Come Mosè

Un gruppo di “parrocchiani di adozione” della comunità cristiana del Centro don Vecchi di Carpenedo mi offre, durante l’anno, una collaborazione che è determinante per l’uscita settimanale “L’incontro”. Io mi considero “il presbitero sui generis” di questa “congregazione religiosa” composta da elementi tanto eterogenei per età, condizioni di vita e di pensiero.

Questa piccola comunità di adozione, sostanzialmente cristiana, riesce ogni settimana ad offrire un messaggio che tenta di ispirarsi a quello di Gesù per offrirlo ad una folla di uomini e donne che assomiglia a quella descritta dal Vangelo. Infatti, come ai tempi di Gesù, cinque, seimila persone della nostra città ogni settimana seguono ed ascoltano con grande interesse le nostre “catechesi” sulla proposta di Gesù.

Questo tentativo di evangelizzazione, fatto da cristiani non estremamente acculturati in teologia, i quali riescono, di settimana in settimana, a farsi “ascoltare”, è il “gruppo di ascolto” di gran lunga più numeroso di tutti quelli esistenti in diocesi messi assieme.

Io sono “un povero diavolo di prete” e non tento neppure di indottrinare i miei discepoli perché conosco i miei limiti costituiti dall’età e dalla mia modestia intellettuale, perciò cerco di “formare” i discepoli solamente attraverso la mia testimonianza. Faccio fatica a continuare, ma non smetto ancora sembrandomi un vero sacrilegio chiudere una “scuola di vita” e di fede così attenta e così frequentata.

Ogni tanto mi fisso delle date per “chiudere”, però quando mi avvicino ad esse, pensando alle migliaia di “ascoltatori” del nostro periodico, finisco per procrastinare il termine di questa esperienza che mi pare sia tra le poche che vedo nella nostra realtà cittadina, anche se sento parlare da mattina a sera di nuova evangelizzazione.

Talvolta mi sento come il vecchio Mosè che, amando appassionatamente il suo popolo, tiene le mani alzate in preghiera perché il popolo di Dio non soccomba. Sono grato a questi miei collaboratori che, intuendo la mia stanchezza, finora sostengono le mie braccia che invocano dal Cielo benedizione e grazia per i figli di Dio che incontrano tra continue “battaglie”, difficoltà ed insidie.

Oggi sento il dovere di ringraziare di cuore questi miei amati discepoli che aiutano questo povero prete a servire Dio e la comunità, nonostante la sua stanchezza e la sua vecchiaia.

Il banchetto a san Girolamo

La televisione locale, il giorno di Natale, ha dedicato qualche carrellata del telegiornale all’iniziativa della Caritas e della San Vincenzo mestrina che hanno organizzato per il giorno di Natale un pranzo per 200 poveri nella chiesa di San Girolamo. Ho così avuto modo di vedere il Patriarca e il suo seguito e i giovani e meno giovani camerieri con la casacca bianca con la scritta “Caritas” fatta confezionare per l’occasione.

Nella chiesa più antica di Mestre s’è celebrata, il 25 dicembre, una splendida eucaristia col “corpo visibile di Cristo” o, per essere intonati alla liturgia, col presepe con “il figlio dell’Uomo” rappresentato realmente dalla parte più fragile dell’umanità mestrina.

Finalmente si sono inverate, almeno parzialmente, le affermazioni di Gesù: “Avevo fame, avevo sete, era nudo, senza casa, ammalato e carcerato, e tu?” L’iniziativa m’è parsa il più bello e vero “pontificale” che si sia celebrato in occasione del Natale e sono stato felice di vederlo presiedere dal nostro Patriarca.

Tuttavia, di primo acchito, le immagini di San Girolamo mi sono sembrate una pallida fotocopia di quanto ha fatto, come ogni anno, la Comunità di Sant’Egidio a Roma e Padova e nel mondo intero. Il giornalista infatti diceva che i commensali di Sant’Egidio quest’anno hanno raggiunto i trecentomila. Ed io so che la “Tavolata di Sant’Egidio” è l’espressione di un impegno serio, quotidiano ed autentico che questa comunità porta avanti in tutti i settori della povertà.

Quella di San Girolamo mi sarebbe sembrata una parata di cattivo gusto e falsa se essa non fosse supportata dalle mense di Ca’ Letizia, dei Cappuccini di Mestre, di Altobello, del Redentore, della Tana e di altri conventi francescani. E se non sapessi che il Banco alimentare del “don Vecchi” offre generi alimentari per duemilacinquecento persone ogni settimana, quasi altrettanto la Bottega Solidale e un po’ di meno la Banca del Tempo Libero di Mestre e i frati di Sant’Antonio di Marghera.

