Quella libertà di “scegliersi il prete” che non tutti i colleghi gradiscono

Quando cominciai a pensare come realizzare quelle strutture che sarebbero poi state chiamate “alloggi protetti per anziani”, arrivai presto alla conclusione che, per quanto riguardava la sanità, avrei offerto l’ambulatorio a qualche medico perché i residenti potessero poi sceglierlo come loro medico di famiglia. Avrei così facilitato il medico, facendogli trovare i suoi clienti tutti nel medesimo luogo, senza dover girare per la città e far tante scale e, nello stesso tempo, avrei fatto trovare il medico appena fuori dalla porta di casa ai residenti.

La cosa non andò perché i cittadini italiani hanno diritto di poter scegliere liberamente il loro medico di fiducia. Interpellai un magistrato di fama, ma questi mi ripeté che al massimo avrei potuto suggerire il medico, ma assolutamente non avrei potuto imporlo, nonostante una scelta collettiva avesse potuto dare tutti i vantaggi di questo mondo.

Ripiegai sulla linea dell’autonomia della scelta, anche perché certuni non si sarebbero mai fatti convincere ad abbandonare “il loro medico”, anche se farlo venire al “don Vecchi” sarebbe stato pressoché impossibile. L’Italia garantisce queste “piccole libertà”, anche se poi nega praticamente quelle più importanti.

In questi giorni ho deciso anch’io di diventare legalista. Siccome ad alcuni colleghi non garba che alcuni loro fedeli anagrafici scelgano il “loro prete” per il funerale, allora ho chiesto alle varie agenzie di pompe funebri che nel fax con il quale mi si forniscono i dati del defunto fosse inserita la scelta di fare il funerale nella mia chiesa del cimitero, avallata con la firma del titolare con queste precise parole: “La scelta della chiesa e del sacerdote è stata determinata dalle espresse volontà dei famigliari dell’estinto”. Spero che così nessuno possa sospettare che sia io a suggerire queste scelte, e così se la prendano con i famigliari del caro estinto o con chi organizza il “commiato cristiano”, ma assolutamente non più con me.

Se a questo mondo posso essere utile, se posso far del bene, se posso aiutare i miei confratelli togliendoli dall’imbarazzo di celebrare il funerale di qualcuno che aveva avuto motivi – giusti o presunti – di non gradire la presenza del suo parroco, sono ben felice; altrimenti ho altri mille modi di impiegare bene il mio tempo.

L’ultimo rilegatore di Mestre

Anch’io ho più di qualche vizio e qualche mania. Da sempre ho conservato ciò che sono andato scrivendo durante i miei 55 anni di sacerdozio. Mi è sempre stato più facile mettere per iscritto le mie riflessioni che affidarle alle parole.

Ultimamente ho raccolto in un elegante armadio la mia “opera omnia”, fatta di articoli sugli argomenti più disparati. Mentre ho buttato via la montagna di appunti disordinati che mi sono serviti per i miei sermoni, ho sempre conservato i periodici a cui ho affidato le mie idee e i miei messaggi. Ogni anno ho consegnato ad un vecchio tipografo in pensione la raccolta degli scritti perché me li rilegasse.

Anche quest’anno, a fine dicembre, ho telefonato perché ripetesse l’operazione. Ahimé! Lo stato della sua malferma salute s’è aggravato tanto che ho capito che non avrebbe più potuto farmi la rilegatura. Ho chiesto a destra e a sinistra, trovando, si, degli “stabilimenti” che rilegano libri, ma solamente a livello industriale.

In maniera un po’ avventurosa, dopo una lunga ricerca, mi è stato detto che c’era ancora, in via Piave, precisamente in via San Michele, un artigiano che si dedica a questo lavoro.

Questa mattina sono andato dal vecchio rilegatore, un vecchietto della mia età ma ancora arzillo. Quando gli chiesi al telefono a che ora apriva, mi rispose pronto “alle otto”, quasi meravigliandosi che io potessi pensare che lo facesse più tardi.

La bottega sembrava un deposito di rigattiere, tanti erano i libri in ogni angolo. Scoprii che era stato con me in seminario, sapeva delle mie vicende; si mise a conversare piacevolmente dei tempi andati. Sono stato veramente felice di aver ritrovato questo compagno del secolo scorso, e più felice ancora d’averlo trovato in una bottega, solo soletto, a portare avanti la sua piccola azienda. «Sono rimasto l’ultimo in tutta Mestre», mi disse con un tono che non ho capito bene se fosse di orgoglio o di desolazione.

L’artigianato ormai è morto, l’hanno ucciso i sindacati, i governanti stupidi e di corte vedute e le nuove generazioni illuse di poter campare senza fatica, senza responsabilità e senza professionalità. Gente che ha fatto scomparire un piccolo mondo imprenditoriale fatto da persone intelligenti, volonterose e che amavano veramente il lavoro.

