La legge!

Finalmente si è conclusa la vicenda della custodia delle biciclette dei trecento anziani ospiti nel “don Vecchi” di Carpenedo. La storia è lunga e quanto mai amara e merita di essere raccontata per constatare che i romani avevano ragione quando già duemila anni fa hanno sentenziato “Summa jus, summa iniuria” (traduco alla buona: “anche la legge più perfetta, fatta per il bene della comunità, talvolta si rivela una ingiustizia clamorosa”).

Una decina di anni fa chiesi ad un architetto di fare un progetto ed ottenere il permesso per creare un deposito per riparare le biciclette. Il “don Vecchi” di Carpenedo è composto da 192 alloggi ed ospita circa 300 anziani. Di questi residenti una decina o poco più, posseggono ancora l’automobile, 150 circa vanno a piedi o in autobus e tutti gli altri posseggono ancora una bicicletta. M’è parso giusto che questo “prezioso patrimonio” fosse difeso dalle intemperie. Il motivo per cui le cose non sono andate per il giusto verso non l’ho ancora capito. Forse c’è stato uno sbaglio, forse gli operai hanno interpretato male i disegni. Quello che purtroppo ho capito bene è stato il fatto che un “parrocchiano fedele” che non c’entrava nulla nella questione, ha fatto ben tra denunce per quella che egli, esperto di queste cose, ha ritenuto una irregolarità ed ha pensato che un prete prepotente dovesse essere punito.

Per questa vicenda, prima c’è stata erogata una multa di cinquemila euro, poi ci han fatto togliere le pareti di questa custodia, dopo per mesi siamo andati avanti con visite di vigili, con suggerimenti vari che dicevano potessero sanare l’illecito; infine, per non danneggiare il professionista che aveva firmato il progetto, abbiamo dovuto togliere anche la copertura perché il “gabbiotto” diventasse legale, mentre quello che è stato fatto in piazza San Marco sotto il campanile, forse sarà fatto togliere solamente per motivi di carattere estetico e di convenienza.

Ora le biciclette dei nonni sono sotto il cielo “riparate” da tre profilati in ferro larghi qualche centimetro, ma comunque “giustizia è stata fatta!”. Abbiamo possibilità di collocare la struttura in altri luoghi, ma con il cantiere per il “don Vecchi 5” appena aperto, distrarre soldi da questa partita sarà ben difficile.

Credo che sia doveroso che i cittadini sappiano quale compenso riceve chi si occupa degli anziani più poveri ed altrettanto conoscano lo zelo per la legge di certi cittadini, di certi vigili, di certi funzionari comunali e di certi magistrati!

La delegazione di Torino

Un paio di settimane fa mi ha telefonato un signore da Torino, il quale mi disse che aveva scoperto in internet la nostra esperienza dei Centri don Vecchi e che desiderava visitare le nostre strutture, informarsi sulle “dottrine”, sui criteri di costruzione, di accoglienza e di gestione con i quali stiamo conducendo avanti l’iniziativa di un nuovo tipo di domiciliarità per gli anziani, soprattutto per quelli di minori possibilità economiche.

L’altro ieri questo signore mi ha ritelefonato dicendomi che sarebbe venuto con due architetti ed un membro del consiglio regionale del Piemonte, che è pure membro del consiglio di amministrazione della fondazione di cui lui stesso è presidente.

Stamattina ho accolto al “don Vecchi” la delegazione piemontese chiedendo che fossero con me due membri della Fondazione Carpinetum, il ragionier Giorgio Franz per quanto riguarda l’aspetto finanziario e il geomentra Andrea Groppo per quello che concerne gli aspetti tecnici. Durante l’incontro venni a sapere che il signore di Torino aveva acquistato un intero piccolo paese in val di Susa, attualmente pressoché disabitato, nel quale sogna di costruire una megastruttura impostata sulla dottrina e sui criteri abitativi che noi stiamo sperimentando.

Confesso che in fondo all’animo si è affacciata l’illusione di essere quasi un innovatore, un padre fondatore di un nuovo mondo per gli anziani, ma questa tentazione si è dissolta presto, consapevole dei limiti della mia senilità.

L’incontro è stato cordiale e quanto mai costruttivo, i piemontesi sono stati ammirati e riconoscenti affermando che avrebbero fatto tesoro della nostra esperienza e chiedendomi consulenza anche per l’avvenire. Noi invece abbiamo capito che il loro dialogo con la Regione Piemonte, la ULSS e il Comune era estremamente collaborativo e che questi enti con cui collaboravano si sentivano riconoscenti per gli apporti del privato sociale e disponibili a finanziare sia la costruzione che la gestione di chi li aiutava a risolvere in maniera nuova, più economica e più rispettosa degli anziani, mentre i nostri referenti locali ci considerano dei noiosi questuanti, o peggio dei “rompiscatole”, piuttosto che dei provvidenziali collaboratori.

