Chiedo scusa al Comune, alle assistenti sociali e ad una persona che abbiamo accolto

La Chiesa con tanta sapienza, prima che i cristiani si incontrino con Dio per l’Eucaristia, li invita a confessare le loro colpe non solo a Dio, ma anche ai fratelli. Il “Confiteor” infatti dice testualmente: “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”, e quindi il fedele è invitato a battersi il petto in segno di pentimento.

Alcuni mesi fa, proprio su questo diario, me la sono presa con certe assistenti sociali perché avevano fatto pressione affinché un’ospite dell’asilo notturno – luogo che oggi si denomina col titolo più civile “Casa dell’ospitalità”, ma il cui contenuto non cambia – fosse accolta al Centro don Vecchi di Campalto. La cosa non mi era andata giù più di tanto, anzi mi aveva irritato perché ero, e sono, convinto che ogni istituzione debba operare in maniera coerente e quindi non si riduca ad una specie di “rifugium peccatorum” valido per tutti. Semmai è opportuno creare altre strutture che diano risposte adeguate ad esigenze diverse. Col “don Vecchi” vogliamo aiutare gli anziani autosufficienti, quanto basta! Perciò non mi pareva giusto accogliere una persona che da una decina d’anni viveva con i senzatetto dell’asilo notturno e poi, perché le era venuto il ghiribizzo di avere un alloggio tutto per sé, dovessimo spalancarle le porte del “don Vecchi”.

Per affetto e per riconoscenza verso un funzionario del Comune, persona che stimo quanto mai per il suo impegno e per la sua collaborazione con il nostro ente, chiusi un occhio e, pur a malincuore, accettai questa persona perfino a condizioni di favore.

Il primo impatto è stato tutt’altro che felice e da qui è nata la mia contrarietà e la critica alle assistenti sociali, categoria di persone con alcune delle quali, in passato, avevo avuto più di un motivo per lamentarmi ed essere più che mai deluso. Di questa colpa ho preso coscienza quando, prima mi fu riferito, e poi ho avuto modo di verificare di persona, che questa persona s’era inserita bene, ha cominciato subito a mostrarsi disponibile, tanto che si comportava con l’attenzione e la premura come il “don Vecchi” fosse la sua casa e la sua famiglia. Questo inserimento, con esito così positivo, nonostante le premesse per nulla favorevoli, mi costringe a battermi il petto pubblicamente e a chiedere perdono a lei, alle assistenti sociali che si sono occupate del caso e al Comune, e mi induce a fare il proposito di trattare ogni creatura come persona unica ed irripetibile, non permettendomi più di pensare che perché uno vive in un certo luogo, debba avere tutte le caratteristiche proprie di quell’ambiente. Spero ora di ottenere il perdono.

Un editoriale di don Gianni che ho apprezzato

Il mio attuale giovane successore nella parrocchia di Carpenedo ha un suo stile tutto personale nel redigere il settimanale di quella comunità cristiana. La linea redazionale di “Lettera aperta” – così continua a chiamarsi il periodico che ho iniziato ben quarant’anni fa – preferisce le notizie succinte, con le quali informare i fedeli sui ritmi e le iniziative parrocchiali, mentre “il fondo”, anche quando tocca argomenti importanti, è sempre breve, veloce e deciso: poche pennellate forti che lasciano al lettore il compito, se ne ha voglia, di sviluppare per conto suo il tema appena accennato.

Qualche settimana fa don Gianni, in preparazione della Pentecoste, ha appena accennato nel suo “editoriale” ad una questione ben importante che nella Chiesa non mi pare abbia trovato finora una soluzione tranquilla e recepita dalla comunità, ossia il rapporto tra la Chiesa, istituzione gerarchica e che cammina lenta, senza grandi scosse e grandi innovazioni, spesso insofferente dei suoi membri che tentano “fughe in avanti”, e la Chiesa del carisma, ossia la Chiesa che si manifesta attraverso i profeti, la Chiesa di quei cristiani “irrequieti”, sempre avidi di coniugarsi col nuovo e col diverso, desiderosa di incontrare Cristo in avanti, piuttosto che indietro.

Questo problema io lo avverto da decenni e confesso che mi hanno sempre più affascinato le prese di posizione dei profeti, anche se irrequieti, propensi a camminare sul ciglio, amanti del nuovo e convinti che sia mille volte più opportuno e doveroso cercare l’incontro con Cristo nel futuro piuttosto che nel passato.

Ricordo una bellissima pagina di don Mazzolari in rapporto al Risorto. “Cerchiamolo”, diceva questo profeta del passato recente “non nel sepolcro ma nel domani, non lo troverete più nelle cattedrali gotiche, pur belle e sublimi, ma dove si vive, si costruisce il domani, anche se colà non è tutto sicuro e tranquillo!”.

