Il rito religioso, a volte simbolo pressoché indecifrabile

Talvolta mi sorprendo che solo ora, dopo più di cinquant’anni di militanza sacerdotale, emergano dalla mia coscienza religiosa certe problematiche che nel passato non avevo avvertito o non avevo ritenuto così importanti come le sento ora.

Il problema che in questo ultimo tempo mi sta interessando quanto mai è la modalità con cui la religione traduce ed alimenta la religiosità o meglio ancora la fede.

La religione per me ha sempre rappresentato tutta quella impalcatura che ha lo scopo di aiutare l’uomo a scoprire la presenza di Dio in mezzo a noi, a cogliere il suo amore ed il suo messaggio e a dar modo al credente di sviluppare dentro il suo cuore e la sua coscienza: l’adorazione, la fiducia, la riconoscenza e tutto quello che una creatura deve sentire verso Colui che gli ha dato tutto e che continua a dargli la possibilità di vivere degnamente la sua vita e di tendere “ai cieli nuovi alle terre nuove”.

La religione adempie a queste funzioni mediante le norme morali, l’ascetismo e soprattutto il culto che traduce questo rapporto con Dio.

Ora, col passare dei secoli, il rito si è costantemente schematizzato, inscheletrito, diciamo pure “disumanizzato”. Tanto da diventare quasi un simbolo pressoché indecifrabile ed estraneo alla sensibilità e alla modalità del vivere.

Da ciò nasce nel mio animo l’urgenza e il dovere che il rito diventi più comprensibile, più ancorato al vivere quotidiano, più vicino al modo comune ed attuale dell’esprimersi della gente del nostro tempo; gesti, parole, segni devono riavvicinarsi maggiormente al modo comune che le persone hanno di esprimere i loro sentimenti.

Picasso dicono è un gran pittore, però solamente lo è per pochi addetti al lavoro non certamente per il popolo.

Non vorrei che la messa, la preghiera divenissero pian piano un dipinto di Picasso incomprensibile alla maggioranza degli spettatori che affermano che “è sublime” non sapendo però perché sia così sublime.

Per quanto mi è concesso di fare tenterò che la religione non scivoli sul magico, ma invece traduca fedelmente il pensiero e i sentimenti di chi sente il bisogno di parlare al Creatore.

Speranze per la presenza cristiana all’ospedale dell’Angelo

Il buon Dio è un grande artista ed un insuperabile architetto di uomini; ha pensato proprio a tutto!

Io ho ottanta anni e dovrei pensare soprattutto al tramonto e al passaggio della frontiera; eppure mi accorgo che un istinto profondo mi porta ancora a sognare, a far programmi, a progettare nuove avventure.

Questo fermento interiore forse sorretto solamente da speranze e da illusioni, mi aiuta però a non ripiegarmi in me stesso e a non ridurmi a passare il tempo tra la poltrona ed il letto.

Ho terminato da poco l’ultima avventura dell’ospedale; è stato un servizio modesto, parziale e limitato nel tempo e dalla volontà del responsabile, di questo settore pastorale, ma questa esperienza mi ha posto nella condizione di constatare le magnifiche e splendide prospettive che la chiesa veneziana ha anche in questo momento storico apparentemente poco favorevole alla proposta religiosa.

D’istinto la mia mente ed il mio cuore hanno cominciato ad elaborare progetti, linee pastorali, orizzonti per la pastorale della sofferenza.

Sono convinto che ci sono ancora delle splendide possibilità di lievitare cristianamente anche questo luogo della prova. Due mesi sono pochi e soprattutto offrono ancora meno possibilità quando il tuo compito è limitato da indicazioni precise, però credo che i sedici numeri del periodico “L’Angelo” abbiano aperto un varco, abbiano fatto sentire una presenza, abbiano offerto parole e sentimenti per dialogare con Dio.

