentato dai nostri politici, ho dovuto ridurre, pur con amarezza, i miei sogni e mi accontenterei che i responsabili del nostro Paese impegnassero le decine di migliaia di nostri soldati “volontari” in “lavori socialmente utili” ad esempio: spalare la neve, ricostruire le strade e poiché sono addestrati all’uso delle armi si impegnassero anche a vigilare perché i ladri non assaltino le banche, saccheggino le case, compiano rapine, perché i “ragazzi” dei centri sociali non facciano gazzarra, non imbrattino i muri o sfascino le automobili, non disselcino le strade, e gli ultras italiani e stranieri non compiano atti di guerriglia urbana fuori e dentro gli stadi. Non so perché sia proprio necessario mantenere un esercito che costa fior fior di quattrini e che, nell’ipotesi facesse quello per cui è stato costituito, non farebbe altro che creare rovine ed uccidere innocenti. Ho un nipote nell’Aereonautica Militare, ormai vicino alla pensione, un bravo cristiano che ama la sua famiglia e fa catechismo, qualche settimana fa, incontrandolo, spinto dalla curiosità, gli ho chiesto: “Ma che cosa fai ogni giorno quando vai in caserma?”. Mi ha risposto convinto del suo lavoro: “Sono occupato nella manutenzione dei missili!”. Pover’uomo, povera Italia, povero mondo!
Un capitolo per il mio testamento
Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi, scrisse nel suo testamento: “Lascio in eredità ai miei discendenti i progetti che non sono riuscito a realizzare”. Ho pensato in questi giorni, avendo compiuto ottantasei anni e constatando che “il tempo si fa breve”, che debbo aggiungere un paragrafo al mio testamento: quello di costruire per Mestre un progetto che metta almeno in rete tutte le “agenzie” cittadine della carità o meglio della solidarietà. Ho tentato con la “Cittadella della Solidarietà” ma, con l’uscita dalla diocesi del Patriarca Scola, tutto è finito nel dimenticatoio. Ho pure tentato di avviare un progetto, pur parziale ma moderno, ossia quello di creare un sito “Mestre Solidale” in cui sono fornite tutte le informazioni relative agli enti caritativi esistenti in città. Ho però concluso che i poveri non hanno dimestichezza con internet e che colleghi preti, San Vincenzo e soprattutto Caritas pare che, a tal proposito, siano riottosi. A Mestre non esiste tutto quello che sarebbe necessario per aiutare i poveri, però qualcosa c’è e se ci fosse un minimo di coordinamento qualcosa di più e di meglio penso che si riuscirebbe a fare. La mia speranza si è rinfrancata con la nomina del nuovo direttore della Caritas, però passano i mesi senza che alcuno si muova; sto perdendo le speranze. Questi pensieri e soprattutto queste preoccupazioni si sono rinnovate leggendo su “Proposta”, il settimanale della Parrocchia di Chirignago, il trafiletto che trascrivo.
L’anno scorso abbiamo tentato una strada nuova nell’approccio ai “mendicanti” e cioè ai poveri che suonano alla porta delle case e quindi anche della canonica. Avevamo dovuto cambiare perché quelli che chiedevano l’elemosina non erano per nulla degli stupidi e vedendo che ogni giorno cambiava il segretario, ogni giorno si presentavano a prendersi l’uno o i due euro.
E si facevano la “paga mensile”.
Per evitare questo inconveniente abbiamo deciso di dare due euro solo il mercoledì. Ma in un lampo la voce si diffuse tra i mendicanti e ben presto dovemmo scendere ad un euro a testa.
Ma adesso la situazione si è fatta ugualmente insostenibile: 115 la scorsa settimana, 95 questa, … di questo passo dove andremo a finire?
Il fatto è che quelli che hanno bisogno anche di un euro sono sempre di più. Sono una marea.
Avevo sperato che questa scelta fosse sostenibile.
Ma mi accorgo che non lo è: così, tra il lusco e il brusco, distribuiamo (o sarebbe meglio dire: buttiamo dalla finestra) qualcosa come cinque o seimila euro all’anno.
Troppo, se teniamo conto che questa è solo una delle voci che fanno capo alla Carità.
La soluzione prospettata da don Roberto, parroco di Chirignago, mi pare sia meno del minimo per una comunità cristiana, però se messa in rete, se i cinque o seimila euro che ogni anno dice di buttare dalla finestra fossero messi in “rete” e questa “rete” si rifacesse ad un progetto globale, studiato con intelligenza e con cuore, di certo non risolverebbe il problema dei poveri ma perlomeno le offerte non sarebbero “buttate”! Alla mia veneranda età non credo di poter fare altro che inserire nel testamento questo mio sogno rimasto finora tra le nuvole del cielo.
