Io preferisco il volontariato!

Qualche anno fa, durante una degenza in ospedale, ascoltando Radio radicale, mi è capitato di sentire l’infinita lettura delle denominazioni dei vari ordini religiosi maschili e femminili che operano in Italia. Il numero sembrava pressoché infinito, anche perché lo “speaker” leggeva la denominazione prima in latino e poi in italiano. La strana iniziativa di Radio radicale era un’ennesima espressione di un anticlericalismo viscerale congenito a suddetto partito, che voleva dimostrare che lo Stato italiano esentava da certe tasse un numero spropositato di enti religiosi.

Quell’ascolto mi pose il problema del perché di questa proliferazione spropositata di congregazioni religiose, che appare, di primo acchito, irrazionale. La risposta che mi sono dato è che, quando una personalità di un certo spicco si propone di realizzare un progetto che gli appare valido, ha bisogno di collaboratori da “assoldare a poco prezzo” e quindi fonda un ordine religioso. Non potrei altrimenti giustificare questa marea di ordini religiosi, spesso esangui e di poca consistenza.

Capitò anche a me una strana proposta fattami dal patriarca Lucani il quale, vedendo le numerose iniziative a livello caritativo che tentavo di portare avanti, un giorno mi disse: «Perché, don Armando, non fondi una congregazione religiosa per queste iniziative?» Il vecchio Patriarca si rifaceva all’esperienza dell’ottocento, secolo in cui le congregazioni religiose spuntarono come i funghi.

Io non ho pensato mai a questo, però in tutta la mia vita mi sono avvalso e mi avvalgo ancora di una schiera veramente numerosa di volontari, senza voti e senza conventi, ma altrettanto, e forse più ancora, generosi ed impegnati. I volontari sono sempre stati la mia forza. Quando ero in parrocchia siamo finiti per averne fino a 450, sparsi nelle varie attività parrocchiali – a “Radiocarpini” ne contavo ben duecento – ma anche ora posso contare sulla collaborazione, diversificata nei vari settori, di più di 250 volontari.

Sono convinto che se i valori e gli obiettivi sono validi, se si domanda ad ognuno quello che può e gli piace fare, e se soprattutto il capo crede alla causa e cammina avanti, anche oggi, senza bisogno di far voti o indossare tonache di sorta, si possono trovare molti uomini e donne di buona volontà.

Definitemi pure col termine che volete, io sono…

Ogni tanto il mio vecchio insegnante di filosofia offriva a noi liceali del seminario delle lezioni brillanti. Monsignor Vecchi era un docente valido ma discontinuo; talvolta tirava a campare, talvolta si lasciava, forse coscientemente, “fuorviare” da noi, che temevamo che corresse troppo col programma e perciò lo sospingevamo sul terreno scivoloso dell’arte, un settore che egli amava quanto mai. Però, abbastanza di frequente, quando aveva la giornata giusta, o gli capitava di trattare un argomento che gli era congeniale, era veramente un “maestro” che incantava e si faceva ammirare.

Ricordo una sua lezione sul nominalismo; pur avendo dimenticato gli agganci e i riferimenti inerenti alla storia della filosofia, mi sovviene forse l’aspetto più banale. Monsignore affermava che spesso certe parole o certe definizioni non sono, in realtà, il segno vero, ossia non rappresentano in maniera adeguata la realtà.

Ho capito questa lezione, talvolta a mie spese, durante la mia lunga vita. Ci sono delle parole, forse le più importanti, che spesso sono ambigue. Ad esempio: amore, libertà, proletariato, democrazia, giustizia, bellezza. Perciò è necessario che spesso ci si metta d’accordo su quello che si intende dire con un certo termine.

Mi son fatto questo discorso ed ho riflettuto su questa questione qualche tempo fa, quando alcuni amici mi accusarono di essere di destra e, dopo pochi giorni, altri amici mi definirono di sinistra. Una volta per tutte desidero dichiarare pubblicamente che io sono per chi si fa carico dei più deboli e bisognosi della società, di chi rispetta la  dignità e la libertà della persona, di chi propugna la giustizia, la pace e la libertà, di chi garantisce al credente di impostare la sua vita ed educare i suoi figli come crede giusto, di chi concepisce lo Stato a servizio dei cittadini e non viceversa, di chi è capace di produrre ricchezze per poterle dividere, di chi tenta che i lavoratori siano compartecipi degli utili delle imprese, di chi esige che ogni cittadino faccia seriamente il proprio dovere, di chi condanna i cittadini violenti che distruggono i beni altrui.

