Amore

Ogni mattina verso le sette, prima di partire per “il lavoro”, do una scorsa veloce al “Gazzettino”, che puntualmente suor Teresa mi porta a casa. La lettura del quotidiano quasi sempre mi avvilisce perché presenta sempre il volto più deludente e squallido della vita.

Qualche volta mi sono persino preso la briga di contare quanti sono gli articoli con notizie positive e quanti quelli di cronaca nera. Finora le positive non hanno mai superato il cinque per cento e per di più sono tutte confinate in angoli marginali e con titoli minuti, mentre le notizie di beghe politiche, scandali, ruberie, vicende di prostitute, contrasti sindacali, omicidi, fatti di sangue in famiglia e pettegolezzi di ogni sorta, campeggiano trionfanti su ogni pagina del giornale. Fortunatamente, nella mia vita quotidiana, il rapporto tra il bianco e il nero mi risulta all’opposto, altrimenti ci sarebbe proprio da disperarsi.

Stamattina stavo riflettendo sulla funzione negativa della stampa che finisce per educare al male a causa della sua ossessiva mania di assecondare la morbosità del lettore e per la preoccupazione di vendere più copie, quando, una volta ancora, notai un anziano signore che, a capo scoperto nonostante la rigidità della temperatura, stava in meditazione e preghiera di fronte alla tomba di sua moglie seppellita vicino al vecchio ingresso del nostro cimitero. Avevo appena letto il titolo di quattro, cinque fatti di sangue avvenuti in famiglia, con mariti violenti nei riguardi di mogli e conviventi, quando la testimonianza d’amore di questo vecchio signore che “incontro” ogni mattina m’è apparsa ancora più bella e sublime. L’amore “vecchio stampo” è qualcosa di veramente grande e sacro, che dà nobiltà alla vita e positività al rapporto tra uomo e donna.

Mi sono quasi irritato constatando che non c’è mai un cronista che informi su questi aspetti belli e grandi che si possono ancora oggi cogliere nella quotidianità della vita.

Per me la presenza silenziosa di quest’uomo provato dal lutto di fronte alla tomba della sposa è, ogni mattina, un contrappeso di cui ho veramente bisogno per credere ancora all’amore vero.

Il contrappeso

Qualche giorno dopo l’incontro col Patriarca e i colleghi al “don Vecchi”, ho avuto modo di partecipare alla riunione del consiglio di amministrazione della Fondazione, che mi ha “ricaricato” di sogni, progetti, coraggio e di ottimismo.

Il consiglio di amministrazione della Fondazione si riunisce ogni due settimane ed è diretto da don Gianni, il giovane parroco di Carpenedo che sprizza scintille. A sentire questo prete, pare che nella vita non ci siano ostacoli o, quando si incontrano, sembra che faccia parte del gioco saltarli senza esitazione e senza paura, che anzi eccitino a pigliarli di petto.

Il Comune, dopo la sua resa di darci l’area di viale don Luigi Sturzo per l’opposizione di qualche cittadino tutto preoccupato del proprio benessere e per nulla attento e disponibile al bisogno degli altri, ci ha proposto l’assegnazione, in diritto di superficie, di un’altra area praticamente interclusa e gravata da un’infinità di problematiche a livello catastale e di legami legali. Anche le persone più coraggiose, di fronte a quella tela di ragno, avrebbero desistito, mentre don Gianni, con pazienza certosina e fine abilità, ha dipanato quella matassa quanto mai imbrogliata. Ma i suoi collaboratori diretti, il ragionier Rivola, il geometra Groppo e il geometra Franz non sono da meno. Lanfranco Vianello, pure lui consigliere, e il sottoscritto, invitato per cortesia, si sono riservati la funzione di pungolare questi “cavalli di razza”.

L’ultima riunione del consiglio mi ha, più che entusiasmato, letteralmente galvanizzato. E’ stato appena approntato il progetto e reperito il relativo finanziamento, mentre non è ancora partito il cantiere del “don Vecchi 5”, la struttura pilota per anziani in perdita di autosufficienza, che già s’è posto sul tavolo un ventaglio di proposte per una nuova struttura d’accoglienza per i mariti divorziati, i disabili che cercano una vita autonoma ed un ostello per operai ed impiegati fuori sede.

Mentre ascoltavo, deliziandomi, questo fuoco di artificio di progetti di persone che non temono il futuro, ma anzi lo sfidano e ne vanno all’assalto, m’è venuto da pensare che se il Patriarca fosse capace di reclutare una cinquantina di persone del genere che, nonostante la famiglia e la professione, sono disposte ad impegnarsi come volontarie per l’aiuto ai cittadini più fragili, potrebbe dormire sonni più tranquilli.

In passato ho letto una preghiera in cui si chiede al Signore di mandare “uomini folli” per salvare il nostro mondo. Io proporrei che alle preghiere dei fedeli se ne aggiungesse, in tutte le parrocchie e in tutte le messe, una per ottenere anche “preti folli” perché di prudenti, pii, equilibrati e benpensanti ne abbiamo fin troppi, nonostante la carenza del clero.

