Positivo accordo

Proprio in quest’ultimo tempo, grazie alla mediazione del dottor Blascovich, che è uno dei responsabili della “messaggeria” che distribuisce “L’Incontro” alla sessantina di postazioni presso le quali, fin dai primi giorni della settimana, è reperibile regolarmente il nostro periodico, si è giunti ad un concordato fra la redazione di “Comunità e Servizio”, che è la testata della rivista della parrocchia di San Giuseppe di viale San Marco e quella nostra. Il patto sancisce che “Comunità e Servizio” sarà esposto in una delle chiese del cimitero e “L’Incontro” sarà esposto nell’ultima chiesa di viale San Marco, che ha come santo protettore San Giuseppe.

Non nascondo che questo accordo mi ha fatto molto piacere perché dovrebbe sempre potersi trovare un punto di incontro anche se ci fossero stili ed indirizzi diversi, piuttosto che chiudere la porta al confronto, che è sempre un fatto positivo ed arricchente per tutti.

Questa volta la cosa è stata certamente possibile perché il parroco di San Giuseppe è una persona intelligente ed aperta al dialogo, ma soprattutto perché quella comunità esprime un “foglio parrocchiale” che ha un suo stile, una linea redazionale e dei contenuti, mentre questi accordi non si realizzano mai quando ci sono parrocchie con “bollettini” pressoché insignificanti, perché poveri di contenuti e malandati nella loro strutturazione. In questi ultimi casi è più che evidente che i relativi responsabili non riescono a sopportare “la concorrenza”.

Le due “riviste”, “Comunità e Servizio” e “L’Incontro” hanno poi in comune la rubrica “Il diario”: il primo di un giovane parroco zelante e pio, con uno stile affabile e conciliante, il secondo che porta il riflesso di un vecchio prete, quale io sono, angoloso, critico e particolarmente sensibile alle problematiche sociali e al confronto religioso.

Sono convinto che sia ai parrocchiani della parrocchia di San Giuseppe che ai fedeli del cimitero farà certamente bene cogliere la vita spirituale vista sia da destra che da sinistra, anche se questi termini sono assolutamente impropri. Il confronto farà bene perché chi vive la religiosità nell’intimo della sua coscienza avrà giovamento nello scoprire l’altro lato della medaglia e a chi è abituato a cogliere l’aspetto orizzontale della sua fede, farà bene cogliere anche quello verticale.

A parte il fatto che in tutti gli ambiti in cui vivono cristiani ci sono persone che per natura o per scelta prediligono una o l’altra chiave di lettura della religione, è cosa buona che ognuno possa conoscere e valutare il pensiero di chi non condivide il suo modo di ragionare, infatti il poter cogliere l’altro lato della medaglia, ossia di chi la pensa diversamente è sempre positivo ed arricchente!

Battuto sul tempo!

Sfogliando l’ultimo mio volume “Tempi supplementari”, una delle tante critiche che gli faccio, io che ne sono l’autore, è che risulta assai ripetitivo negli argomenti trattati. Tento di giustificare questo difetto tanto evidente.

Primo: io sono un povero diavolo con tanti limiti. Secondo: ogni individuo non può avere dentro di sé una enciclopedia con tutto lo scibile umano o un archivio con un progetto per tutto. Io ho a cuore certi argomenti e coltivo alcuni progetti: uno, e forse il principale, è quello di offrire risposte adeguate al “povero” che incontro, come “il buon samaritano” mezzo morto per strada. Terzo: sono infine della scuola di Papa Giovanni XXIII che affermava a cuore un problema, deve parlarne da mane a sera a chi incontra per qualsiasi motivo.

Allora, pensando alle nuove povertà, torno su uno degli argomenti di cui ho parlato già molte volte. Ho letto che i mariti di mezza età che divorziano finiscono in un gravissimo disagio di ordine sociale ed economico perché il giudice normalmente decide di lasciare l’uso della casa alla moglie, le affida i figli e le destina una parte rilevante dello stipendio del marito. Quindi quel povero gramo spesso finisce per non avere più una famiglia, una casa e spesso di non poter neppure vedere i figli perché non riesce più a dimostrare al giudice di avere un luogo adeguato per ospitarli.

Questa mattina la Veritas mi ha chiesto di celebrare “un funerale di povertà” per un residente all’asilo dei senzatetto di via Santa Maria dei Battuti. Prima del funerale ebbi modo di sapere, da chi conosceva bene il defunto, che egli era un brav’uomo. Il divorzio lo privò del figlio, perché la moglie lo mise contro il padre, e della casa, assegnata alla stessa.