E potrei aggiungere qualche altra cosa, ma qui mi fermo! Non mi interessa assolutamente che a portar avanti questi valori sia la destra o la sinistra, io parteggio e voterò chi, perlomeno, si avvicini a questo programma, sia egli bianco, rosso, nero o verde. E a tutti dico: «Definitemi pure col termine che volete, io sono questo e basta!»

Vivere in pieno anche il tempo della vecchiaia!

I giovani che sognano alla grande, che si battono per i grandi ideali, hanno tutta la mia ammirazione; essi mi fanno sognare e m’aiutano a combattere la mia battaglia per non lasciarmi vincere dal conformismo, dal quieto vivere o dalla preoccupazione di non aver noie.

Sono ben conscio che né John, né Bob Kennedy sono stati dei santi, comunque il loro sogno di “nuove frontiere”, la loro audacia nel proporre un cambiamento radicale, m’han fatto del gran bene!

Non c’è nulla di più bello che dei giovani che sognano, che lottano e si spendono per “missioni impossibili”, però confesso che quasi mi sono più d’aiuto le testimonianze di coerenza e di coraggio dei vecchi che rimangono in trincea e all’attacco anche dopo la pensione.

Mentre scrivo queste “confessioni”, mi passano davanti agli occhi alcuni di questi “grandi” anziani. Vedo Papa Roncalli, il Papa che ebbe il coraggio di promuovere il Concilio per il rinnovamento della Chiesa, quando aveva già superato la soglia della vecchiaia.

Vedo la figura apparentemente gracile del novantenne vescovo di Ravenna, il cardinal Tonini, presente a tutti i dibattiti, prendere posizione con decisione e senza timore di sorta. Ricordo il cardinal Bevilacqua, il vecchio confessore di Paolo sesto, che accettò il cappello cardinalizio a condizione che il Papa gli permettesse di continuare a fare il parroco di una parrocchia di Milano.

Ammiro don Loris Capovillla, l’arcivescovo emerito di Loreto, già segretario di Papa Giovanni che, nonostante abbia superato abbondantemente i novant’anni, scrive, parla e continua a dar voce alla testimonianza profetica del Papa buono.

Assai di frequente mi arrivano delle pubblicazioni di “don Loris”, il giovane prete della Rai veneziana di un tempo, con i saluti scritti con una grafia sconnessa ed incerta, ma che sempre mi edificano, mi stimolano a non mollare e mi fanno intravedere il volto più bello della vecchiaia.

Ho concluso che la “pensione” è una realtà che s’addice ai burocrati e ai fannulloni, ma non agli uomini veri e meno ancora ai preti che credono!

Ho seminato l’amore per la solidarietà fra i giovani che ho incontrato e il raccolto è fonte di gioia!

Un giorno ebbi parole di elogio per alcuni risultati assai brillanti che un mio amico architetto stava ottenendo nel suo lavoro. Questi mi rispose, come se dicesse una verità scontata, che stava raccogliendo i risultati di una vita di lavoro.

Anche a me capita abbastanza di sovente di trovare porte spalancate, appoggi inaspettati, simpatie cordiali, apprezzamenti ed incoraggiamenti da parte di operatori affermati nella nostra società. Poi mi accorgo che questa gente, ormai ben adulta, appartiene a quella schiera infinita di ragazzi e ragazze incontrate nelle aule scolastiche delle magistrali, dell’Istituto Volta, del Pacinotti o delle Tecniche commerciali. Ragazzi e ragazze incontrati tra le file dell’Azione Cattolica, dei gruppi scout, delle classi di catechismo, al confessionale, o semplicemente nelle quanto mai affollate assemblee liturgiche del duomo di Mestre o di Carpenedo.

Chi semina, prima o poi raccoglie, e chi semina con lo stile e la larghezza del seminatore della parabola evangelica, finisce per raccogliere il trenta, sessanta e perfino il novanta per cento!