A conclusione della visita, mentre facevo il bilancio sull’aspetto positivo che ci riguardava, mi venne in mente l’affermazione di Gesù: «Nessuno è profeta nella propria patria!» I riconoscimenti che finora ci sono pervenuti, fortunatamente molti e calorosi, ci sono giunti da fuori piuttosto che dai nostri “governanti”.

Viva il più bravo!

Ieri avevo letto sul Gazzettino che il sindaco Orsoni ha in mente di fare un “rimpasto” all’interno della giunta comunale. L’articolo era contorto e con qualche illazione, ma mi pare pressappoco di aver capito che avendo un assessore abbandonato il partito per il quale era stato eletto ed essendosi iscritto al gruppo misto, questo partito non era più rappresentato in giunta. Quindi esso reclamava una poltrona, altrimenti come avrebbe potuto sopravvivere ed operare l’amministrazione comunale senza il suo apporto prezioso ed insostituibile? Era dunque necessario far posto in giunta per accogliere il nuovo rappresentante di partito.

La vittima sacrificale immolata sull’altare della logica politica probabilmente sarebbe stata quella di un tecnico, ossia di un amministratore chiamato ad operare per il solo motivo della sua competenza professionale e non per meriti di ordine politico.

Oggi ho letto sullo stesso quotidiano che l’assessore Enzo Micelli era stato giubilato e “licenziato in tronco”, come si direbbe nel linguaggio commerciale. Peccato che questo assessore tecnico fosse uno dei migliori di cui il Comune potesse disporre.

In questi due ultimi anni, a motivo dei Centri don Vecchi, ho avuto a che fare in particolar modo con due assessori: uno di nomina politica (uno squallore!) e l’altro, Micelli, di nomina professionale, un tecnico che pur dovendosi occupare di un assessorato disastrato, corrotto (infatti è quello in cui Bertoncello velocizzava le pratiche a suon di mazzette) ce l’ha messa tutta ed è riuscito a sbrogliare la matassa estremamente ingarbugliata della concessione della superficie agli Arzeroni che è stata destinata al “don Vecchi 5”.

L’assessore Micelli, con la collaborazione dei suoi tecnici, che si sono appassionati all’impresa, ha fatto un autentico “miracolo”, quello di portare a compimento la pratica. Proprio l’ultimo giorno del suo “servizio” dal Comune è arrivata la concessione edilizia. Don Gianni e il suo splendido staff di collaboratori si sono spesi all’ultimo sangue, ma senza la collaborazione decisa, intelligente, leale e generosa del professor Micelli, di certo non si sarebbe cavato un ragno dal buco.

Sento il dovere di rendere onore a questo amministratore di alto senso civico e di notevoli capacità tecniche e di manifestare ancora una volta rabbia ed avvilimento per dei politici avidi ed esperti solamente nella caccia alle poltrone!

I partiti e il “don Vecchi”

Uno dei miei meravigliosi “ragazzi”, ora manager affermato ed “in servizio” presso la Fondazione, mi ha riferito com’è andata la seduta della municipalità che aveva il compito di dare il suo parere in merito alla concessione edilizia per il “don Vecchi 5”. La struttura, che come ormai tutti sanno, sarà destinata agli anziani in perdita di autonomia, sarà un’esperienza pilota che farà risparmiare un sacco di soldi alla amministrazione pubblica, ma che, soprattutto, garantirà dignità umana anche all’anziano in condizioni di notevole fragilità. Il mio amico ne era rimasto semplicemente esterefatto. I passaggi, il tempo, le documentazioni richieste e gli ostacoli affrontati per far del bene alla collettività creando una nuova struttura di carattere sociale, sono stati assolutamente inimmaginabili. Se tutta la gente conoscesse il percorso di guerra che stiamo affrontando ormai da quasi tre anni per offrire ad una sessantina di anziani più poveri un domani sereno, dignitoso, è possibile, credo, che assalterebbe gli uffici della pubblica amministrazione e metterebbe alla gogna un apparato in cui spesso si rifugiano i peggiori perditempo.

Sono innumerevoli i Comuni e gli enti pubblici e privati che sono venuti in questi anni a documentarsi su questa nostra iniziativa che ha avuto tanto successo. Proprio l’altro ieri mi ha telefonato da Torino un manager del privato sociale che, scoperto il “don Vecchi” in internet, ci ha chiesto una consulenza volendo trasformare un intero borgo in una colossale struttura impostata sulla falsariga del nostro Centro.