Non so ancora quanto reggerà l’ultimo rilegatore di Mestre, a me non interessa più di tanto perché abbiamo quasi la stessa età, ma fra qualche anno chi vorrà lasciare qualche traccia del suo pensiero, dovrà mettere in un sacco di plastica della Veritas i fogli della sua ricerca.

Il coraggio delle margheritine

Io sono particolarmente amante dell’armonia e della bellezza in qualsiasi modo esse si esprimano. Vivendo ora ai margini della città e in un luogo ove la cementificazione non ha ancora soffocato la natura, mi diletto da un lato ad abbellire con piante e fiori il parco del “don Vecchi”, e dall’altro, mi piace quanto mai seguire l’avvicendarsi della fioritura delle piante, lasciandomi andare ad una contemplazione che fa godere non solo i miei occhi, ma anche lo spirito.

Fino a qualche settimana fa ho goduto di un’autentica esplosione di colori e delle forme diverse dei crisantemi che ci hanno allietato, a cominciare da agosto, arrivando al loro maggior fulgore a novembre, reggendo persino al gelo di dicembre.

Ora osservo con attenzione e curiosità come le pansé reggano bene al freddo e, pur tutte raggomitolate in se stesse, stiano preparandosi a vestire i loro colori sgargianti, nella ormai sognata ed attesa primavera.

Assieme alle pansé, che si difendono faticosamente dal freddo, godo ogni giorno di un “filare” dei miei amatissimi fiorellini bianchi che, invece, donano il meglio di sè stessi in questi mesi invernali. Al “don Vecchi” questi fiorellini, che stanno al bordo del prato verde, sembrano uno splendido collier al collo di qualche bella signora, qual’è la natura. Più i piccoli candidi fiori emergono dal fogliame verde intenso delle loro piante, più ho l’impressione che il buon Dio voglia rispondere alla mia sete di bellezza, anche quando la terra è brulla, quasi impaurita dal gelo invernale.

In questi giorni però ho scoperto che il prato che è riparato dai venti gelidi del nord e s’affaccia al sole, è ormai trapunto da una serie di piccole margherite bianche; mi sembrano tanto temerarie nel voler fiorire così presto, quasi avvertano impazienti da molto lontano il respiro tiepido della primavera. Il coraggio delle margheritine di sfidare l’inverno, mi aiuta ad avere fiducia nel bene, o tentare quello che l’esperienza riterrebbe pericoloso o inutile.

Scorgendo questo piccolo miracolo, mi pare che noi non siamo meno fortunati dei re magi guidati dalla stella a scoprire il Figlio di Dio. Se spendessimo qualche momento in più ad osservare la natura che ci circonda, avremmo anche noi dei segni portentosi che ci guiderebbero con autorevolezza all’incontro con la salvezza dalla paura e dal vuoto.

La prova del nove

Oggi, col computer e i telefonini multiuso non serve più, ma quando io ho frequentato le elementari la prova del nove era uno strumento assolutamente indispensabile per verificare se le operazioni erano giuste.

Il paragone può sembrare azzardato, ma In questi ultimi tempi ho pensato frequentemente a questa operazione matematica in occasione dei numerosi eccidi di cristiani in Pakistan, in Nigeria e altrove a motivo della fede.

Credo che la capacità di affrontare il martirio per non venir meno alla propria fede sia la prova del nove per verificare la consistenza e la validità del proprio credere. Il distintivo, la bandiera, l’annotazione nei registri dei battesimi e perfino la pratica religiosa e la frequenza ai riti, credo che non siano più strumenti validi per misurare la consistenza della fede.

Ripeto che in questi ultimi tempi, apprendendo le testimonianze sublimi di coerenza da parte di semplici cristiani, per nulla acculturati in teologia, che di fronte al fondamentalismo islamico non hanno esitato a pagare col sangue la fedeltà alla fede cristiana, mi sono chiesto se la fede dei cristiani della vecchia Europa, dell’Italia e pure del nostro Veneto, considerato da tanti come una riserva privilegiata di religiosità, alla prova del nove del martirio reggerebbe e darebbe esito positivo. Temo tanto che questa prova indicherebbe che l’operazione non regge, che c’è qualcosa che non quadra. Ci siamo abituati ad un cristianesimo pantofolaio, privo di spina dorsale, quasi fosse un vestito che si può smettere e buttare non appena fa un po’ più freddo o più caldo.

Recentemente ho seguito con un po’ di curiosità e di meraviglia le dispute che si sono tenute nella mia vecchia parrocchia per un problema che è sembrato tanto importante, cioè fare la messa dei bambini alle 9 piuttosto che alle 9.30. E’ sembrato che ai piccoli si chiedesse la scelta eroica di andare a messa alle 9 piuttosto che mezz’ora più tardi e che i genitori fossero costretti a qualcosa di inimmaginabile – l’accompagnarli in chiesa per le 9.