Don Gianni ha incorniciato questo discorso con intelligente prudenza, come qualcosa che viene dalla cultura teologica, non prendendo posizione, ma lasciando tuttavia intendere che non bisogna privarsi dell’apporto estremamente vivo ed importante che deriva dal carisma che la Chiesa istituzionale fa fatica ad accettare e spesso cerca di imbrigliare perché non “scuota troppo le mura con il vento della Pentecoste”.

Ho l’impressione che don Gianni indichi una strada senza esporsi e arrischiare qualche pericolo di troppo, o forse è molto più saggio ed equilibrato di me, esponendo una questione annosa nella Chiesa, affermando che c’è, ma affidando alla storia la sua soluzione.

Ecco come don Gianni, con penna leggera e felice, tratta l’argomento.

Qualcuno vede nel Nuovo Testamento due chiese: quella di Pietro, fondata sulla gerarchia dei ruoli (apostoli, discepoli, battezzati) e quella di Paolo, democratica, dove ciascuno ha un proprio carisma a beneficio di tutti. La prima sarebbe la chiesa pasquale, fondata sul Capo degli apostoli che per primo entra nella tomba del Risorto. La seconda sarebbe la chiesa di Pentecoste, ove lo Spirito viene donato a tutti in egual modo. Non credo a questa netta distinzione ma riconosco che in Italia trascuriamo il mistero di Pentecoste, festa dei talenti di ognuno. C’è un secondo passo. Qualcuno, anche fra noi, trova nella diversità una fatica. Essa è invece un’occasione per crescere. È lo Spirito di Pentecoste che unisce i figli di Dio diversi fra loro e tutti capiscono il linguaggio degli altri. Anche questo è un dono da chiedere nella liturgia di domenica prossima.

L’abitudine è un pericolo che può impoverire anche il rapporto con Dio

Un tempo ho letto in un libro di meditazione che l’abitudine è un grosso pericolo, è un vizio sempre in agguato che svuota la ricchezza dei rapporti e la capacità di cogliere e di godere appieno della realtà in cui ti incontri tutti i giorni.

L’abitudine non ti fa godere dei volti delle persone care con cui vivi, ti toglie la possibilità di valutare il grande dono della vita, ti fa ritenere scontata la bellezza del Creato, ti toglie ebbrezza, incanto, poesia ed amore per quanto c’è di bello nella vita e nel mondo.

Bisognerebbe avere la capacità dei poeti, che hanno una sensibilità particolare per percepire ogni segno e manifestazione dell’armonia, per cogliere appieno il dono che il Signore ci ha fatto.

In questi ultimi tempi mi è venuto da riflettere su un aspetto particolare di questo pericolo di impoverire e svuotare di contenuti preziosi anche il nostro rapporto col mistero di Dio. Mi pare di essere arrivato alla conclusione che per un prete l’abitudine, cioè il ripetere frequentemente certi gesti e parole sacre, l’estrema dimestichezza col mistero e con i gesti atti a percepirlo, a sentirlo vivo, che si esprimono nei riti religiosi, costituisce ancor di più un pericolo veramente micidiale.

Un tempo tutto il rapporto col sacro era tutelato da genuflessioni, inchini, vesti, per avere la sensazione e la percezione del mistero. Recentemente ho assistito alla messa di un prete tradizionalista, discepolo del vescovo Lefèvre e, quasi con sorpresa, ho riscoperto quello che per moltissimi anni della mia vita anch’io ho praticato: genuflessioni, inchini, gesti delle mani, le modulazioni della voce.

Ora però, vedendo il prete tradizionalista, rimasi turbato, mi sembrava quasi un’operetta! Ora noi preti del post-Concilio, abbiamo semplificato tutto, rese quasi più domestiche le manifestazioni del rapporto con nostro Signore: così nelle parole che nei gesti, nelle genuflessioni che nelle vesti sacre, nelle candele, ecc.

Allora mi sono domandato: “Tutto ciò ha arricchito o impoverito la mia fede? Sono rimasto perplesso! Questo “dare del Tu” a Dio, ho l’impressione che arrischi di farmi perdere il senso del sublime, dell’assoluto e del mistero, del senso di Dio, creatore, ordinatore, padre e giudice.

Per ora ho deciso di avere un rapporto più pacato, più attento anche nell’aspetto esteriore perché, per conservare ed arricchire “il contenuto” credo che abbia importanza anche curare di più il contenitore.

L’incidente al don Vecchi 4: cosa aspetta il comune a mettere in sicurezza via Orlanda?

Ciò che da sei mesi temevamo è purtroppo puntualmente accaduto. Oggi (alcuni mesi fa, NdR), poco dopo mezzogiorno, la figlia di una residente al “don Vecchi” di Campalto, avendo visitato sua madre, mentre tentava di uscire dal Centro per immettersi in via Orlanda, è stata centrata da un furgone in fase di sorpasso e scaraventata nel fossato adiacente alla più famigerata e pericolosa strada della nostra città. L’auto su cui viaggiava la signora è stata ridotta ad un groviglio di lamiere e l’occupante, per puro miracolo, è stata tratta dall’abitacolo tutta malconcia ma, fortunatamente, ancora viva.

