Città amica

Ho imparato dal patriarca Roncalli che quando si ha a cuore un problema bisogna parlarne un po’ con tuti, perché da qualche parte c’è di certo qualcuno che è disposto a darti una mano; l’importante è incontrare questo qualcuno. Monsignor Vecchi mi ha poi ripetuto mille volte che i soldi meglio spesi per un prete sono quelli che lui investe nei mass media per passare il suo messaggio.

Penso di aver fatto tesoro di questi insegnamenti. Ho speso una barca di soldi per comunicare ai concittadini i miei sogni e i miei progetti. Ho speso un patrimonio per Radio Carpini, le riviste parrocchiali, il mensile “Carpinetum” e “L’Anziano”, il settimanale “Lettera aperta” ed ora “L’Incontro”. Dire che stampiamo e distribuiamo ogni settimana cinquemila copie del periodico può sembrare quasi una notizia banale; vedere però una pila alta un metro e mezzo di fogli A3 è tutt’altra cosa! Eppure ogni settimana si ripete anche questo “miracolo”.

Le spese sono davvero notevoli, ma il “ritorno” è di gran lunga superiore; se non fosse altro la ventina di miliardi spesi per i cinque Centri don Vecchi ne sono la riprova. Non passa giorno che qualcuno si offra di collaborare, che i funzionari delle varie società non agevolino le pratiche, che qualche altro non offra denaro, piante, mobili, tappeti. La superficie dell’ultima struttura è immensa, perfino troppo grande, però non c’è angolo che non offra qualcosa di bello.

Questo riscontro poi, a livello materiale è solo un aspetto, quello però a livello umano e sociale è di certo di gran lunga superiore. Non c’è luogo dove non incontri gente che mi saluta con affetto e deferenza, forse illudendosi che io sia un personaggio che in realtà non sono. Credo di riconoscermi solamente una certa coerenza, un impegno serio e costante al lavoro ed una disponibilità assoluta alle richieste del prossimo. Ho sempre preso sul serio la parabola della pecorella smarrita perché ho scelto che la sorte di nessuno mi sia indifferente. Sono pure convinto che da ognuno abbia qualcosa da ricevere e a cui donare.

Però, per fare tutto questo, bisogna abbassare il ponte levatoio, abbattere lo steccato attorno alle parrocchie, esser coscienti di avere il messaggio più valido e soprattutto aprire un dialogo con tutti. Io non mi sono mai arreso a pensare che la parrocchia sia costituita da quel 10, 15…… per cento che viene a messa alla domenica, perché tutti gli uomini indistintamente sono figli di Dio e fratelli nostri. Sono immensamente grato ai miei “maestri” e mi piacerebbe tanto poter passare anche ai colleghi vecchi e giovani, queste convinzioni che danno respiro alla vita.

06.07.2014

Commiato

L’altro ieri avevo appena recitato l’ultima preghiera prima che gli operatori del cimitero coprissero con badilate leggere di terra la bara calata nella buca, quando mi squillò il cellulare che avevo dimenticato in tasca. Mi appartai un po’ per ascoltare la voce di una ragazza della mia vecchia parrocchia che mi diceva che la sua mamma stava molto male e che di certo le avrebbe fatto molto piacere se le avessi fatto una visita. Le promisi che venerdì, quando sarei andato per la mia visita settimanale all'”Angelo” per portare “L’Incontro”, l’avrei vista molto volentieri.

Di primo acchito feci un po’ di fatica a capire di chi si trattasse, ma poi pian piano misi a fuoco con molta precisione la persona. Si trattava di una giovane donna dagli occhi sorridenti e dalla voce calda che per un bel periodo di tempo aveva accettato di far catechismo in parrocchia. Conoscevo bene pure il marito e soprattutto le due figliole che frequentavano la parrocchia e soprattutto la più piccola era capo scout.

Qualche tempo fa avevo avuto sentore che aveva avuto qualche difficoltà di salute, ma non freqquentando tanto spesso la parrocchia, avevo pensato che tutto si fosse risolto per il meglio. Mi aveva colpito però il fatto che quando avevo detto che sarei andato l’indomani, la figlia si era lasciata partire quasi come un sospiro amaro: “Spero che duri!”. Mi è capitato purtroppo, nella mia lunga vita, che talvolta, essendomi un po’ attardato, pur per dei motivi che ritenevo validi, la persona se n’era andata in cielo senza che io potessi darle l’ultimo saluto lasciandomi poi nel cuore un peso e un rimorso quanto mai amari.

Perciò, nel primo pomeriggio andai subito all’Angelo, la trovai immediatamente, un po’ sfigurata dalla malattia, però il volto ancora dolce e sorridente. Al suo capezzale c’era la figlia più grande. Dormiva, tanto che pensai di non svegliarla, ma lei aprì gli occhi, mi riconobbe subito e mi sorrise con quel suo sorriso di una dolcezza e di una amabilità tutta particolare. Era assolutamente lucida e consapevole di essere giunta al capolinea. Recitammo insieme un’Avemaria. Io le promisi che avrei chiesto al mio “Principale” che si occupasse di lei direttamente. Mi sorrise ancora. Le diedi due baci con tenerezza. Questa mattina, a poche ore di distanza, suo fratello Enzo mi telefonò che Maria era tornata al Padre.

Maria è stata una gran cara creatura, dolce, sorridente e generosa, e con tanta fede. Spero che il mio bacio tanto affettuoso le ricordi di pregare anche per questo vecchio prete che arranca ogni giorno di più. «A presto, Maria!».

