Due bellissimi incontri in un mattino: Agostino e il Pope

Stamattina (alcune settimane fa, NdR) sono andato al cantiere del “don Vecchi”. Era da tanto che non vedevo una squadra di operai intenti al lavoro: muratori, idraulici, elettricisti e fabbri, ognuno esercitava il proprio mestiere con una serietà tale che sembrava quasi un’équipe in sala operatoria. Mi guidò nella visita Agostino, un capomastro intelligente, cordiale e capace. M’è sembrato, pur sporco di malta dai piedi ai capelli, un capitano sulla tolda di un transatlantico, che tracciava la rotta con assoluta sicurezza.

Sono ormai certo che anche la nuova struttura, per cui sto mettendo da parte mobili, quadri, tappeti e lampadari, sarà bella e funzionale, degna dei nostri anziani.

Prima di tornare, mi venne voglia di fare una visita al pope della chiesa copta che sorgerà a pochi passi dal “don Vecchi”. Fortunatamente l’ho trovato in casa; egli è un monaco di mezza età con la sua veste nera fino ai piedi ed una specie di copricapo con bordature dorate che tanto assomiglia al camauro che Benedetto decimo sesto ama portare d’inverno.

Questo “parroco” di nazionalità egiziana, segue pastoralmente una comunità di diecimila cristiani copti a Milano e quella molto più piccola di Venezia. Si è dimostrato già fratello concedendoci lo spazio per il cantiere e, più ancora, nel colloquio cordiale e caro. Si è preoccupato di dirmi che avevamo quasi tutto in comune a livello di fede, ma di questa informazione m’ero già convinto, tanto che gli ho detto che ci aiuteremo in ogni modo, e se non riuscirà a riempire le sua nuova chiesa, gli anziani del “don Vecchi”, che non hanno una cappella, andranno a pregare nostro Signore da lui.

Se costruiranno il carcere, come è previsto, e il centro per gli stranieri a Campalto, faremo concorrenza a piazza Ferretto e a San Marco.

Padre Marella, un profeta moderno

Ho terminato di leggere la biografia di padre Marella, il sacerdote che durante l’ultima guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra ha dato una sublime testimonianza di carità cristiana. Io avevo conosciuto don Marella per caso e marginalmente attraverso certe affermazioni di ammirazione del giornalista Indro Montanelli. Ora però ritengo quella testimonianza di solidarietà del sacerdote di Pellestrina qualcosa di prima grandezza: egli fu un intellettuale preparato e docente di filosofia in vari licei, sacerdote libero ed anticipatore per molti aspetti del Concilio, cristiano umile e coerente, apostolo dei poveri, realizzatore di un’opera veramente notevole, la città dei ragazzi di Bologna.

Sfortunatamente quest’uomo ha lasciato poco di scritto e quel poco che lasciò segue uno stile di inizio secolo che sa più di ottocento che del terzo millennio e, peggio ancora, di lui si sono occupati due biografi prolissi e poco incidenti, che hanno impiegato quasi trecento pagine per presentare una figura sfocata e poco incisiva di un prete che meritava invece pennellate forti e decise.

La lettura, nonostante questi limiti, m’ha fatto molto bene e m’è rimasta impressa decisamente nella mente la figura di questo intellettuale ed uomo di Dio innamorato dei poveri che passava molte ore al giorno seduto su un gradino in un angolo di una via principale di Bologna a raccogliere offerte, presentando il suo cappellaccio nero.

In un momento di difficoltà ho fatto anch’io un’esperienza che, in definitiva, era una brutta copia di quella di don Marella, scrivendo che, essendomi munito della bisaccia da frate da cerca, avrei bussato ogni giorno ad una ventina di case di Mestre per chiedere l’elemosina per pagare la casa dei vecchi di Campalto. In realtà mi limitai a scrivere delle lettere e già questa povera imitazione della testimonianza del sacerdote di Pellestrina mi mise a disagio e mi fece arrossire.