In un minuto sono arrivati i vigili urbani in gran numero, la Croce Rossa, il 118, i pompieri, il carro attrezzi, mentre i vecchi del Centro guardavano inorriditi e spaventati tutta questa gente trafficare convulsa, non sapendo che l’incidente riguardava proprio loro.

E’ dall’ottobre dello scorso anno, subito dopo aver inaugurato il nuovo Centro per anziani, il “don Vecchi 4”, che ospita 64 alloggi, con una popolazione di più di una settantina di anziani dell’età media di 80 anni, che mi sono accorto dell’estrema pericolosità dell’immissione su via Orlanda, unica via possibile per raggiungere qualsiasi altra meta per i residenti. Per questi anziani non è possibile andare in nessun luogo né a piedi né in bicicletta, ed anche l’uso dell’automobile, che pochi possiedono, è estremamente pericoloso.

Mi sono subito dato da fare: ho incontrato personalmente l’assessore alla viabilità del Comune di Venezia, avv. Ugo Bergamo; ho incontrato pure il capo compartimento dell’Anas, chiedendo una pista ciclopedonabile per raggiungere Campalto in sicurezza (500-600 metri di pista). Questi signori per ora hanno escluso questa soluzione per mancanza di soldi. Quindi si è concordata faticosamente una soluzione tampone provvisoria, una pista in sicurezza per usare l’autobus, addossandoci la maggior parte delle spese.

A tutt’oggi non abbiamo ancora ricevuto i necessari permessi. Per ottenere tutto ciò: 1) sono state raccolte 500 firme di residenti e dei loro famigliari; 2) ho mandato due lettere raccomandate con l’avvertimento che qualora fosse successo un incidente, avrei sporto denuncia contro i suddetti enti; 3) mi sono addossato il costo maggiore dell’operazione; 4) la stampa: “Il Gazzettino”, “La nuova Venezia”, “Gente veneta”, “Il Corriere del Veneto” sono intervenuti svariate volte denunciando il pericolo; 5) gli anziani mi hanno scritto: “Ci ha donato una prigione dorata, ma sempre di prigione si tratta”.

Ora è avvenuto l’incidente. Non so che cosa aspettino ancora!

Da aggiungere però che il 13 ottobre dell’anno scorso abbiamo affisso sull’edificio la scritta “Centro don Vecchi”. Il 14 ottobre, il giorno dopo, un agente dell’Anas ci ha intimato di oscurarla perché altrimenti avrebbe dovuto multarci. L’abbiamo coperta, abbiamo pagato la tassa e dopo tre mesi è giunto il permesso di esporre la scritta.

Volete la ciliegina? Oggi mi hanno riferito che all’Anas sono irritatissimi nei miei riguardi per la mia impertinenza nella richiesta. Questa è la burocrazia dei nostri enti pubblici!

Sogni come montagne da scalare, sogni fatti naufragare

Ci siamo ritrovati anche questa sera (alcuni mesi fa, NdR) per esaminare la planivolumetria del “Villaggio solidale degli Arzeroni” e dei problemi connessi, per farlo accettare dal Comune e dalla Regione. E’ più di un anno che ne parliamo, ne discutiamo, riempiamo carte su carte, esaminiamo soluzioni possibili ed alternative; nonostante tutto questo non siamo ancora molto lontani dai sogni. Quant’è difficile fare il bene del prossimo!

Ad ogni pié sospinto incontri una norma, un egoista preoccupato di difendere un suo presunto diritto, un burocrate che pretende che non manchi una virgola e deciso a difendere l’importanza del suo ruolo sociale, un avversario che, per partito preso o per dei princìpi misteriosi ed inconcepibili, ti vede come un nemico da cui difendersi o un soggetto che teme possa mettere in ombra la sua parte politica, o semplicemente un concittadino che gli risulti antipatico.

Tutti questi motivi, che io sono convinto siano delle assurdità di fronte al bene dei fratelli in difficoltà, diventano invece montagne da scalare, forse più impegnative del Cervino o dell’Everest per una guida alpina.

Lo staff di tecnici scelto dalla Fondazione per realizzare il progetto è, questa volta, tutto rosa: tre architette giovani, agguerrite con le norme, sciolte nel linguaggio ed accattivanti nell’illustrare il progetto.

La brochure offertaci, che riassume la loro ricerca preliminare, l’ipotesi su cui discutere, sembrava un regalo porto con un sorriso che incorniciava di eleganza e di buon garbo il contenuto, ancora avvolto nel mistero per tutti noi.

