Finalmente un sussulto di dignità nel quartiere

La storia vecchia e recente del quartiere don Sturzo non è stata veramente esemplare per solidarietà verso il prossimo e per sensibilità sociale. Non vorrei ritornare ancora una volta a ricordare le pagine tristi che hanno caratterizzato il passato di questo quartiere che, per i motivi più diversi, ha assunto atteggiamenti illiberali e di una pseudo aristocrazia borghese.

Ricordo le barricate per opporsi alla costruzione delle case popolari, quindi l’opposizione assurda alla costruzione del Centro don Vecchi uno, altrettanto per il “don Vecchi due” e l’intervento presso il Comune, che era disposto a cedere alla Fondazione un pezzo di parco per la costruzione del “don Vecchi cinque” per gli anziani in perdita di autonomia, realtà che sarebbe già funzionante se non ci fosse stata questa opposizione veramente incomprensibile.

Ricordo ancora la lotta perché la “poveraglia” non accedesse ai magazzini dei vestiti, dei generi alimentari e dei mobili. Purtroppo ancora l’opposizione, con manifestazioni plateali, quando s’era pensato di utilizzare la cascina Mistro per gli anziani non autosufficienti, progetto che risultò poi realizzabile per altri scopi. Infine ricordo la campagna contro la realizzazione della “Cittadella della solidarietà” nel campazzo della Società dei 300 campi.

Ora finalmente pare che questo quartiere abbia un sussulto di dignità di fronte allo scempio e all’infinito spreco di denaro, da parte del Comune, per la bonifica del parco antistante la chiesa di viale don Sturzo. Sono stati tagliati alberi pluridecennali, s’è fatto scempio del parco, creando colline di terra, non si sa se bonificata o da bonificare. Il tutto poi s’è fermato, quasi a perpetuare in viale don Sturzo una nuova Ostia o Pompei.

Finalmente da qualche giorno sono apparsi, sullo steccato che chiude il parco, striscioni con accuse roventi contro il Comune e chi, con tanta insipienza, ha prodotto questo tsunami e pare volerlo lasciare a perpetua memoria delle scorie del tempo in cui Mestre aveva un polo industriale che produceva ricchezza.

Vedendo questi striscioni, che la pioggia sta stingendo, ho sentito il bisogno di dire: “Finalmente, cari compatrioti di viale don Sturzo, posso essere con voi per dare una ulteriore spallata ad una amministrazione pubblica spendacciona ed inconcludente! Non lo meritereste, ma per coerenza personale lo faccio lo stesso!”.

Preti in pensione

Io vivo, a livello formale, molto marginalmente la vita pastorale della città. In realtà però mi lascio coinvolgere fin troppo dalle vicende delle parrocchie, soprattutto di Mestre.

Ogni tanto mi giungono delle notizie veramente preoccupanti. Qualcuno mi ha informato che durante l’anno in corso dovrebbero andare in pensione, per raggiunti limiti di età, don Rinaldo Gusso, parroco di San Pietro Orseolo, don Franco De Pieri, parroco a San Paolo di via Stuparich, don Angelo favero e monsignor Fausto Bonini del duomo di San Lorenzo. Le prime due parrocchie che rimarranno presto vacanti potrebbero essere inglobate: alla comunità di Carpenedo o l’altra a quella di San Lorenzo, magari creando due piccole comunità di sacerdoti che si facciano carico anche degli spazi lasciati liberi dai neopensionati. Così facendo si renderebbe più razionale l’organizzazione parrocchiale, eliminando servizi doppi, utilizzando in maniera più razionale i sacerdoti, e creando un’organizzazione parrocchiale aggiornata con un maggior utilizzo del volontariato, magari assumendo qualche operatore pastorale che sbrighi tutte quelle pratiche e guidi quei servizi che sono inerenti ad una comunità cristiana.

Quello che invece mi desta maggiore preoccupazione è la sostituzione del parroco della comunità cristiana del duomo. San Lorenzo non è solamente la parrocchia centrale, a cui idealmente fa capo la città, ed è ancora una parrocchia particolarmente numerosa, ma soprattutto sono convinto che questa parrocchia sia attualmente il punto di riferimento per le altre comunità cristiane della città.

Monsignor Bonini ha creato, in non moltissimi anni, una parrocchia modello, come strutturazione parrocchiale ed ha posto in atto un tipo di pastorale di avanguardia che dà risposte globali atte a rispondere alle attese dei parrocchiani. Attualmente la parrocchia del Duomo penso sia l’unica comunità cristiana della nostra città capace di dialogare con la cultura, con la società civile, col mondo dell’arte, dello spettacolo, ed abbia approntato strumenti di comunicazione sociale quanto mai efficienti.

A questo riguardo, già qualche tempo fa ho presentato il prontuario che quella parrocchia pubblica ogni anno, per rendersi conto dell’estrema articolazione ed attualità delle sue proposte pastorali.

Qualche settimana fa ho visitato la canonica e mi sono reso conto di come il suo piano terra rappresenti il centro nevralgico estremamente moderno e funzionale della pastorale parrocchiale. Sono veramente preoccupato che venga a mancare la mente pensante di questa parrocchia che rappresenta la mosca cocchiera ed il riferimento stimolante per le altre parrocchie di Mestre.