Quest’uomo, che era stato un buon agente di commercio, si ridusse a dover andare a dormire all’asilo notturno, dove si comportò tanto bene e si fece così ben volere da tutti che, meraviglia delle meraviglie, gli inquilini e i dirigenti della stessa struttura gli permisero di morire tra i suoi nuovi compagni di sventura e molti di loro parteciparono al suo funerale.

Proprio l’altro ieri avevo buttato giù un progetto di massima per costruire, presso il “villaggio solidale degli Arzeroni”, una quindicina di appartamenti per divorziati che vengono a trovarsi nella situazione di questo malcapitato. Purtroppo nostro Signore mi ha battuto sul tempo, assegnando a questo fratello una dimora eterna nei cieli.

Non desisto però dall’impresa benefica perché chissà quanti altri si trovano nelle stesse condizioni del concittadino che ho accompagnato alla “Casa del Padre”! Spero quindi che i miei concittadini non mi lascino mancare i mezzi per farlo.

Tardi, ma in tempo

Ormai sono giunto alle ultime pagine del volume di Andrea Tornelli: “Carlo Maria Martini, il profeta del dialogo”. Confesso che ho scoperto, con enorme piacere e nello stesso tempo con altrettanta amarezza, di non aver conosciuto il cardinale di Milano, questo grande testimone cristiano del nostro tempo, mentre era ancor vivo.

Già scrissi, più di una volta, del sussulto di sorpresa quando ho letto dai giornali alcune espressioni che mi sarei aspettato di cogliere dalle labbra di un prete contestatore o della teologia della liberazione, piuttosto che da un cardinale di Santa Romana Chiesa quale fu il cardinale Martini. Personalità di primo piano nel campo della biblica e vescovo della più numerosa ed importante diocesi d’Europa, scrisse frasi come questa: “La Chiesa è in ritardo sulla società civile almeno di 200 anni”, oppure “Ci sono prelati e vescovi che per motivi di carriera si defilano, non prendono posizione”, o ancora “Solamente nel rispetto della libertà delle coscienze crescono cristiani veri”, o perfino “Il dialogo e il confronto con i non credenti è assolutamente necessario per purificare e rinsaldare la nostra fede”.

Dapprima ebbi il sospetto che queste frasi fossero state estrapolate dal contesto del suo pensiero da parte dei laicisti. Ora però, che ho letto fino in fondo il volume di cui parlavo, che riporta il suo pensiero, piuttosto che la sua vita, sono ben conscio dell’onestà intellettuale, della schiettezza, seppur delicata e rispettosa, di Martini, che seppe prendere posizioni ben decise su problematiche che, a parer suo, hanno bisogno ancora di studio, di riflessione, di rielaborazione. Il cardinal Martini ha sempre detto, magari sommessamente, la sua, sui problemi della fede, della morale, dell’economia, del dialogo interreligioso e dell’attuale cultura.

M’è venuta voglia di scorrere l’indice del volume per riscoprire come egli abbia guardato in faccia tutti i problemi del nostro mondo e della nostra Chiesa, senza mai dimostrarsi un cattedratico onnisciente, ma manifestando con onestà i suoi dubbi, le sue perplessità, i suoi distinguo e perfino le sue non condivisioni del pensiero dominante.

Voi, miei amici, non potete immaginare quanto mi abbia fatto bene, mi abbia donato una sensazione di liberazione e di conforto, venire a sapere che per i miei dubbi, i miei rifiuti e le mie perplessità potevo finalmente non sentirmi un ribelle, un apostata, ma solamente uno che vive la condizione esistenziale da persona onesta.

Il cardinal Martini l’ho conosciuto tardi, ma fortunatamente non troppo.

Forse non ho sbagliato

Qualcuno, di cui non m’è dato sapere il nome, m’ha fatto avere una pagina di “Panorama” così simpatica ed interessante, almeno per me, che mi prendo la libertà di pubblicarla, così come sta, ne “L’incontro” del aprile 2013. Prima le caricature e poi il titolo dell’articolo che le accompagna, mi hanno quanto mai incuriosito ed ora dico il perché!

Il foglio della rivista riporta i volti di una decina di personaggi noti, con il cappellone e il fazzoletto tipici degli scout e l’articolo enumera una serie di altri personaggi assai noti nella categoria di quelli “che contano” nel panorama del nostro Paese.

Vengo al motivo del mio interesse particolare per questo discorso. Io sono diventato assistente degli scout fin dal 1954, quando allora ero prete di primo pelo, del gruppo 32° dell’Asci nella parrocchia dei Gesuiti a Venezia. Mi è parso subito di capire che il metodo scout era valido, aveva presa nel mondo giovanile e perciò rappresentava, a livello pastorale, un ottimo strumento da usare.