La cappella con la sua splendida collocazione, la S. Messa vespertina, le due stanze annesse, un numero abbastanza consistente di volontari di salda matrice cristiana, potrebbero accendere una presenza cristiana calda e vitale, punto di riferimento per ammalati, medici, infermieri e familiari.

Credo che ci siano tutti i presupposti per un’azione di evangelizzazione efficace e costruttiva. Io avrei anche sognato che il giovane e il vecchio clero di Mestre si fossero fatti carico, con un po’ di buona volontà, anche di questo settore così delicato e significativo, ma andrà anche bene se il nuovo giovane sacerdote straniero potrà coagulare persone ed opportunità per realizzare il Regno anche in questo piccolo mondo della prova e della sofferenza.

Le preghiere che nessuno conosce più

Circa un anno fa entrando in una chiesa della città, trovai un opuscoletto, stampato artigianalmente, dal titolo abbastanza scontato dato il luogo ove l’avevo trovato: “Le preghiere del mattino e della sera”.

Il libretto era povero di contenuto e più povero ancora a livello tipografico. Comunque questa scoperta mi offrì l’opportunità di riflettere sul fatto che moltissimi cristiani oggi ignorano anche le più elementari formule di preghiera.

Da quando si è abbandonato il catechismo di San Pio X e da quando a scuola non si imparano più le poesie a memoria, la gente di quaranta o forse cinquanta anni in giù, non solo non conosce più una formula di preghiera, ma ignora ogni verità religiosa, non sa più scrivere una lettera e forse non riesce neppure a fare una dichiarazione d’amore.

La tecnica e la cultura del nostro tempo ci hanno ridotto a questo stato di povertà intellettuale e di capacità di esprimere i propri sentimenti in modo diverso dai monosillabi o dagli americani ok e ko!

Per me tutto può insegnarci qualcosa, se non in positivo, almeno in negativo.

Nel caso del libretto trovato in parrocchia, l’insegnamento è stato perfino doppio: in positivo, l’idea di raggruppare le principali e più semplici preghiere assieme al concentrato del pensiero evangelico rielaborato lungo i secoli della tradizione cristiana; in negativo, l’adoperare uno stile più dignitoso.

Risultato di questa operazione pastorale; abbiamo stampato cinque edizioni per complessive sei-settemila copie.

Credo che i cittadini di tutte le comunità cristiane della città, abbiano beneficato di questo povero, ma essenziale strumento di preghiera e tutto fa pensare che la richiesta continui perché le copie continuano ad andare a ruba. Unico neo dell’impresa pare che i parroci neppure s’accorgono dell’iniziativa o peggio la snobbino con atteggiamenti di superiorità teologica!

Come finì il mio incarico all’ospedale dell’Angelo

Date le premesse, pensavo che la mia supplenza all’Angelo sarebbe durata molto più a lungo, invece una telefonata e poi una visita di mons. Pistollato, ha messo improvvisamente fine al mio servizio a part-time presso il nuovo ospedale.

Fin dal primo momento il responsabile diocesano, per la pastorale nel mondo della sofferenza, aveva tracciato con molta precisione dei limiti molto precisi e stretti al mio servizio.

Dovevo dir messa e semmai dare l’estrema unzione a qualche ammalato “già morto” nella sostanza.

Forse questa preoccupazione del monsignor della Caritas si rifaceva alla sua esperienza di giovane prete a Carpenedo e alle mie affermazioni, ribadite più di una volta, che desideravo collaborare su un progetto serio e condiviso, mentre per ora all’Angelo non c’era neanche l’ombra di tutto questo e si navigava a vista, sperando che il tempo potesse in qualche modo portare delle soluzioni. Più volte ho pensato che se anche mi avessero chiesto di guidare questo servizio, cosa che credo non sia passata per l’animo di alcuno dei miei capi, sarebbe stato assolutamente un azzardo imbarcarmi in un’avventura così impegnativa e difficile a ottant’anni di età.

Fare il prete oggi, predicare il Regno e testimoniare il messaggio di Cristo, in un mondo secolarizzato e pochissimo interessato ai problemi religiosi, è particolarmente difficile, farlo in ospedale, quando ci sono preoccupazioni per la sopravvivenza e carenza di serenità, diventa ancora più tragico.