In questi giorni ho avuto modo di leggere il verbale di questa seduta della municipalità di Mestre-Carpenedo, nella quale s’è trattato dell’erigendo “don Vecchi” degli Arzeroni, verbale da cui ho appreso che dei 25 consiglieri presenti, 6 si sono astenuti, 12 sono stati favorevoli e 7 contrari (Cossaro, Zennaro, Brunello, Pasqualetto, Penzo, Peretti, Buiatti). Mi piacerebbe sapere il partito e l’indirizzo di suddetti signori per segnalare alla città il loro operato, la loro sensibilità sociale e la capacità di rispondere ai drammi dei nostri vecchi, per chiedere loro i motivi della loro astensione e soprattutto della loro opposizione ed infine per dire cosa penso di loro!

Quando si è trattato della seduta del Consiglio comunale in cui si è deliberato per il “don Vecchi” di Campalto, l’ho fatto, ottenendo le scuse della Lega e il silenzio del rappresentante di Rifondazione comunista. Comunque ritengo opportuno che la gente sappia come agiscono coloro che hanno eletto. Ringrazio infine chi ha dimostrato di avere a cuore nostri vecchi, che sono i cittadini più fragili ma ai quali dobbiamo molto.

Per i ricchi non c’è problema

Potrà sembrare un’affermazione assurda, ma invece è vero che il problema dei vecchi è ancora tanto “giovane”, ossia un problema ancora poco esplorato, in rapidissima evoluzione ed ancora poco risolto.

Fino ad una sessantina di anni fa gli anziani continuavano a vivere nella vecchia casa assieme all’ultimo figlio che quasi sempre li doveva accompagnare fino alla fine. Poi sono nate le case di riposo, perché l’evoluzione della società non rendeva più possibile la permanenza in casa.

Quando io ero giovane prete a San Lorenzo, in casa di riposo di via Spalti più di una metà dei “ricoverati” era del tutto autosufficiente, tanto che con i miei ragazzi, soprattutto con la San Vincenzo, tentavamo di ravvivare la loro vita e spesso li portavamo in gita. Poi le case di riposo si ridussero ad accogliere solamente anziani assolutamente non autosufficienti, mentre chi era ancora autonomo rimaneva relegato in solitudine nei grandi condomini, dovendo affrontare difficoltà di ordine finanziario e soprattutto di ordine esistenziale.

Vent’anni fa la soluzione del “don Vecchi” ha fatto fare un passo avanti alla soluzione del problema della domiciliarità per una massa di membri della terza età sempre più numerosa. Lo ha fatto con i suoi alloggi protetti, offrendo autonomia e, nello stesso tempo, inserimento in strutture articolate dove, tutto sommato, l’anziano si sente come in un piccolo borgo. Qui è più facile il rapporto umano con gli altri e, nello stesso tempo, l’anziano può fruire di servizi si a portata di mano, ma soprattutto alla portata delle sue possibilità economiche.

Ora però è diventata urgente una soluzione ulteriormente avanzata per tutti gli anziani ancora vivi a livello intellettuale, ma con una salute assai precaria. Ci si augura che il tentativo del “don vecchi 5” per anziani in perdita di autonomia possa dare una risposta adeguata a questo problema. Nella filiera s’avverte però già l’esigenza di aggiungere l’ultimo stadio, sempre nello spirito che l’anziano rimanga il più possibile e il più a lungo autonomo, ossia nella possibilità di decidere il suo stile di vita.

Il mondo imprenditoriale si è buttato a capofitto in questo “mercato”. Qualche giorno fa, infatti, ho avuto modo di leggere l’elenco delle centinaia e centinaia di strutture che appartengono agli “Anni azzurri”, i cui imprenditori hanno però sempre come scopo principale il profitto. Le strutture per anziani stanno diventando sempre più aggiornate e sempre più confortevoli, ma anche sempre più costose. Per gli anziani ricchi non c’è problema alcuno, ma degli anziani poveri, che sono la stragrande maggioranza, solamente i Comuni e la Chiesa possono e devono farsi carico. Noi della Fondazione a Mestre siamo decisi a fare la nostra parte, ma il Comune?

Preconcetti

Quando queste note vedranno la luce, di certo fra non meno di un mese, un mese e mezzo – tanto è lenta ed aggrovigliata la catena di montaggio de “L’incontro” – sono assolutamente certo che il discorso che sto per fare sarà assolutamente superato, comunque purtroppo la sostanza temo che continuerà molto nel tempo.

Sul “don Vecchi 5”, ossia la struttura per anziani in perdita di autonomia, stiamo pensando e lavorando da almeno tre anni. Non vi dico le peripezie perché dovrei scrivere quello che san Luca dice nel suo Vangelo circa i fatti e i detti di Gesù: che quanto ha scritto è una piccola parte, ma per contenerli tutti ci vorrebbe un’intera biblioteca.

Comunque, tra tentativi, speranze, delusioni, insistenze e minacce, il 10 agosto dello scorso anno è stato presentato in Comune il progetto con le relative documentazioni. Da quel giorno sono passati ben nove mesi e c’è stato perfino qualche burocrate che s’è meravigliato della mia impazienza.

