L’ultimo raggiro

Io dovrei essere un esperto dei trucchi che un certo tipo di marioli adoperano per spillare soldi ai cittadini e in verità mi ritenevo tale, tanto da dar consigli a persone che pensavo ingenue, indifese e quindi facilmente raggirabili.

Vi racconto l’ultimo raggiro da me subìto per dirvi quanto “macaco” sono ancora, ma soprattutto perché gli amici possano conoscere questo stratagemma e, conoscendolo, possano evitarlo.

Alcuni giorni fa stavo uscendo dalla chiesa del nostro camposanto dopo aver celebrato un funerale. Mi si avvicina una signora vestita di nero dall’apparente età di trent’anni, senza fascino particolare, anzi con un volto abbastanza normale e scontato. Senza tanti preamboli mi dice: «Noi purtroppo ci conosciamo bene, don Armando, perché in quest’ultimo mese ha celebrato il funerale di due miei famigliari». In verità non ricordavo d’averla mai notata, ma sono infinite le persone che mi conoscono, mentre io non conosco loro.

Continuò, con fare imbarazzato: «Per fortuna la incontro, perché mi trovo in una situazione veramente difficoltosa. Abito in via Toti e sto andando in ospedale a San Giovanni e Paolo a Venezia per una visita prenotata da tempo perché sono affetta da leucemia, ma ho lasciato a casa il portafoglio e pure la chiave. Non ho nessuno a cui chiedere i soldi della visita, devo pagarla in contanti. Potrebbe, don Armando (e diceva il mio nome come fossimo stati amici d’infanzia) prestarmeli, che glieli riporto questa sera?»

C’era poco da tergiversare, aveva l’appuntamento e appena il tempo per raggiungere l’ospedale. In realtà mi passarono per la mente dei dubbi, perché questo inganno l’avevo già subìto, però da gente più sciolta e più convincente, mentre questa mi pareva in realtà confusa e imbarazzata. Avevo appena ricevuto 50 euro quale offerta per il funerale. Le chiesi titubante: «Quanto le serve?». «Quarantotto euro». Le diedi i cinquanta appena ricevuti. Mi chiese – bontà sua – se desideravo il numero del suo cellulare, ma mi parve poco gentile manifestarle qualche dubbio sulla sua onestà e perciò le dissi che non occorreva.

Stanno passando i giorni, ma nonostante le avessi detto che ogni giorno celebro messa alle tre, non ho ancora avuto il piacere di rivederla per chiederle com’è riuscita ad entrare in casa.

Confesso che, più che per i cinquanta euro, sono dispiaciuto perché quando incontrerò qualcuno che ha veramente bisogno, di certo mi ricorderò del volto apparentemente smarrito di questa emerita furfante.

Ho letto sul Gazzettino che a Mestre sono ben quattrocento i “poveri” che battono la città. Per quel che mi riguarda ce ne sono due tre che si avvicendano a chiedermi l’elemosina ogni giorno all’entrata e all’uscita del cimitero, però con loro me la cavo con due, tre euro e sono ben conscio che sono mendicanti di professione, mentre questa signora vestita a lutto è stata talmente brava da non sembrarmi una professionista e perciò è riuscita a fare il “colpo grosso”!

01.04.2014

“Resistenza e resa”

Nota della Redazione: questo intervento di don Armando risale a varie settimane prima della scomparsa del Patriarca emerito Marco Cé.

Tanti anni fa ho letto un bel libro di Bonhoeffer, il santo pastore protestante fatto uccidere da Hitler pochi mesi prima della fine dell’ultima guerra mondiale. Quest’uomo fu un autentico uomo di Dio, ma pure un tedesco che seppe “resistere” al nazismo allora imperante, per cui prima fu imprigionato in un lager e poi impiccato per la sua coerenza ai valori cristiani che non erano compatibili col nazismo.

Purtroppo di questo volume ricordo bene il titolo, ma non le argomentazioni sottili di quest’uomo di cultura. Mi è tornato alla memoria il titolo in occasione di un caro biglietto di augurio che il cardinale Marco Cè, già nostro amato pastore, mi ha inviato in occasione del mio ottantacinquesimo compleanno. Come forse qualcuno ricorderà il vecchio cardinale si complimentava benevolmente con me sapendomi ancora sulla “barricata”, mentre confessava che lui ha dovuto arrendersi, facendo seguire a questa informazione delle belle parole ricche di fede con le quali si abbandonava alla volontà di Dio, consapevole che anche la sua “resa” a livello operativo poteva essere feconda per la Chiesa di Dio e il bene delle anime.

Il Patriarca Cè ha solamente tre anni più di me, ma in questi ultimi anni era in precarie condizioni di salute, avendo delle grosse difficoltà di deambulazione, difficoltà che l’altro ieri l’hanno portato ad una rovinosa caduta in casa con la rottura del femore, però fino a pochi mesi fa aveva continuato a predicare corsi di ritiri ed esercizi spirituali nella casa della diocesi al Cavallino.

La “resa” di questo sant’uomo ritengo sia solo apparente perché nella sostanza è rimasto per tutti noi un testimone di Dio che, come Mosè, è ancora con le mani alzate in preghiera per i preti e i cristiani della sua diocesi.