Quando fui trasferito a Mestre, mi accorsi che della “folata” di scoutismo ch’era sbocciata anche a Mestre con la liberazione, era rimasta ben poca cosa: due squadriglie a San Lorenzo, altrettante in via Piave e poco di più a Carpenedo. Sarà forse un altro peccato autoreferenziale di cui spesso mi si accusa, però col mio arrivo e soprattutto con la collaborazione dell’attuale novantenne Nino Brunello, che allora era giovane sposo con due bambini piccoli, abbiamo fatto esplodere la primavera scout.

Per fare un esempio, quando lasciai San Lorenzo nel 1971, in parrocchia si contavano tre reparti, tre branchi, un noviziato e due clan di maschi ed altrettanti di ragazze. Tentammo poi di seminare, talvolta con positivo risultato, lo scoutismo in molte altre parrocchie di Mestre con monsignor Giuliano Bertoli, allora assistente provinciale, del quale sono divenuto ben presto vice assistente. Fui tra i pochi preti che si lasciarono coinvolgere in questa avventura, tra il sospetto e l’indifferenza dei “colleghi”. Quando sono uscito, nel 2005, dalla parrocchia di Carpenedo, essa contava su più di 200 ragazzi scout.

Ora vengo ad apprendere che la “seminagione” dei preti che hanno creduto in questo movimento, sta raccogliendo risultati eccellenti. Almeno da quanto pubblica “Panorama” gli scout “riusciti a livello nazionale” sono sparsi su tutto l’arco politico e questo mi fa felice perché i pochi assistenti scout non hanno tentato di far crescere “sagrestani”, ma uomini che scelgono di servire.

Da quei pochi che ho riconosciuto, tra quelli segnalati dalla rivista: Renzi, Giletti, Pisapia, Passera, Ambrosoli, La Russa, ecc., credo che tutto sommato siano rimasti fedeli all’ideale del servizio al prossimo. Questo non è proprio poco!

La fortuna de “I tempi supplementari”

L’arrivo della raccolta del “Diario di un vecchio prete, anno 2012” sta destando nel mio animo una folla di sensazioni tanto diverse e spesso sorprendenti. La più forte e la più immediata di fronte al volume estremamente “pesante” – sia per la carta adoperata dal tipografo che perché conta ben 396 pagine – è quella di constatare quanto sia stata mai ardita e forse azzardata la decisione di scrivere tanto e su tanti argomenti, nonostante la consapevolezza dei miei limiti culturali ed anagrafici. Le imprese ardite si addicono ai giovani piuttosto che ai vecchi come me.

La sensazione seguente è stata poi quella di pensare: “Chi vuoi mai che abbia voglia di leggere un malloppo non solo “pesante” a livello di bilancia, ma ben più a livello di stile e di contenuti?” Sono ancora sufficientemente lucido per rendermi conto della ripetitività dei discorsi, del fatto che gli argomenti spesso trattano temi marginali alla vita di oggi e che, al più, riguardano il mondo paraecclesiastico. E poi capisco che la prosa è poco brillante e piuttosto aggrovigliata, nonostante la “mia maestra” Laura Novello, inserendo i testi in computer, sudi sette camicie per rispettare la sintassi, la grammatica e dipanare certi discorsi troppo contorti.

Nonostante tutto questo, mi accorgo con estrema sorpresa che il volume “tira bene”: in quindici giorni sono state “acquistate” quasi trecento copie delle cinquecento stampate. Mi vien da pensare che la foto di copertina, con quella “nuvola” di capelli bianco-latte e il titolo sportivo “Tempi supplementari”, abbia finito per destare la curiosità dei mestrini.

Ora poi che “La nuova” ha avuto l’amabilità di dedicarmi un’intera pagina di critica, mettendo in luce soprattutto gli spigoli più acuti del mio carattere e delle mie prese di posizione e quel pizzico in più di libertà che normalmente mi permetto sul diffuso disinteresse, sull’appiattimento e sulla rassegnazione dell’opinione pubblica del clero veneziano, credo che ben presto i volumi saranno esauriti. I miei concittadini però, e soprattutto i miei superiori, possono andar tranquilli perché non corrono il pericolo di una ristampa, se non altro per il costo!

Il Dio di Ruini

Più di quarant’anni fa, al tempo in cui ci fu una grossa emigrazione di operai dal sud al nord Italia, perché allora le fabbriche del nord “tiravano” e assumevano manodopera anche poco qualificata, partecipai ad un convegno che si tenne a Gallarate su questo argomento. La salita di cristiani del meridione in Piemonte, Lombardia e pure nel Triveneto ponevano infatti anche problemi di ordine pastorale. Mentalità, tradizioni e stili religiosi del sud emotivo e caldo, finivano per mal conciliarsi con una certa compostezza e freddezza dei cristiani del settentrione.