05.07.2014

“La moltiplicazione dei pani”

Rifacendomi al discorso di ieri debbo pur dire che leggo con attenzione, ma soprattutto sento il dovere di “decodificare” da un certo modo di pensare, di descrivere gli eventi proprio di una mentalità e di una cultura molto datata, perché si tratta di fatti avvenuti ben duemila anni fa in un popolo e in una terra tanto lontana dalla nostra cultura occidentale. Mi riferisco alla moltiplicazione dei pani.

Io non sono uno storico, ma ritengo che anche questo miracolo lo si debba rileggere in chiave di attualità. E’ quasi superfluo raccontarlo perché almeno un paio di volte all’anno la liturgia della Chiesa lo offre alla nostra meditazione, però a scanso di incomprensione, lo riassumo in maniera pressoché telegrafica. La folla segue Gesù per due giorni interi per ascoltare i suoi discorsi. Gli apostoli suggeriscono al Maestro di congedarle la gente perché ormai la fame si faceva sentire. Gesù li provoca dicendo: “Date voi da mangiare alla folla”. Il dialogo è quanto mai interessante perché offre infiniti spunti per una seria riflessione. Comunque Gesù si rivolge al Padre e invita gli apostoli a distribuire la merenda di un ragazzino diventata inesauribile: i cinque pani e i due pesci messi a disposizione dal ragazzino si moltiplicano all’infinito.

Purtroppo il mio razionalismo ancora una volta fa capolino e tentenna di fronte a queste modalità e a questi numeri: cinque pani e due pesci da una parte e dall’altra cinquemila uomini, più le donne e i bambini- mangiare a sazietà – dodici sporte avanzate! Però c’è poco da interpretare, i numeri sono numeri!

A questo proposito ho l’impressione che il Maestro mi tiri le orecchie con un fatto che è in atto da qualche mese al “don Vecchi” dove vivo anch’io, fatto che sa di portento e di miracolo facendomi arrossire perché di questo evento io stesso sono coinvolto.

Cari amici, avete tutto il diritto di essere increduli come san Tommaso, però venite pure al “don Vecchi” e verificate quanto vi sto riferendo. Dal 18 febbraio di quest’anno al 27 giugno di questo stesso anno, ben diecimilaottocentosessantacinque persone in difficoltà sono venute al “don Vecchi” a ritirare gli alimenti che i sette supermercati della Catena Cadoro hanno messo a disposizione della Fondazione Carpinetum e che essa ha ritirato e distribuito. Tutto è partito dall’insistente richiesta di un volontario, Danilo Bagaggia, che ha ottenuto ascolto presso la direzione di Cadoro e dalla fiduciosa collaborazione di un gruppetto di volontari.

Credo che se un tempo ho nutrito qualche dubbio sul miracolo della moltiplicazione dei pani e qualche riserva sul modo di “leggere” il miracolo, ora il Signore “mi ha tagliato l’erba sotto i piedi” ripetendo anche a me, come a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e non essere incredulo ma credente”.

04.07.2014

Fede e ragione

Uno dei grandi problemi che hanno tormentato la coscienza dei credenti responsabili e dei laici onesti soprattutto nel passato, è stato “Il rapporto tra fede e ragione”. Il problema è presente anche oggi, ma a me pare meno violento, meno astioso, anzi più corretto, rispettoso e nobile tra i rappresentanti più intelligenti e più onesti delle due sponde opposte.

Di certo questo discorso non può essere affrontato correttamente e con qualche risultato tra bigotti o credenti esaltati da una parte e dall’altra atei militanti faziosi e in cerca di battute ad effetto, o motivazioni che giustificano una condotta amorale.

Ultimamente ho letto lo scambio di opinioni tra Scalfari e il cardinal Martini e lo stesso giornalista e papa Francesco e ne sono rimasto edificato per la pacatezza, il rispetto e lo spirito di comprensione e di ricerca che ho avuto modo di cogliere tra i “contendenti”. Ora sto completando la lettura di uno scambio epistolare tra Umberto Eco e lo stesso cardinal Martini e vi trovo lo stesso garbo, spirito di ricerca, rispetto e comprensione reciproca. Se il dialogo e il confronto avvenisse sempre con questo stile, sono portato a pensare che ne risulterebbero arricchiti gli uni e gli altri.

Per quanto mi riguarda personalmente mi sono sempre rifatto ad una sentenza che penso ci sia stata offerta dalla “scolastica”, ossia da san Tommaso d’Aquino: “Credo ut intelligam et intelligo ut credam”. Il senso di questa affermazione credo sia pressappoco questo: “Tento di indagare, di cercare e ragionare per dare supporto e giustificazione alla mia fede e uso la fede per giungere oltre la mia comprensione del mistero in cui sono immerso”.

Su questo assioma poggia la mia testimonianza di cristiano e di sacerdote; questo vale per la mia vita personale, ma vale pure per il mio impegno pastorale nei riguardi dei fedeli, degli agnostici e pure dei non credenti che incontro sul mio cammino. Tutto questo tento di viverlo con umiltà e con rispetto, specie nei riguardi della fragilità dei semplici e delle persone con poca cultura, però questo è il filo conduttore del mio pensare e del mio agire.

Fatta questa affermazione, debbo pur confessare che ogni mia professione di fede passa per un crogiolo di domande, di verifiche, spesso faticoso e sofferto, però mi guardo bene dal vendere fumo o “articoli” della cui bontà non sono convinto. Sono quindi portato a scartare in partenza rivelazioni, apparizioni e pratiche che sanno di portento o di facile miracolo.