I miei colleghi

Dopo tanto tempo ho partecipato ad una riunione dei sacerdoti di Mestre, un po’ perché l’incontro s’è tenuto al “don Vecchi” ed un po’ ancora perché il nuovo Patriarca m’ha fatto osservare che sarebbe opportuno che partecipassi almeno alle riunioni più importanti.

All’incontro erano presenti una quarantina tra preti e diaconi, per la maggioranza parroci. Oggi la stragrande maggioranza delle parrocchie di Mestre può contare solamente sul parroco; infatti i cappellani, ossia i giovani preti, sono pressoché scomparsi. Un tempo ero fortemente preoccupato per questo fatto, ora sono più sereno perché ritengo che questa carenza stimolerà i laici ad assumersi quelle responsabilità all’interno della Chiesa che i preti sono stati sempre restii a delegare. Ora la Provvidenza sta costringendoci a fare quello che con un po’ di fiducia e di lungimiranza avremmo dovuto fare almeno da un trentennio.

Il fatto che almeno da un paio d’anni non facessi l’esperienza di queste “congreghe” m’ha reso particolarmente sensibile e reattivo. L’argomento verteva soprattutto sul tempo in cui conferire la cresima e sull’abbandono della pratica religiosa da parte degli adolescenti.

Più di una volta, davanti a certi discorsi accomodanti, vellutati e privati di qualsiasi angolo sarei stato tentato di intervenire con quella rude franchezza che mi ha creato tanti “nemici”, però fortunatamente mi sono trattenuto, ricordandomi che il Patriarca, nell’incontro di presentazione avvenuto qualche settimana fa, m’ha detto che sono vecchio. Non avendo ancora capito cosa volesse dirmi, perché sarebbe stato perfino banale che si riferisse solamente alla mia età anagrafica, mi sono limitato ad ascoltare.

A dire il vero i discorsi dei colleghi non mi sono parsi troppo esaltanti, m’è parso di avvertire tanta rassegnazione, atteggiamento di ripiegamento e di difesa, non ho avvertito un guizzo di ottimismo, di coraggio, un tentativo di balzare fuori dalla trincea per andare al contrattacco, di consapevolezza di avere un messaggio valido, anzi il più valido a rispondere alle attese vere dell’uomo di oggi. Troppe parole mi sono sembrate acquistate al mercatino delle cose usate o, al massimo, all’ipermercato. Ho sentito pensieri “stanchi” e soggezione per la cultura del nostro tempo.

Alla sera, facendo l’esame di coscienza, mi sono chiesto: “Io sono forse un don Chisciotte, o l’ultimo dei moicani?”. Comunque ho deciso di tenermi alla larga da simili incontri perché, almeno secondo me, non mi fanno bene.

Nota dell’autore

Nota della redazione: questa riflessione è stata scritta diverse settimane da e ora il volume “Tempi supplementari” è disponibile nella Chiesa del cimitero, al don Vecchi, all’Angelo e in tutti i luoghi indicati nei vari numeri de L’Incontro.

Oggi ho stilato una “nota d’autore” come prefazione del nuovo volume “Tempi supplementari”, che raccoglie il diario dello scorso anno. Lo anticipo all’uscita dell’ultima raccolta delle mie riflessioni quotidiane, perché penso che, tutto sommato, faccia il punto della mia vita di vecchio prete che spesso ritorna con nostalgia e rimpianto al suo passato, ma che non si è ancora arreso e desidera spender al meglio quel poco che gli resta, perché vorrebbe che “la morte lo incontrasse ancora vivo”.


Per evitare l’ulteriore disagio che provo ad offrire ai miei concittadini delle riflessioni povere, disadorne e spesso scontate, avevo trovato il coraggio di chiedere ad una cara collaboratrice de “L’incontro” di presentare brevemente il mio “diario” del 2012 e lei, con amabile gentilezza, aveva accettato di farlo. Poi però, ancora una volta, vi ho rinunciato perché sono certo, che per farmi piacere, avrebbe usato parole care e avrebbe taciuto sui limiti dei miei pensieri, sulla loro ripetitività e soprattutto sulla loro notevole modestia perché essi non hanno un supporto culturalmente adeguato.

Quindi, sperando di avere ancora sufficiente lucidità nel conoscere i miei limiti, ho preferito ancora una volta essere io, pur arrossendo, a motivare la mia scelta di raccogliere in questo mio ultimo volume le riflessioni che ho maturato lungo i giorni dello scorso anno.

Forse la mia è una delle tante illusioni, o peggio ancora una presunzione, pensare che siano così rare le voci libere nella nostra città e pure nella Chiesa locale, che abbiano la voglia o l’ardire di offrire, seppure con rispetto ed amore, il loro contributo anche se un pizzico controcorrente dall’opinione prevalente e credere doveroso da parte mia compiere questo “servizio” pur sapendolo non sempre ben accetto.