Son felice che la carità della chiesa di San Marco sia fortunatamente presente e visibile a Mestre e Venezia. E ancora il pranzo natalizio di San Girolamo mi aiuta a sperare che il nuovo Patriarca elabori un progetto e dia un volto più organico ed efficace alla “carità” del popolo di Dio, in maniera che il “Cristo povero” presente nelle nostre città sia più amato ed aiutato e abbia almeno le stesse attenzioni che i cristiani riservano al Cristo presente nel pane eucaristico.

Vecchi contestatori con le unghie spuntate

Qualche tempo fa un residente al “don Vecchi” di Campalto mi ha informato che un gruppetto di anziane signore aveva deciso di bloccare il traffico della strada statale via Orlanda con un sit-in, per chiedere al Comune e all’Anas il permesso di mettere in sicurezza l’ingresso del Centro che attualmente risulta estremamente pericoloso.

Una notizia del genere mi ha evidentemente sorpreso, sapendo che l’età media dei residenti al Centro si aggira sugli ottant’anni. A me, che ho una fantasia quanto mai vivace, l’immagine di un gruppetto di signore col cappellino in testa sedute sull’asfalto, imperturbabili nonostante il suonare dei clacson delle migliaia di auto e furgoni che transitano velocissimi per via Orlanda, faceva immaginare la sequenza di un film alla Mary Poppins. Sapendo però che vivono al Centro almeno tre, quattro sessantenni, quanto mai esperte in queste cose, ero propenso a pensare che la cosa era più vicina alla realtà che alla favola.

All’annuncio dell’informatore seguì la telefonata di una delle protagoniste – una vecchia conoscenza dei tempi di San Lorenzo che aveva militato lungamente in “lotta continua” – che chiedeva il mio parere. Il mio parere non poteva che essere positivo, “a mali estremi estremi rimedi” pensai. Da un anno non abbiamo fatto che produrre carte su carte presso il Comune e presso l’Anas, senza riuscire a cavarci “un ragno dal buco”. Che cosa avrei potuto ancora fare perché gli ottanta anziani potessero uscire ed entrare senza arrischiare la vita ogniqualvolta hanno bisogno di comperarsi il pane o badare ai nipotini perché i figli lavorano?

La cosa si risolse per fortuna in maniera più prosaica. Un certo perbenismo borghese da un lato sconsigliò un’ azione così eclatante che poteva essere paragonata agli interventi dei Black Bloc e dall’altra l’Anas, dopo un anno e un mese ha dato il sospirato OK, a patto che siamo noi “ricchi” ad assumerci tutte le spese spettanti ai “poveri” Anas e Comune.

Ora ho capito fino in fondo che cosa significhi “Vittoria di Pirro”.

“Nessuno è profeta in patria”

Qualche settimana fa è venuta al “don Vecchi” una delegazione della Caritas diocesana di Trieste per prendere visione dell’impostazione del polo caritativo che in questi ultimi anni s’è sviluppato attorno al nostro Centro.

E’ normale che la notizia di certe iniziative di solidarietà si diffonda, portata sull’onda dell’etere o della carta stampata e ci sia chi voglia verificare sul campo la consistenza, le modalità ed i traguardi raggiunti. Chi ha a cuore certi problemi sta con le orecchie sempre tese e lo sguardo aperto per sentire e vedere ciò che avviene fuori dal suo piccolo mondo.

Anche a me capita spesso di apprendere dalla stampa ciò che sì sta facendo altrove e talvolta mi lascio andare a sentimenti di invidia nell’apprendere iniziative più o meno originali, ma sempre utili per chi è in difficoltà e spesso mi angustio per non essere capace di coinvolgere colleghi e comunità cristiane in questo sforzo di affrontare sempre nuovi servizi per tentare di dare dette risposte adeguate alle vecchie e nuove povertà.

Confesso poi che provo una certa amarezza nel constatare come il mondo cattolico della Chiesa veneziana sembri spesso indifferente ai tentativi, i progetti e soprattutto alle realizzazioni di solidarietà che sono nate attorno al “don Vecchi”.