In Italia, ormai da secoli i cristiani godono di una situazione di comodo o di privilegio, tanto che si considera la fede come qualcosa di scontato e parrebbe che si pensasse che il buon Dio dovrebbe essere persino troppo contento e riconoscente che ci dichiariamo credenti, quando poi questa “fede” in realtà non significa quasi niente.

E’ purtroppo vero che quello che non si paga è ben poco apprezzato.

La biennale d’arte sacra

“Il dado è tratto!”, facciamo risorgere “La biennale d’arte sacra”.

L’esperimento di una biennale locale d’arte sacra ebbe inizio nella mia vecchia comunità pressappoco una ventina di anni fa ed è morta quattro o cinque anni orsono.

Io mi sono sempre interessato di arte; quest’amore è nato da un bacillo che monsignor Vecchi, assistente dell’UCAI di Venezia (Unione cattolica artisti veneziani) ha seminato nel mio animo negli anni del liceo, quando ero ancora vergine e reattivo ad ogni bella semente. Venezia poi è una scuola d’arte a cielo aperto. A Venezia tutto parla di armonia, di bellezza: chiese, palazzi, calli, rii, ponti ed orizzonti marini.

Non so se ci arrivai da solo o se qualcuno me l’ha fatto capire, che mentre nei secoli andati religione ed arte erano come due sorelle siamesi, dal settecento in poi pian piano si è arrivati alle liti, quindi al divorzio, infine allo scontro duro ed amaro. E’ sempre triste e desolante la divisione e il guardarsi in cagnesco.

Sognatore come sempre, pensai di dar vita nella mia città ad un tentativo di riconciliazione, nella speranza di arrivare pian piano a far rinascere prima il dialogo, dopo la simpatia, infine l’amore. Con pochi soldi, ma con tanta buona volontà, è nata la “Biennale d’arte sacra” per aiutare gli artisti e presentare le realtà della fede con un linguaggio moderno, anzi corrente.

Le edizioni di questa singolare e povera impresa sono state parecchie e molti artisti aderirono al progetto cimentandosi sul soggetto sacro.

Al “don Vecchi”, dove si trova la più vasta galleria d’arte moderna, sono molte le opere provenienti da questa biennale in miniatura.

La mia uscita dalla parrocchia e l’abbandono di una pastorale globale che abbracciava tutto l’uomo ed ogni suo interesse, fece si che venisse a mancare il respiro a questa iniziativa.

Quest’anno per Pasqua, con l’aiuto di una giovane e coraggiosa critica d’arte, ritentiamo l’esperimento su un soggetto che, a nostro parere, è facile: “Maria di Nazaret”.

Non m’aspetto Madonne di Leonardo, Michelangelo, Pinturicchio, Cima da Conegliano, Lotto o Veronese, ma spero che avremo delle immagini della Vergine che vesta come le nostre donne, ne riporti il sorriso, le lacrime, la luce interiore, ossia delle immagini di una Madonna che parli la lingua degli uomini del nostro tempo.

Riflessioni in attesa del nuovo Patriarca

Nota della redazione: ricoediamo che questi pensieri sono stati scritti prima della nomina del nuovo Patriarca.

Credo di essere il primo a rivolgere al Cielo una preghiera, perché ci doni presto un Patriarca adeguato ai bisogni e ai problemi della Chiesa veneziana. Fino al momento in cui butto giù queste note, il Signore non mi ha ascoltato per quanto riguarda il tempo e non sono ancora in grado di sapere se mi ascolterà o meno sul tipo di vescovo che crederà opportuno mandarci.

A prescindere dai miei gusti io firmo già in bianco l’accettazione e ripeto: “Sia fatta, o Signore, la tua volontà,” anche perché soltanto Tu sai qual è il vescovo più opportuno per Venezia”.

In questi ultimi tempi ho avvertito dagli articoli della stampa cittadina, un certo disagio ed una certa insofferenza. Pur con toni rispettosi, l’opinione pubblica pare poco favorevole a queste lungaggini burocratiche che sono poco comprensibili per il nostro mondo che corre tanto veloce.

Poi è arrivato don Gianni, che in maniera più provocatoria che diplomatica, ha lasciato una colonna in bianco in terza pagina di “Lettera aperta” per dare idealmente spazio ai fedeli ad esprimere il loro parere di certo non positivo. Mi pare che la trovata sia più di dissenso che di consenso.