Ripeto che il mio pensiero è nato nel secolo scorso e perciò risente, oltre che della sua vecchiaia, anche, ripeto, del limite di un prete che è vissuto sempre ai margini ed in periferia, che si è impegnato da “manovale” nelle cose della Chiesa e che non ha quasi mai frequentato “i salotti” della cultura laica ed ecclesiale. Non credo proprio di essere espressione del dissenso e della fronda – perché non ho mai inseguito questo obiettivo ma spero di essere almeno la voce della “base”, dei poveri, di quelli che non contano e “tirano la carretta” da sempre. Questo mi basta per motivare l’uscita del volume.

Vi debbo ancora una nota per giustificare il titolo: “Tempi supplementari”.
Fra pochi giorni avrò 84 anni e se questa età non fosse sufficiente per considerarla una “aggiunta” alla vita normale, non saprei proprio quando considerare finiti i tempi regolamentari. Vivo questo tempo, che so breve, con il desiderio di “fare centro”, di non sprecare un solo minuto ed una sola occasione, perché vorrei tanto spendermi tutto, andarmene senza pesi ed ingombri, con assoluta libertà.

Se a qualcuno possono interessare le opinioni di un vecchio prete “libero ma fedele”, eccomi! Se trovate anche qualcosa di buono, sono qui ad offrirvelo di cuore.

don Armando Trevisiol

“Redenta”

La settimana scorsa ho sentito il bisogno di presentare ai miei amici una rivista mensile che porta a conoscenza dell’opinione pubblica la singolare esperienza di suor Elvira, una suora a cui andava troppo stretto il convento “vecchio stampo” e quindi ne uscì per dar vita ad un’esperienza religiosa semplicemente meravigliosa.

Questa suora, sulla sessantina, senza una qualifica specifica, si è buttata a capofitto nella stupenda avventura del recupero dei giovani che si sono abbrutiti ed hanno tentato di evadere da un serio confronto con la realtà della vita, lasciandosi risucchiare dal terribile gorgo della tossicodipendenza o dalle varie devianze che inghiottono una falda tanto larga di giovani di oggi.

Ho parlato del fascino delle foto che ritraggono tanti volti puliti e sorridenti, intenti al lavoro o alla preghiera; mai avrei potuto immaginare che nel loro passato erano come quei gruppuscoli di “rifiuti d’uomo” che purtroppo si incontrano in determinati luoghi della nostra città. Ho pure riferito delle stupende testimonianze di giovani che raccontano le storie della loro redenzione e che ogni mese sono pubblicate nella rivista “Redenzione”.

L’avventura umana di questa suora e le comunità a cui ella è riuscita a dar vita, hanno qualcosa di miracoloso, per nulla confrontabile ai magri risultati che i vari “Sert” (organizzazione statale per il recupero) riescono a fare, che sono anzi spesso fonte di disagio per i cittadini che abitano vicino ai luoghi dove essi si trovano.

Qualche giorno fa al “don Vecchi” mi è capitato di incontrare due “ragazze di suor Elvira” che erano venute ad acquistare dei vestiti per una rappresentazione che avevano deciso di fare nella loro comunità. Erano talmente pulite e belle che pensai subito che fossero due religiose del nuovo ordine fondato da questa suora prodigiosa, ma loro mi dissero che erano due “redente”.

Ho ancora negli occhi quei bei volti sorridenti e puliti. I vestiti non erano alla moda: due sottane piuttosto lunghe e ruvide, però i loro occhi erano belli e pieni di fascino come due perle preziose.

La formula pedagogica che suor Elvira attiva per rigenerare questi poveri ragazzi e ragazze, caduti tanto in basso, è semplicemente carità e preghiera.

Una volta ancora ho capito che la verginità non ha nulla a che fare col nostro corpo, è lo splendore dello spirito che sprigiona dolcezza, soavità, armonia e bellezza.

Mi è amaro il pensiero che troppe donne meravigliose si inaridiscano e si sciupino dentro conventi o in organizzazioni religiose che in realtà non credono alla vita e all’amore.

Il pettirosso

La cronaca di ogni giorno è per tutti un tessuto fatto di mille fili che, presi uno ad uno, sembrano banali ed insignificanti; poi però, nel loro insieme, guardandoli a sera, spesso rispecchiano un progetto ed offrono messaggi che caricano la giornata di una sua funzione specifica che sarebbe sempre utile accogliere come un dono o un ammonimento. Talora però questi fili della trama del quotidiano hanno un colore più carico e diverso, che attira attenzione ed offre da solo un messaggio specifico.

Ho riflettuto a lungo su questo discorso qualche mattina fa per un episodio particolare che si è ripetuto per ben tre volte di seguito. Come ho confidato molte volte, io mi alzo di buon mattino, poco dopo le cinque, perché quello dell’inizio della giornata lo reputo un tempo di quiete perché nessuno bussa alla mia porta e soprattutto non squilla il cellulare, un tempo che credo opportuno dedicare alla riflessione e alla preghiera.