Credo che siano pochi a Mestre che non sappiano dell’esistenza di questa iniziativa a favore degli anziani poveri, della quale s’è perfino interessata una rete televisiva del Giappone, mentre è un numero assai esiguo quello dei concittadini che hanno sentito il dovere di mettere il naso dentro at “don Vecchi” e ancor meno i preti, i responsabili delle parrocchie e degli organismi caritativi ufficiali detta diocesi che abbiano preso visione e si siano confrontati e che abbiano tentato di mettersi in rete per una indispensabile sinergia se si vuole contrastare il bisogno e dar corpo alla carità concreta.

Ho visto con piacere questa gente che, come la regina di Saba, viene da lontano per vedere. Altrettanto mi spiace che i concittadini e i fratelli di fede vi rimangano indifferenti. Quando mi prende questa malinconia mi consolo con la parola di Gesù: “Nessuno è profeta in patria” e tiro avanti in solitudine.

Vittorio, maestro del colore

Esiste a Mestre un’associazione piuttosto numerosa e assai efficiente: “Gli amici dell’arte”. Io non sono iscritto ufficialmente ma ne condivido l’interesse.

Nella mia attività pastorale di un tempo c’era un posto abbastanza di rilievo anche per l’arte. Ricordo con gioia e soddisfazione le quattrocento “personali” fatte presso la galleria parrocchiale “La cella”, le numerose biennali d’arte sacra, le opere esposte nelle strutture parrocchiali che costituiscono in assoluto la più grande galleria d’arte moderna della nostra città. Ma soprattutto il grande “giro” di artisti che hanno colloquiato con la nostra comunità.

Dante afferma che la natura è la “figlia” di Dio e che l’arte ne è la “nipote”. Sono convinto che una comunità cristiana non possa e non debba trascurare questa realtà perché è di certo una strada, magari un po’ sconosciuta, che porta a Dio, indipendentemente dal fatto che i cittadini siano coscienti o meno di questo percorso. Se l’arte non facesse altro, allontana le persone dal brutto, dal banale e dal volgare che spesso trovano posto anche negli edifici parrocchiali e perfino nelle chiese.

La mia vecchia parrocchia aveva, fortunatamente, delle belle personalità di artisti: da Bepi Pavan ad Aldo Bovo, da Toni Fontanella ad Archiutti, da Piero Barbieri a Vittorio Felisati ed altri ancora, senza contare l’indotto che essi richiamavano.

Sono tanto riconoscente a questi protagonisti della vita artistica che, coscientemente o meno, hanno educato al bello e quindi al culto di Dio, almeno un paio di generazioni di parrocchiani.

Ritorno su questo argomento, su cui mi sono soffermato altre volte, perché quest’anno ricorre il centenario della nascita di Vittorio Felisati, il vecchio pittore di via Goldoni che morì improvvisamente mentre stava ritoccando il mio ritratto che voleva regalarmi per l’uscita dalla parrocchia. Come ricordo con nostalgia le lunghe chiacchierate, quando mi presentava l’immenso deposito dei suoi dipinti. Ricordo come brillavano i suoi occhi quando mi diceva, con entusiasmo e quasi con voluttà: «Don Armando, io amo il colore!».

Davvero Felisati aveva una tavolozza di colori forti, con i quali esaltava la bellezza dei suoi paesaggi preferiti: Asolo, il Brenta, le vecchie strade di Carpenedo, Burano, Torcello, Monfumo, ecc.

Il Comune ha organizzato una mostra al Candiani per questo concittadino innamorato dell’arte, ma anch’io voglio offrire un piccolo apporto in onore di questo “maestro del colore”. Il figlio di Felisati mi ha dato una ventina di opere di suo padre, io ho cercato delle cornici che esaltino quanto mai questa festa di colori. Son certo che non c’è stata né ci sarà mostra in cui apparirà il colore nel suo fulgore come nella galleria “San Valentino”, quando a fine giugno, organizzeremo una personale per Vittorio.

Vittorio Felisati ci ha fatto un dono che quasi ci costringe ad accorgerci della bellezza del Creato, segno della gloria ineffabile di Dio.

