La mia vera scuola di vita

Taglia l’erba del parco del “don Vecchi” un signore che viene dalla Moldavia, al quale abbiamo affidato questo compito perché ci ha detto che nel suo Paese aveva ottenuto il diploma di agronomo. Fa il suo mestiere con grande consapevolezza e dignità, quasi fosse intento ad un’operazione chirurgica per guarire la terra. Ultimamente però se n’era tornato nel suo lontano Paese per le ferie, cosicché l’erba era cresciuta più del dovuto e la macchina usata non è riuscita a “macinare” l’erba e quindi il campo era cosparso di fieno.

Ho chiesto ai miei vecchi di rastrellare il campo, però ho capito che per un motivo o per l’altro preferivano il bar alla raccolta del fieno. Misi allora in atto una vecchia tattica che mi ha sempre dato ottimi risultati. Presi il rastrello e, sotto il sole, cominciai a raccogliere il fieno.

Non erano passati due minuti che una ragazzona, buona come il pane e robusta, mi tolse l’arnese dalla mano dicendomi: «Sono figlia di contadini e so fare queste cose!». Presi un altro rastrello, ma due minuti dopo “l’agronomo” fece altrettanto. Per questa cara gente sembrava disdicevole che un vecchio prete facesse cose del genere.

L’episodio mi fece ritornare ai tempi della fanciullezza e dell’infanzia, che tanto influirono sulla mia formazione. La mia famiglia proviene dal mondo dell’artigianato, mio padre faceva il carpentiere in legno, come mio nonno, ma la paga, pur decorosa, era insufficiente per mantenere una nidiata di sette figli e lui dovette andare in Germania a lavorare. La mamma si rimboccò le maniche e chiese al fattore di un grosso proprietario terriero che amministrava le terre del Duce, come facevano tante altre famiglie del paese, di lavorare qualche campo di terra “al quarto”, ossia tre parti dei raccolti andavano al proprietario e la quarta parte a noi.

La mamma partiva con sette, otto ragazzini, tra i quali c’ero anch’io, e in due per bicicletta raggiungevamo i campi lontani una dozzina di chilometri: zappavamo la terra, raccoglievamo i fagioli, le pannocchie, i semi di olio di ricino. Talvolta ci mettevano a disposizione un paio di buoi che tiravano gli attrezzi per sterrare o interrare le piante di granturco; ma inesperti nella guida degli animali, ogni volta era un’avventura.

Penso spesso a quei tempi lontani in cui il sudore, la fatica, il pranzo estremamente frugale, si mescolavano alla nostra incoscienza ed irrequietezza di bambini, ma soprattutto penso con grande tenerezza a mia madre, che doveva guidare la nostra piccola ciurma di “forzati” incoscienti. Quella però è la vera scuola che mi ha insegnato a vivere, a faticare; da essa ho imparato, più che dai corsi di ascetica, di morale o di dogmatica.

I nostri ragazzi diventano bulli, indisciplinati, violenti e viziati, perché non hanno mai fatto corsi di formazione sul campo!

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