Alla luce della fede

Mi rendo sempre più conto che la gente ha certi stereotipi di idee in campo religioso che talvolta hanno poco o nulla a che fare con la religione e la fede. Perciò quando il sacerdote fa qualche osservazione nei riguardi del pensiero cristiano e riesce a farlo con convinzione e con autorità, i fedeli rimangono quasi sorpresi di certi discorsi che in realtà sono stati loro fatti fin dall’infanzia.

Vengo ad un esempio capitatomi in questi ultimi giorni. Il martedì santo ho celebrato il funerale di una cara nonnetta che dopo una vita lunga e buona, è tornata da quel Signore che l’aveva mandata su questa terra circa novanta anni fa.

Normalmente, nelle mie brevi omelie, cerco di incorniciare l’evento del commiato alla luce della fede tentando di creare in chiesa un’atmosfera coerente ad essa. Cominciai dicendo che se la mia piccola chiesa prefabbricata avesse avuto il campanile, avrei suonato a festa per quell’occasione, e continuai con l’affermare che per la cara donna a cui stavamo dando l’ultimo saluto, la Pasqua giungeva quest’anno con qualche giorno di anticipo perché lei non era risorta la domenica ma quella mattina, che per il calendario era un martedì. Di conseguenza dovevamo vivere l’evento del commiato in un clima di speranza e di gaudio perché la nostra cara sorella giungeva al traguardo e si incontrava col Padre per essere introdotta nella sua casa.

Mi spinsi anche ad accennare all’alternativa: se infatti non avessimo letto alla luce della parola di Cristo questo commiato, ciò avrebbe voluto dire che i novant’anni di fatica, di ricerca, di impegno sarebbero stati spazzati via da un sol colpo, da quella realtà che noi chiamiamo morte.

Ebbi subito la sensazione che la piccola comunità che circondava la bara fosse quasi costretta ad entrare in quella logica, per essa prima tanto lontana. Non so quanto durerà questa presa di coscienza positiva, comunque quello era ciò che io potevo fare in quel momento.

Non è così nelle nuove comunità cristiane nei paesi di missione. Mi diceva mia sorella Lucia, che da molti anni segue una piccola comunità cristiana che vive nel centro del Kenia, che in una delle sue tantissime visite a quella missione, le capitò di partecipare al funerale di un cristiano del villaggio. Dopo il rito funebre: pranzo e festa per l’intera comunità. Lucia chiese ad uno degli anziani: «Come mai in un giorno di lutto tanta festa?». Lui rispose, sorpreso da questa domanda: «Perché il nostro fratello è giunto alla meta ed è entrato nel Cielo di Dio».

Credo che noi preti dobbiamo riprendere a passare le nostre grandi verità con più decisione e soprattutto con più coraggio, non temendo di essere in contrasto con una tradizione che è solo formalmente religiosa, ma che in realtà si è rifatta ad una mentalità agnostica e per nulla credente.

20.04.2014

Costruire consenso

Mi capita abbastanza di frequente, quando avviene in città un qualcosa di un po’ importante che riguarda i poveri o la vita della Chiesa, che i giornali locali o le emittenti televisive mi chiedano un parere facendomi una breve intervista. So che ciò avviene non perché io sia un personaggio qualificato e competente tale da offrire pareri autorevoli su queste questioni, ma solamente perché non mi nego mai, mentre pare che altri abbiano paura di compromettersi.

Accetto le interviste un po’ per carità cristiana (sono molti gli operatori che vivono sull’informazione, avendo un mestiere non facilissimo), perché non dare loro una mano? Ma lo faccio per un secondo motivo, più importante: io ho una determinata visione della vita cittadina e dei pareri piuttosto precisi su qualche tematica che la riguarda; l’intervista mi serve sempre per portare avanti le mie tesi, per creare opinione pubblica e cultura diffusa, perché solamente così si matura una comunità ad accettare e far suoi determinati progetti e certe soluzioni che io ritengo opportune.

In questi giorni il Comune ha fatto togliere alcune panchine da determinate zone della città perché favorivano il bivaccare dei senza dimora creando disagio ai cittadini della zona. Il sindaco Gentilini, “sceriffo” di Treviso aveva fatto lo stesso qualche anno fa per allontanare dalla città gli extracomunitari. Questo primo cittadino della Marca è un personaggio della Lega un po’ sbrigativo ed autoritario, motivo per cui il ripetere il suo intervento aveva fatto nascere quasi un “casus belli” anche da noi.

Io al riguardo non avevo pareri specifici, ma da sempre sono convinto che Chiesa, e in questo caso e soprattutto il Comune, debbano elaborare un progetto condiviso da tutte le agenzie sociali che si occupano del settore dei poveri, progetto articolato con delle proposte civili che tengano conto della situazione sociale del momento e, solamente dopo, si possano adottare degli interventi anche decisi per inquadrare il problema e rendere la città vivibile, senza però trascurare o dimenticare i “rifiuti d’uomo” o, meglio, tutte le tipologie di mendicanti o di persone anomale.

Solo quando in città ci saranno dormitori pubblici sufficienti, docce, toilettes pubbliche, mense, organizzazioni per le varie necessità a favore di queste persone, percorsi per recuperarli alla vita civile, soltanto allora il Comune, la polizia cittadina per fare rispettare le regole potranno intervenire con decisione.

