Gli arti delle parrocchie

La parrocchia è la comunità di base dell’organizzazione della Chiesa Cattolica, essa ha compiti specifici e per perseguire i suoi obiettivi necessita di strumenti. Mi pare sia di dominio pubblico che la parrocchia debba provvedere al culto organizzando la preghiera pubblica e privata, debba provvedere alla catechesi sia per i bambini che degli adulti per far loro conoscere il messaggio di Gesù ed infine debba organizzare la carità al suo interno. Una parrocchia che non sia impegnata per il culto, la catechesi e la carità è una comunità monca, incompleta e carente di quegli elementi che sono essenziali per la sua stessa vita.

Per quanto riguarda il culto e la catechesi non c`è parrocchia che in qualche modo non provveda, vi sono parrocchie seriamente impegnate che mettono in atto le soluzioni più avanzate e rispondenti alle attese e alla sensibilità degli uomini d’oggi, mentre altre tirano a campare rifacendosi ad una tradizione ultra secolare con risultati evidentemente deludenti, comunque tutte le parrocchie in qualche modo sopravvivono anche se talora vegetano.

La carità invece pare che in molte di esse non desti alcuna preoccupazione, tanto da farle apparire prive di un arto e quindi squilibrate e terribilmente zoppicanti. Questa è una carenza mai sufficientemente denunciata! Una parrocchia, che non abbia un’organizzazione della carità almeno decente, dovrebbe chiudere perché priva di un arto essenziale per esercitare il suo ruolo.

Come risolvere il problema? Ci dovrebbe essere una sensibilizzazione da parte del Vescovo e della Caritas che è l’organismo istituzionale a cui è stato affidato l’incarico di promuovere la solidarietà. Purtroppo pare che anche questi organismi siano poco sensibili a questa esigenza che rimane ancora tanto marginale nella preoccupazione di Vescovi e parroci. Temo che anche le parrocchie più sensibili a questo dovere e più attrezzate per realizzarlo sbaglino quando tentano di fare supplenza. Ritengo sia doveroso stimolare le singole parrocchie ad attrezzarsi per la carità perché le supplenze favoriscono la pigrizia e l’incoerenza.

Burocrazia

Sono da sempre convinto che qualsiasi apparato burocratico, specie se di enti statali o parastatali, sia una delle più grosse palle al piede che impedisce alle strutture un passo veloce ma soprattutto una produttività che giustifichi un numero così grande di dipendenti. In tempi lontanissimi di questa sensazione, quasi istintiva, ebbi una dimostrazione teorica.

Monsignor Vecchi era molto amico della famiglia Coin, i notissimi imprenditori veneziani, ma soprattutto di uno dei suoi giovani rampolli: il dottor Piergiorgio. Monsignore, quando questo giovane imprenditore veniva a fargli vista, spesso lo invitava a pranzo. Il dottor Piergiorgio, che collaborava con il fratello Vittorio alla conduzione della grande azienda familiare, come tutti i giovani era curioso e desideroso di aggiornarla dal momento che essa poggiava ancora sul fiuto commerciale dei vecchi fratelli Alfonso e Aristide, rispettivamente loro zio e padre. Durante il pranzo normalmente si parlava sia della nostra parrocchia sia della sua azienda e a questo giovane imprenditore piaceva quanto mai raccontarci dei viaggi in America che faceva per aggiornarsi sulle metodologie più avanzate di gestione e di vendita. Ricordo di aver appreso allora che quando in un’azienda il numero di impiegati supera un certo livello invece di essere produttivi finiscono per intralciare il lavoro e per costituire un peso per l’azienda stessa.

Quando penso ai tremilaseicento dipendenti del Comune di Venezia e agli oltre seimila delle società controllate dal Comune, mi spiego l’assoluta inefficienza dell’apparato comunale e penso che questa realtà valga anche per la Regione per non parlare poi dello Stato. Quindi non capisco perché, se è scientificamente dimostrato che un numero di dipendenti così elevato è più dannoso che utile, Renzi non faccia fare una cura dimagrante all’apparato statale e Zaia e Brugnaro non facciano altrettanto in Regione e in Comune rendendo questi organismi leggeri, efficienti, meno costosi e soprattutto impegnati a servire i cittadini e non a rendere la loro vita sempre più difficile.