Mentre ho assistito con curiosità e vera letizia a questo incontro, in cui il dialogo tra committenti e progettiste era facilitato dalla natura, che rende sempre più facile e vivace il dialogo tra uomini e donne, qualsiasi sia l’argomento trattato, sognavo ad occhi aperti “Il villaggio solidale degli Arzeroni”, che non solo darebbe risposta a tanti disagi e a tante attese, ma rappresenterebbe finalmente un altro, seppur piccolo primato per la nostra città, che da un punto di vista urbanistico, culturale, artistico e sociale, ha così poco di cui gloriarsi.

Però questa gioia e questa speranza erano mitigate dal recente naufragio di un altro affascinante progetto che ci ha fatto sognare e trepidare per un paio di anni: “La cittadella della solidarietà”!

Le onde dell’avvicendarsi degli avvenimenti e delle persone ha già fatto scomparire ogni traccia, cosicché a tanti non interessa punto il recupero del relitto, perché ciò metterebbe in luce l’inerzia, l’imperizia e la poca fede di chi ha praticamente facilitato questo naufragio.

L’uomo lotta spesso per la salute fisica, tralasciando però il benessere spirituale

Questa mattina (relativamente a quando è stato scritta questa pagina di diario, NdR), per un’ennesima volta, mi sono trovato di fronte all’ambulatorio n°4 del reparto di urologia della clinica universitaria di Padova, in attesa dell’instillazione che dovrebbe aiutare l’organismo a produrre gli anticorpi necessari per combattere l’insorgere del carcinoma. Il corridoio è lunghissimo e gli ambulatori sono molti.

Mentre ero seduto, in attesa del mio turno, osservavo il tipo di umanità particolare che girava da quelle parti – vecchi, giovani, italiani, stranieri – tutti uniti da un denominatore comune: combattere contro i mali più diversi che minacciano la vita.

Nel corridoio c’era un andirivieni continuo di infermiere, medici, volontari in camice bianco e di pazienti con carte in mano che indicavano, suppongo, la patologia da cui erano affetti. Anch’io me ne stavo buono buono ad aspettare che la porta si aprisse e l’infermiere pronunciasse il mio nome.

Non so cosa pensassero le persone che affollavano il corridoio, udivo un parlottare sommesso, qualche confidenza, qualche confronto, non frequenti, perché chissà da che parte erano arrivati tutti quegli “utenti” in attesa.

Mentre osservavo questo andirivieni di gente tanto diversa, io mi trovai a riflettere su un tema inerente quello di cui mi occupo da una vita. Mi sono quasi sorpreso a ripetere sommessamente: “Qui tutti stanno lottando per la vita, per prolungare la nostra esistenza minacciata dalla malattia, e con che determinazione attendono! Tutti si presentano all’appuntamento, ascoltano i suggerimenti degli infermieri e si sottomettono a trattamenti più o meno dolorosi. Qui si lotta per la vita, o almeno per una qualità di vita un po’ più sicura. Come mai la mia chiesa non è altrettanto affollata ogni giorno, nonostante l’incidenza della salute dello spirito abbia un ruolo ben più importante per la vita in assoluto e per la qualità della vita in particolare?

Dopo millenni nei quali filosofi, sociologi, psicologi e preti hanno insistito a ripetere che l’equilibrio interiore, che il possesso di valori, di verità e di virtù incidono più che la salute sul benessere della vita della persona, l’uomo contemporaneo pare sia così poco preoccupato del suo benessere spirituale, ricorre così poco agli esperti del settore, e così poco si sottopone a cure per avere una qualità di vita spirituale più sana, più resistente ai mali estremamente perniciosi che minacciano la salute dello spirito, ossia di ciò che è più importante nella persona?”

Mentre stavo riflettendo su queste cose, l’infermiere ha aperto la porta dell’ambulatorio e ha detto con voce professionale: «Trevisiol». Sono entrato anch’io per proteggere la salute del mio corpo. Dovrò pensare di più a come risanare la mia vita spirituale e quella dei concittadini.

La mia vera scuola di vita

Taglia l’erba del parco del “don Vecchi” un signore che viene dalla Moldavia, al quale abbiamo affidato questo compito perché ci ha detto che nel suo Paese aveva ottenuto il diploma di agronomo. Fa il suo mestiere con grande consapevolezza e dignità, quasi fosse intento ad un’operazione chirurgica per guarire la terra. Ultimamente però se n’era tornato nel suo lontano Paese per le ferie, cosicché l’erba era cresciuta più del dovuto e la macchina usata non è riuscita a “macinare” l’erba e quindi il campo era cosparso di fieno.

Ho chiesto ai miei vecchi di rastrellare il campo, però ho capito che per un motivo o per l’altro preferivano il bar alla raccolta del fieno. Misi allora in atto una vecchia tattica che mi ha sempre dato ottimi risultati. Presi il rastrello e, sotto il sole, cominciai a raccogliere il fieno.