Credo che interventi estemporanei come quello di togliere le panchine, siano “pannicelli caldi” che non risolvono affatto i problemi, anzi possono diventare perfino disumani.

Questo progetto per regolare la vita dei senza dimora non c’è e mi pare che ci sia poca voglia di farlo; io però anche nel corso dell’ultima intervista ho tentato di spezzare una lancia a suo favore. La cosa in questo caso mi è andata male perché mi hanno “tagliato” tanto, così non s’è potuto capire cosa volessi dire. Comunque tenterò alla prossima occasione.

19.04.2014

Il recupero

Questa è una vecchia storia il cui inizio ho già raccontato un paio di anni fa e su cui sono ritornato un paio di volte, ma che sento il bisogno di riprendere per informare su come essa stia continuando.

Degente nel nostro ospedale, una mattina mi capitò di scambiare qualche parola con una giovane signora che stava pulendo la stanza. La nostra gente, soprattutto quella più semplice e genuina, stabilisce subito un rapporto quasi familiare quando incontra un sacerdote, specie quando egli è anziano.

Da questa cara signora venni a sapere che fino a poco tempo addietro c’era un prete che celebrava la messa ogni domenica nel piccolo borgo ai margini della città in cui lei abitava. In questo villaggio il cuore della comunità era costituito dalla chiesa e dalla scuola. Prima però venne chiusa la scuola, per portare i pochi alunni a Favaro, poi fu chiusa pure la chiesa per mancanza di sacerdoti, tanto che gli abitanti provavano un senso di smarrimento e di abbandono. Venuta a sapere che ero andato in pensione, mi disse , con un sorriso accattivante: «Perché non viene lei?». In quel momento ci sarei andato correndo perché anch’io, uscito dalla parrocchia, mi sentivo orfano e allo sbando.

Per qualche tempo, per motivi un po’ futili, la cosa sembrò irrealizzabile, però, col passare dei mesi, le difficoltà si risolsero e si arrivò ad una soluzione minimale che parve l’unica possibile: celebrare l’Eucaristia il primo venerdì del mese. Ciò è poco per una comunità, però ora ho la sensazione che di mese in mese anche questo “poco” sia sempre più atteso, la preghiera si fa sempre più calda e familiare e sembra che il senso dell’abbandono e della solitudine si stia pian piano dissolvendo, anzi rifiorisca un senso di comunità fatta di comunione e di condivisione ideale. Ogni mese, quando nel tardo pomeriggio parto per Ca’ Solaro, ho la sensazione di ritornare ai tempi della mia infanzia, di ritrovare la cara gente del mio paese che pure viveva in stretto contatto con la terra, che ritmava la vita con le stagioni, che si rivolgeva al Signore con semplicità e con fiducia e, pur non parlando troppo di comunità, viveva una vita di famiglia.

L’incontro con la cara gente di Ca’ Solaro mi aiuta a recuperare i tempi della mia fanciullezza, a guardare con più simpatia e familiarità uomini e donne, e a sentirmi a casa mia condividendo con loro il ritorno della vita e della natura che ci avvolge tutti con un abbraccio ricco di poesia e di bellezza.

18.04.2014

La tentazione

Ritorno ancora una volta su confidenze fatte già in passato, ma il ritornarci mi dà l’opportunità di riflettere su una grave tentazione che purtroppo temo sia condivisa da molti o da moltissimi miei concittadini.

Domenica scorsa non ho mancato di seguire la rubrica “L’Arena”, condotta, a me pare tanto magistralmente, dal dottor Giletti. Questo giornalista è certamente intelligente e preparato, e conduce con maestria e saggezza la discussione che è benissimo definita dal titolo, “L’Arena”, luogo di combattimento con i tori fino all’ultimo sangue.

Come in quasi tutte le trasmissioni di questo genere c’è un pubblico, che si limita a battere più o meno fragorosamente le mani in rapporto alla condivisione dei singoli interventi. C’è poi un certo gruppo di giornalisti quanto mai agguerriti, che fanno parte dello staff della rubrica e che mantengono vivace il dibattito stuzzicando i politici, tutti di un certo peso e in posizioni contrapposte. Talvolta sono invitati degli ospiti come testimoni di situazioni particolari inerenti al dibattito in corso.

Lo scontro è quasi sempre “cruento”: colpi dati con estrema decisione e con altrettanta intelligenza da parte di uomini, donne, giornalisti dei vari quotidiani, esperti e soprattutto giovani politici di tutte le parti, uomini e donne – queste ultime spesso carine ed eleganti ma sempre taglienti e determinate, che sostengono tesi contrapposte senza mai cedere assolutamente nulla al “nemico”.

Domenica scorsa si è parlato un po’ di tutto riguardo la situazione sociale e politica del nostro Paese. Le prese di posizione erano così decise e contrapposte che mi è parso che non ci fosse il neppur minimo denominatore comune e alcun punto, seppur piccolo, di convergenza. Mi è sembrato che il conduttore Giletti tentasse, guardingo e con estrema cautela, di passare l’ipotesi di dare un seppur minimo di credito al tentativo di Renzi. Però, al minimo accenno, arrivavano delle potenti bordate dalle fazioni contrapposte.

Alla fine del dibattito ho avuto la netta e amara sensazione che non ci sia alcuna speranza di salvezza, neppure con l’avvento dei nuovi politici quarantenni, per la nostra povera Italia!