Onore ai militi ignoti

Perdonatemi amici lettori se ancora una volta ricordo “il mio maestro”, Monsignor Valentino Vecchi, però una sua affermazione calza così bene al discorso che voglio fare, che proprio non riesco a non citarlo una volta ancora. Gli antichi affermavano “Repetita iuvant” perché il chiodo per conficcarsi deve essere colpito più volte con il martello però è altrettanto vero anche quello che noi studenti di tempi lontani aggiungevamo in un latino maccheronico che non serve tradurre: “ma stufant”.

Questa è l’osservazione di don Valentino Vecchi: “Quando una persona entra in un edificio di pregio, d’istinto cerca con gli occhi i marmi lavorati artisticamente, i capitelli corinzi, ionici o dorici con le relative colonne e quasi mai il suo sguardo e il suo pensiero vanno a quelle umili pietre di terracotta coperte dall’intonaco che sostengono l’edificio”. Ebbene in questi ultimi anni della mia vita, in cui spesso vengo a conoscere concittadini ai quali porgo l’ultimo saluto prima di consegnarli alla paternità di Dio, sento il dovere di onorare e di ringraziare quegli uomini e quelle donne umili che hanno fatto il loro dovere, che si sono spesi per le loro famiglie e che spesso si sono anche fatti carico dei fratelli più poveri.

Inizialmente nel mio sermone cercavo di illustrare feste particolari, imprese di valore, episodi significativi ma poi, piano piano, ho capito che non c’è niente di meglio e di più importante per la società che incontrare galantuomini, donne di casa e genitori che hanno cresciuto la loro famiglia trasmettendo valori autentici. Sono assolutamente certo che la nostra società non si è ancora sfasciata e sta ancora in piedi solamente grazie a questi uomini e donne che hanno fatto il loro dovere in silenzio, con tanto sacrificio e non certo per merito di quei parolai che riempiono ogni giorno le pagine dei giornali con i loro volti, le loro chiacchiere e le loro beghe inconcludenti. Perciò oggi depongo, con rispetto e riconoscenza, la mia corona d’alloro per onorare la vita e la memoria di questi “militi ignoti” ai quali dobbiamo tutto, ma proprio tutto!

Democrazia

A me piace la democrazia però senza aggettivi che la qualifichino, aggettivi che temo la svuotino del suo contenuto autentico. Io non ho mai accettato l’abbinamento tra il termine “democrazia” e l’aggettivo “proletaria”, abbinamento in uso tra i comunisti di un tempo convinti di rafforzare, con questo connubio, il concetto stesso di democrazia perché questa parola è già sufficientemente densa di significati anche senza l’integrazione di aggettivi vari. Ritengo che la democrazia, il cui significato è “governo del popolo”, sia un po’ come una coperta che viene tirata ora da una parte ora dall’altra a supporto di decisioni e di scelte in cui spesso quel popolo, che dovrebbe esercitare la sovranità in via indiretta attraverso rappresentanze elettive, viene ignorato.

L’ingovernabilità è una malattia endemica del nostro Paese e spesso ci ha fatto assistere alla paralisi decisionale anche quando i governi potevano contare su solide maggioranze. La dialettica interna recentemente è degenerata in lotta ideologica e di potere, sia all’interno del partito di maggioranza relativa che in altre formazioni politiche, creando tensioni che generanno instabilità. Anche il premier Renzi, all’interno del suo partito, deve fare i conti con queste tensioni provocate da divergenze con la minoranza interna, tensioni che anche Renzi ha cavalcato quando, a sua volta, era minoranza. Noi non possiamo fare altro che pregare e sperare che il buon senso prevalga in tutti coloro che hanno responsabilità politiche.

La maggioranza deve quindi esercitare il mandato di governare, l’opposizione il suo ruolo di controllo propositivo e ambedue, superando sterili contrapposizioni, non devono dimenticare che il loro mandato è quello di operare, nel rispetto dei reciproci ruoli, per il bene di tutti senza continui ed inutili balletti per rimpallarsi la responsabilità della realtà in cui stiamo vivendo.

Ho fatto questa premessa non per un’esercitazione dialettica ma per affermare ad alta voce che mi irrita che Camilla Seibezzi, delegata dal sindaco Orsoni per i diritti civili, le politiche contro la discriminazione e la cultura, pretenda di imporre all’attuale sindaco Brugnaro, che tra l’altro non condivide le sue convinzioni, di adeguarsi ai suoi sballati concetti sul sesso, sui genitori e sulla teoria gender. Desidero mettere in guardia il nuovo sindaco affinché non si lasci condizionare dagli schieramenti politici estremi, dai sindacati, dai centri sociali e dai comitati che spuntano come funghi dopo una pioggia perché se così facesse non avrebbe scampo e quindi gli consiglio di accettare il messaggio di questo vecchio prete: “Tenga duro e non si lasci condizionare da questi cattivi profeti!”.