Mestre, terra di missione senza missionari

Qualche settimana fa ho scoperto un nuovo settimanale di matrice cristiana: “A sua immagine” e l’ho presentato ai miei amici descrivendo i pregi e i limiti di questo periodico che calca le orme del più famoso e diffuso “Famiglia Cristiana”. In quella occasione mi sono permesso di aggiungere qualche nota sul primo e sul secondo settimanale.

Famiglia cristiana in questi ultimi anni ha avuto un calo considerevole di copie, si presenta con una veste tipografica e con un’impostazione redazionale più sofisticata e soprattutto s’è decisamente schierata a sinistra.

Il nuovo periodico invece è di taglia più popolare, presenta il commento della liturgia quotidiana, pubblica a puntate un romanzo di ispirazione religiosa e soprattutto presenta una serie notevole di testimonianze di persone del nostro tempo che parlano apertamente della loro fede. Un limite mi pare sia quello di presentare articoli un po’ prolissi e il “mistero” della dicitura sulla copertina della rivista: “La rivista ufficiale Rai 1”! Penso che utilizzi il materiale usato nella rubrica di carattere religioso che viene trasmessa ogni domenica da quel canale televisivo.

Questa settimana però è apparsa in edicola un’altra rivista: “Credere”. Stesso formato, stesso contenuto, anch’essa edita dalle Paoline, come Famiglia Cristiana.

Mi ha alquanto stupito questa sovrapposizione diretta alla stessa frangia di lettori. Quanto non sarebbe stato più opportuno che questi periodici si rivolgessero a pubblici diversi, o si accorpassero per abbattere i costi e migliorare i contenuti!

Purtroppo il mondo cattolico non pare avviarsi alla sinergia oggi estremamente necessaria. Ci sono mille ordini religiosi, talora sparuti, che si fanno concorrenza e sopravvivono stentatamente offrendo contenuti e proposte scadenti. La stessa cosa sta avvenendo ora per i settimanali.

Questa “scoperta” non esaltante mi ha portato a pensare ai periodici parrocchiali della nostra città, ove il degrado è desolante e la sovrapposizione ancora più assurda. La ventina di periodici parrocchiali a fatica può interessare, molto marginalmente, solo una frazione della stessa piccola parte di praticanti, offrendo loro informazioni e proposte di infima qualità e pochissimo appetibili.

Per me è angoscioso pensare che al massimo il 15 per cento dei concittadini vengono raggiunti o dalla predica domenicale del parroco o dal foglietto parrocchiale. Mi chiedo come si concilia il discorso di Gesù della “pecorella smarrita con l’85 per cento dei cristiani oggi assolutamente abbandonati a se stessi. Che non sia mai venuto in mente alla dirigenza di stampare un periodico, pur modesto, perché sia mandato, ogni settimana ad ogni famiglia della città! Spero che non si perda anche l’occasione dell’anno della fede per realizzare qualcosa del genere!

Finalmente una buona notizia

“Gente Veneta”, il settimanale della nostra diocesi, arriva al “don Vecchi” il venerdì in tarda mattinata. Venerdì scorso, come sempre, l’ho sfogliato velocemente per apprendere le notizie di maggior rilievo ed anche per essere un po’ confortato: perché mentre sul Gazzettino non trovo che titoli che mettono in luce tutte le magagne della nostra città – che sono pressoché infinite – nel settimanale diocesano pare che le parrocchie, il vescovo e le associazioni cattoliche passino di trionfo in trionfo! “Gente Veneta” me lo tengo appresso perché mi è di conforto il poter apprendere che nel patriarcato di Venezia è eterna primavera.

Venerdì scorso dunque diedi un’occhiata ai vari titoli e mi soffermai un istante sul titolo a quattro colonne in prima pagina: “Il Patriarca: ricordiamoci i poveri!”. Ma soprattutto l’occhiello destò il mio interesse; diceva infatti: “per i senza fissa dimora un nuovo dormitorio a Mestre”. La cosa mi incuriosì quanto mai e andai immediatamente a pagina 10 alla quale rimandava il “titolo civetta”.

Sopra una foto a cinque colonne in cui è ripreso il Patriarca a Betania (la mensa dei poveri di Venezia) il giornalista riportava le parole del nostro vescovo: «Vorrei accrescere l’accoglienza che diamo in terraferma per quanto riguarda il dormitorio. Cercherò di fare in modo che nei prossimi mesi si individuino gli spazi e si reperiscano i fondi per realizzare una nuova struttura di accoglienza per la notte per una ventina di persone».

La mia prima reazione è stata: “Finalmente!” La seconda: “A Mestre non si farà una `nuova struttura’, perché quella sognata sarà la prima in assoluto! Perché al di fuori dei Centri don Vecchi, che attualmente mettono a disposizione 315 alloggi per gli anziani poveri, e la parrocchia di via Aleardi, che offre ospitalità per una settimana alle badanti che vengono dai Paesi dell’est, la Chiesa veneziana non offre nient’altro”.

Il mio terzo pensiero: “Speriamo non si pensi a un dormitorio come quello gestito dal Comune in via Santa Maria dei Battuti, perché quello, nonostante tutta la buona volontà di Chimisso e degli attuali gestori, è una struttura di stile ottocentesco assolutamente sorpassata”.