Quando quasi vent’anni fa abbiamo costruito il “don Vecchi 1”, era sindaco l’avvocato Ugo Bergamo ed assessore all’edilizia un certo Armando Favaretto della Democrazia Cristiana. Bergamo m’ha portato a tale esasperazione che un giorno gli scrissi che se entro quindici giorni non m’avesse dato la concessione edilizia, avrei suonato ogni giorno le campane a morto fino all’ottenimento del tanto sospirato consenso. Quanto all’assessore Favaretto, nuovo d’incarico ed ancora ignaro ed innocente circa la lentezza della burocrazia comunale, mi assicurò che da allora in poi le richieste per le costruzioni edilizie non avrebbero superato i 15 giorni di attesa. Di certo questo giovane democristiano era un’anima candida, mentre di anime nere o rosse ce ne sono, e come! Mi sono state riferite certe obbiezioni, insinuazioni, sospetti e critiche dei componenti di una delle infinite commissioni, cose dell’altro mondo!

C’è stato perfino chi s’è meravigliato e ha trovato di che dire sul fatto che i cittadini di Campalto in vent’anni non sono riusciti ad ottenere la messa in sicurezza della fermata dell’autobus dell’ACTV di via Orlanda, mentre il “don Vecchi” in un paio d’anni c’è riuscito.

A parte il fatto che la Fondazione si è impegnata per un anno e mezzo e s’è dovuta accollare tutte le spese, ma il senso civico, l’impegno per il bene verso i propri concittadini e la solidarietà, pare che questa gente non sappia proprio dove stiano di casa, nonostante il loro Marx, il loro Togliatti e Bersani. In Italia c’è, purtroppo, uno spirito anticlericale parolaio e fazioso che neanche i peggiori preti meritano.

“Qui si fa l’Italia”

Qualcuno, e non ricordo chi, ha affermato, in maniera un po’ epica: «Qui si fa l’Italia o si muore!».

Per quanto riguarda le nostre vicende, le nostre battaglie e le nostre guerre per i Centri don Vecchi, non servono frasi del genere da passare alla storia, però sento che è doveroso affermare che le nostre scelte hanno aperto ed apriranno ulteriormente orizzonti nuovi per quanto concerne la domiciliarità degli anziani ed esse rimarranno una pietra miliare. La costruzione del “don Vecchi 5” non la si può di certo iscrivere nel registro delle case di riposo; questa struttura infatti non si somma alle altre case di riposo destinate agli anziani. Il “don Vecchi 5” è un’esperienza assolutamente innovativa e di certo apporterà un tassello veramente nuovo nella filiera di strutture destinate alla terza e alla quarta età.

Per motivi di spazio tento di elencare in maniera estremamente succinta i motivi per i quali questa struttura è assolutamente la prima e la più innovativa in questo settore.

L’assessore alle politiche sociali Remo Sernagiotto ha il merito di aver compreso che neppure il nostro ricco Nordest sarebbe più riuscito a reperire i soldi per pagare le rette alle attuali case di riposo per la moltitudine crescente di anziani che hanno bisogno di assistenza. Sernagiotto ha intuito che si sarebbe dovuta trovare una soluzione per quella zona grigia che intercorre tra autosufficienza e non autosufficienza, soluzione più umana e soprattutto più economica.

Noi del “don Vecchi” abbiamo offerto la soluzione pratica che risponde fino in fondo a questo problema. Al “don Vecchi 5” l’anziano, anche di modestissime condizioni economiche (per essere concreti quello che gode solamente della pensione sociale di 580 euro) con difficoltà di ordine motorio, avrà un appartamentino di circa 30 metri quadri del quale sarà a tutti gli effetti il titolare, come ogni cittadino. Avrà le chiavi di casa e gestirà la propria vita in maniera assolutamente autonoma e a costi tali, pur potendo fruire solamente della pensione sociale, da poter essere autosufficiente a livello economico.

Proprio oggi ho visto “l’affitto” di aprile di una mia vicina di casa che vive in un alloggio di 40 metri quadri: 330 euro, compresi luce, acqua, telefono, televisione, asporto rifiuti, riscaldamento e costi condominiali.

Al “don Vecchi 5” la Regione garantisce, a titolo gratuito, anche la pulizia dell’alloggio e della persona. Questo alloggio poi è inserito in una struttura articolata che offre tantissime opportunità di servizi e di vita sociale, tanto che l’anziano potrà vivere quasi in un piccolo borgo del tutto simile ai nostri piccoli paesi di un tempo.

La Fondazione ha fatto questa scommessa sociale e tra un anno e mezzo sarà certamente in grado di mostrare concretamente la validità del suo progetto.

Un puntino sulla “i”

Nota della redazione: il sospirato “via libera” è poi arrivato a fine maggio, un paio di settimane dopo che don Armando ha scritto questa riflessione.