Sono arrivato alla conclusione che ci vorrebbe l’avvento di “qualcuno” che finalmente mettesse tutti in riga, però immediatamente mi cominciarono ad apparire i volti già noti di questo “qualcuno”: Hitler, Stalin, Mussolini, Franco… e via di seguito. Non mi è rimasto che rivolgermi, ancora una volta, al buon Dio per gridargli, quasi disperato: «Salvaci, Signore!».

17.04.2014

La vecchia maestra

Sono convinto che pure per i bambini dei nostri giorni la maestra delle elementari sia una figura importante, rappresenti un’autorità nel campo del sapere perché lei apre ai bambini orizzonti nuovi e più vasti di quelli offerti dalla loro mamma. Talvolta sarei tentato di lasciarmi scappare che le maestre di oggi, che si fanno dare del tu dagli alunni, che vestono alla moda, che (per rispetto alla libertà dei bambini?) hanno l’eccessiva preoccupazione di non condizionarli, non hanno l’importanza, l’autorità delle vecchie maestre di un tempo.

Le maestre dei miei tempi erano autentiche educatrici, passavano non solo nozioni, ma soprattutto valori, perché offrivano verità tutto sommato certe e condivise dalle famiglie e società. Praticamente le maestre di un tempo rappresentavano l’interfaccia del sacerdote che possedeva delle verità certe, dei valori non discutibili.

Io ricordo con autentica venerazione ed enorme riconoscenza le mie insegnanti che mi hanno passato senza perplessità i principi fondamentali del vivere civile. L’aver fatto per molti anni il consulente ecclesiastico dell’A.I.M.C. (Associazione Italiana Maestri Cattolici) mi ha fatto conoscere ed amare questa categoria di persone che rappresentano un punto fermo nel campo dell’educazione alla vita civile e pure religiosa.

Ricordo che uno dei principi basilari di questa categoria di insegnanti era che la religione costituisce il principio fondante e il coronamento della pedagogia. La lettura poi del “Libro Cuore” del De Amicis e di “Mondo piccolo” di Guareschi, ha dato volto ancora più sublime e sacro alla personalità della vecchia maestra.

Alcuni giorni fa ho celebrato il commiato religioso di una vecchia maestra di Carpenedo che a novant’anni di età ha lasciato questo mondo per incontrarsi con quel Padre che aveva fatto conoscere ed amare a generazioni e generazioni di scolari. C’era nel mio animo il desiderio e il bisogno di trovare parole care per incorniciare il volto e la missione di quella vecchia maestra che con autorità indiscussa e assoluta tranquillità aveva insegnato i principi del vivere a ragazzi della mia vecchia ed amata parrocchia.

Mi dispiacque di non avere parole belle e care quanto quelle di De Amicis e di Guareschi per offrire un ritratto bello ed adeguato al ruolo svolto dalla vecchia maestra Annalisa Gusso, ma mi è dispiaciuto ancora di più che la chiesa non fosse gremita da quel popolo di bambini che avevano avuto da lei la prima educazione al vivere sociale e pure religioso.

16.04.2014

Un “mio ragazzo”

Un tempo osservavo con una certa ironia le mamme che parlavano dei figli trentenni come fossero ancora dei ragazzini. Ora tocca anche a me di cadere nello stesso errore e probabilmente di essere commiserato dai preti più giovani.

Le ragazze alle quali ho fatto scuola alle magistrali ora sono tutte nonne e in pensione da un bel po’ di anni. Quando mi capita di incontrarle e mi dicono: «Non si ricorda di me, don Armando?, sono la Stefania della terza C, o la Paola della quarta D», io, di fronte a queste signore brizzolate e, nonostante i “ritocchi”, un po’ avvizzite, mi trovo a sorprendermi perché a quei nomi nella mia memoria corrispondono ragazzine frizzanti, tutto brio e avvenenza.

Così mi è capitato qualche giorno fa con uno dei ragazzi incontrato a San Lorenzo nel 1956, quando fui nominato assistente di un gruppo di una settantina di giovani appartenenti all’Azione Cattolica. A quei tempi i militanti si contavano a decine e decine. Quando l’addetto alle pompe funebri mi chiese di fissare il funerale di un certo Tullio Niero, ebbi subito la sensazione di ricordare quel nome, corrispondente ad un giovane dalla voce calda, un po’ burlone, semplice operaio, con qualche po’ di complesso nei riguardi degli amici d’infanzia e di associazione, quasi tutti studenti, però sempre cordiale e affettuoso.

Da quel tempo sono passati quasi sessant’anni. L’avevo incontrato qualche rarissima volta ma tanto tempo fa. Ora ho scoperto che, in pensione da molti anni, ormai ottantenne, acciaccato per una brutta caduta, ridotto a non poter più camminare, era finito in casa di riposo.

La vita usura un po’ tutto – immagini, pensiero, comportamento – e, quando va bene, ti riduce ad un rudere non sempre neanche interessante.

Celebrai il commiato, commosso e partecipe, pregando con particolare fervore perché il Signore l’accompagnasse nel suo Cielo dandogli nuova giovinezza. Poi non potei non chiedermi come appaio io, più vecchio di cinque anni del mio ragazzo, agli occhi della gente del “nuovo mondo”!

Mi sono un po’ commiserato e poi ho ringraziato mentalmente la mia cara gente che mi sopporta ancora come sono.