Ricordo una ragazzina vivace, grintosa ed intelligente delle magistrali che, dopo il diploma, proseguì per la laurea e poi salì tutti i gradini della carriera nell’amministrazione pubblica e che ora occupa un posto di rilievo all’Assessorato della sicurezza sociale. A questa ragazza di un tempo debbo, in buona parte, la riuscita del progetto degli alloggi protetti per gli anziani.

Voglio sperare, o almeno illudermi, che ella abbia colto sui banchi delle magistrali l’ostinazione con cui il suo insegnante di religione era solito parlare dei poveri. Nei momenti più cruciali, nelle battaglie più difficili, nei sogni più ardui, ella m’è sempre stata accanto con coraggio, coerenza ed intelligenza e mi ha aiutato in maniera determinante a superare le difficoltà. Forse è solo la mia atavica ed ancestrale riservatezza che m’ha impedito finora di dirle quanto le sia riconoscente, quanto la stimi e quanto le voglio bene.

Se qualcosa sono riuscito a realizzare lo debbo soprattutto ai ragazzi e alle ragazze che ho incontrato negli anni felici e fecondi della loro fanciullezza e della giovinezza. Sarei tanto felice se tutti sapessero quanto mi sia stato di conforto e di aiuto la loro collaborazione.

Né a destra né a sinistra, io sto con chi opera per il bene di tutti!

Credo che nessuno possa dire che io sia tenero con la classe politica. Talvolta una parte mi ha accusato di non essere abbastanza critico nei riguardi dei suoi avversari, spesso sono quelli di destra a farmi questa osservazione e talaltra sono quelli di sinistra a dire che sono troppo comprensivo con la destra.

So che è ben difficile stare “super partes” perché tutti ti “strattonano” a loro vantaggio; di certo però è che io cerco di non essere di nessuno, perché voglio stare a tutti i costi con i più deboli, i più poveri e quelli che contano meno nella nostra città.

Ho sempre ammirato don Milani quando dice a Pipetta, comunista convinto: «Io sono sulle barricate con te, caro amico, sappi però che quando la tua parte calpestasse i diritti dell’altra parte, io ti tradirò perché mi sei caro, però m’è più caro il bene di tutti». Molto probabilmente don Milani si rifaceva alla massima antica “Amicus Plato, sed magis amica veritas!”

Anch’io condivido la tesi di Platone, però ammiro e scelgo sempre la verità! Qualche settimana fa però mi sono alquanto rappacificato con i politici veneziani. Prima Ordigoni, il sindacalista che ho avuto come parrocchiano a Carpendo, non si lasciò condizionare da certe dimostrazioni plateali da parte di chi era solamente preoccupato del proprio vero o presunto interesse, poi l’intero Consiglio comunale, senza distinzione di sorta e a tambur battente ha approvato all’unanimità la variante che permette la prosecuzione dei lavori del cantiere che sta costruendo il “don Vecchi” di Campalto.

Il voto bipartisan mi fa sperare che sulle cose necessarie per il bene della collettività, anche i politici lavorino concordi per il bene di tutti.

Grazie a chi ci aiuta!

La scorsa settimana ho sentito il dovere e il bisogno di rassicurare gli amici, i lettori de “L’incontro” e i concittadini, che i tempi della “grande paura” quasi certamente sono passati e che intravedo già una luce in fondo al tunnel.

Credo di non essere per nulla un temerario o uno sprovveduto. Quando siamo partiti col “don Vecchi” di Campalto avevamo in cassa quasi i due terzi della somma necessaria e avevamo già approntato “il paracadute” con l’apertura di un conto corrente ipotecario presso la Banca Prossima, con una garanzia di due milioni, in modo da pagare solamente lo 0,60% su quello che avremmo prelevato e comunque restituibile in dieci anni.

Pensavo che i contributi degli enti pubblici, quali il Comune, la Provincia, la Regione, la Fondazione della Cassa di Risparmio e le banche avrebbero fatto il resto, perché sono, o dovrebbero essere le realtà più sensibili alle soluzioni sociali più valide e più economiche.

Come riserva, da mestrino di adozione, contavo anche sulla fiducia che i concittadini mi hanno sempre dimostrato e, da prete poi, per dovere e soprattutto per esperienza, sapevo che potevo contare sulla Divina Provvidenza.