Normalmente, mentre riordino la mia persona, apro la porta-finestra che dà sulla terrazza per il ricambio dell’aria: un gesto abitudinario. Sennonché, per tre mattine di seguito, è entrato nel soggiorno un pettirosso, un gomitolino di piume forse attratto dalla luce e dal tepore, ma che ben presto si è sentito imprigionato tra le pareti bianche della stanza.

Dopo la prima sorpresa, ho spalancato la porta-finestra perché ritrovasse la sua libertà e infatti, dopo due o tre tentativi, scoperto il varco aperto, s’è rituffato nel cielo ancor buio per cinguettare il suo discorso che per me rimane misterioso e sconosciuto.

Come sempre, ho ripreso prima la recita del breviario, poi il testo della meditazione, però il mio pensiero è ritornato spesso all’avventura mattutina del pettirosso. I pensieri si susseguirono a grappolo: “Da dove è venuto, dove andrà, che funzione avrà nell’ecosistema, come si nutrirà, sarà felice?”.

Mi venne in mente l’introduzione del catechismo olandese che porge il messaggio di Gesù per l’uomo con l’immagine di un uccello che entra improvvisamente in una sala, vi rimane pochi istanti, per volare via verso il mistero.

“Tale – dice quel catechismo – è la vita dell’uomo. Tutto è Provvidenza, tutto è previsto nel progetto di Dio”, ma mentre il pettirosso si lascia condurre dalla provvida mano del Signore, io mi inquieto, mi tormento e mi carico di problemi inutili, quando sarebbe tanto più semplice e più saggio lasciarsi condurre fiduciosamente da quel Signore che se provvede al pettirosso, penserà anche a me.

Nessuno è profeta

Per Capodanno ho ricevuto una lettera, che trascrivo, da parte di un confratello, parroco di una grossa comunità della diocesi di Padova, collega che molto tempo fa, essendo venuto a conoscenza de “L’incontro”, mi ha chiesto il favore di inviarglielo. Questa lettera mi è stata molto di consolazione e di conforto perché credo che non mi sia mai capitato di ricevere un segno di consenso, e meno ancora di complimento, da parte di alcun prete della mia diocesi.

A dir il vero, appena arrivato in diocesi, il cardinale Scola, avendo letto qualche numero del periodico, m’aveva detto che esso era uno strumento quanto mai valido a livello pastorale e mi aveva incoraggiato a continuare. Poi però, dopo “l’incidente” delle vacanze del Papa (quando, avendo appreso dai giornali che queste vacanze avevano un costo – almeno per me – enorme, esorbitante e quindi inaccettabile per un cristiano, avevo manifestato il mio dissenso su “L’incontro”, intervento che la stampa nazionale aveva ripreso dandogli un risalto eccessivo) il vecchio Patriarca non era più tornato sull’argomento del periodico. Mentre c’è stato il silenzio e, talvolta, qualche critica dei colleghi, ho sempre raccolto tanti consensi dai cristiani comuni.

Ora m’è giunta questa lettera che mi conforta facendomi sperare che anche a questo riguardo sia valida l’affermazione evangelica che “nessuno è profeta in casa propria”. Ed ecco la lettera da cui tolgo, per discrezione, ogni elemento di riferimento.

03.01.2013
Carissimo don Armando,
voglio ringraziarla per il dono che mi fa ogni settimana col suo “L’incontro”. La ammiro per la sua parola sincera, libera e carica della passione del Pastore che ama tutti, particolarmente le “pecore” più deboli, come gli anziani. Questo è di stimolo anche per me a dedicarmi con amore e predilezione a questa categoria di persone.
Spero nella sua buona salute e gliela auguro di cuore. Prego con lei e per lei, perché il Signore esaudisca ogni suo desiderio di bene.
Conto sempre sulla sua amicizia, come io le assicuro la mia.

Una scoperta tardiva

Quando ero bambino, l’insegnante di catechismo mi aveva detto che dentro al cuore di ogni uomo c’è, si, l’angioletto, ma anche il diavoletto. Mentre l’angelo ci suggerisce cose buone, il diavolo cerca di tirarci dalla parte opposta. Un buon bambino non deve mai ascoltare lo spirito cattivo, anzi ogni volta che egli tenta di suggerire qualche cosa, ci si deve tappare le orecchie e rifiutare in maniera assoluta di ascoltarlo.

In verità, durante tutta la mia vita, ho dovuto lottare duramente contro “l’avvocato del diavolo” che puntualmente “mi ha fatto le pulci” ogniqualvolta mi venivano proposte le tesi della Chiesa sui vari problemi della vita.

Confesso che è stata una faticaccia non prendere in considerazione discorsi che non sempre mi sembravano sballati, assurdi ed irrazionali. Ho tentato di salvarmi aggrappandomi a Mauriac che affermò che “i fiori del male” appaiono sempre affascinanti ma, se colti, diventano deludenti. Tuttavia, leggendo una recente biografia del cardinale Martini “Il profeta del dialogo”, ho fatto una scoperta che m’è parsa liberatoria, che mi fa rimettere in discussione le fatiche di Sisifo di un’intera vita per dover rifiutare di prendere in considerazione “le tesi del diavolo”, ossia le posizioni dottrinali dei non credenti o dei “lontani”.