A questo dibattito partecipavano preti sia del sud che del nord, per cercare di capire da parte nostra la sensibilità religiosa del meridione e vedere come innestarla nelle strutture e nella sensibilità delle nostre comunità. Ricordo che di fronte ai discorsi di un prete di Napoli che menzionava le confraternite, le feste patronali e i riti tipici del meridione, un lombardo sbottò in una battuta tagliente: “Pensa, reverendo, che il vostro Dio assomigli al nostro?”.

In questi ultimi tempi sto leggendo, con tanta fatica e tanto lentamente, un grosso volume – 300 pagine – del cardinal Ruini, che ha come titolo: “Dio”. In questo recente volume il cardinale, che è stato fino ad un paio di anni fa il presidente dei vescovi italiani ed un diretto collaboratore del Papa, affronta tutte le problematiche che la cultura contemporanea sta elaborando nei riguardi dell’esistenza di Dio.

Confesso che questo testo difficile ed ostico mi incuriosisce, ma non mi fa bene, tanto che sono propenso a lasciarlo perdere. Ruini tenta di confutare tutte le posizioni degli oppositori della Chiesa attuale con argomentazioni arzigogolate, macchinose, irrequiete e talora stravaganti, almeno per me che sono persona di mediocre cultura e di grande semplicità interiore. Da questo volume vien fuori un Dio incerto e pieno di ammaccature. Mi riesce difficile, anzi rifiuto con decisione certi discorsi intellettuali, tali che arrivano ad affermare “cogito ergo sum” (penso e quindi sono). Io sono molto più vicino al famoso entomologo Faber che afferma, quasi in maniera paradossale, ma efficace quanto mai: “Io non credo perché semplicemente vedo Dio nel Creato”.

Ho l’impressione che il mio Dio sia meno misterioso e soprattutto meno problematico di quello di Ruini.

Quanto volontariato!

Una decina di anni fa ho avuto modo di ascoltare una conferenza di un responsabile a livello nazionale delle associazioni di volontariato. E’ stata, la sua, una relazione esaltante perché l’oratore, ben documentato, ha sciorinato una serie di dati sui gruppi di volontariato di ispirazione religiosa, ma pure su quelli di estrazione laica. Questo signore ci ha trasmesso la sensazione che il volontariato fosse il fiore all’occhiello della società italiana.

Da un punto di vista quantitativo non ebbi nulla da obiettare, anche perché non ero in grado di avere dati certi, però a livello qualitativo purtroppo non potevo condividere la certezza che il volontariato nel nostro Paese raggiungesse un livello di eccellenza perché, per esperienza personale, quello lombardo e piemontese è molto serio, mentre quello Veneto e dell’Italia centrale, passabile, pur con molti limiti, e quello del sud Italia piuttosto scadente, sia a livello numerico che qualitativo.

Di recente poi ho avuto modo di leggere da più parti che il volontariato, da tempo, ha avuto un certo affanno, soprattutto a livello numerico (perché questo è il dato più facilmente verificabile e quindi più certo).

Tuttavia, soprattutto da quando si è cominciato a parlare di elezioni, il fenomeno di chi avverte le deficienze e i bisogni della nostra società e il relativo dovere di accorrere al “capezzale dell’ammalato”, pare abbia avuto un sussulto di coscienza e di buona volontà. In queste ultime settimane durante le quali si stavano stilando le liste dei candidati alle varie amministrazioni dello Stato, ho potuto notare una corsa quanto mai affollata, che spesso è sfociata in una lotta accanita, per poter avere un posto nel salvataggio del nostro Paese.

Io sono in cammino veloce verso i novant’anni, ma in questo secolo non ho mai visto tanto desiderio di servire il prossimo e di offrire il proprio tempo e le proprie capacità perché i cittadini più poveri abbiano maggiori attenzioni, perché gli operai lavorino meno e guadagnino di più, perché l’amministrazione dello Stato sia più sana e meno costosa, perché finalmente in Italia regni la giustizia, la pace, l’uguaglianza e la libertà, tanto che mi dispiace quasi di stare per andarmene in Paradiso proprio quando questa schiera di volontari impegnati a ben governare la “polis” stanno per trasformare questa “valle di lacrime” in un nuovo e migliore paradiso terrestre!

A dire il vero mi pare che litighino un po’ troppo, si diano gomitate troppo frequenti e colpi bassi a non finire. Ma che cos’è tutto questo di fronte “all’età dell’oro” che stanno per offrirci? E di farlo per di più in maniera disinteressata, accontentandosi dello stipendio delle badanti e non ambendo ad una pensione superiore a quella sociale?