Pozzo senza fondo

Ho già raccontato ai miei amici che sessant’anni fa confidavo a Monsignor Aldo Da Villa, mio vecchio parroco di allora e oratore quanto mai brillante e convincente, la mia grossa difficoltà nel preparare il sermone per la domenica e l’angoscia che provavo al pensiero che l’anno successivo avrei dovuto commentare lo stesso brano del Vangelo dicendo qualcosa di nuovo.

Monsignore mi rassicurò affermando che la Parola del Signore è la manifestazione di Dio stesso e quindi, per sua stessa natura, sconfinata ed infinita nei contenuti. Ebbi fiducia di quel bravo prete e da più di sessant’anni continuo a commentare il Vangelo scoprendovi, per fortuna, sempre qualcosa di nuovo, di bello e di utile.

La settimana scorsa la liturgia della domenica offriva ai fedeli la pagina del Vangelo di Giovanni che parla della moltiplicazione dei pani e dei pesci, il miracolo con cui Gesù sfama una folla di cinquemila uomini oltre alle donne e ai bambini. Quello che è quanto mai interessante però è la modalità con cui Cristo compie questo miracolo. Fin dal primo approccio della mia preparazione ho scoperto alcune verità che mi sono parse non solo interessanti, ma estremamente attuali e rivoluzionarie. Ne faccio un accenno per sommi capi sperando che mi capiti l’occasione di tornare sull’argomento in maniera più esaustiva.

  • “Una grande folla segue Gesù vedendo i segni che compiva nei riguardi dei sofferenti”: se la Chiesa vuole avere maggior seguito deve occuparsi sempre più concretamente di chi è in difficoltà.
  • “Gesù si preoccupa e sfama la gente”: Gesù quindi è venuto per la salvezza globale dell’uomo e non solamente per le anime o per l’aldilà come pensano troppi cristiani.
  • “Provvedete voi dice agli apostoli”: loro obiettano che neanche con una somma ingente avrebbero potuto farlo, è quindi evidente che mentre noi poveri uomini commisuriamo il nostro impegno per i poveri alle nostre disponibilità, Gesù invece parte dalle esigenze di chi ha bisogno.
  • “II bimbo con i cinque pani e i tre pesci”: ognuno deve fare la sua parte impegnandosi senza se e senza, il resto lo fa il Signore.
  • “Raccogliete gli avanzi”: nulla di più attuale nella società dei consumi.

Sono andato a mendicare!

Oggi ho dedicato la mattinata a fare il mendicante e per farlo ho dovuto perfino annullare la Messa che celebro ogni giorno in cimitero. È vero che in passato ci sono stati preti come don Marella di Pellestrina, che quotidianamente si metteva in un angolo di una delle strade più trafficate di Bologna per chiedere la carità necessaria a mantenere i poveri della “Città dei Ragazzi” che egli aveva fondato ai margini della città attorno agli anni ’30-’40, confesso però che a me è costato quanto mai mendicare presso un funzionario della Regione il permesso di poter continuare a distribuire i vestiti alla folla di concittadini e di extracomunitari che per potersi vestire decentemente accedono “all’ipermercato degli indumenti” del Polo Solidale del Don Vecchi. Mi è costato tanto perché l’ente pubblico, che in questo caso è la Regione, invece di favorire ed aiutare queste associazioni di volontariato del privato sociale, che rappresentano in assoluto il meglio della nostra società, mettono loro i bastoni fra le ruote, con imposizioni banali, assurde ed inconcepibili usando le leggi come un capestro piuttosto che come uno strumento per aiutare i più poveri.

Sono stato in Regione dove come sempre ho incontrato una marea di impiegati e di dirigenti che la comunità purtroppo paga per creare grane piuttosto che per risolvere i problemi. Io sono certamente un povero “Nàne” ma da sessant’anni bazzico tra i poveri e i volontari e potrei aprire una scuola, non solamente per gli impiegati ma anche per i dirigenti, per insegnare a questi funzionari tutto sui poveri e sulle persone che si occupano di loro. In più di un’occasione mi sono trovato davanti a persone assolutamente incompetenti, amanti delle carte con le quali si trastullano da mane a sera, e purtroppo, per amore della povera gente, ho dovuto “mangiare il rospo” e sono stato costretto ad assecondarli perché hanno loro il coltello dalla parte del manico.