Bisognerebbe che riportassi tutto il capitolo sesto del volume “La cattedra dei non credenti” che, a giudizio dello stesso Martini, non è stata istituita principalmente per convertire gli atei, ma soprattutto per motivare, far prendere coscienza, provare e purificare la fede di chi crede. Eccovi un paio di passaggi.

“…Presentandola, il prelato spiegava: «Ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un credente e un non credente che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente uno all’altro domande pungenti e inquietanti. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa. E’ importante percepire questo dialogo perché permette a ciascuno di crescere nella coscienza di sé. Quindi Cattedra dei non credenti vuol dire che ciascuno è invitato a svegliare le domande che il non credente, che è una parte di se stesso, pone al credente, che è l’altra parte». Dunque non si tratta di un’iniziativa indirizzata, innanzitutto, a chi non crede, ma piuttosto di una provocazione pensata in primo luogo per i credenti. Un dialogo che ancora prima di esprimersi nella parola o nello scritto, si svolge nell’interiorità di ciascuno. Un invito a pensare. Un invito a porsi domande”.

La formula attrae molto: non è né conferenza né predica, né apologetica, ma è far emergere le domande che abbiamo dentro. Significa inquietare chi crede, per fargli vedere che forse la sua fede è fondata su basi fragili, e inquietare chi non crede, per fargli vedere che la sua incredulità non è mai stata approfondita.

Confesso che tante volte mi sono sentito solo, perché ho dovuto sempre sostenere dentro di me un conflitto interiore, scomodo e lacerante, mentre tanti dei miei “vicini” mi sembravano paciosi forse più per non aver grane e non far fatica che per convinzioni maturate al crogiolo, e dall’altro lato mi sembra di constatare che la verità assoluta non è prerogativa del “fedele”, del “credente” o del “praticante”, perché anche chi è sull’altra sponda non ne è in assoluto privo, anzi è provvidenziale, per la mia fede, che egli dissenta da ciò che io credo.

Resurrezione

La comunità “Cenacolo”, che io ho conosciuto tramite una cara volontaria che presta la sua collaborazione presso il Banco alimentare del “don Vecchi”, mi fa pervenire mensilmente la bella rivista “Resurrezione”, che è l’organo di una Onlus che si occupa del recupero dei tossicodipendenti.

Questa comunità è stata fondata da una certa suor Elvira, una religiosa che una ventina di anni fa ha ottenuto il permesso di uscire da una delle tante congregazioni femminili ormai ammuffite e stantie e ne ha fondata un’altra che ha come scopo il recupero dei molti soggetti che sono caduti in una delle tante devianze del nostro tempo, ed in particolare il recupero ad una vita normale dei tossicodipendenti.

Questa suora, in un tempo relativamente breve, ha aperto più di una sessantina di comunità in Italia, in Europa e in tutto il mondo. Lo sviluppo di questo istituto religioso e delle case da esso aperte, ha veramente del miracoloso. Di lei e della sua opera ho parlato più di una volta su “L’incontro” e spesso ho pubblicato delle bellissime testimonianze che la rivista riporta in ogni numero nella rubrica “Testimoni di speranza”. Sono storie raccontate in prima persona da parte di ragazzi entrati in una di queste comunità fondate da suor Elvira e che hanno trovato qui la loro “resurrezione”.

Quando mi arriva la rivista, per prima cosa guardo le foto, poi leggo i titoli, perché sono immagini e parole che sempre sprizzano vita, gioia e ottimismo. Normalmente queste foto che riportano il volto dei “redenti” e delle religiose che si occupano di loro, sono immagini di ragazzi e ragazze che esprimono allegria, ripuliti dalla vita in comunità che ha adottato, come metro per il recupero, la proposta e la vita di un cristianesimo integrale.

Ogni volta che apro la rivista ho la sensazione che il vivere seriamente le proposte del Vangelo di Gesù porti ad essere felici e a servire in letizia chi ha bisogno di un aiuto fraterno. Quando poi comincio a leggere le varie testimonianze, respiro un’aria di entusiasmo, sento come la gente ha ritrovato la strada in una vita serena, aperta e felice, raggiunta attraverso la preghiera.

La rivista “Resurrezione”, che fotografa la vita di queste comunità di recupero dei “rifiuti d’uomo”, è qualcosa che mette ali al cuore e fa capire che il vivere seriamente ciò che Gesù è venuto a insegnarci, è il modo migliore per vivere una vita libera e bella.

Bene e male

I digiuni di Pannella, gli interventi senza numero dei radicali, i tentativi della signora Severino, ministro della giustizia, le esternazioni dell’ergastolano Musumeci e le condanne dell’Europa, oltre ai frequenti articoli sulla stampa, mi hanno reso ultrasensibile al problema delle carceri, che in Italia sembrano essere quelle di parecchi secoli fa.