A me invece conviene la prima parte del titolo di Bonhoeffer, ossia “Resistenza”, però è una resistenza sempre più precaria e più fragile, tanto da dover dichiarare che è più apparente che reale. Mi pare che i “bollettini di guerra” che comunico alla mia gente siano molto simili a quelli dell’esercito italiano nell’ultimo conflitto, “ritirate strategiche”, ma comunque sempre ritirate. Avverto più che mai una fragilità fisica, mentale e psicologica, tanto che ogni giorno di più penso che sia giunto il tempo di resistere solamente all’interno del fortino della fede e della preghiera. Il mondo di cui mi sto occupando mi affascina ancora, però ho sempre più paura di ridurmi come quei combattenti che in vecchiaia finiscono per distruggere ciò che hanno costruito in gioventù.

Anch’io, ogni giorno di più, penso di abbracciare la seconda parte del volume di Bonhoeffer: Resa.

30.03.2014

Non servono i miracoli

Fa parte ormai della cultura dei nostri giorni la battuta istrionica ed ironica “Non siamo ancora in grado di far miracoli, ma ci stiamo attrezzando per farlo prossimamente”. In genere si servono di questa battuta le persone e le istituzioni private assai efficienti nei riguardi dei clienti e delle persone che proprio per questa efficienza e questa generosità pretenderebbero da loro cose o impossibili o troppo impegnative anche per chi vuol rendersi comunque utile al prossimo.

Io non conosco dove e quando è nato il termine “miracolo”, ritengo però che esprima un gesto che, per la sua consistenza o per la sua bellezza, desta meraviglia, tanto da apparire un portento che deroga dalle normali leggi del vivere. Questa parola però è limitata per consuetudine nel mondo religioso ed è adoperata per manifestare veri o presunti interventi di Dio il quale, per natura, supera e può derogare alle norme che lui stesso ha fissato.

Da secoli e secoli le persone che si trovano in grosse difficoltà si rivolgono a Dio per ottenere da Lui quello che nessun altro gli può offrire. In questi ultimi tempi mi pare però che anche “i miracoli” siano andati un po’ in crisi. La cosa non mi dispiace più di tanto perché sono convinto che il buon Dio abbia dato all’uomo tali risorse e capacità per cui, impegnandosi a fondo, può risolvere quasi sempre da solo ogni difficoltà che gli si presenti davanti.

Un grande uomo di Dio, qual’è stato Bonhoeffer, il pastore protestante fatto impiccare da Hitler, ha teorizzato il discorso con una frase quanto mai significativa: “Non bisogna adoperare il buon Dio come il tappabuchi delle nostre difficoltà!”. L’uomo maturo e il cristiano serio oggi hanno capito che non si può tirare in ballo Dio per ogni problema che incontrano. Il Signore ci ha già attrezzati in partenza perché possiamo essere autonomi e risolvere personalmente la maggior parte delle difficoltà della vita. Il guaio è però che noi siamo spesso pigri ed egoisti, tanto da pretendere che gli altri, e soprattutto Dio, risolvano quello che possiamo fare noi stessi.

Se noi tutti prendessimo coscienza delle nostre effettive potenzialità e le mettessimo generosamente in atto, penso che potremmo benissimo sostituire sia sant’Antonio che santa Rita.

Pare che oggi il Signore ci consideri finalmente maturi e perciò si rifiuti di sostituirci o di menarci le mani, volendo che siamo noi stessi a fare “i miracoli” senza lasciar passare troppo tempo per “attrezzarci”.

29.03.2014

La Serenissima

Ho capito da molto tempo che non si riesce quasi mai a “salvare” i brevetti. Inventata una formula c’è chi, visto il successo, magari ricorrendo a qualche leggera modifica, tenta e quasi sempre riesce a copiarla.

La coppia Grillo-Casaleggio ha scoperto la possibilità di adoperare il web a livello politico e un po’ per l’uso di questo nuovo mezzo di consultazione, un po’ per l’istrionismo del comico, la loro soluzione è risultata vincente e in quattro e quattr’otto essi sono riusciti ad accaparrarsi un terzo del parlamento.

Mi pareva impossibile che qualcuno non volesse appropriarsi della formula! Infatti un certo illustre sconosciuto di nome Busatto, proveniente dalla Marca Trevigiana, terra che nonostante la crisi risulta una delle province più operose e più ricche, si è impossessato della “formula magica” e senza troppo dispendio di forze e di denaro, ha organizzato via Internet un referendum per l’autonomia dei veneti, che è diventato alla fin fine un plebiscito alla maniera del nostro Risorgimento.

Ieri sera alla televisione ho assistito alla “proclamazione” della “secessione” con tanto di folla, di gonfaloni di San Marco e alzabandiera su un pennone della piazza dei Signori a Treviso. C’era persino il coro “Serenissima” con i suoi vecchietti vestiti da gondolieri e cantava a gran voce “Viva Venezia… e le glorie del nostro leon”.

A dire il vero il tutto mi è sembrato più vicino all’operetta che ad un evento storico, comunque di certo è stata una delle manifestazioni del disagio e del malcontento di un popolo che ancora, tutto sommato, lavora e produce, nei riguardi di un apparato statale che mangia e tira a campare.

La Lega ci aveva provato, ma è naufragata nell’imbroglio e nello sperpero, arrischiando di venir cancellata dall’agone politico alle prossime elezioni. Temo però che anche i protagonisti del “Risorgimento della Serenissima” faranno la stessa fine, avendo questo mattino appreso che vogliono strutturarsi in partito e molto probabilmente diverranno un altro dei molti partitini che continuano a bisticciare tra loro tentando di accaparrarsi una fetta di questo malcontento imperante.