Non erano passati due minuti che una ragazzona, buona come il pane e robusta, mi tolse l’arnese dalla mano dicendomi: «Sono figlia di contadini e so fare queste cose!». Presi un altro rastrello, ma due minuti dopo “l’agronomo” fece altrettanto. Per questa cara gente sembrava disdicevole che un vecchio prete facesse cose del genere.

L’episodio mi fece ritornare ai tempi della fanciullezza e dell’infanzia, che tanto influirono sulla mia formazione. La mia famiglia proviene dal mondo dell’artigianato, mio padre faceva il carpentiere in legno, come mio nonno, ma la paga, pur decorosa, era insufficiente per mantenere una nidiata di sette figli e lui dovette andare in Germania a lavorare. La mamma si rimboccò le maniche e chiese al fattore di un grosso proprietario terriero che amministrava le terre del Duce, come facevano tante altre famiglie del paese, di lavorare qualche campo di terra “al quarto”, ossia tre parti dei raccolti andavano al proprietario e la quarta parte a noi.

La mamma partiva con sette, otto ragazzini, tra i quali c’ero anch’io, e in due per bicicletta raggiungevamo i campi lontani una dozzina di chilometri: zappavamo la terra, raccoglievamo i fagioli, le pannocchie, i semi di olio di ricino. Talvolta ci mettevano a disposizione un paio di buoi che tiravano gli attrezzi per sterrare o interrare le piante di granturco; ma inesperti nella guida degli animali, ogni volta era un’avventura.

Penso spesso a quei tempi lontani in cui il sudore, la fatica, il pranzo estremamente frugale, si mescolavano alla nostra incoscienza ed irrequietezza di bambini, ma soprattutto penso con grande tenerezza a mia madre, che doveva guidare la nostra piccola ciurma di “forzati” incoscienti. Quella però è la vera scuola che mi ha insegnato a vivere, a faticare; da essa ho imparato, più che dai corsi di ascetica, di morale o di dogmatica.

I nostri ragazzi diventano bulli, indisciplinati, violenti e viziati, perché non hanno mai fatto corsi di formazione sul campo!

Un sogno possibile

E’ vero che i vecchi vivono prevalentemente di ricordi. Nel mio caso debbo confessare che, per grazia di Dio, accanto ai ricordi si mescolano ancora sogni, anche se la ragione mi dice che per me rimarranno soltanto tali. Fino a ieri mi sorprendevo da mane a sera a sognare “La cittadella della solidarietà”. Prima pensavo che questo sogno la cicogna bianca lo calasse nel grande prato vicino al “don Vecchi”. Poi gli abitanti del viale don Sturzo, che sono allergici alla presenza dei poveri e la “Società dei 300 campi”, che preferisce tenerlo morto quel prato, piuttosto che realizzare un’opera sociale che dovrebbe rappresentare la sua ragion d’essere, l’ha fatto svanire.

Per un po’ di tempo le intenzioni e i propositi del cardinale Scola, che pareva sostenesse il progetto, nonostante le perplessità dell’apparato della curia, davano da sperare che la Cittadella si potesse realizzare trasferita in via Vallenari, ove l’architetto forse poteva farci donare prima cinquantamila, poi trentamila, e infine ventimila metri quadri di superficie. Ma è svanito anche questo sogno con l’uscita di scena del vecchio cardinale.

Infine non se n’è fatto nulla e i soldi che Scola aveva promesso più volte pubblicamente sono stati dirottati per altri scopi. Purtroppo i poveri sono sempre stati destinati a rimanere in attesa fuori dalla porta col cappello in mano!

Ora sogno “Il villaggio solidale” degli Arzeroni, un sogno in cui non è coinvolta né la curia né i confratelli. Un sogno laico, ancora molto sogno, ma presente nel regno dei possibili o peggio dei futuribili.

Gli ostacoli sono veramente infiniti, qui non sono di mezzo la curia e i confratelli, ma il Comune e i burocrati, che non sono tanto migliori. Stiamo navigando a vista, controvento, “bordizzando”, direbbe la gente di mare.

Il Comune dovrebbe metterci a disposizione una superficie di trentamila metri quadri, ove sogniamo di realizzare un intero villaggio per l’accoglienza di chi è in difficoltà: una struttura di 120 alloggi per anziani poveri in perdita di autosufficienza, “Il Samaritano”, per i parenti di città lontane che hanno i loro congiunti all’ospedale dell’Angelo – sempre nella speranza che il nuovo ospedale decolli. Inoltre: una serie di appartamenti per ospitare provvisoriamente coppie di giovani sposi, per dar loro modo di acquistarsi la casa; un ostello per operai, impiegati, senzatetto; una struttura per padri divorziati sull’orlo della miseria per il fallimento della famiglia; una struttura per preti vecchi ed acciaccati.