E ancora: “Speriamo che si riuniscano tutti gli esperti del settore, ma soprattutto coloro che si occupano positivamente di queste cose per sentire il parere di tutti”.

E non è finita: “Venti posti sono assolutamente pochi, bisognerebbe arrivare almeno a cinquanta”. “La struttura a cui puntare dovrà essere quella di un albergo, per quanto modesto”. “La gestione non solo non deve pesare sulla diocesi, ma anzi deve essere attiva se si vuole che essa continui. A questo riguardo noi del “don Vecchi” avremo più di un consiglio da offrire”.

La tentazione della Carinzia

La sera ceno verso le sette e mezza, ceno da solo, cosicché mi concedo la compagnia della televisione, dato che è possibile fare una cosa e l’altra contemporaneamente.

A quell’ora la Tivù di Stato trasmette, sul terzo canale, il giornale radio del Veneto, che dura una ventina di minuti. Qualche sera fa riferiva circa un convegno di imprenditori del Veneto i quali esponevano le difficoltà che tutti conosciamo perfino troppo bene e per esperienza diretta. C’era uno, in particolare, di questi imprenditori, una persona semplice ma intelligente, che si era tirato su un’industria dal nulla, che confessava la sua intenzione di traslocare oltre confine, nella vicina Carinzia. Il suo discorso era talmente limpido e convincente che, pensando al “don Vecchi 5” (per l’inizio del quale abbiamo presentato il progetto il dieci agosto dello scorso anno senza aver ottenuto ancora la concessione edilizia), che m’è venuto da dire: “traslochiamo anche noi in Carinzia la `nostra industria’ per i vecchi!”. In Carinzia la luce costa meno, si pagano meno tasse ed in un paio di mesi si possono ottenere i permessi per aprire un’industria, non una struttura di carattere sociale!

La Fondazione, che vuol costruire una struttura per gli anziani in perdita di autonomia, è una ONLUS, perciò un ente riconosciuto ufficialmente come non lucrativo, ha avuto tutta la disponibilità e l’appoggio dell’assessore Micelli, ha dimostrato sul campo di “battere tutti” a livello economico, sociale ed umano; può offrire degli esempi riconosciuti da tutti come validi e all’avanguardia. Per di più ora che la situazione dell’edilizia è, a dir poco, tragica, la richiesta di risposte alle urgenze del mondo degli anziani è enorme, la necessità di abbattere i costi di gestione ormai insopportabili per la nostra società è altrettanto evidente. Nonostante ciò la macchina burocratica rimane legnosa, macchinosa, borbonica, impossibile!

Tra le urgenze assolute per il bene del nostro Paese c’è certamente quella di smantellare, semplificare e riqualificare tutto l’apparato burocratico, autentica piaga sociale dello Stato e del parastato italiano. I tecnici del Comune di Venezia ci hanno messo otto mesi – dico otto mesi – per approvare il progetto. Il 26 marzo è arrivato finalmente l’OK tecnico, ora stiamo a vedere il tempo che ci s’impiegherà per avere quello politico-amministrativo. Il progetto deve passare ancora in Quartiere, in Pregiunta, in Giunta ed infine in Consiglio comunale! Volete che non venga voglia di traslocare in Carinzia, in Slovenia, in Serbia o in Polonia?

Come comprendo e condivido il parere del piccolo imprenditore veneto!

Il testamento

Un mio vecchio parrocchiano che ogni anno, quando andavo a benedire la sua famiglia, ripeteva puntigliosamente che lui non era credente, un paio di anni fa mi ha scritto una lettera diffidandomi dal continuare ad invitare i concittadini a ricordarsi degli anziani poveri e suggerire a chi non aveva responsabilità e doveri verso dei congiunti, di far testamento a favore dei Centri don Vecchi.

Di certo non ho tenuto alcun conto di questa intromissione inopportuna, ho continuato per la mia strada ottenendo, fortunatamente, dei buoni risultati. Per timore che qualche altro concittadino mi accusi di autoreferenzialità, non faccio l’elenco dei lasciti ottenuti, però assicuro che i quattro Centri, con i relativi 315 alloggi protetti, non sono frutto di rapine in banca, ma il risultato di offerte e di lasciti testamentari da parte di concittadini saggi e generosi che hanno pensato anche a chi era meno fortunato di loro.

So per certo che altri concittadini hanno fatto questa scelta. Prego perché questa bella gente sono convinto che meriti una vita lunga e felice, ma spero che il giovane consiglio di amministrazione che governa attualmente la Fondazione, prima o poi raccolga i frutti dei semi che ho seminato, anche se non tutti i miei colleghi e i miei concittadini erano, o sono, di questo parere.

Più volte ho confidato a chi mi legge che io ho un’unica “padrona di casa” a cui mi sforzo di obbedire: la mia coscienza. Finora mi sono sempre trovato bene e perciò non ho nessun motivo per fare scelte diverse. Anche recentemente mi sono incontrato con un concittadino che ha avuto il coraggio e la saggezza di destinare a qualcuno che è in difficoltà il frutto della sua lunga vita di lavoro. Qualche settimana fa mi giunse la telefonata di un vecchio ingegnere che aveva intenzione di lasciare la sua casa alla Fondazione. Lo raggiunsi, lui si informò accuratamente sui progetti che stiamo perseguendo, sull’attività a favore degli anziani e poi mi confermò che avrebbe parlato col suo legale per perfezionare il testamento. Uscii dall’incontro edificato dalla lungimiranza e dalla saggezza di questo signore che ha avuto il coraggio di destinare il frutto del suo lavoro a coetanei meno fortunati.