A me pare che i partiti storici, se una volta tanto condividessero in maniera trasversale questo desiderio di una certa autonomia amministrativa e di un recupero più largo della cultura e della storia specifica del nostro territorio, farebbero un grosso servizio all’intero Paese esaltando le ricchezze peculiari della nostra terra, riconoscendo i doveri, ma pretendendo anche i relativi diritti.

28.03.2014

Don Spritz

Qualche mese fa mi sono imbattuto in una trasmissione televisiva, non so più in quale canale, su due religiosi particolari. La prima era una giovane suora che aveva avuto un passato da protagonista in discoteca, ed una volta “convertita” e fattasi suora, continuava a cantare le lodi del Signore danzando come fanno le ragazze nelle missioni d’Africa o dell’America del sud. Ho visto qualche carrellata di queste “preci” particolari e vi confesso che non mi è dispiaciuta. Non solo non aveva nulla di irriverente, anzi, nelle movenze tipicamente femminili di un corpo bello e armonioso si avvertiva veramente la preghiera di lode all’onnipotente e sommo Signore. Di certo non assomigliava a Santa Brigida o santa Cunegonda, però mi è parsa più autentica e più comprensibile.

Il secondo era un giovane prete padovano, anticonformista all’ennesima potenza, che incantava i giovani nel posto dove loro sono, cioè al bar. Per questo, non so se i vecchi preti o i giovani, gli hanno affibbiato l’appellativo di “don Spritz”. Avevo tentato di seguire la vicenda di questo giovane prete, apprendendo che il vescovo di Padova lo aveva mandato a Roma a studiare e ho pensato che avesse evitato di mandarlo a Barbiana, come don Milani – perché avrebbe arrischiato di grosso – e l’avesse invece come “esiliato” in un’università tenuta dai gesuiti. Poi venni a sapere che, ritornato da Roma, l’aveva assegnato a fare l’assistente nel carcere cittadino dei “Due Palazzi”, un carcere ove si scontano anche gli ergastoli, un luogo quindi ancora “più sicuro”.

Poi persi di vista questo prete particolare, don Marco Pozza conosciuto come “don Spritz”. Ma qualche giorno fa ho scoperto su “Avvenire”, il quotidiano dei cattolici italiani, una breve recensione di un suo volume uscito qualche settimana fa. Ritagliai il foglio, chiesi a suor Teresa di comperarmelo perché io sono “imbranato” per queste cose e lei, com’è suo costume, trovò più comodo e conveniente fare una confidenza ad un amico comune e il giorno dopo arrivò, come dono di compleanno, il volume.

Il titolo sa di Papa Francesco: “L’odore del gregge” però sa decisamente anche del suo giovane autore. Il sottotitolo mi è un po’ più misterioso “Squarci di misericordia sul far della sera”.

Aperta la prima pagina ho letto la dedica che inquadra in maniera lucida questo prete anticonformista, ma che ama pazzamente Dio e l’uomo, suo capolavoro. La dedica dice così: “A chi sbaglia, a chi ha sbagliato e a chi sbaglierà”. Non c’è male come introduzione! Il volume ha un’impostazione d’avanguardia, il testo è impreziosito da splendide foto, talora romantiche talora di estrema novità e sorpresa.

Ho cominciato la lettura con avidità. L’autore è un uomo che sa adoperare la parola come un rasoio e sa inserire la vita e le sue esperienze di Vangelo con estrema abilità e competenza. Spero che da questa lettura sbocci nel mio cuore come un bel fiore di questa incipiente primavera.

27.03.2014

Una confidenza quanto mai sorprendente

Non so più dove mettere i libri su Papa Francesco. Di amici e conoscenti per grazia di Dio credo di averne veramente tanti, penso che a Mestre ci siano tante persone che mi conoscono, mi stimano e mi vogliono bene, anche se sono infinitamente più loro che conoscono me, che io loro.

Quando qualcuno di loro sente il bisogno di esprimermi riconoscenza o simpatia, va in libreria per regalarmi un volume, sapendo che io leggo molto volentieri e poi confido nei miei scritti le reazioni su quanto vado leggendo.

Immagino facilmente la scena: «Vorrei fare un regalo ad un prete, che cosa mi consiglia?», chiedono al libraio. E lui, questo signore che, tutto sommato, pur essendo un uomo di cultura, rimane infine un commerciante, va su quello che lui ritiene più sicuro, gli presenta l’ultimo volume su Papa Francesco.

Io in verità ho anche altri interessi, oltre quello di conoscere la vita e il pensiero del nostro Papa, che pur ritengo il più bel dono che Dio ha fatto alla Chiesa e al mondo in questo ultimo secolo. Comunque il dono rimane tale, indipendentemente dal prezzo e dal contenuto.

Penso, senza esagerare, di avere ormai più di una dozzina di libri sul nostro Papa. Mi ci vorranno alcuni anni per leggerli tutti. Oltre ai volumi, gli amici più vicini si permettono, per via della confidenza, di farmi anche dei “doni minori”, portandomi riviste e giornali sullo stesso argomento. Spesso li sfoglio velocemente e leggo qua e là, trovando sempre sorprese quanto mai interessanti. Mi incanta la franchezza, la libertà e la schiettezza di questo Papa che sta letteralmente smontando una impalcatura vecchia e piena di tarli che pretendeva di custodire il sacro e i suoi presunti portatori.