Forse è per questo che ritengo che lo staff che si occuperà della pastorale in ospedale, dovrà essere particolarmente coeso, impegnato, serio e generoso.

Spero proprio che il giovane prete, che arriva da un paese lontano e ancora ricco di fede possa riuscirci.

L’assurda rassegnazione di tanti responsabili parrocchiali!

Gesù stesso ha affermato che “I figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della luce”; era vero ai suoi tempi ed è ancora più vero anche e soprattutto ai nostri giorni. Come però capita per ogni regola, ci sono pure le eccezioni.

lo vissi la mia infanzia in una comunità cristiana che era retta da Monsignor Umberto Mezzaroba, parroco zelantissimo, direi che bisognerebbe inventare un supplemento a questo superlativo assoluto per indicarne lo zelo e la sua passione per le anime.

In quella comunità di campagna 60-70 anni fa quasi tutti la frequentavamo, però c’era pure un gruppetto di una trentina di pecorelle smarrite che non venivano a messa alla domenica.

Ricordo che questo parroco non si dava pace; arrivò ad organizzare per loro un pellegrinaggio a Sant’Antonio da Padova, caricando nella corriera vino a volontà e salami, insistette così tanto che la maggior parte finì per confessarsi e far la comunione.

Diventato sacerdote chiese al Patriarca di avere il suo vecchio chierichetto e fui così con lui a Venezia nella parrocchia dei Gesuati per ben due anni.

La sua passione per le anime era senza limiti, non c’era occasione o mezzo che lui non cogliesse al volo per aiutarmi ad avvicinare i ragazzi e portarli in parrocchia.

Nonostante qualche sua pia esagerazione, furono due anni intensi, appassionati che lasciarono una traccia profonda nella mia coscienza, il suo ricordo continua a stimolarmi ancora soprattutto notando tanta tiepidezza e superficialità nei preti e nei cristiani di oggi.

Questa forte esperienza acuisce in me la tristezza nel vedere apatia, mancanza di slancio, di inventiva, di intraprendenza nella pastorale parrocchiale.

Quando confronto l’insistenza e l’impegno di certi agenti di commercio per piazzare i loro prodotti, di certi commercianti e di piccoli imprenditori o la determinazione dei giovani mormoni o dei testimoni di Geova, mi sconforta ancora di più confrontandoli allo spirito di resa, la chiusura, la rassegnazione o l’accontentarsi del poco presente in tanti responsabili parrocchiali.

Spero e prego per una nuova Pentecoste in cui vento e fuoco scuotano nuovamente la nostra chiesa!

L’iscrizione al catechismo dei bambini

Sono riapparsi con le prime brezze di autunno e l’apertura delle scuole, i bollettini parrocchiali sui banchi della stampa delle chiese di Mestre. Gli addetti alla distribuzione de “L’incontro” si fanno carico di portarmi a casa una copia di suddetti periodici. Ho notato dalla lettura dei fogli parrocchiali, un argomento che risulta il denominatore comune di tutte le comunità cristiane: l’iscrizione al catechismo dei bambini che frequentano le elementari.

E’ molto meno frequente l’accenno ai ragazzi delle medie, pochissimo per non dire quasi mai, quello delle superiori.

In genere si parla del post-cresima che per qualche parrocchia si riferisce perfino ai bambini di terza o quarta elementare, rifacendosi, per certi parroci, ad una prassi del lontano medioevo.

Questa iscrizione penso sia richiesta, da un lato, perché in moltissime parrocchie non esiste uno stato d’anime (dicasi un’anagrafe parrocchiale) aggiornata e da un altro lato perché si tende a far capire che l’andare a catechismo deve essere concepito come una scelta del ragazzo e soprattutto della famiglia, come non fosse lecito pretendere che chi ha fatto la scelta del battesimo conseguentemente deve fare tutte quelle che ne derivano.