Confesso che però faccio fatica a capire perché tanti altri concittadini che potrebbero farlo, senza nuocere a nessuno, non lo facciano, affinché la nostra città possa avere delle risposte adeguate alle urgenze più gravi di tante persone in difficoltà.

“il muro del pianto”

Talvolta, nonostante la mia veneranda età, continuo a scoprire cose interessanti e talvolta anche belle, ma altrettanto spesso mi capita di incontrare realtà quanto mai deludenti.

Al capezzale dell’economia italiana sono stati chiamati uomini di grande esperienza nel campo finanziario; ognuno dà la sua diagnosi ed ognuno propone le sue cure. Specie in questi ultimi tempi di elezioni se ne sono sentite di tutti i colori: dall’antica ricetta della “politica di mercato” proposta da Monti, a quella più timida di Bersani dopo i fallimenti catastrofici di quella della “sua scuola” che si rifà all’utopia del benessere per tutti, a quella radicale di Grillo che vuol mandare tutti a casa per permettere la nascita dell’era dell’oro!

Io, timidamente, propongo la mia, pur sapendo che sarà poco gradita a tutti. A parer mio bisogna da un lato che gli italiani si abituino a vivere in maniera più parca e a lavorare di più e, dall’altro lato, che si riduca all’osso il mastodontico apparato statale e parastatale estremamente improduttivo e che, nello stesso tempo, divora spaventosamente immense risorse.

Questa cura dimagrante deve partire dal capo dello Stato, per il quale l’Italia spende più dell’America per il suo presidente e l’Inghilterra per la sua regina. Per arrivare poi agli enti più periferici, quali sono i Comuni, che pagano troppa gente che non fa niente o quasi niente. Basti pensare al Comune di Venezia che non funziona, pur con i suoi quattromilaseicento dipendenti, quando ad un’azienda privata ne basterebbero si e no un decimo. Comunque in Italia ci sono pure altri carrozzoni arroganti, spendaccioni, supponenti, inefficienti e spesso dannosi.

Io, nel passato remoto e recente, ho avuto a che fare con la Sovrintendenza, per rendermi conto di quanto sia inutile; basta dare uno sguardo a Mestre per capire subito come, nonostante questo ente, la città sia nata e cresciuta brutta e sgangherata da un punto di vista estetico.

Ma le cose, nonostante la richiesta angosciosa di serietà e di austerità, continuano come se nulla sia successo. Non so se i miei concittadini si siano mai domandati a che cosa servisse quel cantiere sorto da sei, sette mesi accanto alla mura esterna del cimitero di Mestre. Ve lo dico io! La mura ottocentesca di semplici mattoni a vista, senza alcun pregio, era pericolante. Allora, giustamente, la si è rinforzata con una gettata di cemento alla base: questo era necessario. La Sovrintendenza però ha preteso che ogni pietra fosse tolta, ripulita e riposta nuovamente al suo posto. Ora che è stato sbaraccato il cantiere, anche Mestre avrà finalmente, come a Gerusalemme, il suo “muro del pianto”: non di certo per la nostalgia e il rimpianto per il tempio di Salomone, ma solamente per la spesa sconsiderata imposta da qualche funzionario della Sovrintendenza, per riavere un muro di vecchi mattoni, cotti nelle vecchie fornaci di Carpenedo e manomessi a costi impossibili.

Calatrava

La scorsa settimana un giovane architetto mestrino mi ha mandato delle riflessioni estremamente amare sullo sperpero inerente alla cosiddetta “ovovia” che dovrebbe transitare sul ponte di Calatrava per i disabili.

Le argomentazioni sono, a dir poco, spietate, ma altrettanto lucide e puntuali, tanto che ho ritenuto opportuno pubblicarle perché la nostra gente sappia come l’amministrazione comunale sperpera il denaro che spreme alla povera gente.

In questi giorni poi la stampa locale ha pubblicato i risultati dell’indagine, da parte della suprema Corte dei Conti con i gravissimi rilievi che ha fatto sul costo esorbitante, e superiore ad ogni previsione, per un’opera assolutamente inutile – quella del nuovo ponte. Inutile perché con quattro passi in più la gente poteva tranquillamente continuare a passare il Canal Grande attraverso il Ponte degli Scalzi, come ha sempre fatto, non so se da decine o centinaia di anni.

Qualche giorno dopo, sempre “Il Gazzettino”, ci informava che il sindaco “butterebbe nel Canal Grande l’ovovia” – del costo di più di tre milioni di euro – “con dentro qualcuno e non so chi”. L’ovovia infatti continua a non funzionare e forse fa aumentare la già conclamata fragilità dello stesso ponte che già era pericolante.