Non ci sono più soldi per la legalità

Molto probabilmente, anche se non lo sapevamo, gli amministratori pubblici in genere hanno sempre pensato prima per le proprie tasche e per quelle della propria clientela ma, tutto sommato, quando c’erano molti soldi, qualcosa rimaneva anche per i cittadini. Ora, con la crisi, per i cittadini non rimane proprio più nulla. Siamo arrivati non so se al tragico o al ridicolo

Mi rifaccio a due casi concreti nei quali sono coinvolto direttamente. Il Comune ci ha dato il diritto di superficie in un’area agli Arzeroni per costruire la nuova struttura per gli anziani poveri in perdita di autosufficienza. A parte il fatto che il tratto di superficie era impastoiato con altre proprietà e il Comune da anni ha lasciato in abbandono una situazione talmente ingarbugliata che solamente la tenacia e l’intelligenza del giovane parroco di Carpenedo è riuscito a sbrogliare, il tragicomico è apparso quando i rogiti erano fermi solo perché il Comune non aveva neppure un euro che serviva per le marche da bollo.

La seconda vicenda è quella della messa in sicurezza dell’ingresso del “don Vecchi” di Campalto in via Orlanda. La pratica è durata esattamente un anno, dal 15 ottobre 2011 al 17 ottobre 2012. S’era trovato un accordo iniziale per cui la spesa sarebbe stata divisa in tre parti: Comune, Anas e Fondazione. Giunti, sudando non sette ma settanta camicie, alla conclusione, sia il Comune che l’Anas hanno dichiarato con “infinito candore” che né l’uno né l’altra avevano a disposizione neppure un centesimo e perciò, se volevamo il “lusso” della sicurezza per i settanta anziani del Centro, dovevamo accollarci tutta la spesa. Cosa che abbiamo fatto!

A questo punto confesso che mi vergogno di essere un cittadino di Venezia e mi vergogno ancora di più di non aver avuto ancora il coraggio di buttare una bomba su questi carrozzoni non dico inutili, ma esiziali.

Ben diverso dal prototipo

Ho già parlato in passato di questa iniziativa pastorale della parrocchia del Duomo (come lo si chiama oggi, mentre nel passato quella era definita come la parrocchia di San Lorenzo di Mestre).

Ritorno sull’argomento perché mi pare un evento poliedrico che presenta almeno due aspetti molto importanti: uno organizzativo ed uno di contenuto. Non nascondo però che ce n’è un terzo che credo mi riguardi, almeno indirettamente.

Veniamo all’evento. Con l’autunno che si è aperto al nuovo anno della pastorale, monsignor Fausto Bonini, arciprete del Duomo, ha fatto stampare il prontuario nel quale sono descritte tutte le attività promosse dalla parrocchia e si informano i fedeli circa date, luoghi, orari, numeri di telefono e di posta elettronica della parrocchia e dei responsabili dei vari settori della vita di quella comunità parrocchiale.

L’opuscolo, di formato dépliant, è quanto mai elegante, per impostazione grafica, per la sequenza delle attività e per l’assoluta completezza delle informazioni. Il fascicolo è composto di 50 pagine, tutte a colori e con foto inerenti l’argomento. Il parrocchiano che prende l’opuscolo, stampato in un numero veramente grande di copie, può trovare tutto, proprio tutto quello che concerne la sua parrocchia. Questo non è poco.

Vengo poi al merito. Da una lettura, anche superficiale di questo prontuario informativo, si evince immediatamente che quella comunità tenta di dare risposta a tutte le attese dei suoi membri: dalla liturgia alla formazione, dalla cultura allo sport, dalla ricreazione alla catechesi, dalla carità all’intrattenimento. La parrocchia di San Lorenzo non è monocorde o bicorde, ossia liturgia e catechesi, come purtroppo avviene in moltissime parrocchie, ma punta ad una visione globale dell’uomo, del cristiano; così si avverte immediatamente che il fedele può trovare tutto all’interno della sua comunità, perché essa, pur con stile religioso, ha una risposta per tutte le attese. L’iniziativa di monsignor Bonini è veramente lodevole, tanto che io gli consiglierei di mandare una copia dell’opuscolo a tutte le parrocchie della diocesi.

Il terzo motivo è di certo marginale: anch’io, da parroco, avevo avvertito questa esigenza e fin da trent’anni fa pubblicavo ogni anno sul mensile della parrocchia l’organigramma della comunità ma, al confronto del prontuario di San Lorenzo, il mio rappresenta un parente povero, un archetipo preistorico. L’esigenza però l’avevo avvertita fin da allora ed avevo tentato una risposta, pur primordiale.

Ci sono ancora campioni

Non sto qui a ripetere una vecchia storia che per me è stata una bella avventura, ma che al “mio mondo” può non interessare o essere addirittura noiosa. La riassumo brevemente.