Qualche giorno fa il Papa ha incontrato i preti di Roma, la sua diocesi, ed ha fatto loro un discorso a braccio veramente toccante. Nella pagina de “L’Osservatore Romano” in cui ho letto il discorso, ho scoperto una “perla” che mi ha inizialmente stupito, ma poi ne ho colto anche la verità e la ricchezza di contenuto. Rivolgendosi ai convenuti, ha affermato: «I preti d’Italia sono bravi, sono bravi! Io credo che se l’Italia è ancora tanto forte non è tanto per noi vescovi, ma per i parroci, per i preti! E’ vero, questo è vero! Non è un po’ di incenso per confortarvi, io la sento così!» Poi ha concluso il discorso nel suo stile inimitabile di umiltà e di umanità: «Grazie tante dell’ascolto e di essere venuti qui».

Ci ho pensato sopra. E come non ci si può pensar sopra ad un discorso del genere, quando da secoli siamo abituati al “Palazzo”, all’eccellenza, all’ossequio comunque, ai vestimenti un po’ stravaganti per foggia e colore, ma soprattutto ad un’autorità indiscussa, ad un’obbedienza spesso acritica e non responsabile!?

L’umanizzazione di queste “categorie” della Chiesa è di certo non l’ultimo dei problemi del nostro tempo. Anche se, con tutta franchezza, dobbiamo dire che vi sono nel nostro Paese dei vescovi santi e intelligenti, comunque anche a questa categoria credo che la “primavera” di Papa Francesco abbia qualcosa da offrire di vero e di opportuno.

26.03.2014

Le formiche

Qualche tempo fa ebbi modo di confidare agli amici la sensazione che ho provato trovandomi in casa di primo mattino un pettirosso che, attratto dalla luce, era entrato dalla porta-finestra del terrazzino. E’ quanto mai interessante porci delle domande e divagare col pensiero sulle vicende esistenziali di un piccolo volatile invernale qual’è il pettirosso.

Ho provato tenerezza verso questo esserino sconosciuto che per brevi momenti è entrato nella mia casa, ma soprattutto nella mia vita. Normalmente capita di imbattersi nelle “pasionarie” che amano sinceramente il loro cane o il proprio gatto; molto meno di frequente si incontra chi si prende a cuore questi animali più liberi ma quanto mai interessanti. Perfino Gesù è rimasto incantato di fronte alla danza continua in cielo degli “uccelli dell’aria” e su di essi ha fatto delle considerazioni quanto mai significative, sottolineando come il buon Dio ha cura di loro che vivono così felici non avendo le esasperate preoccupazioni e l’avidità che caratterizza l’uomo e perciò hanno molto da insegnarci.

Questa mattina, mentre aspettavo chi mi avrebbe portato in chiesa, mi sono accorto di un piccolo formicaio ai bordi di un tombino. C’era una folla di piccolissime formiche accalcate in un angolo, tanto che pareva che quasi si calpestassero. Qualche centimetro più lontano c’erano altre formiche che correvano su e giù sulla mattonella in un continuo andirivieni apparentemente senza senso. Siccome qualche giorno prima avevo ascoltato una conversazione di un entomologo sulla vita assai complessa, ma ordinata, logica e funzionale, del formicaio, la cosa cominciò ad interessarmi, però senza riuscire a capire il mistero della vita di quelle creaturine estremamente minuscole ma in continuo movimento.

Quale funzione hanno nell’ecosistema? Quanto vivono? Si vogliono bene? Come si moltiplicano? Sono utili a qualcosa? Sono felici? Domande per me, inesperto di queste cose, senza risposta, che però di certo sono ragionevoli.
Nel Creato tutto ha una funzione!

Da un lato mi ricordai che per il mondo indù ogni creatura è sacra e va rispettata. Mi sono perciò vergognato di aver prima pensato di distruggere quel microcosmo pestandolo con la scarpa, riproponendomi poi di aver maggior rispetto ed attenzione per il mondo animale e concludendo che è crudele ed ignobile sopprimere senza motivo questi piccoli esseri misteriosi. Poi mi venne in mente una sentenza di un famosissimo entomologo che ha affermato: «Io non ho bisogno di credere, perché vedo Dio nella vita del Creato!»

Dopo questa breve meditazione ho avuto l’impressione che osservare la vita sia degli animali che delle piante aiuti veramente a lodare il Signore.

25.03.2014

In trasferta

La scorsa settimana l’ho dedicata a quella che una tradizione ormai secolare ha chiamato comunemente “la benedizione delle case”. In questo caso si è trattato dei 64 appartamentini del “don Vecchi” di Campalto.

Essendo il parroco di Campalto solo, come ormai quasi tutti i parroci della nostra diocesi, ho capito che non avrebbe potuto dedicare un po’ del suo tempo ai nostri anziani. Avendo poi la convinzione che la proposta religiosa passa soprattutto attraverso l’incontro personale, nonostante qualche difficoltà dovuta alla mia età e ad altri impegni, ho ritenuto giusto, anzi doveroso, incontrarmi con ognuno di loro per conoscerli personalmente, per pregare assieme il buon Dio perché conceda ad ognuno tempi sereni e per suggerire loro che la fede va alimentata con la pratica religiosa.