Ringrazio veramente il buon Dio che manda ancora queste belle figure di profeti a metterci in crisi.

Un “grazie” quanto mai gradito!

A volte mi capitano degli incontri che non soltanto mi sorprendono, ma che mi risultano quanto mai graditi ed incoraggianti.

Un tempo vi erano dei lavori che si chiamavano “servili” perché destinati solamente alla servitù, quale il cambiare l’acqua ai fiori, scopare la chiesa e cose del genere. Qualche giorno fa me ne stavo tutto intento a pulire le ceriere dalle sbavature delle candele votive, perché nella mia vita di prete vi sono i momenti sacri e sublimi, ma anche quei lavori “servili”, quando mi si avvicinò una signora di aspetto ancor giovanile che, senza tanti preamboli, mi ringraziò per il consiglio che le avevo dato.

In verità non ricordavo né la signora né tanto meno il consiglio. Questi incontri con persone che pensano che io le conosca mi capitano di frequente, però succede che io, fortunatamente, incontri sempre tanta gente. Poi mi capita di parlare ad assemblee più o meno numerose, ma mentre il mio volto è al centro dell’attenzione, io che poi parlo quasi sempre ad occhi chiusi, vedo solo i visi indistinti dei fedeli. Da ultimo sono ormai anche un po’ smemorato, così mi succede che non ricordo nulla.

Senza “scoprirmi” troppo riuscii a intuire che questa signora non aveva figli, era rimasta precocemente vedova e per di più era andata in pensione, trovandosi così il vuoto davanti. Di certo le avevo suggerito di dedicarsi agli altri mediante qualche gruppo di volontariato. Da sempre sono convinto che una persona non può vivere per nulla, non può lasciare inaridire il suo cuore e buttar via la sua ricchezza umana per cose futili ed effimere.

Quella signora mi ha ascoltato e per di più m’è venuta a dire che era contenta! Il grazie di questa cara “sconosciuta” m’ha fatto molto bene perché mi aiuta a trovare il coraggio di proporre ancora soluzioni positive.

Una volta ancora Gesù ha ragione quando ci invita a seminare sempre e generosamente, perchè prima o poi una semente trova il terreno buono che la fa fruttificare al trenta, sessanta e perfino al novanta per cento.

Io chiedo coerenza e gesti concreti

Lo scorso anno il professor Simionato che tra le tante, forse troppe altre deleghe, ha anche quella della sicurezza sociale, ossia di quel settore dell’amministrazione del Comune di Venezia che si occupa, o che dovrebbe occuparsi, di quella fascia di cittadini che versa in condizioni di disagio economico, mi ha chiesto un incontro per dirmi che provava la sensazione che io non avessi una buona stima di lui.

In quell’occasione ebbi modo di chiarire che a livello personale non avevo motivo di sorta per nutrire sentimenti avversi e sfiducia personale, ma che la mia insofferenza, o peggio la mia delusione, o forse peggio ancora la mia esasperazione, riguardava il mio rapporto a livello istituzionale.

Io mi reputo un operatore del privato sociale, ossia una componente di quei cittadini che, a livello di scelta volontaria e personale, sente il dovere di occuparsi dei problemi sociali; lo faccio a livello di cittadino, di prete, di presidente della Fondazione Carpinetum, dell’associazione di volontariato “Carpenedo solidale” e di membro del comitato direttivo dell’associazione, sempre di volontariato, “Vestire gli ignudi”. Queste sono realtà vive ed operanti nel territorio, quindi credo di avere tutto il diritto di parola e di critica.

Chiesi all’assessore che potessimo gestire direttamente le ore di assistenza che il Comune assegna agli anziani in disagio: nessuna risposta! Chiesi più volte che si impegnasse per ottenere i cibi in scadenza degli ipermercati: nulla! Chiesi un contributo per il “don Vecchi” di Campalto: ancora niente! D’ora in poi mi sforzerò in ogni modo di portare a conoscenza dell’opinione pubblica l’inerzia del Comune in questo settore; credo che questo sia per me, prima che un diritto, un sacrosanto dovere civico e morale.