Infine è arrivato l’editoriale dell’organo ufficiale del patriarcato “Gente veneta” in cui il direttore, don Sandro Vigani, mio nipote e giornalista di valore, ha invitato, con discorso pacato, ad accogliere benevolmente il Patriarca che Dio vorrà mandarci, le cui qualità non potranno soddisfare tutti, ma che comunque si dovranno accettare, soprattutto perché a noi poveri mortali non è concesso di conoscere il disegno di Dio, il quale sempre è il più saggio e il più rispondente alle nostre necessità.

Monsignor Pizziol, nostro concittadino, ora vescovo di Vicenza ed amministratore provvisorio della Chiesa di Venezia, più di una volta ci ha invitato alla preghiera, quindi alla pazienza ed infine ha azzardato la data di Pasqua per l’arrivo del nuovo Patriarca. Ma monsignor Pizziol sta ormai da quella parte che pare sappia dire solo “Va bene!”.

Con Monti “si fa l’Italia o si muore”

Ogni sera non dimentico mai di dire un’Ave Maria per Monti e il suo governo, che io guardo come un vero miracolo ed un dono del Cielo.

Prima che il presidente Napolitano escogitasse questa soluzione che gli va a tutto merito, avevo la sensazione che l’Italia si trovasse su un binario morto con le sue rotaie che non reggevano più. Da una parte Berlusconi, ormai totalmente squalificato, ridotto a gridare proclami vuoti e sparsi al vento, e dall’altra parte l’accanimento di Bersani, che però aveva alle spalle un partito zoppicante e diviso e non sapeva far altro che chiedere il ritiro del suo antagonista.

Ambedue le parti contrapposte non riuscivano a fare l’unica cosa opportuna e doverosa che era quella di dialogare e collaborare per il bene del Paese, pur avendo sotto gli occhi l’esempio della Germania, il Paese più ricco e più avanzato della nostra vecchia e tormentata Europa.

Napolitano, fortunatamente, con destrezza è riuscito a “tirar fuori il coniglio dal cilindro”, l’innocente e candido Mario Monti. Il tecnico Monti e la sua squadra, forse più per forza che per convinzione, riesce a camminare sui trampoli sempre pericolosi tra il centrodestra e il centrosinistra, è nella non felice impresa di costringere a fare quello che con un minimo di intelligenza avrebbero dovuto fare da tempo.

Mio fratello don Roberto, come me, ha ringraziato il Cielo e ha “acceso una candela” per Mario Monti. Credo che dobbiamo riesumare la famosa frase “Qui si fa l’Italia o si muore”. Alla preghiera per il nuovo capo del governo non dimentico mai di aggiungere un’altra Ave Maria perché i sindacati, che non sono di certo meno dissennati ed avidi dei politici e delle varie lobbies della corporazione privilegiata, non facciano “una frittata” del governo “rompendo le uova nel paniere”, impedendo che la nuova compagine governativa finalmente composta non da parolai ma da esperti nell’arte, faccia tutte le altre riforme necessarie che né destra né sinistra riuscirebbero mai, e poi mai, a fare.

Alcune parrocchie non vogliono “L’Incontro”

Da qualche tempo forse, spero più per incomprensione che per gelosia, il nostro periodico sta trovando qualche difficoltà nell’essere accolto in certe chiese parrocchiali della nostra città. Mi verrebbe la tentazione di fare i nomi delle parrocchie del “gran rifiuto”. Quanto è sempre più facile che botteghe, bar e locali di ogni genere accettino il periodico, tanto avverto una certa diffidenza da parte di alcuni parroci nell’accettare nella propria chiesa una voce che intende essere riflesso del messaggio di Cristo, che però si incarna nel concreto delle problematiche esistenziali e non vuole volare nella stratosfera di verità fumose e che non impegnano per nulla.

“L’Incontro” non è e non vuol essere il portavoce di una parrocchia e perciò non può essere considerato come “illecita concorrenza”; né è pure la voce della Chiesa veneziana, ma intende solo rappresentare la rimeditazione del messaggio evangelico, attenta alle problematiche vive della nostra società. Intende inoltre contribuire, anche se marginalmente, alla incarnazione della Parola di Cristo nel contesto della nostra società e del nostro tempo. Il desiderio della redazione è quello di offrire un contributo, seppur modesto, per la rievangelizzazione del nostro territorio.

Dato poi che il periodico è distribuito gratuitamente, perché è finanziato non da lobbies che hanno obiettivi più o meno interessanti, ma dalla generosità di volontari che si impegnano a stamparlo e diffonderlo, è più appetibile ai concittadini dei periodici, anche di taglio religioso, che hanno un prezzo di copertina.

Riesce perciò incomprensibile che dei discepoli privilegiati di Cristo rifiutino questo strumento pastorale che rilegge, ogni settimana, il pensiero di Cristo e tenta di tradurlo nel contesto del nostro tempo e della nostra società.