15.04.2014

Il caudatario

La redazione di “Gente Veneta”, il settimanale della nostra diocesi è poco numerosa ma assai versatile. Io ne provo quasi invidia perché ogni settimana quei tre quattro giornalisti riescono a sfornare 32 pagine fitte fitte di avvenimenti, di notizie e di commenti che riguardano la vita ecclesiale del Patriarcato di Venezia, delle parrocchie, ma pure la vita civile delle nostre due città e dei grossi paesi che compongono la nostra diocesi. Inoltre presentano i grandi eventi che riguardano la Chiesa universale, mentre le nostre dodici pagine de “L’Incontro” escono spesso assai tribolate.

Nel numero del 12 aprile di “Gente Veneta”, come ho accennato nell’editoriale (de “L’Incontro” del 15/6/2014, NdR), la redazione ha dedicato pagine su pagine e molti servizi, tutti assai interessanti, sulla vita veneziana del cardinal Roncalli e ciò in occasione della sua santificazione. Fra i tanti articoli, tutti interessanti, ho letto con curiosità quello di Serena Spiazzi Lucchesi, che si rifà alle confidenze di don Sergio Sambin che oggigiorno deve essere uno dei preti più anziani della diocesi, ma che ai tempi di Roncalli ne era il giovane cancelliere (ossia l’addetto alla stesura degli atti ufficiali del Patriarca Roncalli).

In quell’articolo monsignor Sambin accenna alla “corte patriarcale”, che era formata dal segretario, mons. Loris Capovilla, da lui stesso in qualità di cancelliere, da don Paolo Trevisan, crocifero, e da don Carlo Seno come caudatario, ossia chierico incaricato di sorreggere la “coda” (una specie di telo lungo tre quattro metri, che costituiva lo strascico dei paludamenti patriarcali). Io ricordo pure che alle cerimonie liturgiche c’era anche un nobiluomo con lo spadino ed una guardia della basilica, vestito con un costume del `700, oltre ad un piccolo stuolo di chierici, in abito liturgico, per il servizio.

Il cardinal Roncalli è stato una persona aperta ai tempi nuovi nella sostanza, però nella forma apparteneva al “Piccolo mondo antico” che in pochi decenni è quasi scomparso e di cui Papa Francesco sta “scopando via” gli ultimi rimasugli.

Mentre leggevo queste cose con una certa morbosità, pensavo che lo stesso Roncalli ebbe in gioventù qualche noia perché sospettato di tendenze moderniste, e nella maturità qualche altra perché non ha mantenuto una distanza assoluta nei riguardi dei socialisti in congresso a Venezia e perché nella stessa nostra città c’erano dei cattolici come Vladimiro Dorigo che erano considerati troppo “di sinistra”.

Una volta ancora devo concludere che nella Chiesa ognuno deve fare la sua parte per adeguarla ai tempi nuovi e sbaglia non chi va avanti, ma chi tenta di ingessarla in un passato che comunque sarà spazzato via dall’evolversi della situazione.

14.04.2014

Il fine ed i mezzi

Io sono un pover’uomo, ne sono ben cosciente, però da sempre mi sono interessato dell’evoluzione in tutti i settori della nostra società.

Se io metto a confronto il modo di vivere la religione (perché è questo il settore che più mi interessa) di quando ero bambino col modo attuale, mi accorgo che l’evoluzione è stata veramente profonda e radicale. Spero che questo fenomeno sia positivo ma non ne sono proprio certo. Di tanto in tanto mi nascono dei dubbi veramente seri.

A me pare che la caratteristica più evidente e riscontrabile sia che il cristiano moderno si è progressivamente sganciato da un mondo che era codificato fin nei minimi particolari, per puntare invece alla sostanza del messaggio cristiano. Mi sembra che un tempo si fosse convinti che per arrivare alla sostanza di “ama Dio con tutta la tua mente, tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze e il prossimo tuo come te stesso”, si dovesse passare attraverso una serie consistente di pratiche e di riti ben definiti.

Vorrei che per un solo momento facessimo una disanima di queste modalità: digiuno il venerdì, vesperi della domenica, vigilie, ottavari, novene, primi nove venerdì del mese, confessione pressoché settimanale, angelus, preghiere prima dei pasti, giaculatorie, fioretti, visite in chiesa, elemosine, rosario a maggio e ad ottobre, primi sabati del mese in onore della Madonna, devozione ai capitelli, medaglie, santini, scapolari, devozioni particolari e chi più ne ha più ne metta! Ora tutto questo è pressoché scomparso, anche i cristiani più devoti si confessano due, tre volte l’anno e pare trovino molta difficoltà a scoprire un qualche peccato vero e un po’ significativo da confessare.

Questo problema è sempre esistito, basti pensare che gli ebrei avevano più di seicento precetti o norme da seguire, mentre nel cristianesimo erano molto meno, però ora la semplificazione e lo sfoltimento sono diventati più rapidi e radicali.

Mi è venuto da riflettere su questo argomento qualche settimana fa quando mi è capitato di leggere l’intervista a Gesù su che cosa si dovesse mantenere della legge antica. Gesù risponde: «Non sono venuto per abolire, ma per completare», e continua: «chi insegnerà di eliminare anche un solo iota (che era la lettera più piccola dell’alfabeto) non entrerà nel Regno dei Cieli».

Sto ripensando con una certa preoccupazione a questo discorso, constatando che è sempre tanto facile demolire, ma costruire è ben più arduo e impegnativo. In questi ultimi tempi sto insistendo, e molto convinto, che dobbiamo diventare “creature nuove”, però bisogna pure che per arrivare a tale meta usiamo un qualche strumento.