Fortunate le giovani generazioni che possono fruire di un volontariato così numeroso e disinteressato!

La morte del “barbone”

Nota della Redazione: ricordiamo che i gli appunti di don Armando risalgono a diverse settimane fa.

La notizia della morte per assideramento di un “barbone” su un pontile dei vaporetti in Riva degli Schiavoni ha impegnato tre colonne della cronaca di Venezia de “Il Gazzettino” e quattro righette su una sola colonna il giorno dopo. La cosa credo che sia stata ritenuta di poco conto se la si confronta con i titoloni su quattro cinque colonne dedicate alla campagna elettorale con tutte le problematiche suscitate dall’immensa folla di candidati che stanno dandosi gomitate senza esclusioni di colpi per riuscire ad ottenere la possibilità di “servire il Paese” e di offrire le loro “soluzioni miracolose”.

Il cronista ebbe ben poco da scrivere perché a chi può interessare la notizia che un “barbone” è morto di freddo in una notte senza stelle a Venezia? Credo che siano stati ben pochi i lettori della cronaca nera che si siano posti la domanda su che cosa ci fosse dietro quegli indumenti stracciati e sporchi e sullo squallore di quella morte solitaria sull’imbarcadero e meno ancora quelli che si siano chiesti che cosa si possa e soprattutto si debba fare perché queste cose non avvengano più, non tanto perché non sono convenienti per la bella Venezia e controproducenti per il turismo, ma perché non è degno di una città civile e di una Chiesa di discepoli di Cristo che un figlio di Dio viva e poi muoia così come fosse una bestia indecorosa e abbietta.

Il pensiero che questo decesso miserevole sia avvenuto quasi a ridosso delle belle, luminose e calde liturgie natalizie, mi rattrista e mi avvilisce maggiormente e di primo acchito mi è venuto da rivolgermi ai veneziani e a tutti coloro che fanno soldi con i milioni di turisti perché ci offrano un milione, e forse uno e mezzo di euro, per costruire un ostello per i senzatetto.

Noi della Fondazione siamo pronti a mettere a disposizione la superficie e, in collaborazione col Comune, a gestire una struttura del genere. Nel villaggio dell’accoglienza degli Arzeroni ci starebbe bene una simile struttura, magari un alberghetto di classe uno alla francese con una stanzetta monacale ma essenziale, pulita e decorosa, per ogni senzatetto. I cittadini potrebbero acquistare dei buoni alloggio del costo di pochi euro per darli ai poveri che chiedono l’elemosina, piuttosto che offrire loro denaro del quale essi non sempre fanno buon uso.

Non mi si dica che le parrocchie di Mestre non potrebbero assumersi questo onere! Se chi è deputato a gestire la carità dei quattrocentomila cattolici della diocesi veneziana avesse un progetto ben lucido e la volontà di dare alla carità la stessa importanza della messa e del catechismo e il coraggio di proporlo in maniera seria, nel giro di un anno al massimo l’operazione potrebbe andare in porto, per poi pensare per il prossimo anno ad un altro progetto solidale.

Tanti fratelli quanti sono gli uomini della nostra terra

Credo che per una legge di natura e per tradizione antica l’uomo sia istintivamente portato a difendere e aiutare le persone del suo sangue e della sua famiglia. Questa è certamente una legge sapiente che il buon Dio ha infuso nel cuore dell’uomo. Lo stesso comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso” codifica che l’amore deve riguardare soprattutto quelli che sono più vicini, quelli con i quali si hanno contatti più costanti, perché è facile affermare di amare uomini con i quali non si può avere nessuna dimestichezza e nessun rapporto. Tutto questo però non autorizza a trascurare chi non è della propria famiglia, del proprio clan e del proprio Paese.

Qualche giorno fa mi è capitato di rileggere il brano del Vangelo in cui l’evangelista rferisce che mentre Gesù era impegnato all’interno di una casa a parlare del Regno, qualcuno lo avvertì che “sua madre e i suoi congiunti” lo aspettavano fuori dalla porta. Al che Egli rispose: «Chi è mia madre e chi sono i miei parenti se non quelli che (forse occasionalmente) mi stanno ascoltando, interessati al mio discorso sul progetto di vita?».

Oggi, in un mondo globalizzato in cui la Terra, a motivo dei mezzi di comunicazione di massa, è diventata un “villaggio”, questo discorso diventa più di sempre vero ed attuale. Però sono ancora pochi quelli che lo sanno tradurre in regola di vita ed in esperienza personale.