Simionato si è offerto di svolgere questo servizio, ha chiesto il nostro voto, milita in un partito di sinistra e per di più dice di condividere i valori cristiani; credo perciò sia un dovere pretendere coerenza e gesti concreti che dimostrino il suo impegno civile.

Non sopporto più la violenza, l’ipocrisia, l’oppressione su tanta povera gente!

Capisco fin troppo bene che una persona non possa caricare la sua coscienza e la sua umanità di tutti i mali del mondo, perché bastano le piccole traversie a turbarla e toglierle la serenità. A livello razionale questo mi è ben chiaro, ciononostante non riesco, ed anche non voglio, scrollarmi di dosso la consapevolezza dei grossi drammi che affliggono la nostra terra in questi ultimi tempi.

Da sempre peno per i nostri ragazzi che obliamo in quell’Afghanistan selvaggio, crudele e senza legge. E’ vero che sono stati loro a voler andare laggiù ed è anche vero che chi sceglie di fare il soldato di professione non può né sperare né pretendere che lo mandino ad acchiappar farfalle e perciò il rischio è già previsto nella professione scelta e nella paga, ma è anche purtroppo vero che ogni giorno di più ci rendiamo conto che essi mettono a rischio la vita non avendo alcuna prospettiva che questo serva a qualcosa. Ci han provato un po’ tutti a mettere ordine in quel dannato Paese, senza cavarci un ragno dal buco; probabilmente solamente il tempo li aiuterà a uscir fuori dalla barbarie.

Anche i tecnici giapponesi delle centrali atomiche mettono a repentaglio la loro vita, ma essi lo fanno per uno scopo possibile e senza mettere a repentaglio la vita degli altri, mentre la permanenza dei nostri soldati in Afghanistan non ha neppure questi supporti ideali.

Ora a quell’incubo s’aggiunge quello della Libia. E’ purtroppo vero che Gheddafi è un satrapo, ma è anche vero che per eliminarlo mezzo mondo sta impegnando uomini, capitali e soprattutto mette a repentaglio equilibri internazionali fragili e pericolosi, oltre a provocare rovine immani e sofferenza a molta gente che ha il solito torto di abitare in un Paese infelice, che prima ha conosciuto il dominio di noi italiani, poi l’oppressione di un connazionale ed infine possiede il petrolio che è ambito dalla Francia e dai suoi colleghi.

Non riesco proprio più a sopportare la violenza, l’ipocrisia, l’oppressione su tanta povera gente che ha il diritto sacrosanto di vivere in pace una vita più felice possibile!

Le scelte dell’Italia e degli alleati varranno per tutti?

Napolitano, il nostro Presidente, arrischia di passare alla storia per un suo intervento di questi ultimi mesi in cui è scoppiato il tormentone nei Paesi arabi dell’Africa settentrionale e in particolar modo in questi giorni per quanto riguarda la Libia. C’è però una qualche incertezza perché il Presidente ha usato una frase già sentita da tempo e che egli ha riciclato adattandola alla situazione contingente: “Non possiamo rimanere insensibili ai moti dell’attuale risorgimento degli arabi della sponda settentrionale dell’Africa”.

Napolitano non solamente ha pronunciato queste parole incoraggianti alla libertà e alla democrazia, ma pare che si stia adoperando con decisione per favorire il nostro Governo che, nonostante i suoi recenti ammiccamenti con Gheddafi, s’è prontamente schierato con “i liberatori volonterosi”.

Mi auguro tanto che prima o poi non venga fuori che questo intervento sia stato dettato dalla preoccupazione di non perdere i vantaggi sul petrolio e sul gas della Libia, vantaggio precedentemente pagato con gli aiuti economici, le motovedette e le umiliazioni fatte patire dal dittatore arabo.