Quanto sono convinto della creazione, della paternità di Dio, del suo dialogo con le creature, altrettanto rifiuto tutto quello che sa di magico e talvolta perfino di miracoloso viene fatto passare come pensiero di Dio. Lascio volentieri ad altri farsi propagandisti di paccottiglia religiosa, perché il Dio in cui credo è un Dio serio e non da baraccone.

03.07.2014

Paradiso

Qualche giorno fa Rolando Candiani, il ragazzino che quasi sessant’anni fa ho incontrato a San Lorenzo e che da vent’anni controlla i conti e la vita dei Centri don Vecchi, avendolo incontrato nel “corso” principale del “don Vecchi” di Carpenedo, si lasciò andare ad una espressione da innamorato: “Questo è un vero Paradiso!”.

Dalle ampie vetrate si intravedeva il parco con il lungo filare di oleandri tutti in fiore, si avvertiva un’atmosfera veramente serena. Non solo condivisi la sua espressione, perché anch’io da quasi dieci anni risiedo in questo piccolo borgo ai margini della città e godo di questa dolce e cara atmosfera, ma ni ha fatto felice l’espressione del mio “ragazzo” perché mi rassicura che il progetto nato da un sogno è veramente riuscito.

Più di una volta mi sono lagnato perché non riscontro una collaborazione attiva da parte di tutti, ma poi penso che io sono uno stacanovista che pretende troppo da sé e pure dagli altri. Del progetto iniziale è forse saltato un pezzo che, per troppa ingenuità, avevo ritenuto un componente essenziale, ossia che al “don Vecchi” risiedessero solamente autosufficienti; infatti nello statuto abbiamo fissato delle norme perentorie per chi perdesse il bene di essere autonomo.

Queste clausole prevedono ancora che qualora uno perdesse l’autonomia, i famigliari lo debbano trasferire in una struttura adeguata alle sue condizioni. Ciò però non è avvenuto, non solamente perché ci siamo accorti che nonostante si sia studiato un contratto con delle clausole legali ben decise, abbiamo in realtà constatato che se un residente si rifiuta di uscire, non è moralmente possibile “sfrattarlo” ricorrendo ai carabinieri.

A questo motivo se n’è aggiunto uno ancora più consistente. La dottoressa Francesca Corsi del Comune, donna intelligente e veramente attenta ai bisogni e ai diritti degli anziani, un giorno mi disse: «Questa è la loro casa e perciò, se lo desiderano, hanno diritto di morirvi dentro». Questa cara donna mi convinse; perciò al “don Vecchi” abbiamo ora un po’ di tutto e constato che la vita, come l’acqua, finisce per trovare il suo rivolo e perciò tutto è andato a sistemarsi, per cui l'”autosufficienza” si raggiunge sempre con l’aiuto di qualche supporto sempre più consistente che in ogni caso viene trovato.

Ritengo che al “don Vecchi cinque”, nonostante i problemi che la struttura sta creando a quelli che si aggiunge un’ulteriore difficoltà perché stiamo accogliendo anziani che sono in perdita di autonomia fin da subito, finiremo per sistemare le cose in maniera conveniente. Non pagando affitto, ma solo i costi condominiali e le utenze, ed avendo invece in cambio un alloggio più che confortevole, spazi per la socializzazione perfino esagerati ed un minimo di monitoraggio offerto dalla Fondazione, l’espediente dell'”assistente di condominio” – o meglio “di comunità” – finirà per rendere possibile la permanenza anche per i meno abbienti e meno autonomi.

Questa è almeno il mio obiettivo e la mia speranza, anche se si avesse tanto più in considerazione l’esperienza pregressa, si sarebbe agevolato il cammino di questa speranza.

02.07.2014

“Libertà vo cercando”

Ogni anno, quando comincia la stagione estiva, il mio pensiero va al nostro Carlo Goldoni e alla sua splendida commedia “Le smanie della villeggiatura”, provando quasi un sentimento di orgoglio, convinto di non soggiacere a questo idolo.

Ora più che mai bisogna che ci liberiamo da certi “bisogni indotti” del mondo dell’economia e della comunicazione di massa. I mass media finiscono per inculcarci, con una frequenza ed una intensità quasi ossessiva, certi messaggi, tanto che le masse finiscono per ritenere un bisogno assoluto quello che invece è solamente una opportunità, bella e allettante finché si vuole, ma non assolutamente necessaria.

Ero appena seminarista quando ho conosciuto il vecchissimo monsignor Silvestrini, canonico a San Marco. Si diceva allora che quando egli passava davanti ad uno dei non moltissimi cinema di Venezia, si soffermava un istante di fronte ai manifesti che reclamizzavano il film in proiezione e diceva a chi gli stava accanto: «Ecco una realtà di cui non sono schiavo».

A quel tempo noi giovincelli sorridevamo di fronte a questa dichiarazione di indipendenza del vecchio prelato che guardava con diffidenza una di quelle che riteneva le “lusinghe del mondo”. Ora mi capita assai spesso di pensare a questo vecchio prete ammirando la sua libertà di fronte ad uno dei tanti “bisogni fasulli” e condizionamenti che non nascono dal bisogno ma dai condizionamenti esterni.

Questa mattina era un po’ caldo e l’addetto alle pompe funebri che mi portava all'”Angelo” per benedire una salma di cui avrei poi celebrato il funerale, forse a motivo del caldo, mi chiese, con fare affettuoso e pure scontato, conoscendo le mie convinzioni e le mie prassi di vita: «Quest’anno, don Armando, dove va in ferie?». Gli risposi, senza titubanza alcuna: «In via dei trecento campi, numero sei» (ossia al “don Vecchi”).