Essendo venuto a conoscenza che presso l’ospedale oncologico di Aviano della gente volonterosa aveva aperto una foresteria per accogliere i parenti degli ammalati provenienti da lontano e sapendo che tantissime persone salivano dal sud più profondo per cure presso l’oculistica di Mestre – allora c’era il primario Rama, che rappresentava una delle eccellenze in questo settore – tentai di ripetere l’iniziativa anche a Mestre. Acquistai un appartamento presso l’ospedale, lo suddivisi in sei stanzette, tanto da ricavarne 10 posti letto, aggiunsi un bagno, cercai una direttrice e lo chiamai “Foyer San benedetto” in memoria della proverbiale virtù dell’ospitalità dei seguaci di san Benedetto da Norcia.

All’inizio la conduzione risultò alquanto tormentata perché, pur essendoci a Mestre duecentomila battezzati che ritengono di essere discepoli di Gesù, è difficile trovarne anche uno, o una sola, disposta a diventare “padre e madre di famiglia”, capace di aprire la porta di casa all’ultimo naufrago della vita e condividere la propria dimora con un’altra decina di persone sconosciute che cambiano più volte la settimana.

Fui fortunato come sempre. Dopo i primi infortuni arrivò la Cleofe, vedova da poco, mingherlina e fragile, ma dal polso fermo come un ufficiale prussiano. Quindi, andata in pensione per vecchiaia, arrivò la Maria, una carissima donna dal volto sorridente e dal cuore d’oro, che non solo condusse avanti in maniera splendida il Foyer per anni, ma si preparò perfino chi le succedesse (forse nell’inconscio intuì che il Signore l’avrebbe chiamata presto in cielo, infatti fu così).

Ora c’è Teresa, una maestrina del sud che ha raccolto l’eredità di Maria come un tesoro autentico. Teresa è una ragazza che sa veramente far miracoli. Ogni volta che il mare agitato della nostra società abbandona sul bagnasciuga un “relitto” che mi capita di raccogliere, ricorro a lei, che riesce a trovare sempre una soluzione.

Qualche giorno fa mi è stato riferito che non avendo posto, concesse il suo letto all’ospite e lei ha dormito in una brandina da campo. Il giorno dopo, essendo occupato anche il letto di fortuna, ha chiesto ad un’amica di ospitarla, per non rifiutare l’ultima venuta.

Quando seppi, mi ricordai di Giacobbe che ottenne la salvezza della città facendo presente a Dio che in quella città c’erano ancora 10 giusti.

Finché a Mestre ci saranno ragazze del genere credo che, nonostante tutto, Dio avrà pietà di noi.

L’esempio dei “Frari”

Sono tornato più volte su “L’incontro” a parlare di don Didimo Montiero, il prete vicentino che ha inventato, per la sua parrocchia di Bassano “Il Comune dei Giovani”.

Questo prete umile ma zelante, soprattutto nei riguardi della gioventù, ancora una quarantina di anni fa, ha compreso la necessità ed ha realizzato un grande centro giovanile a favore dei ragazzi, adolescenti e giovani di Bassano.

Caratteristiche peculiari di questo Centro sono quattro: 1) per struttura e dimensione il Centro è sovraparrocchiale e destinato a tutti i giovani della città pedemontana; 2) il Centro dà risposte alle attese diversificate del mondo giovanile: sport, musica, ricerca, cultura, spiritualità; 3) il complesso è governato da un “consiglio” eletto democraticamente fra i giovani che lo frequentano; 4) un giovane prete, sensibile alle problematiche giovanili è impegnato a tempo pieno per l’animazione del grande complesso.

L’intuizione di don Montiero è quanto mai intelligente ed anticipatrice di un bisogno ora avvertito da ogni comunità parrocchiale.

In uno dei miei interventi in proposito riferii dello stato di abbandono, di precarietà e di inadeguatezza dei nostri patronati che, assai di frequente, sopravvivono in maniera stantia e pressoché inutile. Riferii inoltre dei miei tentativi miseramente falliti, non essendo riuscito a convincere e coinvolgere i colleghi preti, rimanendo avvilito ed impotente di fronte a questa poca apertura, coraggio e lungimiranza pastorale.

Sennonché mi hanno riferito che a Venezia, nella parrocchia dei Frari, ove c’è un giovane parroco intraprendente, il relativo patronato funziona già come Centro giovanile a cui convergono i giovani di un paio di sestieri di Venezia. Infatti abbastanza di frequente la stampa parla di iniziative di questo Centro quanto mai intelligenti e che fanno presa sui giovani.