Le parole e le scelte di Napolitano mi fanno piacere perché finalmente mi rassicurano che la sua conversione al metodo democratico è sicura e definitiva; comunque quanto lui ha detto è bello, giusto e condivisibile. Vorrei però che le scelte dell’Italia e dei Paesi che sono partiti baldanzosi in armi per la nuova crociata per la democrazia e per la libertà, non valessero solamente per i piccoli Paesi e soprattutto per quelli che posseggono l’oro nero, ma fossero altrettanto decise anche se riguardassero i grandi popoli nei quali la democrazia sembra solamente di nome e piuttosto formale.

Bisogna dare un senso compiuto al Crocifisso in classe

Un paio di anni fa è nata una querelle infinita per la sentenza della Corte Europea che affermava che era lesivo della libertà dei cittadini mettere il crocifisso nelle aule delle nostre scuole. S’è versato un fiume d’inchiostro in proposito; il mondo cattolico, ma soprattutto le gerarchie ecclesiastiche e i politici, che sperano di ottenere i voti dei cattolici, hanno fatto infinite dichiarazioni a favore della permanenza del crocifisso nelle scuole e nei luoghi pubblici.

Anch’io ero d’accordo che era ben poco opportuno che l’Europa s’arrogasse il diritto di sentenziare sui fatti interni dei singoli Paesi. Oggi vogliamo a tutti i costi il federalismo, perché le singole regioni facciano le scelte che ritengono più opportune per non mortificare le identità e le ricchezze della cultura e delle tradizioni locali; mi sembra perciò assurdo che quegli organismi europei s’impiccino in tutto questo.

Ora finalmente abbiamo il crocifisso in classe e certi insegnanti faziosi ed altrettanti genitori radicali dovranno, loro malgrado, sopportare che i loro figli vedano questo simbolo di fraternità e di pace che dovrebbe essere comunque ricercato e benedetto in questo nostro mondo così rissoso ed irrequieto!

Il problema di fondo però rimane, non è stato ancora risolto, perché la presenza di Cristo nelle scuole ha senso solamente se al Crocifisso “diamo la parola” per precisare il suo messaggio e questo lo possono e lo debbono fare i docenti, gli alunni e i genitori, che sono consapevoli dell’assoluta necessità della proposta cristiana nella nostra società. D’ora in poi questo dovere deve essere esercitato se non vogliamo essere doppiamente ipocriti.

L’Italia, Gheddafi e i compromessi che non avremmo dovuto fare

E’ vero che se vogliamo dialogare, trovare un punto d’incontro, cercare soluzioni condivise, bisogna che scendiamo a qualche compromesso a livello di concretezza, questo però senza barare con la nostra coscienza, perdere la dignità personale per perseguire qualche vantaggio di ordine economico. Questo vale per le singole persone ma dovrebbe, anzi deve valere, anche per gli Stati.

Soltanto pochi mesi fa l’ultima visita in Italia di Gheddafi. E’ stato ricevuto con tutti gli onori con i quali solitamente si riceve il rappresentante di una nazione. Comunque c’è modo e modo nel trattare certi personaggi. Credo che tutti sapessero che quell’uomo era un despota, che non si rifaceva minimamente ai criteri della democrazia, neppure la più rozza ed elementare, nel governare i suoi sudditi.

Meglio di noi cittadini lo sapevano certamente i nostri governanti; nonostante ciò gli è stata permessa ogni stravaganza, comportamenti non solo istrionici, ma profondamente irrispettosi nei riguardi del nostro Paese e della dignità del nostro popolo.

E’ vero che l’Italia nel passato ha commesso delle colpe nei riguardi della dignità della sua gente, ha invaso la sua terra e l’ha governata nella maniera poco corretta come sempre i conquistatori usano nei riguardi dei vinti. Ma questo appartiene al passato. Se ci rifacciamo sempre alle colpe pregresse non sarebbe più finita!