Confesso che sono felice d’aver fatto questa scelta. Per prima cosa ho potuto constatare che averli accolti in questa struttura protetta è stata una vera benedizione perché per molti di loro ha significato una vera “salvezza” da situazioni esistenziali veramente disastrose, e mi sono rassicurato così che l’essermi impegnato a dar vita a questa struttura è stato un vero atto di carità cristiana e, come tale, essi l’hanno inteso. Per me non è proprio poco constatare che la mia scelta è stata veramente in linea col messaggio di Gesù e soprattutto con il comandamento della carità.

Spesso qualcuno, anche dei preti miei colleghi – non so bene per quali motivi – ha trovato da dissentire e da criticare quanto io ho ritenuto giusto fare, mettendomi in crisi sulla validità di questa mia scelta.

Inoltre ho avuto modo di constatare quale disastro umano sta determinando il venir meno della stabilità della famiglia così com’era concepita da noi cristiani. Lo spirito radicale e libertario non solamente ha scardinato uno dei punti di forza della nostra società, la famiglia, ma ha portato pure a delle situazioni economiche veramente gravi per cui famiglie che vivevano discretamente si sono ridotte quasi alla miseria.

Infine ho potuto cogliere una messe di calda ed affettuosa riconoscenza, cosa che mi ha commosso e ripagato in maniera sovrabbondante dei sacrifici e delle preoccupazioni che ho dovuto affrontare per realizzare questo progetto di offrire una risposta alle situazioni di disagio di molti anziani.

Ripeto quello che ho affermato la scorsa settimana: che Gesù è, come sempre, di parola ed ogni atto di solidarietà lo ricambia col “centuplo e la vita eterna”.

24.03.2014

La bellezza del “Vespero”

Inutile che faccia finta di no, perché è vero che l’evento che ho vissuto con più intensità questa settimana è stato il mio compleanno. Raggiungere gli ottantacinque anni di età e i sessanta di sacerdozio è veramente una bella meta, ma soprattutto un magnifico dono di Dio.

Papa Giovanni, nel suo “Giornale dell’anima”, lo splendido volume che riporta le sue annotazioni sugli incontri, gli eventi e i pensieri che andava coltivando nel suo spirito, scrive, in occasione del suo sessantesimo compleanno: “Sessant’anni, che bella età: pace, serenità, distacco, sguardo dall’alto!” e altre cose del genere che non ricordo alla lettera. Lui però, a quella data, aveva solamente sessant’anni, mentre io ne ho un quarto di secolo di più! Che cosa potrei desiderare di più e di meglio?

Nonostante varie batoste mi muovo in maniera assolutamente autonoma, la testa, pur con qualche lentezza e dimenticanza, funziona ancora, cosicché ogni settimana riesco ancora a dialogare con migliaia e migliaia di concittadini attraverso “L’Incontro”; celebro i misteri di Dio nella chiesa più umile della città, una chiesa che però tutti sentono così calda e così intima che la preferiscono ad altre chiese più pretenziose a livello artistico; mi occupo di una comunità così cara e fedele che di meglio non potrei desiderare. Ogni domenica essa mi edifica e mi scalda il cuore, tanto che non vedo che volti buoni e affettuosi. I nostri incontri non hanno niente di formale. Della mia gente mi piace tutto, perfino il chiacchierare affettuoso ed amichevole prima delle celebrazioni liturgiche.

Vivo in un minuscolo ma grazioso appartamentino nel borgo “don Vecchi”, tra tanti coetanei che più che amici sono padri, fratelli e figli. Cosa potrei desiderare di più a ottantacinque anni? Tanto che alla festa del mio compleanno, che infine si è identificata con la messa, ho potuto dire, con tutta sincerità e convinzione, alla mia gente: «La vita è un magnifico dono, la vita è vita fino all’ultimo respiro, e la vita va vissuta con entusiasmo, con generosità, dando il meglio di noi e nel contempo cogliendo il meglio degli altri».

Mi è parso che la folla dei presenti prendesse coscienza di tutto ciò e condividesse fino in fondo le mie parole. Forse il compleanno è stato per me una nuova “luna di miele” che non durerà a lungo, però essa già mi aiuta a vivere meglio e ad affrontare con più coraggio il domani.

Anche di questo ringrazio il Signore.

23.03.2014

L’uomo nuovo

Domenica scorsa la liturgia ci ha offerto per la riflessione domenicale della comunità, la pagina del Vangelo che racconta la trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor.

Per innumerevoli anni della mia vita, sulla scorta della tradizione e dell’educazione religiosa ricevuta, ho ritenuto che la trasfigurazione fosse uno dei tanti miracoli di Gesù per dimostrare la sua natura divina. Ora non ne sono più convinto, ossia penso ancora che quel fatto sia un “miracolo”, perché di qualcosa di grande e di bello si tratta, ma di un “miracolo” però che sia alla portata di tutti poterlo perseguire.

Nel cammino spirituale che sto facendo ho sempre meno bisogno di miracoli, anzi quasi mi disturbano piuttosto che aiutarmi perché sono sempre più convinto che Gesù sia venuto tra noi soprattutto per aiutarci ad inserirci nel meraviglioso progetto di Dio, perché possiamo coglierne il più possibile la magnifica ricchezza che esso rappresenta.

Un tempo ho letto delle dotte disquisizioni teologiche sulla trasfigurazione. Ad esempio il Signore potrebbe aver impressionato solamente la retina degli occhi dei tre apostoli, in modo che solo loro potessero vedere mentre niente sarebbe stato visibile e udibile da altri possibili spettatori. Altri obiettavano invece che il Signore aveva presentato realmente “suo Figlio” in una luce folgorante e che realmente risuonarono nel silenzio della montagna le Sue parole: “Questo è il Figlio che io riconosco come il figlio modello, ascoltatelo e seguitelo!”.