La giustizia ingiusta

La recente sentenza della Consulta, che ha stabilito che anche le scuole paritarie, ossia quelle gestite da parrocchie o da enti religiosi e riconosciute dallo Stato dovranno pagare ICI e IMU, non solo mi ha irritato ma mi ha anche indotto ad un rifiuto radicale verso questi alti magistrati che nei momenti critici, nei quali persone di buona volontà e di retto sentire sono impegnate fino allo spasimo per tenere a galla la barca nazionale che fa acqua da tutte le parti, senza scomporsi e comportandosi come se fossero in possesso della verità assoluta iniziano a menare picconate aprendo ulteriori falle che non possono sortire altro effetto se non quello di aiutare la barca ad affondare più velocemente. Questo è avvenuto recentemente per le pensioni ed avviene ora per la scuola cattolica.

La cosa mi riguarda in generale come cittadino di questo Paese ma soprattutto in maniera più specifica perché per trentacinque anni mi sono impegnato, fino allo spasimo, per trasformare il vecchio asilo infantile di Carpenedo nel moderno ed avveniristico “Centro Polifunzionale per l’Infanzia: Il Germoglio” di Via Ca’ Rossa. Ebbene quella scuola era di gran lunga all’avanguardia con lo zoo, il giardino botanico, la casetta per le feste, il trenino e l’asilo nido. Questa struttura è costata al Comune e allo Stato meno di un terzo di quanto allora si spendeva per realizzare una scuola pubblica per l’infanzia e oltretutto i genitori della nostra scuola d’eccellenza, che pagavano una retta modesta, erano costretti a pagare anche una quota ben più onerosa da destinare alla scuola pubblica di cui non usufruivano.

Prima di fare ulteriori commenti sugli alti gradi della magistratura, che dovrebbero essere i garanti supremi della giustizia, voglio far notare che, mentre la povera gente gode di stipendi da fame, loro non si vergognano di percepire stipendi più che lauti di cui loro stessi definiscono l’importo. Sono quanto mai triste nel fare queste considerazioni e non posso fare a meno di ritornare con il pensiero ai martiri di questa categoria: Livatino, Chinnici, Falcone, Borsellino e tantissimi altri e sono anche convinto che i giudici che lavorano in silenzio e fanno il loro dovere di servitori dello Stato siano la maggioranza. Detto questo ho la sensazione che nelle alte sfere di questa categoria si annidino magistrati che, ispirandosi a vari settori della politica e della finanza, usano la Giustizia in maniera partigiana e faziosa per far prevalere soluzioni che non hanno nulla a che fare con il bene del Paese.

Scopa nuova

Sono sempre stato convinto che i proverbi ci trasmettano esempi di saggezza popolare perché nascono da esperienze di vita vissuta. A leggere il Gazzettino pare che la nuova Amministrazione di Venezia manifesti almeno inizialmente una certa intraprendenza. C’è un proverbio che afferma: “Scopa nuova, scopa bene”, dobbiamo però anche avere un pizzico di prudenza ed attendere ulteriori conferme per non rischiare di rimanere delusi. Sempre rifacendomi ai proverbi ce n’è uno che dice: “Meglio poco che niente”, per fortuna però ce n’è anche un altro, più incoraggiante, al quale voglio aggrapparmi per poter almeno sperare: “Chi ben comincia è a metà dell’opera”.

In questi giorni, dovendo transitare più volte al giorno per l’incrocio della piazza di Carpenedo, ho avuto modo di vedere che i lavori per la rimozione di quel terribile acciottolato, che scuote l’auto come un terremoto, sono iniziati. A quanto mi si dice pare che in un paio di settimane i lavori saranno ultimati e tutto verrà sistemato.

Qualcuno dirà: “È ancora poco”, è vero però è qualcosa. Partendo da questa parziale constatazione positiva mi è venuto da pensare, rifacendomi all’auspicio che ho manifestato in questa rubrica prima delle elezioni quando ho scritto: “Spero che il Patriarca, preceduto dalla Croce astile e seguito dal clero e dal popolo veneziano, si rechi da un imprenditore affermato e possibilmente onesto per pregarlo di donare alcuni anni della sua vita per rimettere in sesto la nostra città”. Per quanto riguarda la scelta di un professionista piuttosto che di un politico il Signore mi ha esaudito mentre per quanto riguarda la sua onestà e la sua capacità, per non restare deluso, preferisco aspettare ancora un po’ ad esprimere giudizi. Spero anche che il Signore continui ad ascoltarmi suggerendo a Brugnaro di tirare dritto, di tenersi lontano dai cattivi compagni annidati tra i politici, nei sindacati e nei vari comitati e di procedere, anche se con prudenza, applicando quelle leggi del buonsenso e della corretta amministrazione che per tanti anni, a Venezia, sono state disattese.