Dove potrei trovare un ambiente così fresco, così comodo, così bello, che non mi costa assolutamente nulla? Io di certo non ce l’ho con le vacanze, però confesso che provo meraviglia, stupore ed anche rifiuto di fronte alla “smania delle vacanze”.

Un mio fratello che abita ad Eraclea e che quindi per venire a Mestre deve fare lo stesso percorso dei vacanzieri del lido di Jesolo, l’altra domenica mi telefonò che, giunto a Caposile, ha dovuto tornare indietro perché c’era già una fila interminabile di automobili che riportavano a casa i “forzati del mare”.

Credo che sarebbe quanto mai socialmente utile una grande campagna per liberare gli uomini del nostro tempo da certi miti, feticci e bisogni solamente apparenti, perché la gente del nostro tempo conquisti le fondamentali libertà esistenziali.

01.07.2014

Potenzialità

Io ho frequentato il liceo classico nel seminario di Venezia. Il programma che si svolgeva nei cinque anni del classico era pressappoco uguale ai programmi dei licei statali eccetto una variante per quello che riguardava la filosofia. Mentre nella scuola statale questa materia tratta della storia della filosofia e perciò l’insegnante propone agli studenti il pensiero dei vari filosofi, in seminario studiavamo, oltre la storia della filosofia, anche la cosiddetta “scolastica”, ossia il pensiero di san Tommaso d’Aquino, sommo pensatore della Chiesa.

Facevano parte di questa materia, se ben ricordo, la logica, ossia l’analisi del pensiero che offriva l’iter per arrivare alla verità; la teodicea, ossia lo studio razionale dell’esistenza e della natura di Dio.

Era mio insegnante allora mons. Vecchi, laureato all’Università Gregoriana di Roma su questa materia. Ricordo che a proposito dello studio della logica, talvolta gli piaceva darci degli esempi di sillogismo (ossia, da premesse certe, giungere ad una conclusione razionale), oppure il sofisma che invece, partendo da premesse ambigue portava a conclusioni assolutamente erronee.

Ricordo ancora un discorso apparentemente logico che ti faceva arrivare però ad una conclusione assurda. Diceva così: “L’uomo possiede tutto quello che non ha perduto, tu non hai perduto la coda, quindi sei un uomo con la coda”. Questo è un sofisma.

Mi sono ritornate alla mente queste lontane reminiscenze avendo pubblicato, qualche tempo fa, una splendida affermazione di Mark Twain che dice: “Date ad ogni giorno la possibilità di essere il più bello della vostra vita”. Questa affermazione mi ha riportato al discorso sulle potenzialità che sono parte vera ed integrante di ogni essere, anche non immediatamente paregibile…

Ci chiedeva ancora il nostro vecchio insegnante di filosofia, indicandoci un blocco di marmo: «Cos’è questa cosa?». «E’ un blocco di marmo», noi rispondevamo. Al che egli ribatteva che quel marmo era molto di più e di meglio di quel materiale freddo e inerte, perché da esso Michelangelo aveva fatto emergere la splendida “statua dei Prigiani”. Le potenzialità inerenti ad ogni realtà sono pressoché infinite, sta all’uomo far emergere da esse il meglio che in esse è insito.

Tornando a Mark Twain, che rivendica il diritto di ogni giorno di essere il più bello della vita, sta a noi di non lasciare i nostri giorni monotoni, insignificanti e meschini, ma farne sprigionare le più belle potenzialità. Per far questo ci vuole però estro, fantasia, buona volontà e impegno.

Gli idealisti affermano che il creato lo inventiamo noi. In fondo in fondo non hanno tutti i torti. “Inventiamo” quindi un mondo bello!

30.06.2014

Quel che è troppo è troppo!

Le cerimonie, anche quando sono un segno di affetto e di simpatia, mi creano sempre un certo imbarazzo e mi mettono a disagio. Qualcuno ha definito la vita ordinaria di tutti i giorni “Il terribile quotidiano”, mentre io amo la vita ordinaria di tutti i giorni senza sorprese e senza eventi particolari.

Ho già scritto che venerdì 27 giugno cadeva il sessantesimo anniversario della mia ordinazione sacerdotale, le mie “nozze di diamante” con la Chiesa. Speravo di passare la data sotto silenzio, non tanto perché sottolinea la mia veneranda età, perché anzi oggi provo una certa ebbrezza a dire che ho ottantacinque anni, ma appunto perché le cerimonie mi mettono a disagio.

Prima mia sorella Lucia voleva far stampare “i santini” della ricorrenza e fare un pranzo con tutti i famigliari. Poi mio fratello don Roberto mi offrì di mandarmi il coro delle mamme di Chirignago a cantarmi la messa in cimitero. Infine scoprii suor Teresa che stava trescando per una cena fredda al “don Vecchi”, invitando tutti i residenti dei quattro Centri.

Feci finta di arrabbiarmi con tutti e per non rompere i rapporti e non mostrarmi ingrato mi proposi di offrire il gelato dopo la mia solita messa prefestiva del sabato, senza però avvisare nessuno per timore che anche i soliti assenti venissero per mostra o, peggio, per il gelato.