Io sono vecchio, e tutto sommato i vecchi rimangono abbarbicati alla cultura del vecchio catechismo di san Pio decimo che aveva una risposta precisa su ogni argomento, ma i nostri bambini che al catechismo fanno soprattutto cartelloni, non so proprio come potranno arrivare al Regno!

12.04.2014

Le nostre ragazze e l’emiro

Ieri ho scoperto “suor Cristina”, la cantante di Dio. Confesso che, tutto sommato, sono stato felice che almeno qualche suora rompa le grate del convento e si metta a percorrere le strade battute dalla gente del nostro tempo, perché altrimenti va a finire che mondo e religiose camminino su due rotaie parallele ma senza potersi mai incontrare.

Però, qualche giorno prima, mi era capitato di leggere sul Gazzettino una notizia davvero scioccante: un emiro arabo ha promosso una selezione per rinnovare il suo harem e a Milano o Torino (non ricordo più) si sono messe in fila tantissime ragazze di bella presenza per superare la selezione.

La notizia è certamente di carattere morboso. Di primo acchito ho provato un senso di autentico ribrezzo e volevo passar oltre bastandomi in abbondanza il titolo dell’articolo per schifarmi dell’emiro e, più ancora, delle nostre ragazze. Poi ho voluto accertarmi se almeno vi fosse una “foglia di fico” di carattere formale per tentare di coprire questa vergogna. Ho scorso velocemente l’articolo ma non sono riuscito a capire veramente se “l’addetto ai titoli” del giornale avesse scelto una frase ad effetto, oppure se l’arabo, in maniera così sfacciata, cercasse realmente concubine per il suo harem. Dalla lettura frettolosa non ho capito! Ma che vale per capire quanto poca consistenza morale esista in certe donne del nostro Paese e quanto sia grande l’avidità di denaro. Inoltre, peggio ancora, ho capito che certi slogan, come “Se non ora, quando?” sono discorsi di bottega e a senso unico.

I giorni successivi ho guardato accuratamente se nel giornale responsabili dell’emancipazione della donna fossero intervenuti per bollare di infamia una operazione del genere. Silenzio! Silenzio assoluto! Troppe donne pare che su questo argomento – e purtroppo su molti altri che esigono coerenza, onestà, rigore morale ed altre virtù pur solamente umane – non ci sentano affatto da questo orecchio.

Mi sono chiesto dove si sono nascoste le femministe, le donne dei cortei, degli slogans e delle manifestazioni di piazza. Credo che ogni benpensante sia ben felice della sospirata emancipazione della donna, ma di una emancipazione che sia veramente tale e non di un abbrutimento pressoché animale, come nel caso in questione.

11.04.2014

Fuori serie

Quando si riscontrano dei comportamenti anomali in qualche persona o in qualche categoria sociale o religiosa, la gente, imbarazzata e in difficoltà di dare un giudizio, se la cava con una battuta ormai di uso comune: “Il mondo è bello perché è vario”. Non sono molto propenso ad accettare senza alcuna riserva questa sentenza, però penso vi sia molto di vero.

Questo discorso vale per il macrocosmo umano: sarebbe difficile trovare un denominatore comune tra la mentalità dei cinesi, degli arabi, dei tedeschi, degli indiani o degli svedesi, oppure dei francesi o degli italiani. Vi sono delle mentalità, degli stili di vita, norme comportamentali estremamente diversi, ma penso anche che ci sia quasi una camera di compensazione e di complementarietà che, tutto sommato, fa della diversità una reale ricchezza.

Questo discorso vale anche per il mondo degli ordini e delle congregazioni religiose. Vi sono suore di tutte le specie possibili ed immaginabili, con le divise più diverse e con i cosiddetti “carismi” (parola molto di moda tra le suore) almeno nelle enunciazioni tanto dissimili, tanto che qualcuno ha osato affermare che solo lo Spirito Santo conosce i nomi di tutte le congregazioni religiose.

Ora però, da qualche decennio, sembra che pure dagli stessi ordini monacali, antichi e moderni, stiano emergendo dei religiosi che escono dai tradizionali binari – di norma molto statici perché fissati dalle “sante regole” – per dare delle testimonianze di fede e delle modalità di apostolato assolutamente inusitate.

In proposito ricordo la religiosa francescana, “suor sorriso”, che a suo tempo deliziò la gente con le sue canzoni briose e vivaci che davano lode a Dio in maniera fresca ed immediata, tanto diverse dai canti liturgici o popolari del passato così compassati.

Ricordo pure il francescano, padre Cionfoli, che ha cantato la lode al Signore accompagnandosi con la chitarra perfino alla “sagra del biso” a Peseggia recente c’è stata quella suoretta di cui vi ho già parlato, folgorata dalla vocazione in discoteca che, entrata in convento, continua a lodare Dio danzando dolcemente davanti al tabernacolo.