Oggi il Gazzettino ha informato la città che il “don Vecchi” è in dirittura d’arrivo.

L’assessore Micelli, che da parte della civica amministrazione è stato il vero protagonista che s’è dato da fare in ogni modo ed ha messo a disposizione di questo progetto tutto l’apparato tecnico del suo assessorato, ha affermato che fra un paio di settimane – ossia con la prima convocazione del consiglio comunale – sarà deliberata la concessione edilizia a procedere alla costruzione del “don Vecchi 5”.

Il Gazzettino ha dedicato alla notizia cinque colonne; in realtà è una notizia veramente importante perché con la nuova struttura la nostra città avrà quasi quattrocento alloggi in strutture protette, a disposizione di anziani di modestissime, se non infime, disponibilità economiche.

Ho letto con ebbrezza la sospirata notizia: sono più di tre anni che ci lavoriamo in maniera veramente appassionata, e nove mesi da che abbiamo presentato in Comune il progetto, e credo che nessuno possa immaginare quali e quante siano state le difficoltà incontrate. Comunque il detto popolare afferma che “è bene quello che finisce bene!” ed io accetto questa filosofia.

C’è però in questa notizia qualcosa che mi ha messo in imbarazzo e che sento il bisogno di rettificare. In una delle cinque colonne del Gazzettino c’è la mia fotografia. Di certo non sono stato io a mettercela o a suggerire di mettercela; al suo posto ci dovrebbe essere quella di don Gianni, il giovane parroco di Carpenedo, presidente della Fondazione, che ha perseguito l’obiettivo del “don Vecchi 5” con una passione, un dinamismo, una tempestività ed intelligenza veramente ammirevoli. Il “don Vecchi 5” è opera di don Gianni e del suo meraviglioso staff del Consiglio. In questo progetto io ho pregato, sbuffato, brontolato, spinto, insultato, incoraggiato, ma null’altro.

Voglio rendere onore al merito: da don Gianni, scanzonato ma lucido ed immediato nell’intervenire, che ha sciolto mille nodi più aggrovigliati di quello di Gordio, ad Andrea Groppo, concreto, brillante, intelligente e sempre disponibile nonostante il suo impegno professionale; da Edoardo Rivola, pronto e saggio nei suoi suggerimenti sempre puntuali, a Lanfranco Vianello, il vecchio conoscitore della macchina comunale e pronto nel puntualizzare i vari interventi, a Giorgio Franz, sottile tessitore dei rapporti con la Regione, al direttore Rolando Candiani, scrupoloso ragioniere, vigile custode della finanza e della contabilità.

Credo che se Letta potesse disporre di un Consiglio così onesto, intelligente e generoso, in quattro e quattr’otto potrebbe rimettere in piedi la nostra Italietta!

Tentativo di messa in rete

Il mio tentativo di premere perché “la carità” della Chiesa veneziana sia messa in rete ad esprimere in maniera sempre più esplicita ed evidente il volto e il cuore di Cristo verso i fratelli in difficoltà, è ormai un fatto scontato, o quasi, che non fa purtroppo più notizia.

Debbo confessare che i risultati di questi tentativi sono pressoché insignificanti. Da anni insisto perché tra tutte le strutture, i movimenti e le iniziative benefiche, o meglio solidali, si dia vita ad una federazione che raccordi, faccia interagire e parli ad una sola voce alla città e ai suoi reggitori, di tutto quello che riguarda la solidarietà. Da anni sollecito la nascita di un periodico che maturi nella Chiesa veneziana e nella città la cultura solidale, faccia conoscere l’esistenza e promuova ciò che ancora manca.

E’ da anni che spingo perché si crei un centro di coordinamento di studio, di programmazione, che organizzi al meglio e in maniera moderna l’esistente, e promuova ciò che ancora manca, cosicché le risposte ai bisogni siano rapide, puntuali, appropriate ed esaustive. E’ da anni che insisto perché si dia vita alla “Cittadella della carità”, perché ci sia un Centro in cui convergano i servizi essenziali e sia presente “il cervello e il cuore” della carità della diocesi.

Forse il prospettare la nascita di un mondo nuovo mette paura, tanto che essendo venuto a conoscenza di una iniziativa di un’associazione che raccoglie e distribuisce indumenti a chi ne ha bisogno, mi è venuto da sperare che “la politica dei piccoli passi” possa essere la vincente.

L’associazione di volontariato “vestire gli ignudi” nell’Italia settentrionale è di gran lunga la più significativa; infatti conta trentamila visite l’anno e gestisce l’ipermercato solidale che forse è il più efficiente anche a livello nazionale.

Notando un rallentamento di offerte di vestiti usati a causa della crisi ed un aumento delle richieste, sempre a causa della stessa crisi, è stato chiesto al Patriarca di destinargli almeno una parte della raccolta della Caritas che praticamente ha l’esclusiva del settore e che probabilmente vende a prezzi irrisori gli indumenti raccolti ad industriali di Prato.