A Mestre fortunatamente vengono diffusi altri periodici di istituzione religiosa ben più ricchi di contenuti, di notizie e di riflessioni de “L’incontro”, quali “Gente veneta”, “Famiglia cristiana”, “Il messaggero di sant’Antonio”, “Avvenire”, ecc. Credo però che, anche si sommasse il numero di copie di tutti questi giornali, non si raggiungerebbe complessivamente il numero di copie settimanali de “L’incontro”.

E’ chiaro che noi della redazione vogliamo rispettare le opinioni di ognuno, ma ci riesce difficile comprendere i motivi di queste resistenze, soprattutto quando certe realtà parrocchiali non riescono a “parlare” alla loro gente che con fogli piuttosto miserelli.

Il Don Vecchi 5 è una lode a Dio che nasce dalla nostra fede e dalla carità cristiana

E’ arrivato il finanziamento della Regione per realizzare il nuovo Centro “don Vecchi” per gli anziani in perdita di autonomia fisica. Ora possiamo sperare di riuscire a far vivere in maniera autonoma anche gli anziani, che pur avendo ancora la testa a posto, hanno bisogno di più di un supporto per godere ancora della loro autonomia decisionale e “da persone” fino all’ultimo respiro.

La stampa locale sta dando molta evidenza a questo fatto e credo che abbia ragione perché si tratta di “un fatto epocale” che finalmente difende la libertà e l’autonomia dell’anziano, lo rende libero da dipendenze burocratiche, da un lato, e dall’altro gli permette di non pesare sui figli, che in questo momento di crisi hanno essi stessi molto da faticare per arrivare alla fine del mese.

Nello stesso tempo permette all’ente pubblico di non dissanguarsi per dover affrontare rette pesantissime ed impossibili con l’aumento esponenziale della popolazione anziana e la diminuzione della forza lavoro che si sobbarchi questo peso economico.

A questo riguardo sento il bisogno di precisare qualche aspetto che potrebbe essere frainteso. La Regione non ci regala nulla; ha costituito un fondo di rotazione col quale possiamo affrontare il costo della struttura, ma dovremo restituire fino all’ultimo millesimo ciò che ci viene anticipato.

Al Comune abbiamo chiesto “il diritto di superficie” per costruire la struttura. Neanche questo ente ci darà niente per niente: pagheremo questo diritto di superficie pur alleggerendo l’onere del Comune di pagare delle rette veramente salate alle case di riposo per non autosufficienti.

Da noi i futuri residenti pagheranno solamente i costi condominiali e le utenze e chi avesse un reddito abbastanza consistente darà un contributo di solidarietà per chi ha la pensione minima. Tutto ciò si chiama, ed è, solidarietà. Molti lo daranno volentieri questo contributo mentre gli avidi e gli egoisti invece lo dovranno fare perché questo è giusto.

Se il Comune sarà sollecito ed intelligente quanto la Regione, al massimo entro due anni la nostra città potrà disporre di quasi quattrocento alloggi per anziani poveri e questo non è poco.

Voglio precisare altre due cose che reputo importanti: le nostre strutture sono e saranno, oltre che comode, anche signorili, perché siamo convinti che “i poveri sono i nostri padroni”! Secondo: questa operazione la consideriamo una lode a Dio che nasce dalla nostra fede e dalla carità cristiana, poiché vogliamo che non si rifaccia a criteri di beneficenza e di filantropia. Stiamo facendo tutto questo solamente “perché Dio lo vuole!”.

Scelte, prezzi da pagare e risultati raggiunti

La bega con un mio confratello mi ha reso alquanto amara la vita in queste ultime settimane. Mi addolora quanto mai non riuscire a vivere in pace con le persone con le quali dovrei avere quasi tutto in comune.

La mia vita da prete quanto è stata bella e positiva nei riguardi dei cosiddetti “lontani”, altrettanto è stata difficile con i “vicini”, e più ancora con i colleghi. Le incomprensioni sono state molte e le critiche mi hanno spinto a chiudermi a riccio e ad isolarmi dalla mia confraternita.

Per natura e per scelta rifiuto le chiacchiere inutili, i convegni perditempo, il seguire le mode correnti, il “far da tappezzeria” alle cerimonie, i riti ampollosi e un certo servilismo ecclesiastico. Ho pagato di buon grado e senza chiedere sconto il prezzo che questa libertà comporta. Mentre mi sono speso totalmente per la mia gente, ho amato appassionatamente la mia comunità, non ho mai fatto vacanze, non mi sono mai alzato dopo le cinque e mezza e fino a quando sono andato in pensione non mi sono mai ritirato per il sonno prima delle 23.