In realtà le certezze di ordine costituzionale sono venute totalmente meno, così che ho dovuto aggrapparmi disperatamente alla città e al buon Dio. Città e buon Dio non solo non mi hanno abbandonato, ma stanno aiutandomi con una generosità che mai avrei potuto sperare. I cittadini molto probabilmente non hanno creduto opportuno che uno dei loro preti, che per più di mezzo secolo aveva cresciuto i loro ragazzi, insegnato nelle scuole cittadine, accompagnato i loro morti al camposanto e benedetto le loro nozze e sorretto i vecchi, se ne andasse con la bisaccia da frate da cerca a chiedere l’elemosina; e la Provvidenza, ritenendo valida la causa, ha provveduto brillantemente e con abbondanza, mediante un’apertura di credito senza interessi e senza dovere di restituzione.

Le cose stanno andando così tanto bene che, ancora una volta, mi tormenta l’animo il dolce rimprovero di Cristo: «Uomo di poca fede!»

Chissà che d’ora in poi non riesca a comprendere che il buon Dio è da un’eternità che ci pensa e riesce a far funzionare il mondo anche senza di me e senza l’aiuto degli enti pubblici!

Spero che qualcuno curi l’”Angelo”!

Sono arrivato a Mestre nel pomeriggio di una fredda giornata di febbraio del 1956. Monsignor Da Villa, l’epico cappellano militare dei nostri soldati del fronte libico, mi aveva notato durante uno dei miei interventi liberi e appassionati, ad un incontro di preti e pensò che quel giovane prete irruente potesse andar bene per la gioventù di San Lorenzo, ove lui era parroco.

Quindi da più di mezzo secolo sono partecipe delle vicende del “borgo” che per tanti anni visse, quasi in torpore, ai margini della “capitale” e che dopo la guerra, quasi per incanto, si scoprì città: povera, poco importante, ma città!

Devo confessare che mi sono sempre lasciato coinvolgere dalle vicende di Mestre, mai sono stato alla finestra a guardare, ma sempre mi sono buttato nella mischia degli eventi. L’esser stato poi accanto e l’aver strettamente collaborato con don Vecchi, che tenne a battesimo la “nuova Mestre”, ha fatto si che io senta Mestre come la mia città e che l’ami profondamente.

Non so quanti decenni servano a Mestre per arrivare alla pienezza di vita cittadina come le consorelle: Padova, Vicenza e Treviso, ma sono convinto che perlomeno ora lo stia tentando.

Il nuovo ospedale credo che sia un tassello significativo di questa crescita. Sono orgoglioso della “torre maya”, della splendida collinetta trapuntata di cipressi, del laghetto e dello splendido giardino pensile, meno entusiasta delle vicende gestionali che la stampa denuncia un giorno si e un giorno no.

Il mio amore però mi rende esigente, tanto da non essere capace di temperare il mio sdegno quando mi accorgo che questa splendida impresa corre il rischio di fallire e di diventare una patacca. Mi reco due volte la settimana al “pronto soccorso” che in realtà è pochissimo “pronto” e forse altrettanto poco “soccorso”.

Ho letto e riletto che ogni anno ottantamila persone vi accedono, che c’è gente che vi si reca per un foruncolo o uno starnuto. Sta di fatto però che suonano come una beffa le corse a sirene spiegate delle ambulanze e poi le attese interminabili nelle affollate sale di attesa. Se la cosa si fosse verificata nei primi mesi, pazienza; ma ora pare sia un male endemico e che quindi ci sia assoluta necessità di un farmaco o di un intervento chirurgico d’urgenza, ma risolutivo!

Mestre di fiori all’occhiello non ne ha troppi, io mi sto dando da fare perché il “don Vecchi” resti tale, però spero che ci sia chi faccia altrettanto per il nostro “Angelo”!

La predicazione al giorno d’oggi

Io ero e sono ancora avido di ascoltare i miei colleghi preti nei loro interventi durante i quali i sacerdoti sono richiesti di proporre una lettura religiosa dei fatti della vita.