La cosa non rimase del tutto segreta, ma perlomeno molto contenuta, per cui “il quotidiano” non è diventato del tutto “straordinario”. Il giorno dopo però, quindi ieri mattina, ero convinto che alla messa delle dieci nella mia “cattedrale tra i cipressi” la cosa sarebbe passata inosservata. Invece, alla preghiera dei fedeli, il mio aiutante di campo, diacono ad honorem, il dottor Marco Doria, aggiunse una sua preghiera a quelle già preparate, ringraziando il Signore e domandandogli per me, in maniera un po’ “sfrontata”, altri sessant’anni di ministero sacerdotale. “Quello che è troppo è troppo!”. Presi la parola per chiedere al Signore di non ascoltare l’ultima parte della preghiera di Marco, il ragazzino quasi quarantenne conosciuto all’asilo parrocchiale di via Ca’ Rossa.

La “preghiera” finì per informare non tanto il Signore – che quelle cose le conosce bene – ma l’assemblea che gremiva la chiesa e ne era assolutamente ignara. Marco non aveva ancora terminato la preghiera con il consueto “Ascoltaci Signore”, che scoppiò uno scroscio fragoroso di battimani. Sapevo che la mia gente mi vuol bene, ma non fino a questo punto! Presi la parola per dire “grazie” e soggiunsi, commosso, che questo mio popolo della domenica è il più bel dono che il buon Dio mi possa fare. Augurerei a tutti i preti di avere ogni domenica gente così cara e così buona.

Beh! Le “nozze di diamante” mi hanno riempito il cuore di commozione e di consolazione. Non potevano essere più belle!

29.06.2014

La mosca bianca è la cocchiera

Ho già raccontato questo episodio, ma credo che non solo sia giusto quello che affermava la sapienza di Roma antica “che i vecchi hanno diritto di dimenticare”, ma – io aggiungo – hanno pure il diritto di ripetersi.

In forza di questa sentenza ripeto che un giorno che ero particolarmente amareggiato perché avevo l’impressione che i miei vecchi parrocchiani mi lasciassero solo e non mi dessero una mano nelle difficoltà, mio padre mi disse: «Non preoccuparti, su un centinaio di persone ce ne sono certamente due o tre che hanno la mania di lavorare; punta su quelle». Ed un altro amico sacerdote, quanto mai saggio, in un momento di sconforto che stavo passando, mi disse pure: «Non conosci due tre persone che stimi, che ti sembrano sagge e generose?». Al che, io risposi di si. Allora lui soggiunse: «Segui le loro tracce e vai avanti».

Mi pare d’essere arrivato anch’io alla certezza che in ogni categoria di persone ed in ogni tempo c’è sempre qualcuno che esce dal gruppo e testimonia con la sua vita l’onestà, la coerenza, l’impegno, lo spirito di servizio … . Queste persone spostano i paletti in avanti e affermano, con il loro esempio, che c’è pure chi fa meglio, salvando così la loro categoria e il loro tempo.

Pare che anche il buon Dio sia di questo parere. Successe quando Abramo, di fronte alla decisione del Signore di distruggere le città di Sodoma e Gomorra per i vizi che albergavano in quelle comunità, “contrattò” con Lui dicendo: “non salverai quella città se vi sono almeno cento giusti…? e procedette nel contrattare fino ad ottenere che il Signore avrebbe salvato le due città anche se vi fossero stati soltanto dieci giusti.

Applico il discorso ad uno studio che mi è capitato di leggere un paio di settimane fa e che presentava un prete che fu parroco di Zelarino intorno al settecento, Quel secolo è stato quanto mai deludente a livello di sacerdoti: ce n’erano una caterva, erano poco preparati, sempre a caccia di prebende per avere una vita agiata. Ebbene, in questo contesto assai deludente, questo parroco ha lasciato una testimonianza veramente luminosa affermando che i preti ricevono sì l’incarico dal vescovo, ma hanno il loro potere che deriva direttamente da Gesù perché è stato lui stesso a volere non solo gli apostoli, ma anche 72 discepoli. Ma soprattutto quest’uomo ebbe le idee così chiare sul dovere di rendere partecipi i poveri dei frutti del “beneficio” (ossia della rendita ecclesiastica) che leggendo quel saggio mi è parso di sentir parlare don Mazzolari o don Milani, tanto sono attuali e di una radicalità evangelica le sue convinzioni.

Il Signore non fa mai mancare in nessun tempo i suoi messaggeri e i suoi profeti; per salvarsi dalla desolazione e dalla mediocrità, basta cercarli, individuarli e seguire queste testimonianze anche se poche e non vincenti.

28.06.2014

“Le confessioni”

Più di una persona mi ha detto che sono musone e poco espansivo. Hanno perfettamente ragione: non amo le cerimonie e le conversazioni; me ne starei volentieri in un canto, la vita pubblica mi pesa. I miei familiari affermano che assomiglio a mia madre che era piuttosto riservata, mentre altri miei fratelli assomigliano a mio padre che era aperto, espansivo e chiacchierone. Qualche altra persona invece ha aggiunto che metto soggezione con il mio atteggiamento così schivo e taciturno, tanto che si guardano bene dal farmi delle osservazioni.

Forse, io penso, sono timido e che è rimasto tale nonostante abbia sempre fatto vita pubblica.

In realtà a me non capita quasi mai di guardare la gente dall’alto in basso, anzi spesso soffro di complessi di inferiorità e di certo non ho una buona opinione di me stesso. Mi vien da pensare che dipenda dal mio cipiglio esterno, chiuso e riservato se c’è poca gente che mi fa critiche apertamente. Forse saranno invece molte quelle fatte alle mie spalle.