Ora penso che tutta questa erudizione sia perfettamente superflua ed inconsistente. Perché questo fenomeno di “vedere” con occhi nuovi la realtà che ci è familiare e coglierne “il valore aggiunto” è un fenomeno che può accadere a tutti se niente niente si è un po’ meno distratti e superficiali e più attenti a cogliere la ricchezza che è nascosta sotto “la scorza” e l’involucro.

Domenica alla mia gente portai un esempio: ricevere un mazzo di fiori è certamente qualcosa di gradevole perché i fiori offrono armonia, bellezza e profumo, ma se io riesco a percepire che quei fiori hanno in sé il messaggio di una persona che ti vuol bene, quei fiori diventano mille volte più preziosi e più belli.

Ho ripetuto ancora una volta che solamente i poeti, gli innamorati e i santi sanno cogliere il meglio della vita. Per questo è veramente necessario che diventiamo “uomini nuovi” e non ci accontentiamo più di ridurci a macchine fotografiche che registrano solamente “l’involucro” o peggio la scorza delle persone e degli eventi.

Conclusi dicendo che se ci fossimo sforzati di vivere in questo atteggiamento l’Eucaristia, anche noi avremmo potuto vedere e sentire Cristo in tutto il suo fulgore perché capace di aprirci gli occhi e il cuore alle “meraviglie” di Dio.

22.03.2014

“Il Messia?”

Seguo con interesse, curiosità e preoccupazione le vicende di Matteo Renzi, il ragazzo che lo scoutismo ha regalato alla politica e soprattutto al nostro Paese.

Io, che per moltissimi anni ho fatto l’educatore scout, ho tentato di passare alle centinaia di ragazzi tra i dieci e i vent’anni che ho incontrati sulla mia strada, questa verità: ai piccoli, che la vita è un bel gioco, e ai grandi che essa è una bella avventura che ognuno deve vivere stando “al timone della sua barca” tentando di servire i fratelli. A Matteo Renzi, ora Capo del Governo del nostro Paese in uno dei momenti più critici e cruciali della sua storia, i suoi “capi” hanno insegnato le stesse cose e lui stesso l’ha fatto da adulto ai ragazzi del suo “reparto” e del suo “clan”.

E’ vero che pure all’interno di questa cornice ognuno traduce il messaggio attraverso la sua personalità specifica. Renzi è un fiorentino, ha perciò la battuta facile e tagliente ed ho la sensazione che sia, di natura sua, talvolta un po’ sbruffoncello e talaltra temerario, perciò sia portato ad offrire il suo “servizio” nel contesto di questo tipo di personalità.

Ora mezza Italia lo sta aspettando al varco per vedere cosa realmente sa fare. Temo però che troppa gente pretenda che lui sia un nuovo Messia che con la bacchetta magica risolva i malanni ormai atavici del nostro Paese. Monsignor Da Villa, che fu un mio parroco quanto mai saggio ed intelligente, quando nel passato anch’io pretendevo dal mio vescovo qualcosa di simile, mi diceva: «Guarda, Armando, che neppure il Messia, Figlio di Dio, ha messo a posto completamente il mondo perché, quando poco più che trentenne qualcuno, infastidito dal suo messaggio radicale, ha tentato di metterlo a tacere per sempre, neppure Lui aveva portato a termine la sua “riforma”».

Pretendere che Renzi faccia un “miracolo”, cambi l’Italia è, più che una illusione, una assoluta stoltezza. Il nostro Paese ha bisogno di una nuova mentalità, una nuova cultura, un nuovo stile di vita. Per arrivare a questo occorrono decenni e decenni e soprattutto che, se non tutti, almeno molti remino dalla stessa parte. Io sarei contento se Matteo Renzi riaccendesse almeno una speranza, offrisse il suo piccolo apporto, facesse sognare che è possibile almeno sperare.

Un paio di settimane fa mi pare di aver sentito in una trasmissione televisiva che per il Parlamento, per il Senato e per il Quirinale “lavorano” milleottocento dipendenti, che il Presidente della Repubblica ci costa più della Regina d’Inghilterra e del Presidente degli Stati Uniti d’America e che in Parlamento sono ricomparsi “i franchi tiratori”. Solamente per risolvere questo ci vorrà almeno un secolo, per non parlare d’altro!

Sarò riconoscente a Renzi e ad ogni altro che tenterà di raddrizzare le gambe dell’Italia, anche se riuscirà a farle fare in avanti soltanto un passo da formica.

21.03.2014

Il centuplo

In questi giorni ho ancora il cuore caldo della dolcezza degli abbracci, dei sorrisi e delle parole care con le quali la mia gente ha festeggiato il mio ottantacinquesimo compleanno.

La mia festa di compleanno è stata sempre, anche in passato, una ricorrenza nella quale ho avvertito l’amicizia e la fraternità di tante persone care, non credo però che sia mai stata tanto bella come quella di quest’anno. Ho persino pensato che, nell’inconscio, il mondo in cui vivo avverta che ormai sono al lumicino e che, se non domani, dopodomani, andrò a riposare “con i miei padri”, come usa dire la Bibbia dei patriarchi antichi e perciò non si deve perdere quest’ultima occasione per dimostrare affetto ed amicizia.