L’ipocrisia sfacciata degli addetti alla giustizia che dichiarano spudoratamente che il carcere ha la funzione di educare e di redimere, mentre in realtà non fanno che “torturare” i cittadini che hanno sbagliato, costringendoli poi a frequentare una scuola superspecializzata del crimine, qual è oggi il carcere che insegna a delinquere, mi sta indignando ogni giorno di più quando tocca questo nervo nudo che reagisce ogni giorno sempre più intensamente.

Qualche giorno fa un certo tribunale ha condannato a sei anni di reclusione alcuni giovani mascalzoni che a Roma, in una delle tante manifestazioni di delinquenza, hanno attaccato e bruciato un furgone di carabinieri, mettendo in gravissimo pericolo di vita un milite della benemerita che, solo per miracolo, s’è salvata la vita. In tale occasione la televisione ci ha mostrato la scena veramente truce di questi delinquenti di strada, arrabbiati e decisi a sfasciare tutto.

I giudici hanno loro comminato una pena di sei anni. Benissimo! Magari il doppio! Però subito dopo ho pensato:
“Ora i giudici ci hanno accollato una spesa in più per il loro mantenimento, il carcere li abbrutirà ulteriormente e fra sei anni avremo una manovalanza superspecializzata in pronta offerta per la malavita”.

La Severino ha affermato che negli Stati civili i tre quarti dei condannati scontano la pena fuori dal carcere, mentre da noi meno di un terzo. Quanto sarebbe più razionale farli lavorare per il loro mantenimento e per ripagare quella società che loro hanno danneggiato con la loro assurda violenza!

La Severino, donna intelligente, certamente l’avrebbe già fatto, però quei “menarrosti” che siedono, ben pagati, in Parlamento, non glielo hanno permesso a motivo delle loro beghe assurde ed inconcludenti.

Quando rinsaviranno i governanti della nostra povera Italietta?

I brigatisti

Io ho vissuto da adulto gli “anni di piombo” del nostro Paese. Mille volte sono stato costretto a riflettere sul fenomeno delle “Brigate rosse”, sul loro progetto impossibile e già scartato dalla storia e sui loro discorsi farneticanti. Il mio dissenso, per mille motivi, è assoluto, però in questo tempo di “seconda repubblica” più di una volta ho riconsiderato la scelta dei brigatisti e mi sono messo nei loro panni per comprendere il loro modo di reagire ad una società ingiusta, ignobile, arrivando non certo a condividere, ma a comprendere un po’ di più, si!

So di ridire parzialmente in malo modo ciò che i giornali bene informati pubblicano puntualmente ogni giorno e la televisione ci offre nelle rubriche più serie e ci documenta con nomi, cifre e descrizioni particolareggiate.

Ripeto ciò che tutti sanno, forse solo per “sfogarmi” e per non essere travolto dalla ribellione, dallo schifo e dall’infinita amarezza perché chi ha voce più forte della mia non reagisce come dovrebbe e perché “gli angeli dalle trombe d’argento” – come diceva don Zeno, il fondatore di Nomadelfia – “non suonano l’accolta di tutti gli uomini di buona volontà” per combattere tante nefandezze.

Vengo ad un esempio – ma ce ne sarebbero cento, mille da riferire – che dovrebbe appartenere a certi sogni onirici piuttosto che alla realtà: Berlusconi, che è in grado di dare alla seconda moglie centomila euro al giorno, che paga un mensile di 2500 euro a certe ragazze che han partecipato ai suoi festini e che scende nuovamente in politica, accompagnato dalla fidanzatina di quarant’anni più giovane di lui, e che probabilmente avrà ancora milioni di italiani che lo votano! Ripeto però che di Berlusconi e di “Berlusconini” ve ne sono in ogni partito, in ogni ente del nostro Paese.

Di fronte a tutto questo, che almeno da venti, trent’anni si ripete puntualmente, quale reazione è ancora possibile? Non auguro – per carità – nuovi brigatisti, però ora capisco questi ragazzi disperati che sognano, come me, un mondo più giusto. Non mi resta se non la piccola consolazione di condannare e condannare chi non condanna. Ma è una ben poca consolazione!

Il dono di un pensiero diverso

Nota: questo articolo risale a diverse settimane fa, ancor prima delle dimissioni di Benedetto XVI.

Spero e voglio ascoltare sempre con attenzione, rispetto e disponibilità, le parole del Sommo Pontefice, dei nostri vescovi, dei colleghi sacerdoti e di chiunque, credente o non credente, abbia a cuore il bene della società.

Detto questo, ci sono delle cose che condivido, delle altre che non condivido ed altre ancora che rifiuto e che ritengo doveroso “combattere”. Aggiungo poi che quanto più è autorevole la persona che parla, quanto più è in posizione di autorità, di responsabilità e di visione più larga dei problemi della vita, tanto più cerco di essere attento e cauto nell’esprimere il mio giudizio. Il campo dell’opinabile è infinitamente più grande di quello della verità e delle certezze assolute.