Quando ero parroco mi sono sempre battuto e quasi sempre sono stato sconfitto dai miei giovani collaboratori, perché all’inizio dell’anno mandassimo ad ogni famiglia una lettera informandoli che il giorno tale, all’ora tale, nella tale aula e con la tale insegnante sarebbe iniziata la scuola di catechismo per il loro figlio.

Noi eravamo in grado di far questo e la famiglia apprendeva così qual’era il suo preciso dovere.

Le iscrizioni attuali denunciano una carenza organizzativa della parrocchia e dall’altra la resa e la rassegnazione d’ammettere che dei battezzati possono non dar seguito alla scelta iniziale e perciò il battesimo è quasi una scelta formale.

Se uno parte per qualsiasi impresa sentendosi perdente, non può che aspettarsi che una sconfitta ed è questo purtroppo lo spirito e l’atteggiamento oggi diffuso nella maggioranza delle nostre parrocchie, cosa pastoralmente non esaltante.

La vita e la morte stanno diventando una banalità insignificante!

Una trentina di anni fa, o forse qualcuno di più, ebbi modo di partecipare in una casa dei padri Cavanis al Coldraga, sopra Possagno, ad un corso di studio sul problema della secolarizzazione.

Ricordo che lo studio si rifaceva ad un libro, che a quel tempo rappresentava la punta di diamante della ricerca sociologica a livello religioso.

Il volume che aveva come titolo “La città secolare”, mi pare di un certo Cox, analizzava con puntualità e precisione le linee di tendenza della società che stava affiorando e affermandosi in maniera quasi ineluttabile.

Lessi con grande attenzione e più ancora preoccupazione quello che, secondo l’autore, sarebbe stato il volto del comportamento religioso dei battezzati durante gli anni che ci separavano dalla fine del ‘900.

Però un discorso del genere in una località della Pedemontana della Marca Trevigiana, che aveva portato al soglio pontificio Pio X, in un mondo buono, semplice e praticante, non sembrava solo avveniristico, ma fantascientifico.

Mi ritrovo ora, pochi decenni dopo, ad imbattermi direttamente nelle espressioni concrete di questi studi anticipatori.

Un paio di giorni fa ho celebrato, nella cappella del cimitero, con la porta aperta in questa fine di un’estate strana, imprevista ed anomala. Notai il parlottare presso la porta della chiesetta, di tre o quattro vecchietti, che pareva che non si decidessero nè ad entrare nè ad allontanarsi.

Terminata la messa chiesi loro qual’era il motivo di quel trambusto: “Aspettavamo il funerale di un nostro amico; ci dissero che sarebbe avvenuto alle 15, abbiamo atteso invano, sennonché ora ci hanno riferito che il funerale è consistito nel caricare la bara sul carro funebre per portarla a  cremare a Marghera!”

Oggi questo capita poche volte, fra dieci anni forse i funerali si faranno per la maggior parte così!

La vita e la morte stanno diventando una banalità insignificante!

La chiesa veneziana e l’ospedale dell’Angelo

Nota: don Armando ha scritto questa riflessione prima che don Robert Skrzypczak fosse chiamato a curare in forma permanente la chiesa e l’assistenza ai malati nel nuovo ospedale.

Ieri ho sentito il bisogno di tessere l’elogio del nuovo ospedale e dello staff che lo ha progettato, delle imprese che hanno realizzato la grande opera, che non ho difficoltà a definire storica, di chi ne ha organizzato il finanziamento e l’esecuzione.

Da quanto ho sentito, si vuol fare dell’Angelo un ospedale di eccellenza e perciò, pian piano, si assumeranno professionisti di primo piano.

Come cittadino, almeno per una volta, sono soddisfatto.

L’ospedale però è destinato al recupero fisico, e perché no, anche spirituale dell’uomo.

L’ospedale dovrebbe essere destinato al recupero e al restauro di tutto l’uomo, almeno di quanto è umanamente possibile.