O sarà forse perché oggi la mia condivisione con gli anziani dei nostri Centri è totale; infatti l’aver scelto di condividere la sorte di quelli meno abbienti della nostra città, ha fatto sentire loro il mio desiderio di vivere assieme l’ultima stagione della vita.

Avevo colto già il messaggio del fondatore dei “Piccoli fratelli di Gesù”, quest’uomo di Dio del nostro tempo il quale, nel suo splendido volume “Come loro”, mette a fuoco con spiritualità la vita della sua comunità di fratelli e sorelle e afferma che non basta credere nella solidarietà, ma solo la condivisione con la sorte degli ultimi fa si che essi capiscano a fondo ed apprezzino la fraternità finalmente non teorica ma reale. Oggi soltanto scegliendo il vivere “come loro” innesca quel sentimento di stima e di solidarietà vera e profonda. Credo che da questa verità siano sgorgati anche attorno a me tanta simpatia, stima e affetto.

La mia scelta di rifiutare una vecchiaia comoda e senza fastidi in un istituto per il clero anziano non mi è costata più di tanto, anzi mi è stata ricambiata dal sentirmi sempre partecipe di una grande e vera famiglia di fratelli, realtà impagabile che ricompensa e gratifica quanto mai. Ma in certe circostanze particolari, quale quella del compleanno, fa capire quanto sia vera la promessa di Gesù che “chi lascia tutto e si fida del suo insegnamento di fraternità reale riceve cento volte tanto quello che ha lasciato, ed in più avrà la vita eterna!”.

Io non ho ancora provato quanto sia vera la seconda parte della promessa, però ho provato, non soltanto in quest’ultima occasione, ma in tante altre circostanze, quanto sia vera la prima parte della promessa di Cristo.

20.03.2014

La predica del padre carmelitano

Quando facevo il consulente religioso dell’Associazione dei Maestri Cattolici, si organizzavano di frequente delle lezioni di carattere pedagogico e didattico. Ne ricordo una in particolare di una docente di pedagogia dell’Università di Padova, che affermava che le verità che resistono di più al passare del tempo sono quelle che qualcuno ha scritto per primo sulla coscienza del bambino. Credo che sia vero.

Per quanto riguarda la mia vita cristiana e di prete, anch’io, a livello pastorale ricordo più nitidamente le mie prime esperienze sacerdotali e le “direttrici di marcia” che ho appreso dai miei primi parroci e dai sacerdoti e religiosi che ho incontrato da fanciullo e da adolescente.

Da questa convinzione è nata in me la scelta, quando ero parroco, di privilegiare il mondo dei bambini e dei giovani ed oggi mi sforzo soprattutto di seminare nei miei sermoni delle verità forti offerte con grande convincimento in maniera che possano essere, per i fedeli, punti di riferimento e di aggancio piantati con decisione nella coscienza perché reggano anche quando infuria la tempesta di sentimenti, di opinioni e di tesi divergenti.

A tal proposito ricordo la predica di un padre carmelitano che ho ascoltato durante un ritiro spirituale in seminario forse ai tempi del ginnasio o della prima liceo. Questo sacerdote aveva imperniato il suo discorso sul fatto che ognuno deve far chiarezza dentro di sé ed avere nitida l’idea di quale sia la meta che vuole raggiungere nella sua vita.

Ci fece in proposito un esempio su cui ho riflettuto tantissime volte e che mi ha sempre salvato da sbandamenti e da infatuazioni apparentemente fascinose. Disse: «Se io incontro per strada un uomo e gli chiedo dove sta andando, perché ho bisogno che mi aiuti a raggiungere un posto poco conosciuto, se questi è una persona cortese mi dirà dove sta andando, ma se gli chiedessi quale sia la meta ultima della sua vita, molto probabilmente mi guarderebbe stupito come se io fossi un balordo».

A questo mondo affondiamo letteralmente in un mare di parole, opinioni, congetture, informazioni ed interessi, però troppi non hanno ancora affrontato il problema dei problemi: “Cosa fare della vita, qual’è la sua meta finale, qual’è il traguardo che giustifica e dà senso e giustificazione ad ogni sforzo?”.

Io sono grato al fraticello carmelitano che tanti anni fa ha seminato nella mia coscienza questo interrogativo che mi ha costretto a darmi una meta precisa e definita.

Spero che questa mia confidenza convinca anche altri a fare lo stesso perché questa è vera saggezza.

19.03.2014

Vangelo al vertice

Tante volte ho citato una sentenza di Ignazio Silone, l’autore de “L’avventura di un povero Cristiano” (Celestino V), che si definiva “cristiano senza Chiesa e socialista senza partito”.

Bisogna andare alla sorgente perché altro è aprire con gesto meccanico il rubinetto dell’acqua e vederla scorrere per lavare la pentola o pulirsi le mani e altro è andare a vederla sgorgare dalla roccia, fresca e pulita. Alla sorgente c’è il mistero, la poesia, l’autenticità, mentre l’acquedotto fornisce acqua trattata col cloro, nel rubinetto prevale la banalità del gesto che ti fornisce un servizio utile, ma senza la ricchezza del mistero.

Mi sono posto mille volte il problema della religiosità del credente e soprattutto del cristiano di oggi. Il modo con cui oggi alimentiamo la fede, adoriamo il sommo Iddio e rendiamo vivo il nostro credere, spesso è incolore, insapore e talora perfino insignificante e banale. Per riscoprire la nostra fede penso che sia ormai sempre più necessario che andiamo “alla sorgente”. Per scoprire la religiosità di Cristo, il modo di rapportarsi col Padre e di tradurre in vita questo rapporto.