Da qualche tempo poi televisione, rotocalchi e soprattutto periodici di ispirazione cristiana hanno dedicato tutti qualche pagina, qualche fotografia e pagine di cronaca a suor Cristina, la religiosa orsolina che si esibisce a “Radio 2” in canti pop o rock. E’ capitato anche a me di vederla col microfono in mano cantare a squarciagola. Non ho capito cosa dicesse, comunque m’è parso che avesse un volto bello e pulito e penso che forse nostro Signore, a differenza di me, prete dai gusti classici, goda e gradisca questi canti moderni. Sul nuovo periodico “Il mio Papa” ho letto che questa religiosa in pochi giorni ha avuto più di 24 milioni di visualizzazioni:
“Poi, al termine della canzone, quando Raffaella Carrà ha chiesto come l’avrebbero presa in Vaticano, suor Cristina Scuccia ha sorriso: «Non lo so», ha detto «ma mi aspetto una telefonata di papa Francesco. Lui ci invita ad uscire, a evangelizzare, a dire che Dio non toglie niente. Anzi ci dona ancora di più. E io sono qui per questo».

Vuoi vedere che finalmente questa suoretta ha trovato il modo di convertire gli uomini di oggi?

10.04.2014

Un brutto rischio

Non so fin quando terrà banco sulla stampa l'”insurrezione del Veneto”, perché dipenderà soprattutto dall’uscita di qualche altra notizia eclatante affacciata alla ribalta dell’opinione pubblica, ma ciò non è prevedibile. Comunque penso che ben difficilmente si potrà scrivere di più di quanto si è scritto, sia come cronaca sul movimento “armato” che si riproponeva di riconquistare Venezia dal “giogo italiano”, sia come analisi del fenomeno sociale dei Veneti. Non sarò io, povero autorello, a poter aggiungere qualcosa di nuovo e di interessante.

Domenica scorsa ho seguito la “reazione” del popolo veneto alla carcerazione dei cospiratori; in verità a me pare sia stata una manifestazione ben ridotta e soprattutto composta da politici che puntano all’elezione appoggiandosi su questo spazio politico e dai soliti esaltati che si lasciano facilmente manovrare dai furbi di turno.

In questa occasione mi pare che vi sia da fare un’osservazione su qualcosa di cui non s’è detto abbastanza, ossia la mancanza di humour da parte dei magistrati inquirenti. Da sempre ho notato che i magistrati sono fin troppo “sussiegosi” per l’alto compito che in realtà è loro affidato dal popolo e perciò arrischiano di perdere il senso del ridicolo. L’intervento a dir poco fragoroso nei confronti dei “cospiratori veneti” costituisce un esempio lampante di questo limite dei magistrati. Anche uno sprovveduto avrebbe capito che l’impresa militare già fallita qualche anno fa non è nulla più di una farsa da teatro di parrocchia e perciò si poteva riderci sopra mandando qualche cronista per aggiornare l’opinione pubblica su questo evento.

Una seconda osservazione: mi pare che i magistrati talora manchino non solo del senso di humour, che quasi sempre risolve come una punta di spillo le bolle di sapone, ma pure spesso sono carenti del senso dell’economia. In questa occasione mi sono domandato ancora una volta quanto è costata questa operazione e quanto costerà portare a termine il relativo processo. Il fatto che i magistrati siano notoriamente una delle categorie fra le più pagate, probabilmente fa perder loro il senso del denaro. Se si fosse trattato di un pericolo per l’Italia, o di prevenire una guerra civile, capirei i mesi di intercettazioni e l’impiego dei carabinieri, ma per una mascherata di poveri allocchi credo che non si giustifichi un esborso di denaro che immagino ben consistente.

Detto questo, rimane il fatto più importante e non risolto dai magistrati: quello del disagio sociale della nostra gente, laboriosa e supertassata, disagio che un nostro detto popolare, “bechi e bastonai”, traduce fin troppo bene.

10.04.2014

Occupazione e disoccupazione

Forse ho paura di essere un “Bastian contrario” per carattere. E può anche darsi che nonostante spesso abbia fatto dei seri esami di coscienza, lo sia davvero. Però credo che, almeno in Italia, che è il Paese che conosco un po’ di più, spesso non ci sia il coraggio e l’onestà di dire con sincerità “pane al pane”.

Che la disoccupazione sia una piaga reale e che sia fonte di povertà, è un fatto inconfutabile, però è pur vero che questo male sociale non si possa imputarlo solamente al malgoverno. A parte il fatto che ci possono essere governi più o meno bravi a risolvere le questioni sociali, non ho mai sentito che vi siano in alcun Paese governi capaci di “far miracoli”. Quindi può darsi che il nostro governo abbia fatto degli sbagli, però credo che le soluzioni si trovino solamente “tirando” tutti dalla stessa parte e soprattutto se ognuno fa con coraggio e spirito di sacrificio il proprio dovere.

Tralascio di proposito il discorso sul governo, sulla classe imprenditoriale, per riferirmi alle responsabilità di chi cerca lavoro. Forse quello che sto per dire risente della storia passata e presente della mia famiglia. Mio nonno materno, dopo la prima guerra mondiale emigrò – lui e la sua famiglia, compresa mia madre – in Brasile, ove c’era lavoro. Il figlio di mia sorella, giovane comandante dell’Alitalia, un paio di anni fa, messo in mobilità con un lauto compenso per otto anni, sapendo che il tempo sarebbe passato velocemente, s’è cercato lavoro ben lontano da casa, in Qatar.