I nostri capi si giustificarono nell’indicare i vantaggi economici che derivavano, sopportando tutte le stramberie e le smargiassate di quel despota. Purtroppo la ricchezza, l’economia, i vantaggi economici finiscono sempre col prevalere, costringendo così a scendere a compromessi umilianti.

Sarebbe ora che, con coraggio e forse anche con qualche sacrificio in più, ci abituassimo a vivere secondo le nostre possibilità reali, non pretendendo di condurre una vita al di sopra delle nostre possibilità.

Ancora bellissimi gesti di solidarietà per il Don Vecchi di Campalto

Per motivi di ordine pastorale ho conosciuto lo zio di un giovane parrocchiano di un tempo, molto fragile ed un po’ svitato, per il quale, per quanto abbia invocato l’aiuto del cielo e della terra per dargli una mano, mi beccai una diffida tramite un avvocato che mi invitava a non occuparmi della vita del suo protetto.

Dall’incontro casuale con questo signore, al quale avevo chiesto aiuto per aiutare il nipote e al quale era giunta, come a me, la diffida dell’avvocato, è nata, prima, una conoscenza superficiale, poi pian piano, un rapporto di stima e di amicizia.

Un giorno egli mi si presentò al “don Vecchi” per donarmi un bellissimo Cristo in terracotta; in seguito mi regalò pure un san Francesco ed infine, avendo sentito che io avrei sognato una Madonna in terracotta da porre all’ingresso del “don Vecchi” di Campalto, mi portò pure un bozzetto che si rifà ad opere del Medioevo, in cui si scorgono, sotto il mantello aperto, i fedeli in preghiera. Qualche giorno fa individuammo assieme la parete ove collocare questa terracotta grande due metri per un metro.

Sono stato assai felice nel vedere con quale entusiasmo questo artista, Enrico Da Venezia, ha offerto la sua collaborazione per rendere più signorile ed accogliente la nuova struttura per anziani. Come sono altresì felice perché la città mi pare sempre più coinvolta in questa avventura solidale; ne fanno testimonianza le offerte settimanali, i quadri e i mobili che ci giungono per arredare il “don Vecchi 4”.

La macchina della solidarietà è un po’ legnosa e pesante da mettersi in moto, ma se trova un volano che le faccia fare i primi giri, essa finisce per funzionare a tutto vapore.

Ringrazio il buon Dio per tutto ciò che mi ha donato!

Qualche settimana fa ho compiuto ottantadue anni. Per l’occasione avvertii la mia gente che avrei celebrato la messa di ringraziamento e, nel contempo, li invitai invece per “una spaghettata” un po’ goliardica.

Si presentarono in tanti per la messa e forse un po’ in più per la spaghettata!

In quell’occasione m’era dovere di fare un buon sermone; mi rifeci all’affermazione di Gesù: “chi lascia padre e madre, fratelli e sorelle, campi e quant’altro, riceverà il centuplo e la vita eterna”.

Per quanto riguarda la prima parte della promessa potevo garantire, per esperienza personale, che le cose vanno così ed in forza di questa parziale esperienza, penso che Gesù non venga meno neanche per la seconda parte, quella che riguarda la vita eterna.

Oggi mi pare che l’opinione pubblica, ed in particolare la nostra gente, non si interessi più di tanto al “mistero della vita del prete”, come è avvenuto nel passato, e di ciò fanno fede innumerevoli romanzi di ogni Paese. M’è parso però giusto confidare ai miei amici più cari che la mia vita è stata bella ed interessante, che ho fatto sempre quello che ritenevo giusto e doveroso, che ho sempre mantenuto la mia libertà di pensiero e di parola, ma soprattutto che mi sono sempre occupato degli uomini, che è la cosa più interessante di questo mondo! Ho continuato dicendo che non conosco preti che abbiano una vecchiaia più bella e interessante della mia, anche se vivo in un alloggio di 49 metri quadrati e sono impegnato da mattina a sera.