Mi auguro che una risposta positiva segni l’inizio di una nuova “politica” di integrazione che spezzi la forma di individualismo esasperato che caratterizza questo settore.

Il contratto

“L’incontro” esce nella tarda mattinata di lunedì e subito, nel primo pomeriggio, comincia la distribuzione. Nell’impresa non facile, di rifornire i sessanta punti di distribuzione, a me spetta il compito di rifornire la chiesa del cimitero, l’ospedale dell'”Angelo” e le chiese di Carpenedo e delle suore di clausura. Il rifornimento di queste due ultime postazioni lo faccio il martedì mattina.

L’ultimo martedì, mentre stavo calibrando i vari pacchetti in rapporto al passaggio dei fedeli, mi raggiunse don Gianni e, prima, mi costrinse a prendere il caffè da Ceccon (nonostante per quarant’anni io e Ceccon siamo stati “coinquilini” della piazza, penso che questa sia stata la prima volta che avvenisse, data la mia atavica riservatezza) poi quasi mi costrinse a partecipare alla firma del contratto con l’impresa Eurocostruzioni che costruirà il “don Vecchi” di via degli Arzeroni.

Oltre a don Gianni e Andrea Groppo, c’era l’amministratore delegato di questa impresa e i responsabili delle imprese che cureranno l’impianto elettrico e quello idraulico.

Il clima dell’incontro è stato quanto mai cordiale ed amichevole, ma per me ha assunto quasi l’importanza di un fatto storico, tanto tribolate e lunghe sono state le premesse, quanto sorridenti e positive le speranze.

A me capita di star bene quando aiuto una persona in difficoltà, anche se so che l’offerta è inadeguata e non risolutiva, però la firma di questo contratto mi ha reso cosciente che fra un anno e qualche mese ben sessanta anziani traballanti ed incerti nel muoversi avranno un alloggio autonomo del quale loro saranno i titolari a tutti gli effetti, e perdipiù sarà loro garantita, a titolo gratuito, la pulizia del loro alloggio e della loro persona. M’è parso un atto di solidarietà veramente sacro e solenne, reso ancora più consistente dal fatto che esso si ripeterà, quasi in maniera automatica, per uno o due secoli.

Ho parlato di un gesto veramente sacro, perché credo che non vi sia “pontificale”, celebrato pur dal Patriarca e nella cattedrale di San Marco, che avrà mai la consistenza di questo contratto a cui si è arrivati con immensi sacrifici e difficoltà, supportati dal comandamento di Dio e che impegnerà tanti cristiani oggi e domani ad essere coerenti a questo atto di fede in Dio e nei figli di Dio.

Sempre e comunque con la gente

Mi rendo perfettamente conto che la mia maniera di fare il cristiano e il prete è molto profana, infatti io mi lascio coinvolgere dalla politica, mi ribello alla burocrazia del Comune, mi indigno perché quattro gatti a Venezia starnazzano come le oche del Campidoglio per le “grandi navi” che entrano in punta di piedi in bacino San Marco per “versare” un sacco di dollari alla città (è facile immaginare quanto possano spendere tre, quattromila persone in crociera e quali vantaggi ne abbia la città), come posso accettare che sindaco, giunta e consiglio comunale si lascino condizionare da questa gente irrequieta e campata in aria?

D’altronde, come posso starmene zitto ed in pace quando, essendosi aperta una piccola voragine in “via dei 300 campi”, strada percorsa ogni giorno da centinaia di bisognosi che vengono al “don Vecchi” per chiedere aiuto, quando ho richiesto l’intervento del Comune (1° aprile 2013), mi sono sentito rispondere: “Il Comune non ha soldi, bisogna attendere fino al 25 maggio per vedere se possiamo racimolare qualche euro; a quella data vi sapremo dire se possiamo intervenire o no”.

A me pare che un cristiano, e soprattutto un prete, non possa starsene a giocherellare con qualche avemaria, o a filosofeggiare sul sesso degli angeli!

Talvolta mi capita di leggere il pensare dolce, soave e mistico di miei colleghi; di primo acchito quasi mi sento un pesce fuor d’acqua, però un momento dopo mi ribello al pensiero di un cristianesimo angelicale, avulso dai problemi reali della vita.

Il nostro nuovo Papa mi ha confortato alquanto quando disse che i preti devono “odorare da pecore”, perché devono essere totalmente coinvolti dalla vita e dalle vicende del loro “gregge”.

Talvolta sono un po’ preoccupato per la mia solitudine ideale, ma poi decido, ancora una volta, di essere cristiano e prete che “puzza” dei problemi della sua gente.