Penso di aver amato ed ascoltato il mio vescovo, pur mantenendo la mia dignità di persona, la mia libertà di pensiero e l’onestà di rapporto. La mia casa è sempre stata aperta, non mi sono mai negato a nessuno ed ho continuato a farlo, ho sempre affermato che nessuno mi avrebbe mai recato disturbo per alcun motivo.

Ho visitato ogni anno una o più volte tutte le famiglie della mia parrocchia, anche le più ostiche, perché ho sempre ritenuto che il Signore mi mandava per tutti.

Nella mia comunità non ho mai permesso che alcun gruppo prevaricasse sugli altri. Ho mantenuto aperto il dialogo presenziando a tutti gli appuntamenti più significativi, quali il battesimo, la prima comunione, il matrimonio. Ho accompagnato alla tomba tutti i membri della comunità. Ho tentato di offrire il messaggio di Gesù tramite un settimanale che ha raggiunto le 3500 copie settimanali, un mensile inviato a tutte le famiglie, un mensile per gli anziani, una emittente radiofonica.

Tutto questo non lo ritengo un merito, ma solamente l’adempimento al mio dovere. Non ho mai preteso che gli altri si allineassero a me.

Credo di aver ottenuto qualche risultato: nel censimento è risultato che frequentava il 42% dei parrocchiani, ho lasciato 200 scout, cento chierichetti, il centro per gli anziani, una florida pastorale per gli sposi e delle strutture d’eccellenza.

Mi si accusa di essere autoreferenziale, di non adeguarmi agli indirizzi pastorali del vicariato della diocesi. Forse hanno ragione su questo punto, ma certamente torto marcio sui risultati.

Il cardinale Scola disse: «Chi ha gambe corra». Io ho tentato di farlo, mi spiace se qualche “zoppo” rimane indietro, ma non so cosa fargli!

Mio fratello Luigi ha dovuto chiuder bottega

Non passa settimana che non appaia sui giornali il triste “bollettino di guerra” nel quale vengono comunicate le “perdite subite” nelle aziende d’Italia. Ormai si contano a decine o centinaia le chiusure di piccole aziende sorte dall’iniziativa, dalla laboriosità e dallo spirito di sacrificio di certi operai o capomastri intelligenti e volonterosi che si sono messi in proprio; spesso piccole aziende estremamente efficienti che hanno prodotto lavoro e ricchezza per il nostro Paese, e soprattutto hanno formato una schiera di operai specializzati competenti e con comportamenti professionali sani e laboriosi.

Quando leggo queste notizie rimango amareggiato e preoccupato che l’Italia sperperi e si privi di quella che è la sua autentica e specifica ricchezza, non avendo essa giacimenti di petrolio o miniere di metalli preziosi. D’altronde i mali di questo nostro povero Paese sono talmente tanti, che si arrischia di abituarsi a questi “necrologi” aziendali.

Quando però la notizia tocca da vicino, essa diventa un vero dramma. Mio fratello Luigi, col 31 dicembre, ha chiuso l’azienda di falegnameria che mio padre ha aperto ottant’anni fa e che lui ha condotto brillantemente e con successo fino all’altro ieri. L’età di mio fratello, ma soprattutto le tasse, e più ancora la terrificante normativa e burocrazia che vige per l’impresa familiare, trattata come una multinazionale, l’ha costretto a chiudere.

Io, tornando a casa, non sentirò più il profumo dell’abete o del larice appena tagliati, la “musica” della pialla o della sega a nastro, e per uno come me che ha passato la sua fanciullezza tra i trucioli, a scaldare la colla caravella e a raddrizzare i chiodi storti per riutilizzarli, sarà come sentir morire una lunga parte della vita. Per mio fratello sarà poi un dramma che renderà triste la sua vecchiaia.

La bottega della mia famiglia ha cominciato a morire però ormai da anni, quando sindacati e Stato hanno fatto scomparire l’apprendistato, preferendo che all’artigiano subentrasse l’operaio alla Charlot, parte integrante di una catena di montaggio, facendo così scomparire l’artigiano è il “parente prossimo” dell’artista, per farlo diventare una “rotella” della macchina anonima.

Mi sarà più triste tornare a casa non trovando più gli odori e i rumori del mio passato. Il mio “piccolo mondo antico”, povero ma vivo e bello, è ormai morto, anzi fatto morire, e così l’Italia sarà ancor più povera.

Ancora una parola su don Verzè

Una saggia e umana sentenza dell’antica Roma recita: “Parce sepolto”, lascia stare i morti. Cosa che ritengo giusta e che voglio sempre rispettare.

Ieri ho letto la notizia della morte di don Verzè, proprio nel giorno in cui il “San Raffaele”, la sua splendida creatura, è stato messo all’asta.

Credo che questa sia la terza o quarta volta che mi occupo della figura e della testimonianza di questo vecchio prete veronese, ma che spese la sua vita nella città di sant’Ambrogio, Milano. I miei interventi sono stati altalenanti: ammirazione, stupore, delusione, recupero e quindi amarezza.