Penso che Raoul Follereau abbia vissuto questa dimensione dell’amore quando affermò: «Io ho a questo mondo tanti fratelli quanti sono gli uomini e le donne che abitano questa terra» e poi, coerentemente, spese tutta la sua vita per la salvezza dei lebbrosi del mondo intero e pregò: «Signore non permettere che io tenti di essere felice da solo».

Oppure penso al giovane scout Guy De Larigaudle che avendo notato il manifesto di una bellissima attrice, protagonista di un film in programma nei cinema di Parigi ed avendo pensato che dietro quei grandi occhi suadenti e ai bellissimi capelli platinati c’era certamente un cuore di donna con i suoi drammi, entra in una chiesa, ringrazia Dio per tanta bellezza e prega perché la faccia essere felice.

Ascoltare seriamente il messaggio di Gesù sull’amore, comporta anche avere queste convinzioni e questi comportamenti.

Gesu’ a nozze

Quest’anno spero proprio che il mio sermone a commento delle Nozze di Cana abbia fatto centro. Durante la predica c’è stata un’attenzione perfino superiore a quella ottima che registro ogni domenica nella mia “cattedrale fra i cipressi”.

La mia chiesa, che a molti dà l’impressione di una calda ed intima baita di montagna in cui si trovano cari e vecchi amici, è quanto di meglio un prete possa sperare. A me il buon Dio ha fatto questo splendido dono, per cui lo ringrazio cento volte al giorno. Per un vecchio prete che si avvia velocemente verso la novantina, che è conscio dei limiti di sempre e pure di quelli aggiunti dall’età, incontrare ogni domenica una comunità così cara ed attenta, è quanto di meglio un sacerdote possa desiderare. Però devo ammettere che talvolta, in particolare, la parola di Dio sembra calarsi come una dolce carezza che scalda il cuore e che aiuta a sentire quanto il buon Dio ci vuole bene e quanto sia bello camminare tenendoci per mano verso la Terra Promessa.

Già dal momento in cui ho cominciato a riflettere sul sermone da tenere fui avvolto da un’ebbrezza interiore che spero di aver trasmesso ai miei fedeli, così da aiutarli a fare una bella esperienza religiosa come dovrebbe avvenire ogni domenica.

Il sermone si è sviluppato su questi tre argomenti:

1) Gesù, con la sua partecipazione a nozze, abbraccia anche gli aspetti più festosi della vita. Ho notato da sempre, con perplessità, che la religiosità dei cristiani mostra sempre qualche reticenza e preoccupazione nei riguardi della felicità, dell’amore e del sesso. Ho capito finalmente fino in fondo che Gesù non la pensa così, infatti disse: «Sono venuto perché abbiate la gioia e la vostra gioia sia grande». Non bisogna temere, anzi dobbiamo godere appieno delle cose belle della vita, perché esse sono un vero e grande dono di Dio.

2) Gesù comincia la serie dei miracoli apparentemente con un “miracolo superfluo”, non strettamente necessario, e quindi ho riflettuto con la mia gente che anche i nostri involucri multicolori che avvolgono certi aspetti della vita hanno la loro importanza, che non si devono guardare con superiorità, ma anzi usare abbondantemente.

3) Gesù dona non solamente del vino, ma dell’ottimo vino, anche quando avrebbe potuto offrire un vinello da supermercato. La carità va fatta e va fatta bene, senza tirchierie, senza musi lunghi, ma spontaneamente e gioiosamente e con generosità.

A pensarci bene questi discorsi non sono quanto mai impegnativi, ma sembrava, quando li ho fatti nella predica, che i fedeli avessero scoperto l’America, tanto si è abituati, nel pensare comune dei credenti, alla legnosità, al negativo e alla paura del bello e di ciò che rende felice e gioiosa la vita.

La Marini

Ho confidato, anche nel passato, il mio sconcerto nell’apprendere che i giovani di oggi praticamente rifiutano il matrimonio.

Quando ho letto che anche nel patriarcato di Venezia ormai i matrimoni celebrati con rito civile superano di gran lunga quelli religiosi, sono stato pressoché interdetto, perché fino a trent’anni fa si contavano sulle dita di una mano quelli civili.

Ora, non so se per la moda, per paura di un vincolo stabile, per motivi economici, per rifiuto dei corsi prematrimoniali obbligatori o per assoluta indifferenza religiosa, stanno diventando mosche bianche i giovani che si sposano in chiesa. Ma da quanto ho potuto capire attualmente sono entrati in crisi anche i matrimoni celebrati in Comune da qualche funzionario munito di fascia tricolore.

L’ultima moda sembra essere quella della convivenza. Purtroppo constato che “saltano” in ugual misura sia quelli religiosi che i civili, ed ugualmente le convivenze. Anche le unioni nuziali e quelle similari sembrano galleggiare su “valori liquidi” estremamente mobili e di nessuna consistenza.