Quando ero parroco non perdevo mai l’occasione di ascoltare con attenzione prediche e sermoni dei miei confratelli. Talvolta ne rimanevo veramente edificato per la capacità di inquadrare in una cornice di speranza e di vita questi eventi, rifacendosi essi alle grandi verità cristiane. Più spesso però questi ascolti mi servivano, e molto, in negativo, ossia mi aiutavano a comprendere le strade da non battere e i pensieri da non dire.

Nella predicazione in genere c’è ancora tanto, troppo di ripetitivo, di scontato, di non sentito e non sofferto; tante parole non sanno di riflessione, di appassionata ricerca e di profumo spirituale. Ho l’impressione che oggi la predicazione lasci ancora molto a desiderare.

Ora il mio cammino è diventato tanto solitario e privo di questo necessario confronto, non avendo più occasione di ascoltare i confratelli. Le rare volte che ho l’opportunità di seguire in televisione le trasmissioni che le varie emittenti fanno della messa festiva, mi imbatto spesso in discorsi letti, ineccepibili da un punto di vista di teologia e spiritualità da manuale, ma privi di anima, di respiro umano, di attualità, di incidenza sulla sensibilità e sulle coscienze.

Per molto tempo ho letto la critica artistica di un “esperto” d’arte. Ogni volta avevo l’impressione che questo signore avesse riempito un contenitore di un certo frasario attinente all’argomento, lo scuotesse un po’ e poi, pari pari, mettesse per iscritto quello che occasionalmente veniva fuori. Certi preti credo che non siano molto lontani da questo espediente.

Le mie prediche hanno un campo limitato: il commento del Vangelo della domenica e i funerali. Confesso con rossore che non è infrequente che riceva complimenti per questi miei sermoni che io invece reputo più che modesti e per i quali mi tormento più che mai perché la Parola di Dio e i fratelli sono convinto che meriterebbero molto di meglio. Ogni volta però che ricevo qualche parola di lode, non manco di domandarmi. “Se per così poco le persone sentono il bisogno di ringraziare, quanto povera e deludente deve essere la predicazione nelle varie parrocchie?”

Il rapporto dei cristiani metodisti con il mondo d’oggi

Io non dedico, in maniera formale, molto tempo alla meditazione, pur confessando che da mane a sera e talvolta pure in maniera tormentata, non faccio altro che rimuginare le problematiche di ordine religioso.

Al mattino, dopo la recita faticosa del breviario, medito su un passo della Bibbia, attualizzato da cristiani appartenenti ad ogni continente, che si riconoscono nella confessione cristiana della Chiesa metodista.

La paginetta dell’opuscolo bimestrale è scritta da cristiani comuni, uomini e donne di tutti i ceti e di tutte le età, i quali coniugano con semplicità le situazioni concrete in cui vivono con la Parola del Signore e si lasciano illuminare e condurre da essa. Solitamente si tratta di riflessioni elementari, ingenue, di interpretazioni letterali della Parola del Signore. Quindi niente di teologicamente macchinoso, complicato e sublime, ma confidenza di gente che si lascia guidare per mano dalle parole della Scrittura.

Talvolta si tratta di riflessioni toccanti ed originali, talaltra invece di applicazioni un po’ posticce e di carattere emozionale. Sempre però, anche se non condivido il modo letterale di interpretare i singoli passaggi della Bibbia, traducendoli in una linea di condotta o in una lettura degli eventi, sempre mi edifica e mi commuove il fatto che questa gente mostri di fidarsi totalmente nel buon Dio e di lasciarsi condurre per mano da lui.

Da queste letture ho sempre l’impressione di una Chiesa con una fede viva e fresca, però che mantiene la sensibilità e il modo di vivere la religiosità propria di qualche secolo fa e che non s’è sufficientemente preoccupata di dialogare con la cultura e la sensibilità della società contemporanea. Ho l’impressione di comunità cristiane avulse dal nostro mondo.

Uno dei tanti problemi della fede, che pare non compreso e meno ancora risolto, è che l’amore e il pensiero del Signore può vivere ed essere significativo ed efficace solamente quando rivela e si manifesta mediante il cuore e il pensiero dell’uomo del 2011 e non quello dei secoli scorsi, quando è avvenuta la riforma. Noi cattolici abbiamo tanti problemi aperti, ma mi pare che i cristiani delle varie Chiese dallo scisma ne abbiano più ancora.