In questi ultimi tempi la stampa è stata particolarmente cattiva col fondatore dell’opera colossale del San Raffaele. I laici, nel senso più negativo del termine, non gli hanno di certo risparmiato critiche, accuse e non hanno mancato di puntare il dito sulla vita, l’opera, il pensiero e la moralità civica di quest’uomo di Chiesa. L’opinione pubblica cattolica è stata piuttosto tiepida nella difesa di questo religioso, ha preso le distanze, se ne è lavata le mani, consegnando idealmente alla magistratura, organo della giustizia civile, l’impresa di questo prete.

Io ritengo di dover spendere una parola ancora per questo sacerdote che ha tentato di inserire nell’umano, nella concretezza e nella società il precetto cristiano della solidarietà. Non spetta a me, fortunatamente, dare un giudizio sulla vita e sull’opera di don Verzè – fra l’altro non ho una conoscenza seria su quanto ha fatto. Però sento il dovere di aggiungere una considerazione a favore di questo prete che, nonostante tutto, ammiro e stimo.

La società e pure uomini di Chiesa, che non si sporcano le mani con la vita, che sono prudenti della peggior prudenza perbenista, che si garantiscono al massimo, che non hanno il coraggio di rischiare, che si limitano a criticare gli altri, che non si spendono tutti per una causa, che pensano sempre a fatti propri e al loro tornaconto, in maniera ipocrita si limitano a criticare e a giudicare. Così han fatto con don Verzè, il quale può aver pure sbagliato, ma ha fatto quello che nessun cittadino e nessun prete ha tentato e saputo fare.

Chi fa può talvolta ed in parte anche sbagliare, ma chi non fa sbaglia sempre e sbaglia di grosso.

Don Verzè potrà sempre dire a Cristo, l’unico che lo può giudicare con giustizia: «Signore, ho esagerato, ma tu per primo me ne hai dato l’esempio, giocandoti tutto per gli altri e ottenendo la mia stessa sorte».

Sono convinto che sbagliare per troppo amore non sia una colpa, ma sempre e comunque un merito. Ho pregato per don Verzè e l’ho pregato. Desidero e mi propongo di seguire il suo esempio solitario piuttosto che quello della moltitudine di prudenti, inetti, pavidi ed inconcludenti.

“Chi cammina sempre sul ciglio della strada finisce facilmente per precipitare nel fosso”

Circa un paio di anni fa una signora che collabora ai magazzini “San Martino”, mi ha regalato una autobiografia di don Gallo, il noto prete del dissenso ecclesiale. Credo che questa cara signora non abbia scelto il volume perché in linea con le sue idee – perché credo che sia una persona moderata e la pensi come la Chiesa ufficiale; forse è stato il libraio che, avendo saputo che voleva fare un omaggio ad un sacerdote, le suggerì il volume che tratta della sua categoria.

Don Gallo è un mio coetaneo che si è sempre occupato di sbandati, prostitute, drogati ed estremisti a livello sociale e religioso ed è fondatore e responsabile di una comunità di recupero nella sua Genova.

Don Gallo m’è parso intelligente, prete appassionato delle creature umane anche più derelitte, credente a modo suo e “innamorato” della Chiesa in maniera ancor più a modo suo.

Pur non condividendo io molto lo stile, le battute ad effetto, il linguaggio da bassifondi e la passione sconfinata per tutto ciò che odora di sinistra e di dissenso, ho ammirato e m’ha fatto bene la sua capacità di recuperare anche nelle creature più degradate, esasperate e ribelli, certi valori autentici, anche se testimoniati in modo anomalo e fuori dalle righe del pensare e dell’agire comuni.

Qualche giorno fa un altro caro concittadino mi ha regalato un altro volumetto di don Gallo, dal titolo stuzzicante per una persona come me, particolarmente attenta alle cose della fede e della religione: “Il vangelo di un utopista”. Ho gradito molto il dono, ma sono rimasto perplesso e sconcertato dalla lettura del volume.

Il testo è composto da 5 capitoletti: il Vangelo dell’unica famiglia umana – il Vangelo della pace – dell’utopia – della sobrietà – della costituzione. E, per finire in bellezza: “Il Vangelo De André (il cantautore) e Balducci” (prete del dissenso)

Il messaggio dello scrittore è sconcertante, perché è confuso, irrequieto, scomposto ed inaccettabile.

Un tempo qualcuno disse che “chi cammina sempre sul ciglio della strada finisce facilmente per precipitare nel fosso”. Penso che tutto questo sia capitato anche a don Gallo e infatti ho l’impressione che l’amore per l’eccesso e il fazioso abbia fatto cadere rovinosamente nell’assurdo questo vecchio prete.