Oggi, ancora il solito “Gazzettino”, ci informa che se avessero scelto una ditta olandese per il Mosè, quell’opera, costata finora decine di miliardi di euro, sarebbe costata un terzo. Sul tram non serve che la stampa locale ne scriva, perché anche l’ultimo cittadino di Mestre ha avuto modo di seguire con i propri occhi la sua tragicomica telenovela che non alletta i sogni, ma al contrario ha messo in crisi decine e decine di negozi, ha rovinato strade, costituisce un pericolo pubblico per le biciclette e serve, finora, a molto poco, perché intasa i crocevia e lambisce appena i luoghi centrali della città. Per non parlare del villaggio dei Sinti che è risultato una copia conforme dei ghetti in cui s’annida il crimine a Palermo.

L’attuale amministrazione poi non si riscatta dalle precedenti con la trovata di scoperchiare l’Osellino offrendo ai cittadini la cloaca che già abbiamo modo di ammirare presso via Pio X e alle spalle di Coin.

Sulle opportunità perdute, o che si stanno per perdere, ho già parlato. Sull’inefficienza della corposa amministrazione da quattromilaseicento dipendenti sarebbe meglio poter tacere, ma come si fa quando per avere il permesso di mettere in sicurezza l’ingresso e l’uscita del “don Vecchi” di Campalto – a nostre spese – c’è voluto più di un anno e considerando che dal 10 agosto del 2012 stiamo aspettando il permesso a costruire il “don Vecchi 5”?

A me brucia tutto questo perché a chi si fa volontariamente carico del disagio dei nostri vecchi, e a questo scopo è costretto a raccogliere euro su euro, tutto questo sembra assurdo. Non mi meraviglierei se domani un qualsiasi “grillo parlante” venisse a dire: «Tutti a casa!».

Il villaggio solidale degli Arzeroni

Il consiglio di amministrazione della Fondazione Carpinetum, e in particolare il suo giovane e valido presidente, don Gianni Antoniazzi, sono particolarmente cari con me, tanto da farmi partecipare alle riunioni e offrirmi l’opportunità di esprimere qualche parere e qualche progetto.

Nell’ultima riunione mi sono permesso di proporre un progetto tanto impegnativo ma che, data l’intelligenza, la buona volontà e il coraggio di questo consiglio, potrebbe anche diventare una felice realtà. Dato che non si tratta di un qualcosa di riservato, ma solamente l’offerta di un mio sogno, mi permetto di renderne partecipi anche i miei amici de “L’incontro”, sperando che ci sia qualcuno che possa aiutare a “calarlo dalle nuvole” alla terra, soprattutto mettendo a disposizione un suo generoso contributo.

BOZZA PER UNA PROPOSTA DI MASSIMA PER LA NUOVA STRUTTURA DI ACCOGLIENZA DA COSTRUIRSI PRESSO: “IL VILLAGGIO SOLIDALE DEGLI ARZERONI”

PREMESSA

* La struttura abbia pressappoco la stessa cubatura del don Vecchi 5.
* La struttura si articola in maniera che ogni singolo settore sia indipendente e nello stesso tempo comunicante con gli spazi comunitari che debbano essere fruibili dai residenti.

ARTICOLAZIONE
1. 15 alloggi bilocali con angolo cottura da destinarsi a padri o madri separati e in gravi condizioni di disagio economico:

– TIPOLOGIA RESIDENZIALE

– L’alloggio sarà messo a disposizione per 2 o 3 anni in maniera che sia possibile una costante rotazione. – Retta mensile fissa da euro150.00/200.00 più le utenze. Da convenzionarsi con il Comune Provincia o Regione.
2. 10 alloggi monolocali da destinarsi a disabili fisici che auspicano una vita indipendente con angolo cottura:
– retta mensile 150 euro più utenze. – da convenzionarsi con gli enti suddetti.
– tipologia residenziale.
3. 15 stanze tipo motel col “sistema economico formula uno francese” da destinarsi ai parenti dei degenti negli ospedali cittadini.
Tipologia alberghiera conto euro.20.00 notte a decrescere in rapporto al numero dei giorni di occupazione.
4. 10 alloggi per giovani sposi durata di permanenza 2 o 3 anni
– tipologia bilocale con angolo cottura.
– costi 200 euro più utenze al mese.
tipologia residenziale.

IN ALTERNATIVA:

15 stanze tipo motel “formula uno francese”
– tipologia alberghiera da destinarsi ad operai o impiegati maschi o femmine con basso reddito – contratti al massimo mensili rinnovabili fino al massimo di 2 anni. – costo mensile di euro. 150.00. – tipologia alberghiera.
5. 2 o 3 alloggi bilocali con angolo cottura per emergenze. – tipologia residenziale.
6. Richiesta alla Curia se è interessata ad avere 5-6 alloggi di tipologia residenziale tipo Don Vecchi 5 magari articolati nella tipologia bilocale da destinarsi a sacerdoti anziani oppure impegnati nella pastorale cittadina.
Convenzione con la stessa per i costi.

SPAZI COMUNITARI

a. Un salone a stare.
b. Una sala da pranzo capace di 20 o 25 persone.
c. Un cucinotto con più fuochi utilizzabile dai residenti e contemporaneamente dal catering.
d. Un locale per lavanderia e stireria, -lavatrice ed asciugatrice a gettone.
e. Un piccolo ufficio.
f. Portineria ed ingresso unico.

Un progetto ridotto

Ritorno su un argomento che ho trattato innumerevoli volte, però che credo così urgente e necessario da sentire il dovere di ritornarvi.