Inoltre penso che pochi preti siano circondati da tanta calda amicizia ed affetto quanto lo sono io. Per tale motivo ho invitato tutti ad aiutarmi a ringraziare il buon Dio.

Le opere dei volontari della fondazione sono una dimostrazione della loro Fede!

Il Signore m’ha benedetto mettendomi sempre accanto tanti e cari collaboratori.

Qualche settimana fa ho riflettuto e scritto sul grande e magnifico polo della solidarietà che in pochi anni è nato attorno al “don Vecchi” . Ogni giorno un’autentica marea di gente di “ogni razza e di ogni Paese” accorre al “don Vecchi” per trovare una risposta ai problemi suscitati dall’indigenza e dalla crisi economica, e spero che quasi sempre trovi una risposta concreta alle sue richieste.

Di sovente ho confessato pubblicamente che il Signore m’ha dato la grazia di innamorarmi dei miei amici collaboratori, per cui li trovo sempre persone care, belle, intelligenti e generose; avranno forse anche loro qualche difetto, ma per chi è innamorato anche i difetti appaiono come pregi,

Ho spesso scritto, spero con legittimo orgoglio, che ogni settimana l’associazione che si occupa del settore degli aiuti alimentari aiuta circa 2000-2500 persone ed ogni settimana dalle seicento alle settecento famiglie ricevono tutti i viveri che riusciamo a racimolare. In quella occasione dicevo che l’organizzazione dei volontari con mansioni specifiche e correlate col resto della struttura è talmente efficiente che mediamente veniva servita una persona al minuto nonostante la costrizione dello spazio estremamente angusto a disposizione.

Ogni volta che passo davanti alla fila dei richiedenti, mai superiore a dieci-dodici persone, ho modo di verificare con quale alacrità ognuno svolge il suo ruolo. L’armonia, l’efficienza e soprattutto la cordialità tra i volontari e verso i poveri, mi incantano e mi fanno felice.

Non so se i miei volontari dicono le preghiere tutte le sere, non so neppure se vadano sempre a messa la domenica o se si richiamino ad una visione soprannaturale del povero, vedendo in lui le sembianze di Cristo, ma credo come san Giacomo, che le loro opere testifichino la loro fede.

Verso nuove forme di distribuzione de “L’Incontro”

In quest’ultimo tempo, prendendo spunto dalle insorgenti difficoltà di piazzare “L’incontro” nelle bacheche delle chiese della città – difficoltà dovute a motivi inconfessati, ma che di certo si rifanno ad una malcelata gelosia – stiamo mettendo a punto un progetto mirato a creare stazioni differenti per la distribuzione del periodico.

Le parrocchie spesso s’accorgono che mentre “L’incontro”, nonostante se ne aumenti costantemente la tiratura, continua letteralmente a “sparire” dai tavoli posti in fondo alle varie chiese, altri periodici non hanno lo stesso successo.

A qualcuno forse è parso che la concorrenza de “L’incontro” determini questo deludente fenomeno. Noi, evidentemente, siamo di diverso parere, ma da un lato per non creare “guerre di religione” – cosa quanto mai lontana dalle nostre logiche – e dall’altro lato per essere maggiormente coerenti con le nostre convinzioni, pensiamo di assumere “in toto” la dottrina di Paolo nei riguardi degli altri apostoli: “Voi curate pure le pecore d’Israele, mentre noi scegliamo di evangelizzare i gentili”. Traducendo in chiaro: lasciamo pure che i parroci continuino ad occuparsi dell’ormai piccola minoranza dei fedeli praticanti, mentre noi de “L’incontro” punteremo sempre più a rivolgerci ai cosiddetti “lontani”, ossia ai battezzati che, per i motivi più diversi, frequentano purtroppo poco le parrocchie.

Abbiamo affidato ad un giovane manager il compito di portare avanti il progetto e perciò d’ora in poi tenteremo di diffondere il periodico soprattutto nelle banche, nei bar, nelle pasticcerie, negli ipermercati, negli ospedali, negli ambulatori, ossia nei moderni “templi” frequentati dall’uomo di oggi.