Questi problemi mi hanno accompagnato una vita intera rendendo tutto più faticoso. Non mi sono mai mancate le soddisfazioni, le espressioni di riconoscenza e certi risultati che non posso negare, però il peso della vita pubblica, il dover affrontare problemi e situazioni che ero, e sono, portato a valutare superiori alle mie possibilità, sono rimasti sempre presenti nel mio animo e nella mia coscienza.

Per decenni ho sognato e pensato alla pensione come all’approdo ad una vita senza queste preoccupazioni. Invece essa s’è rivelata un aggravante, perché il venir meno delle forze mi fa apparire ancor più gravi gli ostacoli.

Quante e quante volte mi sono rifugiato nella frase di sant’Agostino, il grande e saggio uomo di Dio, l’autore della “Città di Dio” e delle “Confessioni”, opere semplicemente sublimi, quando afferma: “E’ inquieto, Signore, il nostro cuore finché non riposerà in Te”. Oggi l’approdo all’isola felice che, sola, può liberarmi dalla “fatica del vivere” e che mi apre un varco di luce e di speranza sul domani, rimane la “casa del Padre” e “la Terra promessa”.

Gli ebrei ci misero quarant’anni per raggiungerla, mentre io, anche dopo gli ottanta, sono ancora in cammino.

27.06.2014

“Piccolo mondo antico”

Mi è capitato tanto spesso di citare il bel romanzo di Antonio Fogazzaro “Piccolo mondo antico” perché l’evoluzione oggi è così rapida per cui capita spesso di rimpiangere o di aver nostalgia di quel mondo che ci era più familiare.

I tempi nuovi mettono sempre un po’ di preoccupazione, anche se da un punto di vista razionale li accettiamo lucidamente. Per noi anziani provare nostalgia, rimpianto, preoccuparsi per le cose nuove mi pare sia quasi fisiologico a motivo dell’età. Quello che oggi cambia in dieci anni di vita un tempo avveniva forse in un secolo. A volte il passato ci sembra migliore del presente solo perché è passato e non pesa e non preoccupa più. Se uno si apparta, non segue le vicende della vita e si attarda per crogiolarsi nel suo passato, allora il distacco e l’incomprensione diventano veramente notevoli, forse insuperabili.

Qualche tempo fa ho incontrato per caso un giovane prete ortodosso che è stato incaricato dal suo vescovo di assistere religiosamente i numerosi moldavi che arrivano a Mestre. Mi confidava la necessità di trovare un capannone a costi modesti ove riunire e catechizzare i membri della sua Chiesa. Mi è parso legittimo e doveroso fare un appello su “L’Incontro”, ora che sono moltissimi i capannoni vuoti, per trovare qualcuno che facesse quest’opera buona. Purtroppo finora il mio appello è caduto nel vuoto e nessuno ha risposto. Ritenterò!

Sennonché una nonnetta di Favaro che mi dice di leggere volentieri il periodico, mi telefonò in un momento per me infelice perché ero occupato, per dirmi il solito discorso: «Non le pare che questi stranieri portino via il lavoro ai nostri giovani, mettano in pericolo la nostra religione, che un po’ alla volta comandino loro?». E via di seguito con questi discorsi che assomigliano alla “favola del sior Intento”.

Ho cercato di parlarle del “Villaggio Globale”, del fenomeno epocale inarrestabile, che poi non è vero che i delinquenti e i cattivi sono soltanto loro, che bisogna che ci abituiamo a questo meticciato, che nessuno può farci niente perché così va la storia. Questo è il mondo e la vita, quindi bisogna che conviviamo cogliendo il meglio di questa situazione.
Niente da fare! Lei ritornava come un disco rotto sulle sue argomentazioni!

Vorrei, una volta per tutte, dire ai miei coetanei che il nostro “piccolo mondo antico” se n’è andato, è tramontato per sempre. Se vogliamo vivere dobbiamo accettare questa realtà e viverla al meglio.

Al “don Vecchi” ho ogni giorno la sensazione di essere all’interno di una casba. Non tutto è bello, anzi faccio fatica ad accettare comportamenti del mondo islamico arretrato e chiuso, però questo è il problema che dobbiamo risolvere anche se difficile e ingarbugliato.

Forse con la pazienza e la buona volontà ci riusciremo presto e meglio.

26.06.2014

Le bandiere

I miei viaggi – non molti in verità – sono sempre stati strettamente legati al mio impegno di ordine pastorale.

L’uscita più significativa, a questo riguardo, l’ho fatta una quarantina di anni fa, assieme a monsignor Vecchi che era sempre alla ricerca delle esperienze pastorali che si stavano facendo in quel tempo in Europa. Il viaggio, su un’automobile prestata da Coin, ha toccato la Svizzera, la Francia, l’Olanda e la Germania. In una decina di giorni visitammo parrocchie, incontrammo molti preti e ci accertammo del loro piano liturgico, di catechesi e della carità per renderci conto di quali fossero le esperienze e i nuovi obiettivi di un contesto parrocchiale così variegato in quel momento in cui la contestazione aveva messo a soqquadro tutto ciò che verteva sulla pastorale.

Credo di poter affermare, con tranquilla coscienza, che il viaggio fu molto proficuo e che l’indirizzo pastorale del dopo contestazione nella nostra parrocchia è stato quanto mai positivo, tanto che sulle macerie della vecchia impostazione pastorale nacque una serie di iniziative di avanguardia che s’imposero all’attenzione anche di altre diocesi su quanto andavamo facendo nella parrocchia che ora è denominata come quella del Duomo.