Radio Vaticana al Don Vecchi di Campalto
Qualche settimana fa mi è giunta una telefonata che, sia perché sono duro di orecchi, sia perché non conoscevo l’interlocutore, non ho capito subito la richiesta poi, piano piano, ho compreso che un reporter dell’emittente del Vaticano mi chiedeva di fare una trasmissione in diretta da uno dei nostri Centri. Abbiamo optato, per praticità, per quello di Campalto perché sia il giornalista che la troupe per la ripresa erano di Venezia, quindi a due passi dal Don Vecchi di Campalto. La mia adesione è stata subito entusiasta perché mille volte ho dichiarato che purtroppo i nostri Centri, sia quelli già realizzati, che quelli che riusciremo a costruire in futuro non rappresenteranno una risposta esaustiva alle centinaia di migliaia di anziani che si trovano in condizione di disagio, quindi la cosa più importante è offrire una testimonianza, creare cultura affinché Comuni, Regioni, e perché no, Diocesi e Parrocchie prendano a cuore questa realtà “degli anziani” che rappresenta una delle nuove povertà. Chi meglio della televisione a livello nazionale può promuovere questo progetto? Ci siano incontrati con i vecchi e i nuovi direttori dei nostri Centri di buon mattino sul piazzale del Don Vecchi e mentre il cameraman filmava gli esterni noi ci siamo preparati all’interno dell’edificio. La trasmissione, di una decina di minuti, che non è proprio poco per una trasmissione televisiva, è stata impostata su due momenti diversi. La prima parte è consistita nella visita ad un alloggio abitato da due coniugi entrati da poco tempo. L’appartamento era lindo ed arredato con estremo buon gusto e i due residenti pareva si fossero laureati a Cinecittà tanto sono stati bravi. Credo che gli utenti di “TV 2000”, così si chiama l’emittente del Vaticano, abbiano pensato che il Don Vecchi sia l’anticamera del Paradiso o almeno una suite di lusso di un albergo cinque stelle. La seconda parte della trasmissione si è svolta invece nel salone del Centro che è immenso e molto bello. Mi sono tolto la soddisfazione di ripetere ai miei colleghi preti e ai vescovi miei superiori che le nostre strutture sono nate dalla convinzione che la fede senza le opere è “aria fritta” e che esse vogliono essere un segno concreto del comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso!”.
Giocare a “nascondino”
Spesso ripenso alle mie povere riflessioni affidate alle pagine de “L’incontro” per verificare se sono veramente oneste e se offrono ai lettori almeno qualche verità e un po’ di aiuto fraterno. Recentemente ho scritto che sarei molto contento se il Signore mi desse la possibilità di vivere almeno un’altra volta l’incanto della primavera, e più recentemente, che avendo compiuto ottantasei anni, dovrei essere pronto, come San Paolo, a ricevere “la corona di gloria”; questo almeno è il mio desiderio e la mia speranza. Sennonché, qualche giorno fa, mentre divagavo su questi pensieri mi sono ricordato di come scherzavamo con mio padre quando, ormai abbastanza anziano, ripeteva questa frase: “Mi basterebbe vedere mio figlio Armando prete poi me ne andrei felice all’altro mondo”. Arrivato io al sacerdozio gli domandammo: “Papà, ora che Armando è diventato sacerdote; sei contento di andartene?” al che ci rispondeva che però avrebbe tanto desiderato veder salire all’altare mio fratello Roberto, l’ultimo nato, che ha vent’anni meno di me. Anche Roberto, ora parroco a Chirignago, divenne prete. Allora, ora uno ora l’altro di noi fratelli gli chiedeva divertito: “Papà ora vai?”. Ma egli pronto soggiungeva: “C’è in seminario, prossimo al sacerdozio anche mio nipote Sandro, figlio della Rachele, e mi piacerebbe tanto vedere anche lui servire il Signore!”. Sandro è diventato prete anche lui facendo felice ancora una volta mio padre. Ho l’impressione però che avesse in serbo nel suo animo qualche altra desiderio con cui giustificare ancora una volta il desiderio di rimanere qui con noi. Sennonché una mattina, dopo aver aperto la sua bottega di falegname, se ne andò improvvisamente. Ho la sensazione di essere veramente figlio di mio padre e temo che, anche se avrò la grazia di godere della nuova primavera, che il verde dei prati e le belle margherite già preannunciano, sicuramente troverò qualche altro desiderio da soddisfare prima di essere pronto per andare nell’aldilà!