Partendo da questa dottrina inviteremo sempre più frequentemente e con più insistenza i nostri affezionati lettori, che contiamo oggi sui dieci-quindicimila, a recapitare “L’incontro” nei negozi che essi frequentano, nei condomini o comunque ove vivono la loro vita.

Ci auguriamo che questa filosofia ci renda più facile il rapporto con le parrocchie, ma soprattutto che ci leggano quelli che non hanno dimestichezza con “la buona stampa”.

Una bella notizia: il Veneto non taglia sulla sicurezza sociale!

Sul “Gazzettino”, che scorro molto rapidamente di primo mattino dopo le preghiere con cui apro la mia giornata, non mi capita, purtroppo, di leggere di frequente qualche buona notizia. Però, qualche giorno fa, dopo il titolo in cui si annunciava che, pur con tanta fatica, s’era finalmente approvato il bilancio preventivo della Regione, ho letto con estremo piacere, che all’assessorato alla sicurezza sociale, non solamente non s’erano apportati gli ormai consueti tagli, ma anzi s’erano stanziati sedici milioni in più dello scorso anno.

L’assessore Sernagiotto, titolare di questo assessorato, evidentemente aveva perorato con passione la “causa dei poveri”, tanto da convincere i colleghi ad aumentare il budget, nonostante i tagli causati dalla crisi ed apportati in quasi tutte le voci di spesa della Regione.

La notizia m’ha fatto tanto piacere almeno per tre motivi.

Primo: fa sempre onore che un cattolico, che si dichiara pubblicamente tale – infatti Sernagiotto è dell’U.D.C. – si batta per i poveri. Secondo: perché i servizi sociali verso le classi più povere, che subiscono pesantemente i contraccolpi della crisi, non saranno ulteriormente penalizzati, anzi avranno delle risposte, seppur leggermente, positive. Terzo: perché, in qualità di presidente della Fondazione del “don Vecchi”, credo d’avere una apertura di credito nei riguardi di questo assessore, promessa a cui non intendo per alcun motivo rinunciare.

Sernagiotto, venendo al “don Vecchi” e scoprendola felicemente come struttura assolutamente innovativa nel campo della residenzialità, mi ha pubblicamente promesso di rivedere ed emendare la rozza scheda SVAMA per variegare il tipo di assistenza all’anziano, in maniera da non confinare nelle case di riposo gli anziani che hanno ancora qualche residua autonomia e da contrastare il business delle case di riposo per non autosufficienti verso cui si sono dirette le attenzioni di certi grossi operatori economici senza troppi scrupoli e certi enti pubblici dalla gestione estremamente onerosa.

In quell’occasione ho offerto la disponibilità della Fondazione a porre in atto un progetto pilota su cui poi regolare le future norme sull’assistenza dell’anziano. Ora che mi s’è offerta un’occasione così lusinghiera di certo non mollerò la preda!

Accuse di un sabato sera

Avevo appena terminato la messa prefestiva al “don Vecchi” e m’ero ritirato “in casa” dopo una giornata faticosa per impegni e discorsi. Speravo di potermi togliere le scarpe, cenare alla buona, per la qualità e la quantità del cibo, controllato severamente dalla “mia assistente sanitaria” preoccupata per il potassio, il colesterolo, la pressione, la gotta e per tutto il ricettario medico. Sennonché una suonata decisa del campanello, mi fece presagire una visita insolita perché al “don Vecchi” è “soft” perfino la premuta del campanello.

Si presentò una coppia: prima ancora che aprissero bocca, capii immediatamente che cosa volevano (purtroppo le barriere di protezione al “don Vecchi” sono assai fragili, per cui “l’assalto dei pirati” è sempre possibile). Mi chiesero un lavoro alle otto di sera di giorno di sabato, poi mi dissero che dormivano in un furgoncino al freddo ed erano perfino senza benzina.