La mia “sindrome”

Io credo di avere la sindrome di un’anziana pittrice della nostra città. La signora Rita Trotter Cumani era un’artista di notevoli qualità, le sue tele superavano sempre la soglia dell’armonia e della poesia, soprattutto per il dosaggio attento ed appropriato del colore.

La caratteristica che la contraddistingueva era l’uso del rosso in tutte le sue tonalità. Nella vastissima collezione di quadri presenti nella galleria del “don Vecchi” abbiamo una decina di opere di questa pittrice che un giorno, di fronte alla mia osservazione sul tanto uso, quasi ossessivo del colore, mi confidava in maniera un po’ sorniona che se anche avesse intinto il pennello nel verde o nel blu della tavolozza esso avrebbe finito per dipingere la tela di rosso.

Io, per certi versi, le assomiglio: posso riflettere e parlare di un qualsiasi argomento d’ordine religioso, ma alla fine vado a parare sulla verità che la fede, da qualsiasi angolatura l’affronti, mi porta a concludere che Dio ha come unico obiettivo quello di aiutare l’uomo ad avere sempre una più alta qualità della vita.

Per Natale ho avvertito l’irrefrenabile bisogno di affermare che il mistero del “Verbo” incarnato non fa altro che condurci a comprendere che Dio lo possiamo trovare, amare e servire solamente nell’incontro estasiato con la magnificenza impressa da Dio nel volto, nel cuore, nel pensiero e nei drammi della persona umana.

Durante il sermone, forse tra la sorpresa e lo stupore della folla che gremiva la mia chiesa tra i cipressi, affermai: «In voi scopro con meraviglia ed incanto il volto del Salvatore. Voi siete il mio Gesù!»

Se c’è una cosa che mi dà ebbrezza è quella di scoprire nell’uomo, seppur povero e fragile, il tocco di Dio, il segno della sua sapienza e del suo amore. Vi confesso poi che sono molto felice di essere condizionato da questa sindrome che è certamente in controtendenza col modo di pensare la religione oggi.

E’ troppo diffusa una mentalità che non aiuta a risolvere i problemi!

Bravo Patriarca! Apprendo sempre più spesso dalla cronaca – non solo dalla stampa cittadina, ma anche da quella nazionale – che il nostro Patriarca interviene, con sempre più frequenza, sulla situazione sociale del nostro Paese con prese di posizione sagge, stimolanti, libere e condivisibili.

Recentemente ho ammirato un intervento in cui il nostro Patriarca ha detto chiaramente agli amministratori dei vari livelli della cosa pubblica: «Datevi da fare, intervenite tempestivamente; il Paese ha urgenza d’aver indirizzi, soluzioni e provvedimenti; non rimandate alle calende greche quello che dovete e potete fare subito!»

Purtroppo le amministrazioni dello Stato, ma anche delle Regioni e dei Comuni hanno dei ritmi lenti, farraginosi ed interminabili, per cui arriviamo sempre tardi, troppo tardi per le dinamiche di questa nostra società che non ammette ritardi.

Mi pare che da un lato le leggi debbano essere semplificate e dall’altro lato gli operatori pubblici debbano diventare più coraggiosi anche a rischio di qualche critica o di qualche indagine. Chi pretende certezza, sicurezza personale, garanzie burocratiche e teme il giudizio dell’opinione pubblica, non è certamente atto a governare.

In questi giorni sto vivendo in prima persona un “problema”. La vecchia cappella del cimitero è sporca, annerita dal fumo delle candele e perciò ha bisogno di una ridipintura. La Veritas non ha fondi e pare abbia ben altro da pensare.

Un paio d’anni fa un signore s’era offerto di darle una mano di bianco, ma poi ci ha rinunciato perché non intendeva avere difficoltà ulteriori al suo impegno. Un paio di settimane fa un altro imprenditore, vedendo lo stato veramente miserevole in cui è ridotta la chiesetta dell’ottocento, che non ha pretese artistiche di sorta, s’è offerto ufficialmente di farlo a proprie spese ingaggiando un’impresa in piena regola. Per portare avanti questa offerta sta affrontando un vero percorso di guerra e tutto perché il funzionario teme una qualsiasi responsabilità! Con questa mentalità burocratica certamente non si risana il Paese!