Nella nostra diocesi, fortunatamente e per grazia di Dio, ci sono iniziative, enti e strutture che hanno una grossa e certa valenza di ordine solidale, ma che non sono messe in rete, non sono coordinate da una regia che, sola, le potrebbe rendere più efficienti e funzionali. Nel nostro tempo niente può essere lasciato al caso, perché esistono strumenti che possono razionalizzare anche questo comparto così importante e qualificato della Chiesa veneziana.

Oggi ognuna di queste realtà esistenti si muove in maniera autonoma, non è collegata ad altre realtà similari non si confronta, né si coordina, cosicché esistano doppioni e lacune notevoli.

La Caritas diocesana, che a mio modesto parere dovrebbe essere il cervello e il cuore di queste realtà, non so per quale motivo risulta assolutamente assente.

Abbiamo ipotizzato, in passato, la “Cittadella della Solidarietà” per razionalizzare e coordinare almeno le attività caritative di Mestre; c’erano, a questo proposito, delle opportunità particolarmente favorevoli però, sia per immaturità culturale dei responsabili che dovevano dar corpo al progetto, sia per qualche altro elemento imprevedibile – quale ad esempio il cambio del Patriarca – non se n’è fatto più nulla. Oggi il progetto è stato definitivamente sepolto e vi si è messa sopra una pietra tombale di marmo duro e pesantissimo, denominato “carenza di soldi”!

In questi giorni, fortunatamente, è sbocciata un’altra timida e seppur limitata speranza: coniugare in un’unica realtà “il polo solidale del `don Vecchi'” con le strutture caritative della parrocchia di Carpenedo, dato poi che essendo esse tra le realtà più significative della nostra città, potrebbero offrire una testimonianza – almeno a livello cittadino – quanto mai significativa.

Il seme è stato piantato alcune settimane fa, ora non mi resta che innaffiarlo ogni giorno ed in ogni circostanza, sperando che finisca per fiorire e dar frutto.

Aspettando Godot

“Quello che devi fare fallo subito!” disse Gesù incontrando Giuda, suo discepolo infedele. Io mi trovo d’accordo con lui anche su questo punto. Non mi va proprio chi va per le lunghe, trascina avanti una pratica o un discorso.

Però non è solamente per questo motivo di ordine biblico che non riesco a capire ed accettare il tiramolla del Comune di Venezia circa il progetto del “don Vecchi 5” degli Arzeroni.

In Italia la crisi economica è giunta all’estremo, decine di migliaia di aziende chiudono, il settore edilizio, che tutti dicono sia al tramonto, è fermo, eppure ora che la nostra Fondazione ha un progetto di estrema valenza sociale, che in seguito farà risparmiare al Comune milioni di euro, riducendo il costo ormai iperbolico per il ricovero in casa di riposo per gli anziani non autosufficienti e offrirà una soluzione estremamente innovativa col suo progetto pilota, Il Comune aspetta, tergiversa, aggiunge ostacoli, avanza sempre ulteriori pretese e tarda ancora a dare la concessione edilizia.

Il “don Vecchi 5” costerà pressappoco sei milioni di euro, c’è un piano finanziario definito, un progetto elaborato da uno degli studi di architettura della città tra i più noti, una coda infinita di anziani che aspettano, eppure tutto è ancora aggrovigliato nelle ragnatele della burocrazia del Comune. Il progetto è stato presentato il 10 agosto, quindi sei mesi fa e la Fondazione ha dovuto sbrogliare una matassa infinita di problemi catastali che, sempre il Comune, aveva lasciato irrisolti.

Ora tutto è pronto, è stato fatto il progetto e il piano finanziario, è stata scelta l’impresa, s’è progettata una nuova strada… Tutto potrebbe partire domani, occupando decine e decine di operai. Perché tanta inerzia? Perché queste lungaggini?

La classe politica è di certo deficiente ma, peggio ancora, la burocrazia comunale non è per nulla agile, veloce, intelligente ed attenta al bene della collettività. Rimango convinto che non basta dimezzare il numero dei parlamentari e dei consiglieri regionali e comunali, ma finché non si dimagriranno questi enti di almeno due terzi di addetti, non ci sarà efficienza.

Un notissimo imprenditore della città un tempo mi ha confidato che ci sono studi americani quanto mai seri e dati scientifici che attestano che quando un’azienda supera un certo numero di burocrati, questa è destinata al fallimento perché essi producono fatalmente solamente “lavoro” cartaceo assolutamente improduttivo.

La morte del “barbone”

Nota della Redazione: ricordiamo che i gli appunti di don Armando risalgono a diverse settimane fa.

La notizia della morte per assideramento di un “barbone” su un pontile dei vaporetti in Riva degli Schiavoni ha impegnato tre colonne della cronaca di Venezia de “Il Gazzettino” e quattro righette su una sola colonna il giorno dopo. La cosa credo che sia stata ritenuta di poco conto se la si confronta con i titoloni su quattro cinque colonne dedicate alla campagna elettorale con tutte le problematiche suscitate dall’immensa folla di candidati che stanno dandosi gomitate senza esclusioni di colpi per riuscire ad ottenere la possibilità di “servire il Paese” e di offrire le loro “soluzioni miracolose”.