Io tentai di dir loro che ci sono enti religiosi e civili preposti a queste cose, che io ero un vecchio prete ormai in pensione, che per quel che potevo mi occupavo di anziani poveri, che ero impegnato fino al collo per i sessantaquattro appartamentini del “don Vecchi” di Campalto e perciò destinavo ogni mia risorsa a quello scopo. Poi, ricordandomi di quello che mi disse un tempo una “piccola sorella di Gesù”, che un gesto di attenzione in ogni caso non fa mai male, dopo aver loro indicato quegli enti – che, compresi, loro conoscevano meglio di me – diedi loro cinque euro: certamente poco, ma erano degli sconosciuti mandati al “don Vecchi” da persone che, non sapendo come liberarsi, pensano che io sia giunto alla possibilità di far miracoli, pur godendo di una pensione di 756 euro mensili!

Lui li prese prontamente, ma lungo il tragitto per accompagnarli alla porta “apriti cielo!”, lei mi insultò sferzante e volgare, dicendo che noi preti ci approfittiamo dei poveri, che non aiutiamo la gente e soprattutto ha affermato che sarebbe andata al Gazzettino per denunciare queste malefatte.

Pensavo che l’aver scelto di vivere come i vecchi poveri, di impegnarmi ed espormi a rischi per offrire ad essi un tetto sicuro e possibile, mi liberasse da queste accuse. Invece no. Poi pensai a Cristo che visse “facendo del bene” e finì in croce. Mi rasserenai e chiusi in pace la giornata.

Cesarino Gardellin, un uomo che merita la stima di tutti!

Qualche giorno fa ho ricevuto una telefonata di un mio vecchio amico che mi ricordava che era tempo di cominciare a darsi da fare per ottenere il cinque per mille.

La voce di Cesarino era affannata e discontinua; purtroppo uno dei morbi, oggi tanto diffusi, ha fiaccato la forte tempra di questo combattente indomito su tutti i fronti. Però, pur attraverso quella povera voce incerta e stonata, m’è giunto il messaggio di un uomo che “ha dato tutto di sé” per gli altri e continua a farlo come gli è ancora possibile.

Cesarino è stato un bell’uomo, ricco di fascino e di una sottile ironia – o forse sarebbe meglio definirlo “humour” – per cui rendeva interessante ogni suo intervento. Parlava bene e scriveva ancor meglio. I libri sulla “sua guerra”, gli articoli sulla stampa cittadina e soprattutto sui periodici della nostra parrocchia, erano sempre brillanti, soffusi di sentimento e pieni di battute frizzanti, per cui si lasciava leggere con vero gusto.

Ma il capolavoro di Cesarino è stato il suo impegno per creare la cultura della donazione degli organi. Egli ha condotto avanti questa campagna assieme al professor Rama, al dottor Zambon, ad una schiera numerosissima di collaboratori ed aderenti che si lasciavano trascinare dall’entusiasmo e dalla generosità di questo concittadino sempre schierato a favore del prossimo.

Le iniziative di questo apripista della donazione sono state infinite e sempre positive: conferenze nelle scuole, la giornata del donatore, le targhe da apporre sulle tombe dei donatori, convegni, articoli e dibattiti, il periodico stampato in venti-trentamila copie.

Ora uno va in ospedale e riceve il trapianto della cornea come sia la cosa più scontata e tranquilla, ma pochi sanno quanto sia costata un tempo, in lotte e sacrifici, la legge che la supporta.

Cesarino è ora quasi invalido, non esce più di casa, non scrive, parla poco e male, comunque è rimasto un combattente indomito, tanto da ricordare al suo vecchio parroco, acciaccato pure lui, di non perdere l’occasione del cinque per mille.

Cesarino Gardellin non merita una rotonda o una strada a suo nome, ma l’ammirazione, la stima e l’affetto dell’intera città.