Gesù era di certo un uomo di fede, infatti in tutti i passaggi della sua vita e nell’affrontare gli eventi, si rivolgeva sempre prima al Padre con un rapporto profondo (mi vien da dire “esistenziale”) però non possiamo dire né che fosse un “uomo di Chiesa” – per spiegarmi meglio, un “clericale” – né, meno che meno, un bigotto. Andava al tempio e sempre si comportava in maniera reattiva ed anticonformista. Basti pensare a come ha reagito con i venditori ambulanti, alla sua presa di posizione in sinagoga a Nazaret e nelle sue parabole. Ad esempio il discorso sulle offerte, sul fariseo e il pubblicano. Infine credo che la sua religiosità diventasse sempre solidarietà con gli ultimi, i più infelici, i più bisognosi di aiuto. Gesù è stato definito “uno che visse per gli altri”, la sua fede diventa amore e coinvolgimento con i drammi del prossimo.

Non è che nella Chiesa di ieri e di oggi non ci siano stati e ci siano ancora cristiani veri, discepoli di questo Gesù, però la Chiesa strutturata non sempre ha dato immagine alla religiosità dei cristiani in genere e dei cattolici, in specie di questo tipo.

Un tempo i discepoli più fedeli e più autentici di Gesù si trovavano negli ultimi gradini del Popolo cristiano. Oggi fortunatamente la lezione di religiosità di stampo evangelico finalmente ci giunge dal vertice. Ho appena letto un titolo sul “Nostro Tempo”, il quindicinale di Torino: “Francesco, il Pontefice anticlericale!”. E ieri sera ho appreso che Papa Francesco gode del 97% di gradimento. Finalmente possiamo, senza perplessità, essere orgogliosi della nostra guida. Ora tocca a noi seguirlo sulla strada di Gesù.

18.03.2014

“Il vecchio di casa”

Nota della redazione: per un caso fortuito questo intervento di don Armando, scritto il 17 marzo, appare nel giorno della scomparsa del Patriarca emerito Marco Cé, che siamo felici di poter ricordare anche con queste riflessioni di don Armando a margine del biglietto di auguri dedicatogli dal Patriarca emerito pochi giorni prima dell’incidente che lo avrebbe poi condotto al riposo eterno.

Io sono nato in campagna in un paese il cui territorio si affianca alla riva sinistra del Piave. Quando sono nato, ottantacinque anni fa, tutta la vita si rifaceva all’agricoltura e perciò anche la struttura familiare risentiva di questa realtà. Il lavoro della terra in quel tempo, quando erano pressoché inesistenti le macchine agricole, esigeva tante braccia, cosicché le famiglie dovevano essere numerose, contavano allora venti, trenta, quaranta componenti e la struttura familiare era di stampo patriarcale.

Il “padrone di casa” era quasi sempre il vecchio, esperto delle stagioni e delle semine a cui tutti si rifacevano sia per il lavoro sia per le scelte di vita. Il padrone di casa era per tutti e per ogni livello di vita un’autorità ascoltata con rispetto e talvolta quasi con venerazione.

M’è venuta in mente questa impostazione sociale ed umana delle famiglie del mio paese qualche giorno fa quando, aprendo una busta a me diretta, vi ho trovato un biglietto di augurio per il mio compleanno da parte del vecchio Patriarca, il cardinale Marco Cè. Queste sono state le care ed amabili parole con le quali mi ha porto il suo augurio.

Venezia 8/3/2014
“Caro don Armando”,
auguri di buon compleanno!
Vedo che non cedi nel lavoro, ma continui a crescere, che Dio ti benedica.
Io ho dovuto cedere mi hanno insegnato che “non cade foglia che Dio non voglia”.
E mi metto in pace, una preghiera reciproca
+ Marco Card. Cè

Il Cardinale Cè ha soltanto qualche anno più di me, eppure anche in questo ultimo decennio, in cui sia lui che io siamo rimasti per età e per pensiero ai margini della nostra Chiesa, l’ho sempre sentito come “il vecchio di casa” sulla cui autorità, saggezza e paternità idealmente mi potevo appoggiare, sentendolo sempre come un sicuro punto di riferimento.

Proprio in questi ultimi giorni mi era passato per la mente di scrivergli, perché sentivo il bisogno di dirgli questi miei sentimenti, perché lui avvertisse cosa egli rappresenta per me – ma anche forse per tutti i suoi preti – quanto conti la sua presenza discreta ed appartata, ma reale e viva. Purtroppo, ancora una volta, mi sono lasciato assorbire dalle piccole vicende del mio quotidiano, così che ancora una volta la sua ricchezza spirituale ed umana mi ha preceduto.

Io, in passato, non sono stato uno dei suoi “dipendenti” più tranquilli ed ossequiosi, nonostante fossi consapevole della sua mitezza e della sua calda paternità spirituale. Ora, anche se gli anni e la fragilità hanno ridotto quasi al silenzio e relegato tra le pareti domestiche il mio vecchio patriarca, avverto più che mai la gioia e la grazia di avere ancora alle mie spalle, quale padre e protettore “il nostro vecchio di casa” e mi auguro di godere fino alla fine di questo magnifico dono di Dio.

17.03.2014