Il cronista ebbe ben poco da scrivere perché a chi può interessare la notizia che un “barbone” è morto di freddo in una notte senza stelle a Venezia? Credo che siano stati ben pochi i lettori della cronaca nera che si siano posti la domanda su che cosa ci fosse dietro quegli indumenti stracciati e sporchi e sullo squallore di quella morte solitaria sull’imbarcadero e meno ancora quelli che si siano chiesti che cosa si possa e soprattutto si debba fare perché queste cose non avvengano più, non tanto perché non sono convenienti per la bella Venezia e controproducenti per il turismo, ma perché non è degno di una città civile e di una Chiesa di discepoli di Cristo che un figlio di Dio viva e poi muoia così come fosse una bestia indecorosa e abbietta.

Il pensiero che questo decesso miserevole sia avvenuto quasi a ridosso delle belle, luminose e calde liturgie natalizie, mi rattrista e mi avvilisce maggiormente e di primo acchito mi è venuto da rivolgermi ai veneziani e a tutti coloro che fanno soldi con i milioni di turisti perché ci offrano un milione, e forse uno e mezzo di euro, per costruire un ostello per i senzatetto.

Noi della Fondazione siamo pronti a mettere a disposizione la superficie e, in collaborazione col Comune, a gestire una struttura del genere. Nel villaggio dell’accoglienza degli Arzeroni ci starebbe bene una simile struttura, magari un alberghetto di classe uno alla francese con una stanzetta monacale ma essenziale, pulita e decorosa, per ogni senzatetto. I cittadini potrebbero acquistare dei buoni alloggio del costo di pochi euro per darli ai poveri che chiedono l’elemosina, piuttosto che offrire loro denaro del quale essi non sempre fanno buon uso.

Non mi si dica che le parrocchie di Mestre non potrebbero assumersi questo onere! Se chi è deputato a gestire la carità dei quattrocentomila cattolici della diocesi veneziana avesse un progetto ben lucido e la volontà di dare alla carità la stessa importanza della messa e del catechismo e il coraggio di proporlo in maniera seria, nel giro di un anno al massimo l’operazione potrebbe andare in porto, per poi pensare per il prossimo anno ad un altro progetto solidale.

I miei colleghi

Dopo tanto tempo ho partecipato ad una riunione dei sacerdoti di Mestre, un po’ perché l’incontro s’è tenuto al “don Vecchi” ed un po’ ancora perché il nuovo Patriarca m’ha fatto osservare che sarebbe opportuno che partecipassi almeno alle riunioni più importanti.

All’incontro erano presenti una quarantina tra preti e diaconi, per la maggioranza parroci. Oggi la stragrande maggioranza delle parrocchie di Mestre può contare solamente sul parroco; infatti i cappellani, ossia i giovani preti, sono pressoché scomparsi. Un tempo ero fortemente preoccupato per questo fatto, ora sono più sereno perché ritengo che questa carenza stimolerà i laici ad assumersi quelle responsabilità all’interno della Chiesa che i preti sono stati sempre restii a delegare. Ora la Provvidenza sta costringendoci a fare quello che con un po’ di fiducia e di lungimiranza avremmo dovuto fare almeno da un trentennio.

Il fatto che almeno da un paio d’anni non facessi l’esperienza di queste “congreghe” m’ha reso particolarmente sensibile e reattivo. L’argomento verteva soprattutto sul tempo in cui conferire la cresima e sull’abbandono della pratica religiosa da parte degli adolescenti.

Più di una volta, davanti a certi discorsi accomodanti, vellutati e privati di qualsiasi angolo sarei stato tentato di intervenire con quella rude franchezza che mi ha creato tanti “nemici”, però fortunatamente mi sono trattenuto, ricordandomi che il Patriarca, nell’incontro di presentazione avvenuto qualche settimana fa, m’ha detto che sono vecchio. Non avendo ancora capito cosa volesse dirmi, perché sarebbe stato perfino banale che si riferisse solamente alla mia età anagrafica, mi sono limitato ad ascoltare.

A dire il vero i discorsi dei colleghi non mi sono parsi troppo esaltanti, m’è parso di avvertire tanta rassegnazione, atteggiamento di ripiegamento e di difesa, non ho avvertito un guizzo di ottimismo, di coraggio, un tentativo di balzare fuori dalla trincea per andare al contrattacco, di consapevolezza di avere un messaggio valido, anzi il più valido a rispondere alle attese vere dell’uomo di oggi. Troppe parole mi sono sembrate acquistate al mercatino delle cose usate o, al massimo, all’ipermercato. Ho sentito pensieri “stanchi” e soggezione per la cultura del nostro tempo.

Alla sera, facendo l’esame di coscienza, mi sono chiesto: “Io sono forse un don Chisciotte, o l’ultimo dei moicani?”. Comunque ho deciso di tenermi alla larga da simili incontri perché, almeno secondo me, non mi fanno bene.

Ancora sull’autoreferenzialità

In relazione ad un mio talloncino pubblicato su “L’incontro” circa l’iniziativa della Caritas e della San Vincenzo di organizzare quest’anno il pranzo natalizio nella chiesa di San Girolamo, alla stregua di quello che va facendo da molti anni la Comunità di Sant’Egidio, ho ricevuto una lettera che pubblico di seguito, perché chi segue il nostro periodico comprenda meglio. Nel talloncino pubblicato dicevo semplicemente che mi faceva felice l’iniziativa del pranzo a San Girolamo, ma che mi faceva ancora più felice sapere che il Banco Alimentare del “don Vecchi” offre i generi alimentari ogni settimana a duemilacinquecento concittadini in difficoltà. Nient’altro!