Affermato tutto questo, deve quindi operare all’interno di questa poliedrica struttura, uno staff di operatori religiosi di eccellenza per cogliere il momento favorevole per una proposta religiosa quanto mai seria ed attenta del momento propizio per riordinare lo spirito, per recuperare la coscienza del bisogno di Dio, per incentivare la consapevolezza del dono della vita, per ringraziare, chiedere perdono al Signore, e per rilanciare il desiderio di vivere la proposta cristiana in maniera degna e coerente.

La società ha offerto a Mestre una struttura meravigliosa, temo però che la chiesa veneziana stia contribuendo per quanto la riguarda, in maniera assolutamente inadeguata e carente.

Pur essendo le porte dell’ospedale spalancate, la chiesa non sta dando un volto riconoscibile, vivo efficiente a Cristo Gesù nel nuovo ospedale.

Ci sono, pare delle speranze, finora però la risposta a questa attesa è assolutamente manchevole.

So che a qualcuno o a molti dispiacerà questa mia affermazione però credo sia un dovere che questo vecchio prete diventi coscienza critica e dica apertamente che il nuovo ospedale esige molto di più e di meglio dalla chiesa veneziana, ed aggiungo che, volendolo questo è assolutamente possibile!

Foglietti, statistiche e ricordi

Ho eliminato la gran parte di carte che riempivano gli scaffali della mia grande canonica che la mia perpetua non si è mai rassegnata ad accettarla come la casa di tutti senza chiavi e senza orari, tanto che un giorno sbottò in una frase da potersi accostare a quella di Pietro Micca: “Maramaldo, tu uccidi un uomo morto”

Rita sentenziò in maniera un po’ meno epica: “Questa non è una casa ma un municipio!”.

Sono sempre stato grato, alla mia governante, perché era la riprova che tutto sommato qualcosa di quanto andavo sognando si stava realizzando.

Tornando a noi, ogni tanto trovo ancora in qualche contenitore, le cui carte non avevo selezionato al momento dell’uscita dalla parrocchia, qualche carta che mi fa riandare ai drammi, alle imprese o ai sogni di un tempo.

Qualche giorno fa ho trovato una pagina di un quaderno a quadretti in cui il dottor Mario Carraro aveva annotato i risultati del sondaggio che il Patriarca aveva disposto in tutte le parrocchie 5-6 anni fa.

Prima di buttare la carta nel cestino, lo girata e rigirata tra le mani come una preziosa reliquia, tanto che mi sento spinto a trasferirne i contenuti su qualcosa che non è tanto meno fragile del foglietto.

Ecco il contenuto: nella parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio con le due messe vespertine si celebravano 10 messe ogni domenica.

Ed ecco i dati: 5167 parrocchiani i praticanti erano 2182 così ripartiti: messa vespertina al don Vecchi n. 107 – nella chiesa parrocchiale n. 134 – alla domenica ore 8 n. 67 – ore 9 n. 410 – ore 10 n. 339 – ore 11 n. 300 – ore 12 n. 340 – ore 18 n. 211 – ore 19 n. 127 – in monastero n. 36 – in cimitero n. 111.

Io spero che attualmente con un parroco giovane e con più aiuti di sacerdoti, diaconi ed accoliti la situazione sia ancora migliore, ma solo Dio lo sa quanta fatica, quanto sacrificio e quanta ricerca appassionata di soluzioni pastorali per superare questo 40% di praticanti.

Certo io non mi sono rassegnato di ridurre la parrocchia ai vicini, ma ho sempre cercato la pecorella perduta

L’Angelo, il settimanale

La pazienza non è mai stata il mio forte, in realtà non mi sono mai neanche tanto spinto a perseguire questa virtù! Le cosiddette virtù hanno quasi sempre due facce come le medaglie.

Una volta mi è capitato di leggere che spesso l’ignavia pretende di potersi chiamare col nome di prudenza, ma che in realtà rimane sempre e solamente ignavia!