Primo: Il lavoro bisogna cercarlo comunque ove c’è. In Italia c’è ancora troppa gente che cerca un lavoro poco faticoso, ben pagato, vicino a casa e che duri per tutta la vita. Oggi questa è una chimera che nessun governo, né di sinistra né di destra, potrà mai garantire. Secondo: penso che noi italiani non abbiamo ancora capito che ormai viviamo in un mercato globale e perciò, se vogliamo vendere, dobbiamo produrre di più, di meglio e a minor prezzo degli altri. Soluzioni diverse sono pure chimere. Questi due semplici concetti dobbiamo passarli ai nostri ragazzi fin dall’infanzia. Illuderli con altre prospettive vuol dire tradirli e farne degli spostati eternamente scontenti.

Terza norma di fondo è quella di amare il proprio mestiere, farlo con passione e serietà. Questa è l’educazione che mio padre e mia madre hanno impartito a noi sette figli e tutti e sette, cresciuti con questi princìpi, ci siamo fatti la nostra posizione, modesta fin che si vuole, ma che ci ha consentito di non aver bisogno di sussidi dello Stato e ci ha permesso inoltre una vita dignitosa.

Io, il più vecchio, ho la bella età di 85 anni, ma le mie giornate sono “piene come un uovo”. Qualcuno ha detto che sono stato fortunato, mentre io sono convinto di aver lavorato, e non me ne pento.

09.04.2014

Volontariato di serie B?

Ho già scritto della mia contentezza perché la diocesi, tramite la Caritas, ha realizzato a Marghera una mensa ed un dormitorio per una quarantina di persone in grave disagio economico.

Un prete che da una vita ha sognato “una Chiesa povera per i poveri” e che ha speso ogni sua risorsa per mettere almeno qualche piccola pietra per realizzare questo progetto da Vangelo come potrebbe e dovrebbe non essere contento che altri fratelli di fede sono riusciti a metterne anche loro qualcuna?

Già mezzo secolo fa con monsignor Vecchi abbiamo avvertito questo grave problema per Mestre ed abbiamo dato vita al “Ristoro” di Ca’ Letizia che in questo lasso di tempo ha preparato la cena e la prima colazione a decine e decine di migliaia di poveri. A Ca’ Letizia si è aggiunta da tempo la mensa dei frati e quella di Altobello che, in maniera autonoma ed in silenzio, hanno fatto altrettanto e forse più della mia San Vincenzo. Però questi punti di ristoro in questo momento di grave crisi economica, nonostante la “Bottega solidale” di Carpenedo, il “Banco alimentare” del “don Vecchi”, che offre ogni settimana generi alimentari a più di tremila poveri, ed ora lo “Spaccio solidale” che in un mese e mezzo dalla sua apertura ha aiutato più di duemilacinquecento bisognosi, c’è spazio, e molto, per altri interventi. Ben venga quindi la “mensa-dormitorio” di Marghera.

Alcune settimane fa ho fatto qualche rilievo su alcune modalità marginali di questa apertura che è avvenuta nonostante continui rinvii. Mi è parso che si sia suonata un po’ troppo la tromba e fatti rullare eccessivamente i tamburi della stampa con annunci che sono stati poi smentiti purtroppo dalle difficoltà incontrate.

Il fatto poi di aver invitato il vice-papa per un’apertura precoce e formale, m’è parso un po’ eccessivo. Infatti, ancora una volta, si è verificato che “la montagna ha partorito un topolino”. Comunque è ben vero che è bene quello che finisce bene. Purtroppo è stato un po’ amaro e deludente che la parziale apertura della mensa con la fornitura della cena da parte del catering Serenissima Ristorazione, nonostante la presenza del Patriarca e di venti camerieri, sia andata deserta per l’assoluta mancanza di commensali. Tanto che, come avvenne per la parabola evangelica degli invitati a nozze, fu giocoforza andare ad invitare “i poveri ai crocicchi delle strade”.

Quello poi che mi ha turbato un po’ e fatto pensare, è che tre, quattro persone che probabilmente lavorano presso strutture solidali preesistenti alla mensa di Marghera, siano venuti a portarmi i ritagli del Gazzettino e della Nuova Venezia parlandomi del flop dell’iniziativa della Caritas. Sinceramente io sono spiaciuto dei contrattempi e del faticoso avvio di questa iniziativa benefica. Però confesso che ho pensato che simile comportamento denunci un certo disagio da parte dei volontari che da anni offrono il loro servizio in strutture ben più consistenti ed efficienti, mentre hanno la sensazione di essere considerati volontari di serie B nella Chiesa di Venezia perché sono autonomi e camminano con le loro gambe.

08.04.2014

Resurrezione: dono fin da subito

La mia preparazione al sermone per la quinta domenica di quaresima, che il calendario liturgico ha fissato per il 6 di aprile, cioè ieri, è stata particolarmente tribolata. In verità tante volte ho confidato ai “miei fedeli” che per me è sempre stato faticoso e impegnativo preparare la predica, ed altrettanto farla. Sono estremamente preoccupato che si riduca a un fervorino che ricordi un episodio o un discorso di Gesù e non diventi invece – come io credo che sempre dovrebbe essere – una luce che illumini l’intelligenza e ci determini a vivere l’oggi e a camminare verso il domani sorretti dalla verità che Cristo ci offre in ogni nostro incontro con lui. La liturgia della domenica non può esaurirsi in una “marcatura” che certifica la nostra presenza: questo ritualismo rappresenta la morte certa del messaggio cristiano.