Infine – almeno a me capita così – vi sono certe affermazioni che mi esaltano di primo acchito e delle altre che istintivamente mi rendono cauto e talvolta critico, pur conscio che ciascuno ha le sue responsabilità, risponde alla sua coscienza e perciò gli si deve sempre attenzione e rispetto.

Quando è possibile il dialogo e il confronto ritengo utile e doveroso farlo, quando ciò non è possibile, ritengo che questo confronto lo si debba fare onestamente all’interno della propria coscienza.

Vengo al motivo concreto di questo discorso importante, ma teorico. Recentemente il Papa ha ordinato sei vescovi e nel discorso tenuto durante il rito ha affermato pressappoco questo: «Il vescovo deve avere il coraggio di dire talvolta parole diverse da quelle della posizione dominante». Questo discorso mi è piaciuto più di altri, perché mi pare di riscontrare che troppa gente, fuori e dentro alla Chiesa, trova comodo starsene sempre zitta e si appiattisce sempre e comunque sulle “posizioni dominanti”, mentre penso che i “profeti”, anche infimi, sono sempre, anche tendenzialmente, “voci fuori dal coro”.

Sono stato felice nell’apprendere che anche il cardinale Martini era di questo parere e denunciò apertamente questo comportamento. E sento il bisogno di ribadire che, pur non volendo far parte della fronda, del dissenso astioso, non mi dispiace talvolta esprimere un parere un po’ diverso da quello che il Papa ha definito “posizione dominante”.

Spesso soffro e non capisco quando qualcuno mi definisce “coraggioso” o “duro”, quando nel mio intento non ambisco ad altro che collaborare, offrendo una posizione o una angolatura diverse nel vedere certi problemi.

Ancora sull’autoreferenzialità

In relazione ad un mio talloncino pubblicato su “L’incontro” circa l’iniziativa della Caritas e della San Vincenzo di organizzare quest’anno il pranzo natalizio nella chiesa di San Girolamo, alla stregua di quello che va facendo da molti anni la Comunità di Sant’Egidio, ho ricevuto una lettera che pubblico di seguito, perché chi segue il nostro periodico comprenda meglio. Nel talloncino pubblicato dicevo semplicemente che mi faceva felice l’iniziativa del pranzo a San Girolamo, ma che mi faceva ancora più felice sapere che il Banco Alimentare del “don Vecchi” offre i generi alimentari ogni settimana a duemilacinquecento concittadini in difficoltà. Nient’altro!

Eccovi ora la lettera.

Stimata Redazione dell’Incontro,
ogni settimana vi leggo condividendo più o meno quanto scritto.
Lo stile provocatorio così esplicito mi è stato di aiuto per fare un po’ il punto sul mio percorso di fede, sul mio essere parte di una comunità e sulla mia figura di presidente di una Onlus, ma altre volte lo stile autocelebrativo è a dir poco fastidioso.
Anche sul n. 1 di domenica 6 gennaio 2013 a pagina 6 il commento della Redazione sulla grande tavola natalizia è sembrato ancora una volta voler ribadire a tutti quanto di più la Fondazione fa rispetto ad altre realtà. Madre Teresa era solita affermare che “non è importante quanto di dà ma come si dà.” Certo che poter dire di sfamare 2500 poveri alla settimana è una gran bella cosa che gratifica il lavoro di molte persone, ma anche chi ha ascoltato le pene di un ammalato in ospedale, la sofferenza di una mamma di fronte ad una gravidanza inattesa, l’angoscia dei familiari per un caro ammalato, sta svolgendo un servizio per il prossimo. Certo i numeri sono inferiori e hanno meno impatto emotivo ma sono ugualmente importanti agli occhi del Signore perchè “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 24,40) perciò, ogni tanto, carità e servizio attivo e silenzioso.

Furegon Brunella

Ed ora eccovi la risposta:

Sono d’accordo con Teresa di Calcutta e non mi è mai passato per la mente di non apprezzare quello che altri fanno in altri settori; infatti collaboro con più di un ente benefico. Mentre, essendo anch’io parte della Chiesa veneziana, voglio ribadire che non condivido “la carità spettacolo ed una tantum”, pur sapendo bene cosa fa la San Vincenzo per essere stato anch’io uno dei cofondatori della Mensa di Ca’ Letizia e poi uno dei corresponsabili per molti anni.

Secondo: sono poi del parere che si debba puntare, per quanto è possibile, ad offrire aiuti adeguati e non simbolici – vedi la vecchia abitudine del pacco a Natale e, forse, a Pasqua.

Terzo: mi sono speso ed intendo spendermi ancora per un coordinamento tra le varie attività di solidarietà all’interno della Chiesa di Venezia per una maggior consistenza di aiuti e per una copertura di tanti “spazi” purtroppo ancora non presidiati – vedi il discorso rimasto un binario morto, della “cittadella della solidarietà”.

Infine ringrazio la signora Furegon perché il dialogo e il confronto per me sono sempre utili, purché si rimanga con i piedi per terra.