Il villaggio solidale degli Arzeroni dovrebbe essere una realtà di accoglienza per tutti coloro che hanno bisogno di un tetto e di pareti domestiche amiche.

Il cammino è tutto pieno di ostacoli e di difficoltà, però lo staff che guida questa avventura è quello che in meno di vent’anni ha messo a disposizione ben 315 alloggi per anziani poveri e quindi ha dimostrato di saper “far miracoli”.

Una storia di vita che dimostra come nulla va perduto!

I miei amici sanno bene che io ho una sorella ormai “famosa” per la sua attività a favore della piccola comunità di Wamba, un villaggio del Kenya immerso nella savana africana, villaggio dove c’è un ospedale nel quale ogni anno il prof. Rama andava ad operare.

Come è nata questa scelta di vita di mia sorella, chi mi legge frequentemente la conosce. Lucia ha trascorso i suoi quarant’anni di vita lavorativa nel reparto oculistico dell’ospedale Umberto I° di Mestre, terminando la sua carriera con la qualifica di caposala del reparto.

La storia dell’oculistica mestrina è ormai quasi una leggenda epica. Il prof. Giovanni Rama è stato di certo un antesignano nel trapianto delle cornee e assieme al dottor Renzo Zambon, prima, e a Cesarino Gardellin dell’AIDO, poi, hanno creato un movimento di opinione tale da far promulgare in Parlamento la legge sui trapianti delle cornee e a creare un reparto all’avanguardia per questo tipo di interventi. Nei tempi “eroici” di questa impresa il reparto contava più di una cinquantina di posti letto e i trapianti non si contavano.

Rama, Zambon e Gardellin promossero un movimento di opinione ed un’organizzazione dai quali è nata la Banca degli occhi, una struttura d’eccellenza nel settore.

Rama è purtroppo morto, e sembrava che nessuno ne raccogliesse l’eredità, sennonché Lucia, attingendo coraggio e passione, qualità proprie della mia famiglia, è riuscita a mantenere vivo questo servizio, creando perfino una associazione che raccoglie fondi a Mestre e sviluppa in terra d’Africa una serie mirata di progetti che finanzia e che poi controlla direttamente con viaggi frequenti.

Questa piccola associazione di coraggiosi riesce a mantenere una scuola per infermiere, ad assistere una trentina di asili (una specie di scuole materne estremamente embrionali) e a pagare la retta ospedaliera per i bambini ricoverati nel reparto oculistica.

Qualche giorno fa Lucia è ritornata da un ennesimo viaggio ispettivo ed ha raccontato ai nostri anziani del “don Vecchi” le sue “avventure missionarie”, destando la simpatia e l’interesse della nostra gente impegnata a garantire il latte per la folla dei “suoi” marmocchietti neri come l’ebano.

Mentre, terminata la messa, ascoltavo Lucia, che faceva il resoconto ai miei anziani sull’ultimo viaggio, avvertivo che questa ragazza sessantenne, come tutti noi fratelli, non manca di certo di coraggio, grinta ed intraprendenza, e il mio pensiero andava ai miei genitori che hanno donato a noi sette fratelli, oltre la vita, la voglia di lottare, di non arrenderci, di osare sempre, e concludevo come il loro esempio continua attraverso noi, loro figli, a dare un contributo di solidarietà a questo nostro mondo. Nulla va perduto!

Bonifiche

Qualche mattina fa qualcuno del “don Vecchi” è venuto a cercarmi, preoccupato, perché un gruppo di dipendenti comunali stava tramestando davanti al cancello, a dire di questi, per mettere in sicurezza l’accesso ai magazzini. Le notizie del genere mi mettono immediatamente in allarme perché l’ostilità emersa tante volte da parte del quartiere in cui abitiamo ormai da vent’anni, è capace di tutto!

Il “don Vecchi” è, per il quartiere don Sturzo, o meglio per alcuni del quartiere, un “figlio non voluto” e sopportato a malincuore. Una volta per il traffico dei poveri che vanno ai magazzini, un’altra perché si pensa che i topi presenti nel quartiere vengano dal nostro Centro, un’altra ancora perché non si gradisce la collocazione dei cassonetti fatta dalla Veritas, un’altra perché si è temuto di essere frodati del verde con la cementificazione del parco, oppure per la “poveraglia” che è costretta a prendersi i generi alimentari presso i magazzini, o perché le foglie degli alberi del Centro vanno ad intasare i tombini, o perché ancora pochi dei residenti frequentano la parrocchia. Pare insomma che ogni giorno essi scoprano una nuova magagna di questo Centro.

Sentendo la notizia del gruppo di tecnici del Comune, mi sono precipitato per difendermi dalla nuova calamità. Fortunatamente si trattava di un’altra cosa. Un ingegnere comunale, più cortese di quello dei topi, mi ha informato che sul fianco sinistro del sentiero che porta dal viale don Sturzo al Centro, un tempo c’era una cava che è stata colmata con i rifiuti industriali di Marghera; perciò doveva essere bonificata.