L’avventura del pulmino

Lo scorso anno il presidente della municipalità ha accompagnato al “don Vecchi” una ragazza piuttosto avvenente per farmi una richiesta-proposta: ossia mi chiedeva se io avrei gradito la fornitura, a titolo gratuito, di un “doblò” attrezzato con carrello sollevatore per trasporto di persone disabili.

La cooperativa che proponeva l’operazione avrebbe fornito l’automezzo, pagato l’assicurazione e il bollo e l’avrebbe ceduto con un tipo di comandato gratuito per quattro anni rinnovabili.

D’istinto mi venne da pensare: “Troppa grazia, sant’Antonio!”.

Poi questa agente della cooperativa illustrò tutti gli aspetti dell’operazione: il Comune e la Fondazione avrebbero avallato, con atto formale, la raccolta della pubblicità presso le aziende cittadine, per cui l’automezzo sarebbe apparso come il manto di un leopardo, ma con macchie di misura e di colore diversi in rapporto alle “icone” richieste dalle singole ditte.

Sembrava che la somma necessaria – cinquantamila euro – sarebbe stata reperita in pochi mesi, ma la crisi economica rallentò decisamente la raccolta. Le aziende, anche le più sane, sono piuttosto guardinghe oggi nello sborsare denaro per farsi pubblicità. Spesso mi giungevano telefonate dalle ditte interpellate, per garantirsi che non ci fossero inganni. Comunque, anche se con una certa fatica, siamo arrivati in porto e con un rito solenne, ci è stato consegnato l’automezzo.

L’impresa m’ha fatto felice per più motivi, da un lato perché il “don Vecchi” è oggi, presso i cittadini, un ente riconosciuto, stimato e meritevole di essere aiutato, e dall’altro lato perché l’automezzo, con l’attrezzatura per il trasporto di disabili, ci è quanto mai utile per accompagnare gli anziani presso gli ambulatori per le visite mediche che oggi sono quanto mai frequenti. Ora si tratterà di reperire tra i residenti un volontario e il servizio sarà bell’e pronto ed efficiente.

Attualmente il parco macchine del “don Vecchi” e delle associazioni che vivono in simbiosi, è ormai rilevante: cinque furgoni, dei quali uno con frigo e due doblò. L’azienda sta prendendo consistenza!

La carità non è un costo ma un ricavo

Quarant’anni fa, quando decidemmo di aprire la mensa di Ca’ Letizia, uno dei problemi che maggiormente ci preoccupò fu quello di trovare i soldi per pagare la cena ai cento commensali potenziali. Per attenuare la preoccupazione, decidemmo di richiedere un piccolo compenso da parte degli ospiti. Partivamo infatti dall’idea che i concittadini che avessero voluto aiutare un povero, invece di arrischiare che questi andasse a bersi l’elemosina, prepagassero una cedola equivalente ad una cena.

La trovata funzionò solo in parte. Pochi cittadini infatti, per i motivi più diversi, aderirono all’iniziativa, mentre alcune parrocchie – quelle di via Piave, San Lorenzo e Carpenedo – acquistarono ingenti quantitativi di “buoni cena” che poi distribuivano in giorni prestabiliti ai questuanti che non mancano mai alla porta delle canoniche.

Quando iniziammo a distribuire i mobili, i vestiti, la frutta e verdura, partendo da questa esperienza ed aggiungendovi le considerazioni che la beneficenza arrischia di produrre assuefazione alla mendicità cronica e che invece fosse educativo, per creare una città solidale, che anche i poveri aiutassero chi è più povero di loro, abbracciammo la dottrina che “magari poco, ma ognuno deve dare qualcosa in cambio dell’aiuto ricevuto”. Questa dottrina portò alla conclusione che il “polo della carità” del “don Vecchi” (distribuzione vestiti, mobili, arredo per la casa ed altro) non solo non è passivo, ma in realtà risulta una delle voci più consistenti della Fondazione Carpinetum a cui vengono destinati i proventi dei magazzini. Adottai la stessa logica per il Foyer San benedetto, con lo stesso risultato.

Ora pare che il Patriarca desideri che la Chiesa mestrina crei una struttura di accoglienza notturna per chi è in disagio abitativo e penso che ci sia grossa preoccupazione per reperire i soldi necessari per fare la struttura, ma soprattutto ci sia la grave preoccupazione per il costo della gestione.

Sono convinto che se si adotterà la dottrina del polo solidale del “don Vecchi”, non solamente questo “albergo” per i senzatetto non peserà sulla diocesi o su chi lo vorrà condurre, ma dovrà invece diventare una voce attiva.

E’ tempo che si esca dalla vecchia mentalità assistenziale per aiutare ogni cittadino, ricco o povero, a “farsi prossimo” del fratello che incontra bisognoso sulla sua strada.