La lezione di don Fausto

Ho avuto modo di affermare molte volte che qualsiasi società ha un’estrema necessità di campioni, di santi e di martiri che facciano da capi cordata nell’aprire vie nuove verso la vetta e che dimostrino, con la loro vita e con la loro esperienza, che è possibile farlo per aiutare i meno esperti a raggiungerla. Quest’esigenza è importante in tutti i settori della vita umana e a maggior ragione lo è per la pastorale e per la vita parrocchiale. Poter disporre di questi campioni come guida e come punto di riferimento nella nostra esistenza è un dono del cielo e, grazie alle loro doti naturali, al loro impegno e grazie anche ai “maestri” che a loro volta hanno avuto la fortuna di incontrare, essi diventano “mosche cocchiere” per chi è meno dotato e per chi è talmente pigro da autogiustificarsi affermando che certe mete sono irraggiungibili.

Qualche tempo fa ho avuto l’occasione di leggere l’Annuario redatto da Monsignor Fausto Bonini che fino a pochi mesi fa, prima di diventare pensionato, era il parroco della comunità cristiana di San Lorenzo, il Duomo di Mestre. Questo testo mi ha offerto un progetto pastorale tanto innovativo, avanzato e all’avanguardia da consigliarne la lettura ai miei confratelli e da suggerire a don Fausto di inviarne copia a tutti noi sacerdoti anche se lui, probabilmente per comprensibile modestia, non ha aderito alla mia richiesta.

Partendo da questo spunto, stimolato dal contenuto della corposa busta con i bollettini parrocchiali della diocesi, oggi non posso esimermi dal sottolineare quanto questi periodici, che normalmente sono poveri di contenuti, durante l’estate lo siano ancor di più. Ricordo ancora quando don Fausto curava settimanalmente “La Borromea” che costituiva un messaggio ed una testimonianza fatta quasi esclusivamente da immagini, soluzione quanto mai coerente al modo di trasmettere messaggi dei nostri giorni. Alla Borromea affiancava, con scadenze varie, “Piazza Maggiore” un giornale-rivista nel quale offriva un dibattito condotto da giornalisti qualificati sui problemi attuali della città e della Chiesa di Mestre. Sono le soluzioni di questo genere ad essere efficaci e innovative nello stimolare un dialogo con la parrocchia e con la città.

In memoria di un benefattore

Un paio di settimane fa ho ritenuto opportuno, anzi doveroso, dedicare la copertina de “L’incontro” alle vacanze dei preti. Ricordo di aver scritto nella didascalia, sotto la foto di una lunga fila di ragazzi che camminano lungo un sentiero dell’Altopiano di Asiago, che ci sono preti che durante i mesi estivi girano il mondo ma che, per fortuna e per grazia di Dio, ci sono anche tanti altri preti che si dividono tra la parrocchia, gli scout accampati sotto le tende e i ragazzi che frequentano i campi scuola nella struttura parrocchiale in montagna.

Don Gianni, il mio secondo successore in parrocchia, è certamente uno di questi ultimi e a fine “vacanze”, ogni anno per la fatica, si riduce a una lisca di pesce. Durante le vacanze nella parrocchia di Carpenedo tra i quattrocento e i cinquecento ragazzi trascorrono dei “giorni magici” in montagna accanto alla testimonianza di un prete che resterà indissolubilmente legato ai ricordi più belli di questa stagione della loro vita. In questi giorni don Gianni era con il secondo turno di ragazzi alla “Malga dei Faggi”, l’incantevole casa di montagna a milleduecento metri di altitudine tra Agordo e Fiera di Primiero e, quando gli ho telefonato per un’incombenza al Don Vecchi, i ricordi di quella bella avventura pastorale mi hanno avvolto in un abbraccio dolcissimo.