Si dovrà asportare un centinaio di metri cubi di terra inquinata per sostituirli con altrettanti metri cubi di terra sana. La schiera assai numerosa di tecnici, composta da esperti di ogni genere, stava studiando come intervenire senza impedire il transito.

Io sono un pover’uomo che s’intende solamente un po’ di candele e di acquasanta, ma sono rimasto un tantino incredulo che sotto il manto verde di siepi rigogliose e di alberi robusti si siano nascosti acidi così micidiali da mettere a repentaglio la salute della gente. Di certo i trecento abitanti del “don Vecchi” – che sono gli unici a transitare per questi luoghi e che, quasi tutti, hanno dagli ottant’anni in su – come l’erba del prato e gli alberi della stradina, pare che fortunatamente non siano stati inquinati e minacciati di morte da quei veleni che giacciono da mezzo secolo sotto il manto verde.

Ho pensato subito invece al “massacro” che subirà il paesaggio. Però ho approfittato per segnalare il salice alto venti metri, morto in piedi, perché quello sì è una minaccia vera per chi passa da quelle parti, ma che pare che finora non abbia turbato la coscienza del Comune.

I politici? Li affido a Dio!

Avrei la tentazione di rassegnarmi. Vedendo come vanno le cose prima e dopo le ultime votazioni, penso che il mondo della politica sia irrecuperabile. Voglio però respingere ad ogni costo questa tentazione per due motivi.

Uno: quando le utopie sono calate nella realtà, fatalmente si impoveriscono e si sporcano di terra. Per questo motivo ritengo che tutti gli educatori e le guide spirituali del popolo non devono mai aspettarsi che i loro sogni si avverino totalmente, o calarsi, essi stessi nella mischia, darsi alla militanza concreta, ma devono rimanere ancorati alla missione di proporre gli ideali i più alti e i più nobili possibile.
Per questo concordo col nostro presidente Napolitano e con tutti coloro che non si stancano di parlar bene della politica come valore assoluto. E sono in disaccordo con chi, invece, anche tra le gerarchie ecclesiastiche, tresca per soluzioni pratiche, cioè per schieramenti di partito.

Due: perché sono profondamente convinto che per dar voce al popolo e per realizzare la democrazia nel Paese, è indispensabile una mediazione attraverso una rappresentanza del popolo mediante i partiti; le soluzioni diverse, quali regimi assembleari, o le deleghe a singole persone, anche carismatiche, si sono dimostrate catastrofiche e incapaci di dare risposte valide alle attese della gente.

Di certo i limiti, i difetti, gli abusi e gli imbrogli in qualsiasi regime, cosiddetto democratico, sono pressoché inevitabili, perché l’uomo, qualunque cosa faccia, dà a ciò di cui si occupa, l’impronta del suo limite. Io rimango però del parere che la peggior democrazia è sempre preferibile anche alla miglior dittatura.

Dopo il fallimento della Democrazia Cristiana, che pretendeva di avere il monopolio della voce dei cattolici italiani, ho visto positivamente lo “spalmarsi” dei cattolici all’interno dei vari partiti, con l’implicita intenzione di essere concordi sui valori fondamentali; sennonché m’è parso che il progetto sia fallito per il prevalere della logica dei singoli partiti che si sono scelti.

Ho seguito con qualche interesse e soprattutto con curiosità, il sogno di Casini di dar vita, al Centro, ad un partito, se non confessionale, almeno gradito alla gerarchia, però mi pare che questa iniziativa non abbia avuto seguito e, meno ancora, l’armeggiare della Cei per rilanciare un partito più attento alle attese della Chiesa, mi pare stia avendo successo.

Spesso interrogo i miei “consulenti”, ma mi pare che nessuno abbia le idee chiare a tal proposito. Per ora, a livello personale ho deciso di fare quello che riesco, per formare coscienze libere che credono nella solidarietà e nel servizio al prossimo; i politici li affido a Dio, perché Lui solo può “salvarli”!

Ancora sulla polemica delle campane

Ho seguito con curiosità ed indignazione la polemica del suono delle campane. La mia partecipazione agli eventi che riguardano la mia chiesa non è mai disattenta e rassegnata. Sono di natura polemico ed interventista. Ho scritto più volte che ho sempre ammirato i giovani di Comunione e Liberazione perché non sono mai passivi e soprattutto nel settore della scuola, che è un loro specifico campo di azione, sono non solo presenti, ma quanto mai attivi.

Fui ammirato ed orgoglioso quando la feccia de “La Sapienza” impedì al Papa di parlare in quell’università, quando il mattino dopo i ciellini erano già agli ingressi dell’ateneo a denunciare con i volantini la meschinità di certi loro colleghi. La passività, la rassegnazione per il quieto vivere, il subire gli affronti senza reagire, non riesco né ad approvarli né ad accettarli.