Tento di far rimbalzare questa notizia nella speranza che a Venezia e a Mestre ci sia chi prenda l’iniziativa e faccia tentativi analoghi.

Svecchiamento sacerdotale

Qualche giorno fa me ne stavo solo soletto nella piccola sagrestia della mia chiesa prefabbricata “Santa Maria della Consolazione” a meditare, quando mi raggiunse un giovane parroco della città che io stimo e ammiro particolarmente per il suo zelo. Molto probabilmente era venuto in cimitero per qualche motivo inerente al suo ministero e aveva avuto la bontà di venire a salutare questo vecchio prete che di buon mattino aspetta e prega per le anime dei morti e dei vivi.

Chiacchierammo, ben s’intende, di cose da preti. Lui era più informato di me sulla vita della Chiesa veneziana anche perché, zelante com’è, frequenta tutti gli incontri tra sacerdoti mentre io, vecchio pensionato, riservo il mio tempo e le mie residue energie più alle cose concrete che a discorsi che temo non siano sempre produttivi.

Questo collega probabilmente aveva il tempo contato, infatti dopo qualche “confidenza sacerdotale” dovette andarsene per occuparsi delle sue cose. Io rimasi in silenzio a pensare e quando penso divago e la mia riflessione imbocca a suo piacimento sentieri imprevedibili e sconosciuti, portandomi a congetture, proposte e soluzioni ipotetiche che non dipendono da me, ma che comunque mi fanno frullare per l’animo progetti che forse abitano nel mio inconscio.

Pensando a questo giovane prete zelante, generoso ed intelligente, arrivai alla conclusione che anche la Chiesa veneziana dovrebbe essere svecchiata con l’immissione, nei ruoli più importanti, di soggetti più giovani e nuovi.

Allora passai in rassegna, nella mia fantasia, i preti di Mestre e fortunatamente m’è parso di scoprirne alcuni di valore, preti che dimostrano sul campo le loro risorse e la loro volontà di servizio. Lontano da me il voler dare suggerimenti per ora ma anche per il futuro, perché sono ben conscio di non avere la competenza né il compito, e meno ancora la “grazia di stato” per far questo. Invece mi limiterò, come mi è più consono e doveroso, a pregare il Signore che illumini il nostro vescovo perché riesca a mettere nei posti giusti i preti giusti, anche se questo gli comporterebbe non avere tra le mani soldatini di piombo obbedienti ed ossequienti.

I poveri e i mendicanti

Le due entrate del camposanto sono ambedue presidiate, con turni ben definiti, sia al sabato che alla domenica, dai mendicanti.

Gli atteggiamenti per impietosire i cittadini che vanno a visitare i loro morti, sono diversi ma tutti obbediscono a certi rituali collaudati. E’ fin troppo evidente che sono dipendenti di una organizzazione malavitosa che approfitta di loro e che molto probabilmente lucra sulla loro mendacità. Tant’è vero che quando li ho invitati al don Vecchi ove potevano trovare generi alimentari, frutta e verdura ed altro, non ne ho trovato uno che abbia approfittato di questa opportunità.

Io, lo dico con pudore ed una certa preoccupazione, diffido quanto mai di questi mendicanti. Non penso che il dar loro un euro sia male, sono convinto però che dobbiamo preoccuparci più seriamente dei poveri e dobbiamo organizzarci perché la nostra risposta al bisogno sia sempre la più adeguata ed esaustiva. Per questo non mi sono rassegnato ad abbandonare l’idea della cittadella della solidarietà con la quale la città e la Chiesa mestrina si attrezzino a soccorrere chi è in difficoltà e, nel contempo, combattano quella mendicità che umilia la persona che chiede, ma altrettanto quella che offre, perché il rapporto è sempre subumano e meschino.

I miracoli de “L’incontro”

Tantissime volte, a motivo dei costi esorbitanti, dell’impegno gravoso a livello personale e del sacrificio che “impongo” ai miei collaboratori, sarei tentato di chiudere “L’incontro”. Ad 84 anni mi sembrerebbe legittimo sperare che la gente più giovane e più preparata di me dia voce alla coscienza critica dei concittadini e soprattutto dei cattolici mestrini e ponga alla loro attenzione problemi gravi ed impellenti della solidarietà.

“L’incontro” però non adempie solamente a questo compito importante, ma riesce ancora a proporre nuove iniziative, nuove strutture e servizi ed inoltre riesce a stimolare la città a farsi carico dei problemi dei poveri ed a recuperare quei mezzi finanziari necessari a dar volto a servizi e strutture solidali.