Eccovi ora la lettera.

Stimata Redazione dell’Incontro,
ogni settimana vi leggo condividendo più o meno quanto scritto.
Lo stile provocatorio così esplicito mi è stato di aiuto per fare un po’ il punto sul mio percorso di fede, sul mio essere parte di una comunità e sulla mia figura di presidente di una Onlus, ma altre volte lo stile autocelebrativo è a dir poco fastidioso.
Anche sul n. 1 di domenica 6 gennaio 2013 a pagina 6 il commento della Redazione sulla grande tavola natalizia è sembrato ancora una volta voler ribadire a tutti quanto di più la Fondazione fa rispetto ad altre realtà. Madre Teresa era solita affermare che “non è importante quanto di dà ma come si dà.” Certo che poter dire di sfamare 2500 poveri alla settimana è una gran bella cosa che gratifica il lavoro di molte persone, ma anche chi ha ascoltato le pene di un ammalato in ospedale, la sofferenza di una mamma di fronte ad una gravidanza inattesa, l’angoscia dei familiari per un caro ammalato, sta svolgendo un servizio per il prossimo. Certo i numeri sono inferiori e hanno meno impatto emotivo ma sono ugualmente importanti agli occhi del Signore perchè “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 24,40) perciò, ogni tanto, carità e servizio attivo e silenzioso.

Furegon Brunella

Ed ora eccovi la risposta:

Sono d’accordo con Teresa di Calcutta e non mi è mai passato per la mente di non apprezzare quello che altri fanno in altri settori; infatti collaboro con più di un ente benefico. Mentre, essendo anch’io parte della Chiesa veneziana, voglio ribadire che non condivido “la carità spettacolo ed una tantum”, pur sapendo bene cosa fa la San Vincenzo per essere stato anch’io uno dei cofondatori della Mensa di Ca’ Letizia e poi uno dei corresponsabili per molti anni.

Secondo: sono poi del parere che si debba puntare, per quanto è possibile, ad offrire aiuti adeguati e non simbolici – vedi la vecchia abitudine del pacco a Natale e, forse, a Pasqua.

Terzo: mi sono speso ed intendo spendermi ancora per un coordinamento tra le varie attività di solidarietà all’interno della Chiesa di Venezia per una maggior consistenza di aiuti e per una copertura di tanti “spazi” purtroppo ancora non presidiati – vedi il discorso rimasto un binario morto, della “cittadella della solidarietà”.

Infine ringrazio la signora Furegon perché il dialogo e il confronto per me sono sempre utili, purché si rimanga con i piedi per terra.

Autoreferenziale

Fino ad una decina di anni fa non sapevo neppure cosa significasse il termine “autoreferenziale”; infatti non mi era mai capitato di imbattermi nelle mie letture, in questa locuzione. Lo sono venuto a sapere in un’occasione non troppo felice.

Un mio diretto collaboratore, un giorno in cui mi manifestò apertamente il suo dissenso sul mio modo di condurre la parrocchia, quando tentai di fargli osservare che con quell’indirizzo avevo ottenuto più di qualche successo, mi buttò là una risposta con cui mi pareva che liquidasse la questione, dicendomi che io avevo una mentalità ed un comportamento autoreferenziale. Capii poi, un po’ alla volta, che quella parola significava il ritornare, con qualche compiacimento, su qualche risultato vero o presunto, che uno pensava di aver ottenuto con le sue scelte.

Non ho mai consultato il vocabolario per vedere se il termine significasse proprio questo, ma comunque, da quell’occasione, sono sempre un po’ guardingo e prudente quando mi capita di valutare qualche mia “impresa”.

Questo discorso mi è venuto a galla quando, qualche giorno fa, i “miei ragazzi” che stampano “L’incontro”, mi hanno portato a conoscenza di qualche cifra. Infatti mi hanno riferito, alla chiusura del 2012, che lo scorso anno sono state stampate duecentoventimilaquattrocento copie de “L’incontro”, pari a duemilioniseicentoquarantaquattromilaottocento pagine.

A sentire queste cifre, confesso che ho provato un sentimento di soddisfazione, ma subito ho temuto che si trattasse di quella autoreferenzialità di cui mi accusava il mio cappellano.

Non so se questa autoreferenzialità sia un peccato grave, ma confesso pure che ciò non mi ha provocato né rimorso né pentimento. Superiori e colleghi si guardano bene dal complimentarsi per la nostra iniziativa pastorale di evangelizzazione – o preevangelizzazione che sia – tramite “L’incontro”.

E’ vero che in un “mondo di ciechi un monocolo è re”, perché a Mestre, se si eccettua “Piazza maggiore” del duomo di San Lorenzo, non avverto concorrenza di sorta, per quanto pallida, di periodici che si collochino pressappoco sulla stessa linea editoriale sui risultati de “L’incontro”.

Comunque la simpatia della gente – che è quello che ci interessa di più – è una gratificazionne che, referenzialità o meno, mi fa ringraziare il Signore per averci dato la possibilità di una semina così larga e di una resa più che soddisfacente.