Non so se sia perché sono istintivamente uno che sente l’urgente bisogno di fare subito e presto quello che ritiene giusto fare o perché sia totalmente sprovvisto della virtù morale della pazienza, sta di fatto che, una volta preso coscienza che nel nuovo ospedale non ci sono più preti e che al capezzale degli ammalati è piuttosto esiguo il numero di persone che portano il messaggio evangelico e che chi lo fa forse non ha una preparazione ed una grossa esperienza per farlo, è’ nata nel mio animo l’idea di mandare un messaggio cristiano ed offrire l’opportunità di riscoprire le preghiere dell’infanzia, mediante un foglio settimanale.

Ho tentato le vie canoniche chiedendo al monsignore incaricato dalla Curia di realizzare, assieme ad altre, questa proposta. Mi ha suggerito di aspettare l’evolversi della situazione; constatando però che dieci mesi fa, la situazione era tale e quale quella di oggi, anzi forse migliore e considerato che a questo mondo ognuno gode della libertà di fare ciò che è lecito e buono, ho riflettuto sulla linea pastorale di dare al foglio, ho scelto una strada percorribile legalmente, ho chiesto i debiti permessi all’interno dell’ospe-dale, ai responsabili competenti, ho chiesto aiuto ai collaboratori de “L’incontro”, con la stampa e ad un gruppetto di persone che operano all’interno dell’ospedale di provvedere alla distribuzione.

Dopo un mese e mezzo dalla decisione sono usciti regolarmente sei numeri, si è raggiunta la tiratura di 500 copie settimanali ed ora puntiamo al 1000.

Debbo concludere che la scelta della virtù della fretta è stata più vantaggiosa di quella della pazienza forse per questo l’Angelo già vola e parla!

“I peccati della religione”

Recentemente ho pubblicato un libretto delle preghiere più comuni e delle verità religiose fondamentali del cristianesimo.

L’iniziativa, un po’ perché gratuita, un po’ perché la gran parte dei cristiani, diventati adulti negli ultimi 30-40 anni, non conosce assolutamente alcuna formula di preghiera, ha avuto successo.

Ne ho stampate 3-4 mila copie, tutte sparite in un battibaleno.

Ebbene in questo libretto, tra le altre massime, ho riscoperto anch’io i quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio: “I sette vizi capitali” e “I sei peccati contro lo Spirito Santo”.

Riflettendo su queste cose, mi sono detto che non sarebbe male che qualcuno codificasse anche “i peccati della religione”.

Questa affermazione potrebbe suonare apparentemente paradossale, ma in realtà una religiosità malintesa, diventa peccato e che peccato! Ad esempio quando Marx affermava che la religione è l’oppio dei popoli, non aveva tutti i torti!

Se ci fossero stati allora cristiani che avessero ritenuto che la religione, con la scusa di pensare al dopo, finisse di estraniarsi dai problemi del presente, perché la religiosità deve inervare e spingere l’uomo a cominciare a realizzare da subito il Regno di Dio. Proseguendo dovremo affermare che la religione ridotta a rito solamente è peccato, come è certamente peccato una religione che sappia di setta, o che porti a divisioni, a senso di superiorità sugli altri, o che faccia propendere e convincersi di avere l’esclusiva della verità, o che ritenga nemici i fratelli che sono membri di altre chiese, e anche la religione legata al potere politico è peccato.

E’ peccato la religione che si lasci strumentalizzare dal denaro o dal partito. E’ peccato la religione che, benedice le armi e la guerra, sia pur dichiarata santa. E’ peccato la presunzione che, per il solo fatto d’appartenere formalmente ad una chiesa, questo garantisca la salvezza.

Potrei continuare ma concludo dicendo che questo argomento deve essere seriamente approfondito per non correre il pericolo di perdersi per il solo fatto di essere stati uomini di religione.