Compleanno
Invidio le persone che compiono gli anni inosservati, senza che nessuno se ne accorga e senza regali. A me capita esattamente l’opposto; un po’ per colpa mia, che spiffero sempre ai quattro venti le mie cose, ed un po’ per la vita pubblica che conduco, devo pagare uno scotto a questo tipo di omaggio che di certo ha dei risvolti positivi ma, anche il suo prezzo che talora è consistente. Comunque il compiere ottantasei anni mi ha costretto a riflettere e a ringraziare il Signore, sia per la mia vita passata, che è stata bella e piena di soddisfazione, sia per quella presente perché il Signore sta continuando a donarmi una vita interessante, intensa, e piena di cose positive. In occasione del compleanno, che quest’anno è capitato nel bel mezzo della Quaresima, non ho potuto fare a meno di collegarlo al cammino che sto facendo, assieme alla mia comunità, verso la Pasqua e la Resurrezione vedendo, nel “segno”, quella reale che ci immette nella vita nuova. L’annuncio della Resurrezione che ci invita a vivere da uomini nuovi mi fa piacere ma mi apre pure il cuore alla speranza di quella definitiva che per me è assai vicina. In questa prospettiva mi sono tornate alla mente le parole di San Paolo: “Ho fatto la mia corsa, ho combattuto la mia battaglia, ho conservato la fede ed ora non mi resta che ricevere la corona di gloria”. Mi sono però trattenuto dal pronunciarle perché mi sembrava di pretendere troppo anche perché posso ben dire che, facendomi prete, ho ricevuto già il centuplo per la mia scelta ed ora posso solo sperare che la bontà del Signore mi doni anche la “vita eterna”.
La desertificazione del nostro mondo
Da qualche mese ogni giorno leggo una paginetta del “Breviario Laico” scritto dal Cardinal Ravasi. Il volume, edito dalla Mondadori e pubblicato nella collana “Oscar best-sellers”, offre ogni giorno una riflessione sempre dotta e brillante dell’attuale Ministro della Cultura del Vaticano che, partendo da una citazione di illustri pensatori, sviluppa una breve meditazione. Ammiro tantissimo Ravasi per la sua cultura ma raramente il suo dire tocca il mio cuore perché il suo è un discorso sempre scarno ed intellettuale del quale mi resta quasi sempre ben poco. Nell’introduzione Ravasi inizia le sue riflessioni con questo racconto di cultura araba.
Dio aveva creato il mondo come un giardino, fitto di alberi, pullulante di sorgenti, costellato di prati e di fiori. Là aveva deposto gli uomini e le donne ammonendoli: “Ad ogni cattiveria che commetterete lascerò cadere un granello di sabbia in questa immensa oasi del mondo” ma gli uomini e le donne, indifferenti e frivoli, si dissero: “Che cosa è mai un granello di sabbia in una così immensa distesa verde?” e si misero a vivere in modo fatuo e vacuo perpetrando allegramente piccole e grandi ingiustizie. Essi non si accorsero che, ad ogni loro colpa, il Creatore continuava a calare sul mondo i granelli aridi di sabbia. Nacquero così i deserti che di anno in anno si allargano stringendo in una morsa mortale il giardino della terra tra l’indifferenza dei suoi abitanti.
Questo racconto, che inquadra in maniera pressoché perfetta l’insipienza delle nostre industrie che stanno letteralmente desertificando la terra, vale anche per i comportamenti umani. Un tempo i sacerdoti ci mettevano in guardia dal commettere anche i peccati veniali perché “aprivano le porte a quelli mortali”, ora pare che non ci si preoccupi né degli uni né degli altri, distruggendo così la sensibilità delle nostre coscienze, inaridendo il nostro cuore e rendendolo incapace di cogliere ciò che nella vita c’è di più bello e più delicato. Se non ci fermeremo “il deserto” ci ruberà tutta la gioia del vivere!
Preghiera di “pronto soccorso”
Qualche giorno fa ho letto la testimonianza di una certa Monica, residente a New York, che ci offre questo semplice ma edificante esempio di fede. Questa cristiana della grande metropoli racconta che ad un’amica che le chiedeva consiglio perché tormentata da un dubbio, rispose suggerendole di pregare. Al che questa soggiunse: “Ma come?” ed ella continuò: “Ci sono tanti motivi per farlo; nel corso degli anni ho pregato nei momenti felici per gratitudine e in quelli dolorosi in cerca di aiuto e consolazione. Ho compreso che non esiste un metodo particolare, un metodo che funzioni meglio degli altri e che una breve preghiera di “pronto soccorso” – Dio aiutami – è egualmente efficace di un salmo recitato in Chiesa in ginocchio!”. Questa signora ha proprio ragione: anch’io ho fatto la medesima esperienza. Al mattino recito il breviario, poi vado ad aprire la “mia Cattedrale” e quando passo davanti al Tabernacolo il cuore mi spinge a pronunciare, davanti al segno della presenza di Gesù nel nostro mondo, questa preghiera di “pronto soccorso” – Mio Dio e Signor mio – e neppure quando, qualche ora dopo, officio la Santa Messa riesco a raggiungere questa intensità di comunione col Signore. Spessissimo, quando recito le tantissime e bellissime formule di preghiera non raggiungo la stessa intensità di comunione con Dio che avverto quando recito implorante la piccola e cara “preghiera” che la signora americana ha definito tanto bene chiamandola preghiera di “pronto soccorso”.