In una situazione del genere venire a sapere che una ragazza un po’ attempata e che non ha brillato proprio per moralità, si è sposata in chiesa, dovrebbe fare enormemente piacere ad un vecchio prete come me che, anche in queste cose, si rifà fatalmente al suo “piccolo mondo antico”. Invece no! Quando una mia fedele, avanzata negli anni – ma non troppo – mi ha chiesto: «Non ha letto, don Armando, che la Marini, quella dei film erotici di Tinto Brass, si è sposata?», ho risposto di no, perché certo io non leggo mai queste notizie di cronaca (non so se definirla rosa o nera). Lei soggiunse, scandalizzata ed indignata: «S’è sposata, e in Vaticano!» (penso abbia voluto dire “in San Pietro”, madre di tutte le chiese). E poi, con un affondo finale: «Dio sa quanto avrà pagato!».

Io devo essere l’ultimo a scandalizzarsi per la “pecorella smarrita” o per il “figliol prodigo”, però penso che un po’ di discrezione per queste cose e per questi personaggi ci vorrebbe proprio! Con tante chiese che si trovano ovunque, quel prete che l’ha preparata al sacramento nuziale penso che avrebbe potuto suggerirle di entrare in chiesa in punta di piedi e senza l’abito bianco.

Spero tanto che non c’entrino i soldi, però credo che il buon Orazio abbia ancora ragione, quando afferma che “ci sono certi limiti al di qua e aldilà dei quali non c’è il giusto”. Ora non vorrei proprio apprendere che ci sia anche di mezzo un vescovo o, peggio ancora, un cardinale!

La preghiera di un “miscredente”

Un magistrato in pensione, in onore della sua cara e calda amicizia, spesso mi passa libri, dischi e films che egli intuisce che mi possono interessare quanto mai. Essendo questo signore ormai in pensione, dopo essere stato presidente per il tribunale dei minori a Venezia e avendo perduto la sua cara consorte un paio di anni fa, si dedica ora alla lettura, alla musica e all’amato sport della bicicletta.

Laureato alla “Cattolica” di Milano, questo magistrato ha acquisito un sottofondo culturale di notevole spessore, che aggiorna costantemente seguendo la produzione letteraria contemporanea che affronta tematiche sociali e religiose, vedendo film di contenuto elevato e, nello stesso tempo, vivendo la vita religiosa con grande semplicità. Io, come con tutti, gli dedico poco tempo, ma egli, con grande discrezione, mi rende partecipe della sua ricerca spirituale.

Qualche settimana fa mi ha passato una bella preghiera, che pubblico in questo numero de “L’Incontro”, e con fare un po’ sornione mi ha chiesto che, dopo averla letta, gli facessi sapere chi io ritenessi ne fosse l’autore. Ho letto con particolare attenzione questa preghiera; notai che non aveva nulla del lagnoso che spesso hanno le preghiere, anzi intuii, specie nel finale, un lieve sapore critico per la religiosità ufficiale e di maniera.

Tentai, pur sapendo che non era credente e che si era suicidato, di attribuirla a Primo Levi, sapendolo un uomo che ha sperimentato tutta la meschinità dell’uomo sadico e prepotente. Sennonché il mio amico, con un altro sorriso sornione, mi disse che l’autore era Voltaire, il pensatore laico del secolo dei lumi. Al che obiettai: «Ma Voltaire non era ateo?». Il magistrato mi chiarì: «No, Voltaire era anticlericale, non ateo!». Capii subito che il pensatore francese ne aveva ben donde per essere anticlericale, dopo il comportamento dell’alto – ma anche del basso – clero dei suoi tempi.

Riflettei a lungo e seriamente su questo argomento, arrivando ad una conclusione quanto mai amara per chiunque, soprattutto per un prete quale sono io: l’anticlericalismo, piuttosto che un segno di areligiosità o di ateismo, credo che lo si debba considerare segno di una ricerca e di un bisogno di una religiosità autentica. Il discorso si farebbe lungo e triste su questo argomento; per ora mi limito a tentare di trarne le conclusioni per quanto mi riguarda.

Dio

Il mio “primo amore” è stata certamente la parrocchia di San Lorenzo, ove ho fatto le mie prime esperienze di giovane prete. Da questo amore, mai spento, nasce la particolare e costante attenzione allo sviluppo religioso di quella comunità in cui ho imparato che il messaggio cristiano ha ancora mille prospettive di sviluppo qualora sia offerto in linea con la sensibilità della gente del nostro tempo.