La Chiesa dei poveri

Ho letto su “Gente veneta” che il nostro Patriarca ha espresso l’intenzione di creare a Mestre una struttura ricettiva per i concittadini che dormono in stazione, negli ingressi dei condomini o per strada. Ora si trattava di reperire il luogo e i mezzi economici per dar vita a questa nuova struttura, che poi sarebbe la prima che la Chiesa apre a Mestre.

Già in una pagina di diario di qualche settimana fa non solamente ho espresso tutto il mio consenso, ma pure mi sono azzardato ad offrire, pur non richiesto, dei suggerimenti. Quello di un’accoglienza dignitosa, civile e cristiana, è un problema di un’estrema gravità e di un’estrema urgenza.

Qualche settimana fa due giovani signore che attualmente lavorano al “don Vecchi” e alle quali abbiamo offerto, oltre al lavoro, anche un piccolo alloggio, in un momento di confidenza mi hanno raccontato come si sono inserite nella nostra città. Una delle due è entrata in Italia con un permesso turistico e l’altra è arrivata a piedi in venti giorni di cammino, dormendo nei fienili e chiedendo la carità. Una volta a Mestre ambedue han dormito un paio di mesi presso la stazione ferroviaria e mangiato a Ca’ Letizia e dai frati finché non riuscirono a trovare un lavoro. Oggi la situazione è certamente ancora più difficile di qualche anno fa per le donne che giungono dalla Moldavia, dalla Romania e dall’Ucraina e cercano di inserirsi nella nostra città. Per questo motivo riterrei che sarebbero necessarie due strutture: una con caratteristiche particolari per i senza fissa dimora che, per scelta, per incapacità o per malattia, sono senza tetto, ed una invece per le persone che hanno bisogno di un ambiente di prima accoglienza per inserirsi poi nel tessuto civile, avendone essi la volontà e la capacità di farlo.

A quanto si dice, ho la sensazione poi che versando la diocesi in un momento finanziario difficile, ci sia una preoccupazione di imbarcarsi in nuovi debiti. Però, se questa situazione riguarda la diocesi, non è la stessa cosa per le parrocchie che, se invitate con la richiesta di quote ben precise da parte della Chiesa veneziana, potrebbero sobbarcarsi questo impegno. La Chiesa dei poveri o batte questa strada, oppure non va da nessuna parte e si riduce ad una farsa controproducente.

“Piazza Maggiore”

Oggi qualcuno ha deposto sul “tavolo cortesia” della grande hall del don Vecchi una decina di copie di “Piazza maggiore” n° 43 del 23 aprile. “Piazza maggiore” è il periodico della parrocchia del duomo di San Lorenzo di Mestre, che passa contenuti e dialoga con l’intelligentia della città e la civica amministrazione. Il giornale-rivista, che esce periodicamente ma con una certa frequenza, è un periodico di grandi dimensioni, pressappoco ha il formato de “Il manifesto” di un tempo e per la maggior parte è dedicato ogni volta ad un tema particolare, senza però trascurare aspetti significativi della vita della comunità cristiana del duomo.

Il direttore è “don Fausto”, monsignor Bonini, che però si avvale sempre di firme di giornalisti seri o di personalità significative della città. La parrocchia del duomo pubblica anche un foglio settimanale, “La Borromea”, per l’informazione spicciola di questa comunità estremamente articolata; usa inoltre con disinvoltura quel vasto e variegato nuovo mondo del digitale che io, che appartengo ormai al “Piccolo mondo antico”, conosco solo in maniera approssimativa, ma del quale la parrocchia di San Lorenzo fa uso abbondante e con tanta dimestichezza.

La lettura dell’ultimo numero di “Piazza maggiore” mi porta a due considerazioni, di cui ho già parlato, ma su cui sento il bisogno di ritornare perché ritengo che la Chiesa veneziana e le relative comunità parrocchiali, come pure la direzione diocesana, non siano coscienti di avere in diocesi una comunità con una strutturazione pastorale e dei mezzi di comunicazione che sono in assoluto i più avanzati e i più rispondenti ad una impostazione pastorale moderna.

Io sono un prete fuori gioco e “vecchio”, come mi ha definito il Patriarca, quindi non ho alcun interesse da difendere e perciò per questo ritengo di essere credibile. Ebbene penso che l’impostazione pastorale della parrocchia di San Lorenzo sia in assoluto la più aggiornata e la più attenta alla nuova società che si affaccia alla ribalta del nostro tempo.

Conosco anche altre belle ed efficienti parrocchie, che però si rifanno ancora a vecchi schemi ormai usurati o perlomeno non aggiornati sui nuovi modelli di società organizzata. Ho l’impressione quindi che la diocesi di Venezia possegga una “fuori serie”, una “Fiat cavallino rosso”, che potrebbe essere punto di riferimento anche per tutte le altre comunità, mentre mi pare che rimanga isolata, ignorata e poco conosciuta.

Spero che queste umilissime note possano destare il meritato e doveroso interesse.