Dobbiamo di certo a “L’incontro” le numerose eredità che finora ci sono state destinate e le centinaia di migliaia di euro di beneficenza che hanno reso possibile la costruzione dei 315 alloggi per anziani poveri.

Se non ci fosse stato “L’incontro” a sensibilizzare i concittadini, chi mai sarebbe stato capace di reclutare le centinaia di volontari dei quali dispone “il polo solidale” del don Vecchi e a portare a conoscenza dell’opinione pubblica quel polo solidale a cui ricorrono almeno trenta-quarantamila concittadini in difficoltà?

Vorrei oggi far conoscere uno degli innumerevoli risultati che questa rivista, modesta finché si vuole ma cercata e letta a Mestre, ci ha offerto in questi giorni. Un’azienda ci ha offerto un camion intero di oggetti e decorazioni per Natale. Si trattava di trovare un negozio che a titolo gratuito ci fosse messo a disposizione per organizzare un mercatino natalizio a favore del don Vecchi degli Arzeroni. Neppure due giorni dopo l’uscita del periodico ci è stato offerto un negozio di 150 metri quadri alla rotonda di viale Garibaldi.

Abbiamo trovato i volontari per allestire e gestire il negozio nei mesi di novembre e dicembre. Una persona si è offerta di ottenerci tutti i permessi necessari e c’è perfino un commerciante disposto ad acquistare una parte della merce.

L’incontro fa questo ed altro, non è un rotocalco a colori, però riesce a far miracoli pure in questo nostro tempo così scettico ed egoista.

Talvolta non basta il buon cuore

Quando mi imbatto in un problema, esso mi accompagna per lungo tempo perché la soluzione risulta sempre difficile. Spesso un affanno lo supero quando ne incontro uno di nuovo e di più urgente e di più grosso.

Ritorno quindi su un tormentone a cui ho accennato ieri, ossia l’urgente e grave necessità che nella nostra diocesi, o almeno nella nostra Mestre, venga creato un centro direzionale ed operativo che coordini i servizi caritativi esistenti, indirizzi a quello rispondente al bisogno del richiedente, accompagnandolo con una presentazione e soprattutto faccia opera di monitoraggio sulla situazione esistente segnalando alla città e ai suoi responsabili le carenze registrate perché vi si possa provvedere.

Oggi ritengo doveroso ritornare sull’argomento con un caso concreto. Da un paio di mesi peregrina per la città una famigliola rumena composta dal marito – credo poco più che trentenne – da un bimbo di un paio di anni e dalla moglie incinta che, a giorni avrà un secondo figlio. Alle spalle c’è uno sfratto per morosità, una incoscienza radicale unita a nessuna volontà di lavorare da parte del marito ed una completa e passiva incoscienza da parte della giovane sposa.

Da alcuni mesi questa famiglia sopravvive a Mestre chiedendo una casa e un lavoro ai passanti e ai preti. Una vita certamente molto grama; però essi non riusciranno mai a uscirne da soli e in città per loro non c’è una facile soluzione. Per caso li ho incontrati per strada indicando loro un possibile tentativo, ma molto probabilmente hanno trovato più conveniente continuare a vivere di espedienti. Finché si sono imbattuti in un giovane parroco della periferia, un prete intelligente, ma soprattutto generoso che momentaneamente, non sapendo da che parte voltarsi, ha offerto loro il suo garage. Fra qualche giorno sulla porta del garage della parrocchia apparirà un fiocco per “il lieto evento”.

A quest’uomo avevo suggerito di rivolgersi alla “Casa famiglia” della Giudecca che avrebbe ospitato sia la sposa che il bambino e quello nascente, oppure al “Movimento per la vita” che avrebbe aiutato questa famiglia di disperati, ma lui non ne fece nulla del mio consiglio.

Chi mai, incontrando prima o poi questa gente, potrà trovare una soluzione e chi potrà stare con l’animo in pace dopo aver incontrato un dramma del genere?

Solamente sapendo che la città e la chiesa sono così ben organizzate da poter offrire sempre una soluzione, magari provvisoria, ma sempre pronta ed esaustiva, un cittadino o un cristiano che poi contribuisca al suo mantenimento, può stare con la coscienza in pace, qualora incontrando questa famiglia le possa indicare con certezza chi è attrezzato ad aiutarla, senza che questa gente continui a pietire o ad approfittarsi del prossimo.