Autoreferenziale

Fino ad una decina di anni fa non sapevo neppure cosa significasse il termine “autoreferenziale”; infatti non mi era mai capitato di imbattermi nelle mie letture, in questa locuzione. Lo sono venuto a sapere in un’occasione non troppo felice.

Un mio diretto collaboratore, un giorno in cui mi manifestò apertamente il suo dissenso sul mio modo di condurre la parrocchia, quando tentai di fargli osservare che con quell’indirizzo avevo ottenuto più di qualche successo, mi buttò là una risposta con cui mi pareva che liquidasse la questione, dicendomi che io avevo una mentalità ed un comportamento autoreferenziale. Capii poi, un po’ alla volta, che quella parola significava il ritornare, con qualche compiacimento, su qualche risultato vero o presunto, che uno pensava di aver ottenuto con le sue scelte.

Non ho mai consultato il vocabolario per vedere se il termine significasse proprio questo, ma comunque, da quell’occasione, sono sempre un po’ guardingo e prudente quando mi capita di valutare qualche mia “impresa”.

Questo discorso mi è venuto a galla quando, qualche giorno fa, i “miei ragazzi” che stampano “L’incontro”, mi hanno portato a conoscenza di qualche cifra. Infatti mi hanno riferito, alla chiusura del 2012, che lo scorso anno sono state stampate duecentoventimilaquattrocento copie de “L’incontro”, pari a duemilioniseicentoquarantaquattromilaottocento pagine.

A sentire queste cifre, confesso che ho provato un sentimento di soddisfazione, ma subito ho temuto che si trattasse di quella autoreferenzialità di cui mi accusava il mio cappellano.

Non so se questa autoreferenzialità sia un peccato grave, ma confesso pure che ciò non mi ha provocato né rimorso né pentimento. Superiori e colleghi si guardano bene dal complimentarsi per la nostra iniziativa pastorale di evangelizzazione – o preevangelizzazione che sia – tramite “L’incontro”.

E’ vero che in un “mondo di ciechi un monocolo è re”, perché a Mestre, se si eccettua “Piazza maggiore” del duomo di San Lorenzo, non avverto concorrenza di sorta, per quanto pallida, di periodici che si collochino pressappoco sulla stessa linea editoriale sui risultati de “L’incontro”.

Comunque la simpatia della gente – che è quello che ci interessa di più – è una gratificazionne che, referenzialità o meno, mi fa ringraziare il Signore per averci dato la possibilità di una semina così larga e di una resa più che soddisfacente.

Ladri infelici

Caro don Armando, tanto tempo fa (ormai tanto tempo fa) le scrissi indignata perché mi avevano rubato la carrozzina che voi mi avevate prestato. Ora è successa una cosa altrettanto gravissima. A una famiglia in difficoltà (speriamo momentanea) è stata rubata la spesa che aveva appena fatta al supermercato, chiusa in macchina, nel tempo di riporre il carrello.

Rubare il necessario a chi ha figli da nutrire è inaudito.

Mestre Benefica ha appena portato pacchi su pacchi a chi ne aveva bisogno. Società caritatevoli non si contano. Mense e gente di buona volontà, pronta ad aiutare, c’è. Contributi vari, agevolazioni di ogni sorta e… i dieci comandamenti, uno più valido dell’altro. Mi sa che dovrà riscriverli a caratteri cubitali e ogni settimana su “L’incontro”.

Mi perdoni lo sfogo. Se sant’Agostino si è crucciato tutta la vita per una pera… Ora non si cruccia più nessuno.

In una discussione sono stata rimproverata perché sostenevo che un po’ di senso di colpa fa bene, se questo succede quando si diventa coscienti che ci sono azioni che non hanno giustificazione, soprattutto se esistono altri modi per risolverle (e ce ne sono sempre).

Un saluto.
Lettera firmata

Carissima signora, moltissimi anni fa, quando giovane sacerdote, ero cappellano a San Lorenzo, una carissima e buona ragazza, preoccupata della salvezza eterna di un vecchio zio medico che da un’eternità non frequentava la chiesa, mi chiese di andarlo a trovare per “convertirlo” prima che fosse troppo tardi.

Non potei sottrarmi a questa richiesta, ma ognuno può immaginare con quale angoscia, io pivellino, ho suonato il campanello a questo uomo di scienza a me assolutamente sconosciuto. Per grazia di Dio le cose andarono molto meglio di quanto potessi immaginare. Dopo qualche visita mi accolse un giorno con le parole di un testo della Bibbia: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Il buon Dio aveva già provveduto a prepararlo. A me non è restato che confessarlo e portargli la comunione.

Di questo incontro ricordo una frase: «Io per una vita non ho praticato la Chiesa, però mi sono sempre attenuto a questa norma: `Preferisco che siano gli altri a farmi del male piuttosto che io a loro. Chi fa del male sarà sempre un soccombente, un infelice ed un fallito!

Cara signora, compianga quei “poveri” ladri, piuttosto che deprecarli e condannarli; la vita, prima che il Signore, li sta già castigando.