I cento fagioli

Uno dei discorsi che ricorrono frequentemente durante le riunioni in cui i preti discutono sul come trasmettere il messaggio di Gesù alla gente del nostro tempo, che sembra sempre più allergica al discorso religioso, è quello della necessità di rievangelizzare facendo una proposta cristiana seria soprattutto agli adulti, mediante corsi di specializzazione evangelica e teologica.

E’ da molti anni che sento questa sinfonia, ma ho purtroppo l’impressione che non ci siano molti risultati positivi, anzi che capiti, come quando stavamo perdendo la guerra nell’ultimo conflitto mondiale e i bollettini affermavano che le ritirate erano fatte per ottenere migliori risultati futuri, tanto che spesso mi viene la nostalgia della pastorale dei nostri vecchi parroci che pretendevano che i bambini conoscessero bene e a memoria le formule delle principali preghiere, le definizioni delle verità cristiane contenute nel catechismo di Pio X, visitavano gli ammalati, benedivano le famiglie, facevano prediche semplici e pratiche e che stavano il più possibile accanto alla gente della loro parrocchia.

Con questa pastorale semplice sono riusciti a formare delle coscienze cristiane così solide che i loro parrocchiani vivevano e morivano rifacendosi e ricorrendo in ogni circostanza al buon Dio.

Qualche giorno fa fui chiamato a dare una benedizione ad un’anziana signora, serena e credente anche nel momento della prova. La cara e buona nonna mi raccontava che sua madre ogni sera le consegnava un sacchetto con cento fagioli e le raccomandava di non addormentarsi senza aver detto le preghiere contandole con i fagioli. Aveva, questa signora, 90 anni ma la sua fede era fresca e viva come se ne avesse avuto 10 e fosse una bambina da prima Comunione.

Penso che la concretezza, la semplicità, il ribadire con forza e costanza gli stessi concetti sia ancora il modo migliore per passare e radicare dei sani e duraturi convincimenti, come la nebulosità, la frammentarietà, l’improvvisazione e l’artificiosità producono solamente confusione e nessuna convinzione profonda.

Tanto che la proposta dei cento fagioli pare sia ancora più produttiva di tante preghiere spontanee che non fan altro che proiettare all’esterno la confusione interiore.

Il tenore di vita dei sacerdoti di oggi

In campo sacerdotale un tempo si parlava frequentemente del ruolo del prete nella società tenendo sempre ben distinto il mestiere, la professione dalla missione del ministro di Dio.

La gente, specie quella poco di chiesa, tentava di sottolineare con acrimonia, che il prete faceva il suo mestiere curando i suoi interessi, mentre i sacerdoti ribadivano con forza che la loro era una missione e se anche, come ogni essere umano, aveva bisogno di qualche compenso per vivere, però le motivazioni profonde che sorreggevano il loro ministero erano dettate da motivazioni ideali.

Sempre nel passato i preti più zelanti facevano loro il motto di S. Giovanni Bosco, motto mutuato da una errata interpretazione della Bibbia “Dammi le anime che il resto non mi interessa”. Ora penso che questa impostazione impostazione mentale sia pressoché tutta crollata e in questo crollo abbia travolto basso e alto clero.

Il basso clero perché la inquadratura impiegatizia e sindacale è meno impegnativa e l’alto clero probabilmente, meno legato con la base, non riesce più a proporre a livello pratico ai propri sacerdoti un tenore di vita e quindi si rassegna ai discorsi ideali.

Questo ha purtroppo i suoi risvolti concreti nel popolo di Dio: le chiese sono chiuse per molte ore del giorno, l’attività pastorale chiude a giugno per riaprire a fine settembre, la parrocchia si riduce al 10-15% dei battezzati, mentre l’80-90% restante vive e muore con nel cuore i lontani ricordi del catechismo.

Tutti in ferie, anche le parrocchie!

“Le ferie” sono diventate un termine quasi magico, una specie di mistero arcano a cui si deve aderire ad ogni costo. In verità tutto questo non è una novità, già il nostro Carlo Goldoni parlava nella sua Venezia, in via di dissoluzione e verso il declino “Le smanie della villeggiatura”.