Di questa esperienza ho riportato un aspetto del tutto marginale, che però ancor oggi mi ha spinto a fare un piccolo dono al Centro don Vecchi degli Arzeroni.

La Svizzera mi sorprese per la sua festa di bandiere poste ovunque a simbolo della nazione e dei suoi Cantoni. In Francia le bandiere le ho incontrate persino all’interno delle chiese – cosa che in questo Paese non mi sorprese più di tanto perché è proverbiale il senso patriottico della Chiesa francese. Pure in Olanda e nei paesi dell’Austria mi accorsi dell’abitudine di esporre abbondantemente le bandiere.

Questa tradizione mi diede un senso di festa, di comunità e di appartenenza, tanto che col passare del tempo e avendo la possibilità di poter decidere io, piantai a Carpenedo un pennone in patronato, un altro alla Malga dei Faggi, su cui issai un gonfalone della “libera repubblica di Carpenedo” – inventato naturalmente – rifacendomi a quello assai più noto di San Marco.

Per l’inaugurazione del “don Vecchi” degli Arzeroni il consigliere della Fondazione, il signor Rivola, imbandierò la nuova struttura dando la sensazione di qualcosa di vivo e quasi segno di orgoglio. Questo ha fatto riaffiorare dal fondo del mio animo un po’ di quel sentimentalismo che non ho mai perso totalmente, spingendomi ad offrire tre pennoni con le relative bandiere d’Italia, di San Marco e dell’Europa, sperando che l’ininterrotta fila di automobili che passa di fianco al Centro si accorga che anche in questo lembo di terra destinato agli anziani c’è un segno visibile della civiltà e della solidarietà della nostra gente.

25.06.2014

Il beato angelico!

A modo mio, e con risultati men che modesti, sto conducendo una mia “guerra di liberazione”. Non sogno neppure che essa superi i confini della mia coscienza, mi sarebbe sufficiente ottenere una vittoria anche solamente interiore.

Vengo al motivo di questo mio discorso confidenziale e un po’ strano. Io sono un appassionato raccoglitore di quadri, sia perché l’arte mi affascina, sia perché mi piace che le strutture che abbiamo destinato agli anziani più poveri e più soli della nostra città siano ingentilite ed arricchite dal genio e dalla poesia dei nostri pittori.

Gli amici che sanno di questa mia passione spesso mi donano qualche opera che per i motivi più diversi hanno deciso di espellere dalle loro case.

Qualche giorno fa un amico che si dedica agli sgomberi, mi ha portato un quadro che, a parer suo, è di Guttuso. In verità porta la firma di questo pittore celebre in Italia, ma non mi pare assolutamente certo che l’abbia dipinto lui. Il quadro sinceramente non mi piace, ma se fosse di Guttuso lo venderei per destinare il ricevuto a miglior causa.

Vengo quindi alla mia “guerra di liberazione” che ha per obiettivo liberare dalla valutazione del mercato, dalla speculazione e dall’affare le opere d’arte perché esse possano “vivere” solamente per la loro bellezza, la loro poesia e soprattutto per il loro messaggio.

Per questo motivo preferisco una copia di un’opera bella e riuscita che un brutto quadro nonostante valga molto a motivo del mercato, della notorietà dell’autore o delle stime interessate.

Ho un sacco di amici nel mondo dell’arte, ma finora, per i motivi più diversi, non sono riuscito a trovare un artista disposto a far “parlare” le pareti bianche del presbiterio della mia “cattedrale tra i cipressi” del camposanto di Mestre, anche nei momenti in cui non ci sono funzioni e quando la chiesa è aperta per accogliere i “cercatori solitari” di pace e di Dio.

Data questa lettura e concezione dell’arte, ho accolto con estremo entusiasmo e riconoscenza la proposta di alcuni miei amici carissimi che si sono offerti di regalarmi due quadri del famosissimo Angelico, il fraticello che si dice dipingesse stando in ginocchio per rispetto al “soggetto sacro” che aveva deciso di immortalare.

Non servirà più andare a Firenze per vedere e contemplare la dolcezza infinita di questo fraticello dall’anima candida che ha messo a disposizione la sua tavolozza e il suo genio per “leggere” i misteri della nostra fede. Spero che si faccia la coda per venire nella chiesa del cimitero a visitare le due opere di questo sommo artista. La loro riproduzione è talmente fedele che forse supera l’armonia e l’incanto dell’opera originale. I nostri quadri del Beato Angelico non corrono di certo il pericolo di essere rubati, perché a livello venale forse non costano niente però, pur essendo parenti poveri di quelli di Firenze, possono offrire tutto l’incanto delle opere della Galleria degli Uffizi, facendo la coda e pagando il biglietto per andare a vederle.

I miei due “Beato Angelico” infatti sono ormai già stati “liberati” dal mercato.

24.06.2014

L’uomo e la divisa

Una persona colta che mi onora della sua amicizia un paio di giorni fa mi ha donato un volumetto dell’Editore Bompiani con un titolo che ha stuzzicato immediatamente la mia attenzione: “Carlo Maria Martini – Umberto Eco. In che cosa crede chi non crede?”.

Io da sempre sono un uomo in ricerca. Le verità a cui sono approdato non mi bastano, e la coscienza mi costringe a verificarle ogni giorno, motivo per cui il dialogo epistolare tra il grande vescovo di Milano e Umberto Eco – che prima non sapevo fosse non credente – mi interessa quasi in maniera morbosa.