Di positivo, dalla lettura, ho tratto la preoccupazione di non fare la stessa fine!

“Le luci del tramonto”: il diario del 2010

Per un “blitz” di persone che mi vogliono bene e han creduto di farmi piacere, è stato dato alle stampe il mio “Diario del 2010”. Questa cara gente non solamente si è sobbarcata l’enorme fatica di inserire al computer le 330 pagine di testo, correggere quanti più errori possibile, ma anche ha mitigato il titolo del volume, sostituendo quello che avevo ipotizzato “Il canto del cigno”, con quello più saggio “Le luci del tramonto”, dandomi così la possibilità di trovare seppur un piccolo spazio per il titolo del diario 2011.

Fra pochi giorni avrò 83 anni, segnati soprattutto negli ultimi venti da interventi chirurgici di non poco conto. Talvolta mi sorprendo di essere ancora vivo e più ancora mi provoca gioia e riconoscenza l’avere ancora la possibilità di impegnarmi per l’avvento del Regno e la grinta per portare avanti le mie idee circa la pastorale, la vita, la società e la Chiesa.

Sono sempre stato un solitario, pur costantemente partecipe agli eventi che riguardano la collettività e il cristianesimo in particolare. Ora mi sento ancora più solo perché la mia visione della vita mi pare così poco condivisa.

Scrivevo poco tempo fa nelle pagine di questo testo di “confidenze” e di “reazioni”, che torno spesso sugli stessi argomenti, non solamente perché sono vecchio, ma soprattutto avvertendo che mi resta ancora poco tempo, e perciò sono preoccupato di ribadire le “mie verità”, perché temo che non ci sia più alcuno ad offrire quegli apporti che nascono dal profondo della mia coscienza che, fondamentalmente, è rimasta libera dalle mode dell’opinione pubblica e dalle convenienze.

Confesso che ogni tanto mi capita di leggiucchiare qua e là qualche pagina del volume tanto lungo e tanto pesante del mio diario e finisco sempre per ringraziare tutti quei cari amici che hanno reso possibile questa bella avventura e il buon Dio che mi aiuta a contribuire in positivo – o forse anche in negativo – alla maturazione di una Chiesa più coerente ed una società più sana.

La reazione dei cattolici sulla questione dell’ICI

Io sono per natura, per convinzione e per scelta, un cristiano ed un prete “interventista”. Credo che i cristiani non debbano rassegnarsi sempre alla difesa, ma debbano spendersi “all’attacco”. Non debbano trincerarsi attorno al campanile, ma paracadutarsi ove c’è la mischia, ove si fa la storia e si costruisce l’opinione pubblica.

I cristiani non devono lasciarsi vincere dalla paura, temere gli avversari, ma devono buttarsi fuori dalla trincea, perché essi posseggono gli strumenti migliori, hanno delle motivazioni assolutamente più valide, degli obiettivi più rispondenti ai bisogni dell’uomo.

Mi fanno pena i “cristianelli da sagrestia”, come li ha definiti non so se il cardinale Ottavini o il cardinale Siri. Il tempo dei martiri non è finito, e se uno crede, deve essere disposto a pagare qualunque prezzo per le sue convinzioni.

Questo mio modo di pensare mi ha portato a provare un senso di soddisfazione riguardo le nette prese di posizione dei vescovi, della stampa cattolica e perfino dei preti in merito ad una questione marginale ma significativa, ossia il problema dell’ICI.

I soliti mangiapreti, anticlericali all’ennesima potenza, quali sono i radicali capofila, i massoni, liberali e politici dell’estrema sinistra hanno montato una indegna campagna di stampa, volendo far passare l’idea che la crisi economica è determinata dal fatto che la Chiesa non pagherebbe l’ICI.

M’è piaciuto l’intervento di Bagnasco col suo “Parliamone!”: se c’è qualcuno che sgarra, intervenite, ma non siate così stupidi e faziosi da “mettere in ginocchio” preti, frati, suore e parrocchie, che stanno dando una mano allo Stato impegnandosi fino allo spasimo per aiutare i poveri, educare i ragazzi, combattere i mali della società.

Bocca, il prestigioso giornalista di sinistra, morto poco tempo fa, con onestà intellettuale ed autentico anticonformismo, scrisse qualche anno fa: “Se gratti e vai a vedere che cosa ci sta dietro ad ogni opera benefica e solidale, al novantanove per cento trovi sempre un prete, un frate o una suora”.

Sono stato tanto felice di riscontrare in questa occasione un sussulto di orgoglio e di coraggio da parte dei cristiani d’Italia, i quali finalmente hanno reagito alla “carognata radicale” e al codazzo più reazionario e retrivo della nostra società. “Forza, cattolici!”.