Finalmente un politico saggio all’orizzonte!

Lo scorso anno me l’ero presa con Casini e l’UDC perché ero convinto che rimanendo dentro al Polo della Libertà avrebbe potuto influire positivamente sul partito del governo, portando avanti, all’interno di esso, alcune istanze fondamentali della visione della vita da parte dei cristiani.

A questa convinzione s’aggiungeva la sensazione che con la pretesa di formare l’ipotetico terzo polo al centro dello schieramento politico, Casini e i suoi volessero “fare i furbi” tentando di governare il Paese ricattando o ammiccando ora con la “destra” ed ora con la “sinistra”, finendo per imporsi con una piccola minoranza come avvenne con i socialisti al tempo di Craxi.

Scrissi, come il mio solito, le mie riflessioni, come credo abbia diritto di fare ogni cittadino. Invece no! Apriti cielo! Ad uno ad uno vennero a trovarmi i vari apparati della municipalità, del Comune e della Provincia di quel partito, affermando che essi erano gli unici cattolici impegnati a difendere i valori cristiani tra l’indifferenza della Chiesa e della gran parte dei preti che facevano le bave per la “sinistra”. Alcuni degli incontri di questi concittadini mi parvero perfino patetici, pur sembrandomi convinti e seri nella loro crociata.

Ora mi capita di dovermi ricredere su certi giudizi espressi un tempo, forse in maniera un po’ avventata e poco documentata. A mettermi in crisi è stato lo stesso Casini, che mi pare abbia “tradotto” la sua proposta di promuovere un governo della nazione, dichiarando che avrebbe appoggiato e votato tutti quei provvedimenti che erano condivisibili. Mi pare che questa sia la strada giusta: la maggioranza tenga conto del pensiero della minoranza ne recepisca nelle leggi i contenuti positivi. E la minoranza faccia lo stesso, votando tutto ciò che può fare il bene della nazione e non del proprio partito.

Mi pare che questa scelta sia denominata “bipartisan” e sia praticata dalla Germania, dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra. Bene Casini! Se le cose stanno proprio così ha il mio consenso e il mio applauso perché finalmente apparirebbe all’orizzonte del nostro Paese un politico saggio.

Quante cose vorrei riuscire a fare più spesso!

Talvolta mi accorgo di subire il tentativo di autoingannarmi, ed avverto questo imbroglio che uso nei miei riguardi quando tento di convincermi che non ho tempo per far certe cose perché troppo impegnato.

Quando poi ricupero un po’ di lealtà con me stesso, mi confesso che non basta solamente la buona volontà per fare quello che riterrei opportuno o doveroso fare, ma ci vogliono pure risorse fisiche e mentali che io, a causa dell’età, non ho più.

M’ero riproposto di andare con molta frequenza al “don Vecchi” di Marghera per portare la mia solidarietà e per offrire orizzonti più larghi di quelli che hanno, ai settanta residenti; poi, per un motivo o per un altro, finisco per andarci solamente un paio di volte al mese.

In passato sapevo che don Ottavio, “il parroco territoriale”, era affezionato ed amava il “don Vecchi”, perciò mi dicevo che la mia sarebbe stata quasi una intromissione nella parrocchia di un altro. Ora don Ottavio se n’è andato e il nuovo parroco, per età e per altri impegni, penso abbia poco tempo da dedicare in maniera specifica agli anziani di quella struttura. Sono stato quindi costretto a superare la mia fragilità ed ho accettato, dopo molti rimandi, di celebrare una messa in preparazione al Natale.

La giornata era proibitiva, neve e gelo, ma se avessi mancato sarebbe stato veramente un tradimento che non mi sarei mai perdonato. L’accoglienza è stata festosa, la struttura “vestita da Natale”, la partecipazione totale e il rinfresco da principi, preparato da un cuoco di livello internazionale.

Sono stato felice, mi hanno riempito di doni, e sono ritornato pensando di ripetere tanto più frequentemente questi incontri che danno ricchezza umana alla convivenza; so però che non riuscirò a farlo come sognerei e vorrei. Debbo arrendermi alla realtà che ad ottantadue anni si è vecchi e non si può più fare quello che piacerebbe, o meglio si è convinti di dover fare.