Ce l’ho messa tutta, come sempre, tanto che, finita la messa, mi sentivo quasi svuotato e stanco, come avessi affrontato una prova estremamente difficile. Terminata la messa ho incontrato un piccolo crocchio di signore che si facevano le rituali confidenze ed una, vedendomi passare, e con il palese assenso delle altre due, mi disse: «Grazie don Armando, per quello che ci ha detto questa mattina». Mai ho gradito un complimento quanto ho gradito questo, perché ho avuto la sensazione che l’interpretazione che avevo dato alla pagina del vangelo di Giovanni era passata e l’avevano accolta con gioia interiore.

Tutti, o quasi, sanno che il vangelo della quinta domenica di Quaresima verte sulla resurrezione di Lazzaro. Questa pagina è ricca, ma quanto mai complessa e non è facilmente interpretabile il passaggio in cui Cristo afferma che chi crede avrà pure vita dopo la morte: verità importante, però lontana.

Ho tentato di rendere cosciente la mia cara gente che viene ogni domenica ad incontrarsi con Gesù nella mia povera chiesa prefabbricata tra le tombe del nostro camposanto, che la resurrezione di Lazzaro non ci apre solamente alla speranza della vita oltre la morte, ma ci offre molto ma molto di più. Infatti se il Signore donerà a tutti la resurrezione, credenti o meno, per noi essa costituisce un dono immediato perché ci libera fin da subito dall’angoscia della fine ineluttabile e definitiva, mentre i non credenti dovranno affrontare le nostre stesse difficoltà, ma non potranno evitare l’angoscia di sentire sopra le loro vite pendere la spada inesorabile di Damocle che da un momento all’altro può metter fine a tutti i loro sogni e le loro attese.

La Resurrezione quindi è per noi una stupenda notizia che già da ora allieta ed illumina la nostra vita ed apre davanti a noi un varco luminoso sul domani, facendoci allietare e quasi pregustare la vita nuova, aldilà della tomba, sorreggendoci e rendendo più sicuro e sereno il nostro andare verso una meta radiosa e felice.

07.04.2014

“Il regalo di un Picasso”

Mi pare che sia stata la settimana scorsa quando ho raccontato ai miei cari amici de “L’Incontro” la mia iniziativa di benedire le 64 “case” del Centro don Vecchi di Campalto.

L’età e gli impegni mi costringono a trascurare l’ormai consistente popolo dei Centri don Vecchi di Marghera e di Campalto. Mi sento veramente in colpa, anche se so che il motivo di questa mia scarsa frequenza non è mancanza di amore, né pigrizia o trascuratezza, ma solamente il fatto che ormai sono vecchio e non riesco ad essere spesso presente e a manifestare il senso di autentica fraternità che mi lega a questa mia cara gente.

La visita, come ho riferito, mi ha riempito il cuore per la simpatia e l’affetto che ne ho ricevuto. Abbastanza di frequente mi sono complimentato con i singoli residenti per il gusto con cui hanno arredato l’alloggio e per l’ordine e la pulizia con la quale lo mantengono. Talvolta ho ammirato l’arredo e i quadri con i quali qualcuno ha abbellito le pareti. Di certo non ospitiamo a Campalto collezionisti d’arte, però ognuno ha appeso quello che aveva di meglio. Innamorato dell’arte, anzi “drogato” d’arte quale io sono, qualche volta ho chiesto il nome degli autori.

Ricordo che in uno di questi appartamentini fui attratto da un disegno in nero; capii d’istinto che era qualcosa di particolarmente significativo, tanto che mi complimentai con la padrona di casa. Avevo già voltato pagina su questa “visita pastorale” quando, domenica scorsa, all’ora di messa, si presentò nella sagrestia della mia “cattedrale” quella signora di Campalto con la litografia che avevo notato nella sua casa. Il gesto mi ha commosso, tanto che non ho avuto il coraggio di rifiutarlo perché ho avvertito che era felice di potermelo donare e l’avrei delusa se non l’avessi accettato.

Si tratta di una stampa di Picasso, “La danza della pace sul mondo”. Infatti notai, all’interno del girotondo, la famosa “colomba” che per decenni la sinistra ed i pacifisti di mezzo mondo hanno sventolato nelle piazze contro l’imperialismo americano.

Io che amo l’arte non per il prezzo delle opere, ma per il messaggio e la poesia che esprimono, collocherò in un posto d’onore del “don Vecchi 5” il nostro “Picasso”, però voglio allegare pure il testo della lettera con cui l’anziana signora ha voluto accompagnare il suo dono, perché tutti sappiano la ricchezza del cuore dei nostri anziani e si impegnino perché la loro vecchiaia scorra serena e felice.

07.04.2014

Reverendo Padre don Armando,

La ringrazio ancora sentitamente per la Sua presenza presso la mia casa in occasione della Benedizione.
La mia emozione per l’Evento mi ha impedito di compiere un gesto che avrei voluto fortemente già da allora. Così spero che Lei accolga questo piccolo dono che Le offro con amore, entusiasmo e silenzio nel segno della riconoscenza per tutto ciò che Lei quotidianamente regala a me e a tutti i miei compagni dei Centri don Vecchi e naturalmente non solo!
Il pittore alla fine della vita ha voluto con pochi tratti dipingere alcune opere di forte valore simbolico. La litografia rappresenta “La danza della pace nel mondo”. Sono felice che Lei la tenga e forse troverò il quadro in una delle case da Lei create, donando una vita nuova e serena a coloro che hanno la fortuna di abitarvi.
Sommessamente, con immensa gratitudine,

Maria Rosaria Bellocchio
Campalto, appartamento n° 33