Su segnalazione di non ricordo chi, trent’anni fa sono andato con don Gino e don Adriano a vedere una vecchia casera sepolta sotto un metro di neve per un eventuale acquisto: la comprai per dodici milioni, pari a centoventimila euro di oggi. Ricordo con infinita riconoscenza il restauro del carissimo geometra Giorgio De Rossi, che trasformò la “casera” in una casa di montagna super che nei “tempi eroici” offriva settanta posti letto. Ricordo ancora le meravigliose donne della parrocchia che si sono alternate alla cucina, tra le tante la Maria Antonietta Battistella che per molti anni fu la direttrice ma in realtà sono state più di due-trecento a susseguirsi per sfamare brigate di ragazzi. Devo poi infìnita riconoscenza a Gabriella e Giorgio Tiozzo che per trent’anni hanno curato la “Malga dei Faggi” ancor meglio del loro appartamento. Sono dodici anni che non salgo più la ripida stradicciola che porta al piazzale della malga e forse non ci tornerò mai più. Tutti mi dicono che la malga è ancora tanto bella però nei miei ricordi è molto più bella così come sono stupendi i volti delle migliaia di ragazzi, di animatori e di volontari che fecero di quella casa un punto di riferimento per tutta la parrocchia.

La mia fortuna

Quando ero cappellano a San Lorenzo mi fu affidata la cura della San Vincenzo e questa associazione in pochi anni è diventata come un pesco o un melo tutto in fiore. Oltre alle avventure della mensa dei poveri, del mensile “Il Prossimo”, delle vacanze degli anziani e dei ragazzi, dei concorsi per ragazzi sulle tematiche della solidarietà, della San Vincenzo in ospedale e dei servizi: magazzino dei vestiti, docce, barbiere ed altro ancora riuscimmo a dar vita ad un gruppo, che nello stile vincenziano chiamavamo “conferenza”, che si occupava esclusivamente dei poveri di Ca’ Emiliani. A quel tempo con questo gruppo abbiamo creato perfino un dopo scuola estivo per i ragazzi e aiutavamo anche gli abitanti delle baracche, il piccolo borgo della miseria che ora fortunatamente non esiste più. Con quel gruppo ho imparato che l’educazione e le esperienze della fanciullezza e dell’adolescenza sono determinanti per la maturazione di una persona. Compresi allora che da quella situazione di degrado morale, abitativo e sociologico era pressoché impossibile che nascessero personalità pulite, oneste, dedite al lavoro e rispettose delle leggi della buona convivenza.

Qualche giorno fa, ricordando queste vicende ormai lontane, mi sono chiesto: “A chi devo la mia personalità, il mio modo di pensare e di concepire la vita?”. Mi sono ritornate alla mente le istituzioni e soprattutto le persone alle quali devo tutto. Il papà sognatore e ricco di ideali; la mamma concreta e generosa così da dare tutto di sé; don Giuseppe Callegaro, il prete della mia fanciullezza, cordiale, sorridente ed affettuoso; don Nardino Mazzardis, il sacerdote nato in un paese disperso nella campagna, lucido, intelligente, fu lui il prete che costruì la mia coscienza ed innescò la scelta di farmi sacerdote; monsignor Umberto Mezzaroba, parroco della mia adolescenza e successivamente parroco delle mie prime esperienze pastorali, un prete di una fede assoluta e di una passione autentica per le anime; don Giuliano Bertoli che mi inserì nel mondo giovanile mediante gli scout; monsignor Aldo Da Villa, mio parroco a San Lorenzo che mi offrì una testimonianza maschia e forte del pastore di anime; monsignor Valentino Vecchi, prete dalle infinite iniziative che aprì il mio animo alla città e alla Chiesa che cammina. A queste figure vicine devo aggiungere anche quelle ideali come Papa Pio XII, Paolo VI, Papa Giovanni Paolo II e i miei Patriarchi: Agostini, Urbani, Roncalli, Luciani, Scola e i preti che mi fecero sognare una Chiesa bella, libera, povera, da Vangelo come Don Milani, don Mazzolari e Padre Turoldo. A questi preti e vescovi devo molto per tutto il bene che mi hanno fatto e per questo li ringrazio e prego per loro.

Una seduta di consiglio che mi ha fatto felice

Molte volte, in passato, ho sentito dire che certi preti, anche se avevano ottenuto buoni risultati nella loro attività pastorale, per la volontà di rimanere abbarbicati alla loro sedia e soprattutto per la scarsa fiducia nelle nuove generazioni, hanno finito per distruggere quello che avevano costruito. Ora questo pericolo non c’è quasi più perché una norma ecclesiastica stabilisce che i parroci diano le dimissioni a settantacinque anni, cosa che ho fatto con convinzione sia per obbedire alla norma, sia perché temevo che le mie attività implodessero a causa della mia fragilità ma soprattutto perché convinto che “il domani nasce dove i giovani pongono gli occhi”.