Sempre più frequentemente penso al secondo “pensionamento”, a quello reale! Se non l’ho ancora fatto credo sia perché, nonostante io stia ancora tentando di illudermi, non vedo che esistano persone disponibili per questa avventura cristiana!

Quella verità che insisto a riproporre!

Mio padre era un falegname generico, come si soleva un tempo; era capace di costruire una capriata di un tetto, come fare una finestra, costruire una bara da morto o dar vita ad un mobile. Io sono cresciuto in bottega tra la segatura e i trucioli e perciò m’era familiare il lavoro di mio padre, però quello che attirava maggiormente la mia attenzione era il modo veloce e deciso con cui papà piantava i chiodi. Quando si trattava di inchiodare le doghe dei balconi sembrava che s’impegnasse con ebbrezza ed accanimento in questa operazione.

Forse mi viene da mio padre il bisogno di ribadire certi concetti, di accanirmi nel proporre certe verità quasi ne provassi una soddisfazione profonda ed un’ebbrezza interiore. Durante lo scorso avvento m’è capitato di rileggere e riflettere quel passo del Vangelo in cui Giovanni manda a chiedere a Gesù: «Sei tu il Messia che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?» Gesù risponde: «Riferite quello che vedete: gli zoppi camminano, i vecchi vedono, i sordi ascoltano e ai poveri è annunciato il Regno!»

Questo discorso di Cristo è per me inebriante perché mi riconferma che Cristo è venuto e si fa riconoscere quale figlio di Dio dal suo impegnarsi totalmente per l’uomo. Gesù propone, come elemento di salvezza, la volontà del Padre, non riti, formule o preghiere, ma solidarietà concreta all’uomo, soprattutto all’uomo più bisognoso! Di qui la mia decisione e l’ebbrezza di ribattere con decisione e ripetutamente il chiodo che la nostra religiosità deve naturalmente sfociare nella solidarietà. Il resto arrischia di diventare magia o evasione dalla storia, dalla vita e dalla fede.

La mia decisione nel riproporre questa verità è così convinta che non mi stanco di ribadire questo concetto di fondo, né mi rassegno a smettere, anche se mi accorgo che questo chiodo fatica ad entrare!

Se la Cittadella della Solidarietà è impantanata in pastoie burocratiche, io guardo oltre!

La vita vissuta in équipe, m’è sempre stata molto stretta. Capisco sempre di più d’essere una persona solitaria e profondamente individualista.

Qualche mese fa m’è stato chiesto di “cedere” alla diocesi il progetto della “cittadella della solidarietà”. Ne fui molto felice perché “mi si cavava una castagna dal fuoco” in un tempo che di problemi ne ho fin troppi. Poi ritenevo veramente bello che l’intera Chiesa veneziana prendesse seriamente il discorso di Gesù “Ama il prossimo come te stesso”, discorso ribadito con forza e con concretezza da san Giacomo. Mi affascinava che l’intera Chiesa veneziana si impegnasse globalmente su un progetto che avrebbe testimoniato la sua coerenza al Vangelo.

L’iter intrapreso mi è sembrato subito un difficile percorso di guerra che soldati poco intraprendenti ed audaci avrebbero avuto infinite difficoltà e pretesti per affrontare e risolvere. Infatti stanno passando giorni, settimane e mesi e il progetto rimane solamente una timida bozza di progetto, mentre paesetti come Mirano stanno già costruendo “il villaggio solidale”!

Ancora una volta mi si affaccia la tentazione di abbandonare il progetto della città solidale alla burocrazia della curia e dar vita ad un braccio d’azienda al posto della possibile e futura “cittadella” per risolvere il problema dei magazzini San Martino, San Giuseppe e di tutti i santi della carità.

Mi si regalano trentamila metri di terreno e diecimila di spazio coperto da tetto. Io credo che bisogna cogliere l’opportunità al volo e lasciando il progetto della “cittadella” alla diocesi, noi invece costruiremo “L’Ikea” solidale dei mobili usati e “i grandi magazzini Coin” degli indumenti d’epoca.

Non sarà la Chiesa di Venezia a farlo, comunque sarà un suo vecchio prete in pensione!