Seguo le vicende della vita pastorale di San Lorenzo, soprattutto con la lettura del foglio settimanale “La Borromea” spinto dal fatto di esserne stato cofondatore con monsignor Vecchi nel 1968. “La Borromea” fu il primo foglio parrocchiale apparso nella nostra città ed ha tratto origine da un (per me famoso) “pellegrinaggio pastorale” che, attorno a quegli anni, feci con Monsignore in Francia, Paese che a quel tempo era all’avanguardia nel campo della pastorale.

Ebbene dalla “Borromea” appresi qualche tempo fa il progetto che mons. Bonini sta portando avanti con gli studenti universitari della casa studentesca San Michele e quella della parrocchia. Don Fausto ha denominato questo ciclo di incontri giovanili “Cercatori di Dio”, rifacendosi alla famosa caccia all’oro che ebbe luogo in America un paio di secoli fa.

Questo ciclo di incontri, portato avanti con il metodo seminariale, per arrivare ad una conoscenza più approfondita di Dio, mi fece venire in mente un articolo-confessione apparso su “Epoca” un paio di decenni fa, in cui il famoso giornalista Augusto Guerriero, che si firmava sul settimanale con lo pseudonimo di “Ricciardetto”, scriveva allora che aveva cercato Dio appassionatamente, ma non era stato capace di trovarlo.

Il giornalista intitolava il suo articolo “Quesivi et non inveni” (Ho cercato ma non ho trovato). Nel giro di pochi giorni Carlo Carretto, il famoso presidente della Fiac del dopoguerra, che s’è fatto “piccolo fratello di Gesù”, rispose: “Quesivi et inveni!”, discorso di cui ha fatto poi oggetto di un libro. La “corsa all’oro” anche oggi può avere un risultato positivo. Dio si fa trovare anche dagli uomini di oggi, però lo si deve cercare veramente, senza preconcetti, con grande impegno, senza presunzioni e con animo semplice ed aperto.

Sto leggendo un libro del cardinal Ruini su “Dio”, un testo difficile con infinite citazioni dei pensatori più irrequieti del nostro tempo, animi aggrovigliati, irrequieti e sconclusionati. Per quella strada credo che Dio rimanga sconosciuto per sempre.

Con mia grande consolazione ho appreso invece, alcuni anni fa, che il famoso giornalista di “Epoca” era finalmente approdato alla fede ed era morto in pace con Dio, perché aveva continuato a cercarlo con onestà intellettuale.

Latitanze

Qualche tempo fa un mio vecchio collaboratore, colpito da una lunga malattia, mi ha rimproverato pubblicamente di non essere andato a trovarlo. Aveva ragione! Come hanno ragione altre persone alle quali voglio veramente bene, ma che so di trascurare.

Al vecchio amico del rimprovero ho scritto per chiedergli scusa, aggiungendo poi alcuni motivi che ho ritenuto attenuanti, ma che dubito lui abbia accettati come validi.

Onestamente comprendo ed approvo il desiderio di chi è in difficoltà, di voler accanto un prete conosciuto. Nel mio animo partecipo ai drammi di una infinità di persone che il mio ministero mi ha fatto incontrare, spesso prego ora per l’uno, ora per l’altro quando i loro volti, per i motivi più diversi, emergono dalle nebbie della memoria, però spesso sono latitante e, per questi vecchi amici, deludente.

Questo problema me lo sono posto migliaia di volte, facendo propositi su propositi, però finisco sempre per lasciarmi assorbire dai miei impegni, che poi sono sempre di carattere pastorale, ma che riguardano la collettività piuttosto che l’individuo.

Io confesso che non riservo mai tempo per me, che non me ne resto mai ozioso o disimpegnato, che spendo ogni risorsa per il bene morale o fisico del mio prossimo, che le mie giornate sono piene zeppe per mantenere gli impegni che ho ritenuto doveroso prendermi, però non riesco proprio a trovare il tempo per amicizie particolari o per prestare attenzioni continuative e prolungate ai singoli.

Recentemente è morto monsignor Zardon, che pressappoco aveva la mia età ed era ancora parroco di una piccolissima parrocchia di Venezia. La stampa, ma pure alcune persone, m’han detto che rimaneva nella sua chiesa da mattina a sera, seduto in un banco della sua chiesa, dedicando il tempo a parlare con persone che andavano a cercarlo.

Ho appena letto un brano di san Paolo che afferma che ognuno ha i suoi doni e i suoi carismi specifici, ma ne possiede uno, non tutti; mi auguro che questa sia per me una attenuante e perciò credo che dovrò continuare a dedicarmi alla collettività piuttosto che ai singoli, lasciando ad altri questo compito gratificante per quei, relativamente pochi, che ne possono beneficiare.