Oggi l’evoluzione è molto rapida ed è facilissimo essere sorpassati, sono perciò contento delle scelte che ho fatto e, anche se ho continuato a fare il prete a tempo pieno, l’ho fatto però in settori meno impegnativi. Ho offerto collaborazione al mio successore don Gianni e quando mi ha chiesto un aiuto ho risposto ben volentieri, purtroppo però le sue emergenze più assillanti provengono dal settore giovanile, ambiente in cui sono ben cosciente di essere ormai fuori corso. Per quanto riguarda i Centri Don Vecchi, le cose sono andate diversamente. Ho scelto di ritirarmi dall’impegno attivo perché ho pensato che, se volevo che queste iniziative di ordine solidale avessero un domani, era indispensabile che fossero affidate ad un giovane in grado di farsi le ossa con l’esperienza. Avrei potuto continuare, e forse ne avrei avuto la possibilità, però vi ho rinunciato consapevolmente anche se mi è costato; ora mi limito a suggerire, stimolare, criticare senza decidere. Sono contento nel vedere che il mondo continua bene anche senza di me.

L’altro ieri sono stato agli Arzeroni e la struttura del “Don Vecchi 6”, che non è destinata agli anziani e quindi forse dovrebbe avere un altro nome, è già arrivata al tetto e la disponibilità economica molto probabilmente consentirà di portarlo a termine. In tutta onestà devo dire che anche se sono stato io a “concepirlo” a realizzare l’opera sono stati altri. Questo non mi dispiace anzi mi fa felice e mi fa sperare che la nuova struttura, destinata alle criticità abitative, non rappresenti la fine ma solo una tappa del tentativo di trasformare Mestre, attraverso un nuovo servizio per i cittadini in difficoltà, in una città solidale.

“La luna di miele”

La tradizione popolare definisce il periodo immediatamente successivo alle nozze “luna di miele” perché per i giovani sposi è considerato un tempo in cui tutto è facile, bello e inebriante. Soltanto dopo queste prime settimane avviene l’impatto con la vita reale che non è sempre facile. Nella vita politica e nella pubblica amministrazione spesso si tenta di dare un giudizio sull’attività di chi è stato eletto basandosi su quanto fatto nei primi cento giorni del suo impegno politico. Questi tre mesi sono comunque troppo pochi per poter giudicare il passo e le iniziali prese di posizione di un’amministrazione di un grosso ente come il Comune di Venezia che credo conti ben quattrocentomila abitanti.

È pur vero che Brugnaro, il nostro nuovo sindaco, durante la campagna elettorale, ha affermato che se avesse vinto le elezioni si sarebbe chiuso a chiave in municipio per esaminare, con i tecnici del Comune e con altri esperti, ogni dettaglio dei conti e delle attività comunali per mettere a punto il programma attuativo in grado di tradurre in fatti concreti il progetto proposto ai cittadini durante la campagna elettorale. Che i primi cento giorni di governo di Brugnaro e della sua giunta non corrispondano alla luna di miele è fin troppo chiaro perché è più che evidente invece che essi corrispondano ai primi cento passi della via dolorosa che fatalmente conduce alla croce, comunque finora, per quanto emerso dalla stampa cittadina, di questo conclave non è uscita alcuna notizia.

Non mi resta che invocare il buon Dio che illumini i nostri amministratori affinché cerchino, trovino e applichino soluzioni radicali anche se amare ed impopolari che ci evitino di ridurci come i Greci. Il parroco di Viale San Marco, don Natalino Bonazza, ha scritto sul periodico della sua comunità che a noi preti e alle nostre comunità spetta il compito di pregare e io sono d’accordo con lui però credo anche che sia doveroso incalzare i nostri amministratori perché non continuino a fare anch’essi un’allegra, pavida e debole amministrazione da populisti come finora è quasi sempre accaduto.