P.S. Al momento di andare in macchina abbiamo appreso che questa famiglia è stata aiutata a ritornare in Romania.

Un centro direzionale

Per una sensibilità, molto probabilmente ricevuta da madre natura, o dal fatto di essere nato in una famiglia di modestissime condizioni economiche, o forse per aver letto il Vangelo da un’angolatura particolare, fin da sempre sono sensibile alle condizioni dei poveri. Le situazioni di disagio incontrate lungo la vita, mi hanno sempre coinvolto e, per l’educazione ricevuta, ho sempre guardato con sospetto le grandi proclamazioni di principio privilegiando l’impegno concreto, anche se mi rendevo conto che raramente fosse risolutivo.

Quel poco che sono riuscito a realizzare è sempre nato da queste convinzioni e da questa filosofia di vita. Spesso sono stato incompreso, altrettanto spesso sono stato criticato dai vendivento del momento o da quanti predicano la carità preoccupati però d’avere la pancia piena e che le attese dei poveri non turbino la loro vita piccolo borghese.

Per grazia di Dio ho sempre tirato dritto ed ora, che sono giunto al tramonto dei miei giorni, non ho nessunissima ragione di cambiare. Mi rendo conto però sempre più che la mia Chiesa, ossia la diocesi di Venezia, avrebbe assoluto ed inderogabile bisogno di avere una cabina di regia.

Nella comunità cristiana di Mestre e di Venezia fortunatamente e per grazia di Dio vi sono numerose e belle iniziative di carattere solidale, parecchi servizi funzionanti ed un esercito di volontari che in essi sono impegnati, però sono tutte iniziative acefale, raramente intercomunicanti e per nulla messe in rete. Ritengo che la creazione di un “cervellone” – ed ora ci sono mezzi tecnici a disposizione per approntarlo – con qualche operatore a tempo pieno, magari assunto regolarmente e pagato dalla comunità, potrebbe mettere in rete e sviluppare sinergie quanto mai efficaci.

Io ho tentato di creare un sito mettendoci dentro le soluzioni per le richieste più diversificate, chiamandolo con la denominazione “Mestre solidale“, però da un lato non sono riuscito ad aggiornarlo e propagandarlo. Soluzione simile l’ha tentata monsignor Bonini del Duomo e, più di una volta, la Caritas diocesana, però questi tentativi restano strumenti freddi e inerti. Mentre credo che serva, si, uno strumento aggiornato al massimo, che fotografi le opportunità e i servizi disponibili per ogni singola situazione e sollevare il disagio degli operatori che suggeriscono ed accompagnano il povero che chiede aiuto.

I poveri di famiglia

Ieri ho fatto qualche annotazione amara circa l’organizzazione e la pratica della virtù cardinale della carità all’interno delle comunità parrocchiali. Non è la prima volta che lo faccio e certamente non sarà l’ultima. Sono ben consapevole della sorte toccata al “grillo parlante” del Collodi, però ci sono delle denunce talmente doverose, che credo si debba essere disposti a pagarle anche a caro prezzo.

Senza scomodare i termini impegnativi quali testimonianza o profezia, guai se verranno a mancare le voci scomode che denunciano storture, carenze e deviazioni.

E’ più che mai doveroso affermare a chiare lettere che una parrocchia che non abbia una lucida conoscenza dei suoi poveri – e col termine “poveri” intendo non solamente quelli che non riescono ad avere il necessario per vivere, ma anche gli infermi, gli anziani soli, le persone colpite da drammi gravi, disoccupati, ecc. – non è una parrocchia che possa fregiarsi del titolo di comunità cristiana.

La solidarietà esige conoscenza aggiornata e capacità di risposta, avendo a disposizione personale e mezzi da impiegare. In una città come la nostra c’è pure l’esigenza di strutture e servizi a livello cittadino, cosa che una singola comunità, per quanto grande e ben organizzata, non riesce a promuovere e sostenere, e che perciò devono essere promossi e gestiti dalla collettività nel suo insieme – e qui torno ancora una volta al progetto della “cittadella della solidarietà” che dovrebbe nascere ed essere gestito con la collaborazione dei singoli e delle comunità parrocchiali.

Ogni parrocchia però, se vuol essere non solo di nome ma anche di fatto una comunità cristiana, non può prescindere da un minimo di organizzazione interna, attraverso la quale si fa carico dei suoi fratelli fragili e bisognosi di aiuto. Oggi però questo avviene in un numero assai ridotto di comunità parrocchiali.