Quando ho visto su “Il Gazzettino” che il giovane parroco di Carpenedo, a differenza della diplomazia curiale, aveva scritto: “Non le nostre campane facciamo tacere, ma facciamo zittire quei venti-trenta atei militanti che nella nostra città non hanno diritto di imporre le loro idee sulla stragrande maggioranza della popolazione”, ho pensato subito anch’io che non meriti troppa attenzione neanche quel certo numero di poltroni e di pigri ai quali non dà fastidio il rumore delle auto, ma solamente il concerto armonioso delle nostre campane, né credo si debbano prender troppo in considerazione i tecnici dell’Arpav che avrebbero ben motivo di cercare altrove le fonti dell’inquinamento acustico, invece di occuparsi di multare la musica delle campane.

Scrissi già che quando ero parroco avevo due parrocchiane che telefonavano “a nome di tutti”, come dicevano loro, per il fastidio che provocavano le mie campane. Dissi loro che le campane suonavano a Carpenedo fin dall’anno mille e perciò, quando hanno acquistato casa dovevano tener conto che l’acquistavano in un determinato contesto urbanistico. Io poi che “conoscevo i miei polli”, ben sapevo che non era il suono delle campane, ma quel che esse rappresentavano che infastidiva i loro sonni e le loro coscienze.

Una se n’è andata e l’altra si è rassegnata, perché io, memore del patriota italico Pier Capponi che affermò “…e noi suoneremo le nostre campane!”, ho continuato a suonarle e di gusto!

Romano Guardini ha scritto un bel volumetto sul valore dei “santi segni”, uno dei quali è il suono delle campane che sono la voce della comunità cristiana e che fanno memoria delle meraviglie di Dio.

Venuto a sapere della sottoscrizione di don Gianni, mi sono recato di buon mattino a mettere il mio nome sulla “contropetizione” e ad offrirmi a tirare le corde nel campanile se fosse necessario.

Che bello vedere la mia “vecchia chiesa” ancora così vitale!

E’ dal 2005, con l’Eucarestia vespertina dell’ingresso del mio diretto successore e del mio abbandono della parrocchia, che non entravo nella mia vecchia chiesa, durante la celebrazione di una Santa Messa festiva.

Normalmente la domenica mattina la passo interamente nella mia “cattedrale tra i cipressi” e il pomeriggio lo dedico a visitare i residenti dei Centri don Vecchi di Marghera e di Campalto o a “L’incontro”, che mi impegna alquanto. Così non ho avuto mai occasione di andare nella chiesa di Carpenedo durante una celebrazione domenicale. Quindi non avevo più avuto una conoscenza diretta della vita liturgica della mia vecchia chiesa.

Ricordo che le sette messe festive erano sempre assai frequentate e che questa presenza viva e partecipe è sempre stata per me una consolazione che mi riempiva l’animo di vera letizia. Seppi poi che, giustamente, erano state abolite due di queste sette messe e m’era giunta qualche voce che il mio successore s’era talvolta lagnato di un certo assenteismo. Pensavo che questo fenomeno fosse determinato dal processo di secolarizzazione che lentamente sta facendo terreno bruciato nelle nostre parrocchie.

Ai tempi dell’inchiesta del cardinale Scola sulla frequenza al precetto festivo la chiesa di Carpenedo aveva segnato uno degli indici più alti di partecipazione, se non il più alto in assoluto, cioè il 42%, di presenze dei fedeli tenuti al precetto festivo. Sempre in quell’occasione avevo appreso che qualche parrocchia registrava solamente l’8-10% di presenze alla messa domenicale.

Una domenica di qualche settimana fa, essendo rimasto un certo numero di copie de “L’incontro” nella mia chiesa del cimitero a causa della pioggia, pensai di portarle in parrocchia, perché sapevo che ne era sprovvista.

Entrai e con mia felice sorpresa mi accorsi che la chiesa era strapiena di fedeli in gran parte giovani, anche se proprio in quella domenica un certo numero di loro era andato al Palasport di Jesolo per l’incontro diocesano presieduto dal Patriarca. Celebrava don Gianni e la gente partecipava al canto in maniera vivace.

Da quando sono andato in pensione non ho più avuto modo di celebrare di domenica se non nella mia chiesa prefabbricata che, per grazia di Dio, è sempre gremitissima. Più precisamente per alcuni mesi ho celebrato la messa vespertina nella vicina parrocchia di San Pietro Orseolo, ma vi partecipava uno sparuto numero di fedeli.

La felice sorpresa di vedere la mia “vecchia chiesa” così vitale mi è stata motivo di grande consolazione e mi ha fatto sperare che tanta fatica e tanto amore abbiano lasciato una semente che don Gianni sta facendo crescere con passione e bravura.