Un’interprete attuale

Quante volte ho detto e scritto che l’uomo ha bisogno di campioni. Il campione è colui che dimostra, al di fuori di ogni dubbio, che è possibile raggiungere un obiettivo. Guai a noi se non ci fossero dei campioni perché se non ci fossero o se non fossero in grado di dimostrare di essere tali con i fatti saremmo in un mondo di uomini mediocri, adagiati nella comoda illusione che più di così non si può fare. I campioni offrono questo stimolo per superare la pigrizia, l’indolenza e il quieto vivere in ogni comparto della vita. Nel campo dell’ascesi spirituale i campioni sono chiamati: testimoni, apostoli, santi, ossia uomini e donne che per noi cristiani danno volto fedele ed attuale a Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, che si è vestito della nostra umanità per attestare quale è l’uomo vero e autentico uscito dal progetto e dalle mani del Creatore. Bisogna anche aggiungere che come l’uomo nella sua storia si è evoluto così Egli, pur rimanendo sempre se stesso, cambia volto, stile di vita, movenze e linguaggio. Credo che ciascuno convenga che come uomini e donne di altre epoche, anche se spinti dai medesimi valori ideali, hanno modi di vestire, di parlare, di muoversi e di rapportarsi con gli altri diversi dai nostri, così anche i testimoni e i santi sono più facilmente comprensibili e imitabili se figli dei nostri tempi.

Io ammiro la Chiesa che oggi dichiara santi persone che anche noi abbiamo conosciuto. Avevano ragione i giovani che ai funerali di Papa Wojtyla hanno chiesto: “Subito Santo!”. Sto leggendo attualmente una biografia di Madeleine Delbrêl. Il volume narra la vita, il pensiero e la testimonianza di una ragazza francese, atea radicale, che convertitasi, con un gruppo di amiche sceglie di vivere nei sobborghi della grande metropoli d’oltralpe in comunità dominate dal comunismo nelle quali la Chiesa non riusciva ad entrare e ad incidere. Il libro non è facile e non si lascia leggere volentieri però mi fa bene, molto bene, perché mi aiuta a capire che oggi al cristiano non viene chiesto nient’altro se non far incontrare anche i più lontani con Gesù amando e spendendosi per tutti senza discriminazioni di sorta. Se i cattolici delle nostre parrocchie facessero questo credo che farebbero il meglio che si possa fare per la gente del nostro tempo.

Ora sono finalmente sicuro di non aver sbagliato “obiettivo”

Chi partecipa ogni domenica alla Messa nella chiesa del camposanto, nella quale celebro da una vita, certamente conosce l’episodio di cui voglio parlare per introdurre l’argomento che oggi desidero mettere a fuoco. Ci sono dei preti anziani con una cultura molto più vasta della mia che si ripetono poco, per me purtroppo non è così perché sono costretto ad attingere ad un bagaglio culturale assai modesto.

I miei fedeli mi hanno sentito citare più volte un passaggio di un’opera di Cesbron nella quale si racconta un episodio della vita di Santa Teresa del Bambino Gesù, la giovane carmelitana. In punto di morte avrebbe subito una terribile tentazione che le ha letteralmente fatto “sudare sangue” poiché il demonio, sotto le vesti del medico curante, laico radicale, le ha instillato il timore di aver sbagliato l’obiettivo della sua vita, ossia di aver sprecato la sua giovane esistenza per un ideale ingannevole perché inesistente. Per grazia di Dio però il Signore la salva riportando serenità nel suo spirito.

La mia esistenza e la mia personalità non sono di certo del calibro di quelle della giovane santa carmelitana, ma comunque anch’io ho puntato su un obiettivo e ho giocato la mia vita, che come per ognuno è la ricchezza più grande, sul messaggio di Gesù incarnato nella Chiesa del mio tempo. Oggi, come nelle altre epoche, Gesù è comunque presentato agli uomini attraverso il volto, le scelte e le opere della sua Chiesa. In questo contesto ho sempre impegnato tutte le mie risorse perché la Chiesa, “su cui ho puntato”, traducesse la sua fede in solidarietà concreta verso l’uomo che soffre e che cerca pace, giustizia e libertà anche se non sempre, nella mia esperienza, mi è stato facile constatare tutto questo.

Trascurando il passato che mi interessa relativamente è nell’oggi che sto giocando gli ultimi spiccioli della mia esistenza e spesso non riesco a vedere questa “produzione”. Ieri sera però ho sentito Papa Francesco quando, di ritorno dal suo incontro con i poveri dell’America Latina, ha affermato chiaramente e con autorevolezza: “La nostra fede se non diventa solidarietà o è tanto debole o è ammalata, oppure è morta” e le sue parole mi hanno confermato non solo di non aver sbagliato obiettivo ma anzi di aver fatto centro. Questo è stato per me un momento liberatorio assolutamente esaltante.