Umberto Eco l’ho conosciuto attraverso la lettura del suo grande romanzo “Il nome della rosa”, che si potrebbe definire un “giallo”, opera che mi ha interessato per la trama, ma soprattutto per la descrizione dotta e puntuale dei movimenti religiosi radicali presenti nella Chiesa al tempo di Francesco d’Assisi, pagine di storia che conoscevo poco.

Il cardinale Martini l’ho scoperto soprattutto dopo la sua morte. Di lui ho ammirato la cultura profonda, l’onestà intellettuale, la saggezza nel pazientare il ritardo della Chiesa nella storia e nell’accompagnarla, quasi paternamente, verso il suo aggiornamento.

Ho letto quasi per metà il volumetto scoprendo ancora una volta la mia modesta cultura e l’altrettanto modesta intelligenza. Eco e Martini sono due “grossissimi calibri”, per loro è normale “volare alto”, così che per me diventa difficile seguirli nei passaggi quanto mai difficili. Comunque per oggi mi soffermo su una battuta iniziale di Eco che mi stimola a riflettere su un antico problema per me non ancora risolto della nostra, pur avanzata, società.

Dice Eco, rivolgendosi a Martini: «Non mi ritenga irrispettoso se mi rivolgo a lei chiamandola per il nome che porta e senza riferimenti alla veste che indossa. Ci sono persone il cui capitale intellettuale è dato dal nome con cui firmano le loro idee e non dal titolo che è premesso a quel nome».

Questo atteggiamento che Martini, nella sua risposta, accetta cordialmente, sottolinea che il valore di un discorso non è ancorato al titolo, alla divisa o al posto che una persona occupa, ma al valore della persona e del pensiero che essa offre. Nel nostro mondo c’è ancora troppo spirito di sudditanza, di riverenza ai gradi che contrassegnano la divisa o la “sedia occupata”. Pure l’uomo di oggi pare non si sia ancora liberato dalla soggezione della divisa e dei ruoli e non si sia emancipato da un certo servilismo civile ed intellettuale. Ci ha provato la rivoluzione francese a spogliare le persone dalle “etichette superflue” chiamando tutti “cittadino”, come pure s’è cimentata quella russa chiamando tutti “compagno” e perfino quella cristiana chiamando tutti “fratello”.

Spero che prima o poi riusciamo a considerare ogni creatura “Persona”, non togliendo o aggiungendo qualcosa di fuorviante a motivo del titolo o del posto che occupa nella società, perché ognuno è quello che è e non quello che pretende o si illude di essere.

23.06.2014

L’intervista

Sono abbonato da molti anni a “Gente Veneta”, il settimanale della nostra diocesi. Mi abbono ogni anno a questo periodico non per dovere di categoria, ma per scelta personale perché è un periodico ben fatto, interessante e soprattutto perché sono quanto mai ammirato dal fatto che un gruppetto tanto minuscolo di giornalisti, che credo abbiano anche delle paghe molto modeste, riesca ad offrire alla città una lettura puntuale ed intelligente di ciò che di più importante avviene qui ogni settimana.

Se fossi chiamato a dare un voto alle varie realtà presenti nella nostra diocesi, metterei di certo al primo posto “Gente Veneta”. Lo trovo veramente un bel giornale. L’unico piccolo neo – ma può darsi che questo sia in realtà un pregio piuttosto che un difetto – è quello che lo trovo sempre “allineato”: mai una critica, seppur minima, ai personaggi che ufficialmente contano. A me, che ho la ferma convinzione che il “dissenso per amore” sia un dono piuttosto che una malagrazia, questo preoccupa un po’, comunque in un mondo che critica sempre tutti, può essere positivo questo atteggiamento rispettoso e attento a mettere in luce soprattutto il positivo della nostra realtà. Sono già tanti quelli che, giustamente o meno, la criticano.

Più di una volta ho sentito anch’io il bisogno di manifestare la mia ammirazione, stima e riconoscenza ai singoli giornalisti e a tutta la redazione del nostro periodico, forse l’unico scritto tutto in positivo, almeno per quello che riguarda le nostre cose. Detto questo, da parte di un criticone storico quale mi riconosco e soprattutto da uno che, magari in modo maldestro e inadeguato, tenta di usare la carta stampata per passare “la buona notizia”, vengo al motivo principale di questo mio intervento.

Nel numero 24 di metà giugno di Gente Veneta, mentre la nostra città è nell’occhio del ciclone per le malefatte di imprenditori, politici, amministratori pubblici e faccendieri, il nostro Patriarca s’è fatto intervistare dal nostro periodico. Spero di tutto cuore che la mia Chiesa non abbia “scheletri negli armadi” a motivo del Mose, anche se è già una colpa non partecipare adeguatamente alle vicende della nostra società e non denunciare per quieto vivere e per non aver noie gli abusi dei quali possiamo venire a conoscenza (e ai vertici, suppongo, che più che alla base si possano venire a conoscere le virtù e i vizi della nostra gente).

Il Patriarca tanto opportunamente ha ribadito che pure alle chiese di Venezia si pone il dovere di fare un serio esame di coscienza ed una verifica. Ho letto per ben due volte l’intervista, che seppur lunga ed articolata non scende per nulla nel concreto e nel dettaglio. Per ora mi basta. Spero che sia l’indicazione di una scelta e di una condotta che inviti i cristiani, sia come singoli che come comunità, a non limitarsi a stare alla finestra e a discettare sul sesso degli angeli, una scelta ove si costruisca il domani, ci si sporchi le mani e si collabori perché il messaggio diventi veramente lievito.

22.06.2014