Ai tempi della Serenissima “le smanie” riguardavano però solamente la nobiltà e la ricca borghesia, da un paio di decenni il fenomeno ha interessato il ceto impiegatizio, gli operai specializzati, le famiglie con doppio stipendio. Ora il fenomeno è generalizzato e solamente i poveri diavoli pare siano immuni da questa frenesia collettiva che si accoda sempre più numerosa al “flauto magico” che costringe le masse a debiti, a condizioni di vita scomode, a code autostradali interminabili, per subirsi “i paradisi artificiali” di folle accaldate, ammassate nelle spiagge, nelle città d’arte incapaci e non attrezzate tecnicamente ad accogliere una popolazione che spesso decuplica quella normale.

Pazienza, così va la vita!

Quello che però mi stupisce, mi interpella e mi mette in crisi è che il fenomeno ferie ha investito anche la chiesa e il clero.

Con fine giugno la pastorale chiude i battenti, le messe sono dimezzate, le canoniche si chiudono lasciando aperte solo le segreterie telefoniche che con voci di rito ripetono le solite bugie di comodo.

I preti debbono andare comunque in ferie e ci vanno anche se sono soli, se hanno parrocchie numerose e problemi pastorali drammatici ed infiniti.

Di tutto questo nessuno si meraviglia, nessuno ne parla. Se prendo la parola per stupirmi, sono certo che mi dicono “è vecchio e fuori tempo!”

“La pagina del dissenso” su Gente Veneta

Da molti anni leggo ogni settimana “Gente Veneta”, il periodico della nostra diocesi a cui sono abbonato.

La lettura mi aggiorna su quello che avviene in diocesi, ma soprattutto mi fa tastare il polso della sensibilità dei nostri cristiani e dei nostri preti. Gli articoli che presentano fatti ed iniziative, spesso peccano un po’ di trionfalismo, cosa comprensibile, un po’ perchè gli autori pensano di dar tono ai contenuti ed un po’ per incorniciare meglio quanto si va facendo nella diocesi e nelle singole parrocchie.

Ho lamentato, più di una volta, che a leggere “Gente Veneta” pare di incontrare una carrellata di successi e di cose che vanno bene, perché meno di frequente, anzi quasi mai si parla di carenze, di insuccessi e di problemi non ancora risolti.

Questo non credo sia un peccato grave, perché è una debolezza assai diffusa, specie nel mondo cattolico in cui il dibattito di voci libere pare poco gradito anzi assai scoraggiato. Quello che però mi interessa di più in “Gente Veneta” è la pagina che negli alti giornali è denominata “Lettere al direttore” mentre da noi ha una denominazione più in linea con la carità cristiana: “In dialogo” ma che in realtà potremo chiamare “La pagina del dissenso” o del “Visto da angolature diverse da quella ufficiale”!

Ho sottomano “Gente Veneta” del 26 luglio, ci sono tre lettere che mi fanno sperare su un dialogo libero ed onesto.

La prima fa cenno a don Gino Zuccon, che pare non abbia il complesso del “cristiano di sinistra” e critica apertamente PD e Di Pietro per la gazzarra contro il Papa; la seconda di don Aldo Marangoni, che se la piglia con il trionfalismo in missione e la dimenticanza di alcuni nostri preti che pure hanno lavorato o lavorano in Kenia; la terza di don Andrea Favaretto che parla senza peli sulla lingua degli zingari di via Vallenari.

Il direttore don Sandro, fa del suo meglio, come è suo dovere, per oleare le opinioni. Comunque mi pare un bellissimo sintomo di vitalità pastorale che, preti e laici, escano allo scoperto, senza inibizioni e complessi e dicano il loro parere con ruvida franchezza. Ritengo che questo sia l’unico modo per diventare “adulti nella fede” e per crescere a livello pastorale. Fortunatamente poi oggi questa libertà non ha prezzi eccessivi come un tempo e ciò facilita questa crescita ecclesiale!