Osmosi religiosa

L’anno scorso o due anni fa, non ricordo, parlai ai miei amici lettori de “L’incontro” del forte impatto interiore e dei molti problemi di ordine religioso e soprattutto ecumenico che mi aveva posto la lettura del volume: “L’uomo planetario” di Ernesto Balducci, un padre scolopio di cui avevo conosciuto il pensiero attraverso la lettura della rivista “Testimonianze”, rivista che questo religioso ha diretto per molti anni.

Le tesi di questo volume sono quanto mai avanzate a livello religioso, egli parla infatti della fatale commistione che sta avvenendo tra le varie religioni. In un mondo globalizzato, come il nostro, la cultura e la fede non sono più legate fortemente ai continenti e alle tradizioni particolari ma si stanno mescolando nel “villaggio globale” in cui ora viviamo. Balducci si spinge anche oltre immaginando che è possibile ed auspicabile che si cerchi un denominatore comune tra le varie religioni perché esso diventi asse portante della religiosità e ci consenta di arricchirci del meglio che ogni cultura e ogni tradizione possono offrire alle altre chiese e alle altre fedi.

Queste tesi sono per me ardite e non so quanto si debbano considerare ipotesi di studio o dati di fatto ormai acquisiti. Mi astengo quindi dall’esprimere un giudizio anche perché si tratta di discorsi difficili e finora poco esplorati.

Sento però il bisogno di fare qualche piccola confidenza di carattere personale. Un paio di anni fa mi ha edificato e commosso un vecchio mussulmano che, tra le auto del parcheggio del Don Vecchi, si è inginocchiato per lodare Dio incurante del giudizio dei passanti. Mi fa bene incontrare quei giovani mormoni, vestiti in abito scuro, corretti e ordinati, che a due a due, muovendosi ora a piedi ora in bicicletta, offrono un anno della loro vita per fare i “missionari” nella nostra come nelle altre città; mi fanno riflettere anche quei giovani buddisti vestiti di arancione che, imperturbabili e sorridenti, offrono la loro testimonianza di fede in un mondo lontano anni luce dal loro; non condivido invece l’atteggiamento insistente da integralisti dei Testimoni di Geova anche se sono edificato dal coraggio con cui accettano rifiuti talora sgarbati alla loro proposta religiosa; mi commuovono, mi edificano, mi inorgogliscono e mi mettono in crisi i giovani cattolici del movimento “Nuovi Orizzonti” che danno testimonianza di fede ed invitano alla preghiera la gente che incontrano per strada e ammiro gli adulti che in silenzio testimoniano il valore della famiglia. Mi pare tanto bello che ognuno offra il meglio del suo bagaglio spirituale accogliendo positivamente anche la testimonianza di fede dei “comunque” credenti.

Conversione al rovescio!

L’anno scorso mio fratello don Roberto ha scritto su “Proposta”, il bollettino parrocchiale della Parrocchia di Chirignago, un articolo che mi ha lasciato di stucco e che ha cominciato a farmi riflettere su un problema che mai aveva sfiorato la mia mente. In questo articolo mio fratello scriveva che da un po’ di tempo non vedeva uno dei ragazzi della sua parrocchia e quando gli capitò di incontrarlo per caso gli chiese: “Come mai? È un bel pezzo che non ti vedo!” e questi, sereno come dicesse una delle cose più banali e scontate, gli rispose: “Scusi don Roberto, mi sono fatto mussulmano!”.

Qualche mese fa una donna, vedova di un mio carissimo amico, cristiana convinta e praticante assidua, mi confidò con amarezza che uno dei suoi figli si era convertito al buddismo e poi continuò: “È rimasto però tanto buono e caro con la moglie e con i figli”. Nonostante queste note positive però era sgomenta di fronte a questa inaspettata conversione perché, evidentemente, come me, aveva sempre pensato che la conversione semmai riguardasse il passaggio da un’altra religione alla nostra e non viceversa. Mi fece così tanta tenerezza che tentai di consolarla dicendole che forse era preferibile un buon buddista ad un cattivo cristiano!

Infine qualche giorno fa mi è capitato un altro caso che mi ha lasciato letteralmente stordito. Un concittadino al quale ho telefonato perché l’indomani avrei celebrato il funerale di suo padre mi ha detto che questi era un laico, cioè in pratica voleva dire: un libero pensatore, non praticante o perlomeno indifferente nei riguardi della religione e soggiunse poi con naturalezza che lui e sua sorella si erano convertiti al buddismo. L’indomani ho celebrato il commiato cristiano e non ho avvertito nessun disagio e stridore interiore, abbiamo pregato il buon Dio e assieme abbiamo riflettuto sul mistero della vita e della morte in maniera più seria del solito.

In merito a questo problema sono arrivato per ora a due conclusioni. Noi cattolici non siamo per nulla attrezzati per far capire la bellezza sovrana del messaggio di Gesù e perciò è assolutamente necessario riflettere sulla questione più seriamente e la nostra religiosità deve diventare più aperta, più accogliente, scoprendo un denominatore comune tra i credenti che ci aiuti a sentire che abbiamo comunque un Padre comune che ci ama e che ci spinge ad una vita veramente più fraterna.

Una magnifica opportunità

Nota della redazione: questo articolo, come gli altri, risale a diverso tempo fa. Come è noto il ristorante è stato poi realizzato.

Don Gianni è il nuovo direttore de “L’incontro” ma il compito di impaginarlo è stato affidato ancora a me. Credo di essere un collaboratore poco allineato, con idee alquanto personali e poco disposto a non alimentarle.

Non ho ancora capito se don Gianni e il Consiglio di Amministrazione della Fondazione abbiano colto la magnifica opportunità che consente di aprire un ristorante per le famiglie e per i singoli che apparentemente vivono una vita dignitosa e normale ma che in realtà versano in condizioni di notevole disagio per la scarsità di risorse economiche. Che esista questa categoria di persone credo che nessuno possa metterlo in dubbio; che a Mestre non ci sia una risposta a questo tipo di “povertà dignitosa” è altrettanto certo; che la disponibilità del catering “Serenissima Ristorazione” sia una grazia del cielo nessuno lo può negare ed è altresì certo che la Fondazione dei Centri Don Vecchi abbia, a portata di mano, la possibilità di realizzare questo progetto senza esporsi economicamente. Ritengo che offrire un aiuto a questi concittadini in disagio oltre a essere un dovere morale sia anche un dono per un centinaio di mestrini generosi e desiderosi di impegnarsi in questa opera buona. Se avessi vent’anni di meno e se fossi io il responsabile della Fondazione non ci penserei un istante e come Cesare getterei il dado certo di fare la volontà di Dio e il bene del prossimo. Beneficerebbero di questa iniziativa i poveri ma anche chi contribuirà a realizzarla, però a novant’anni e da prete “fuori corso” come posso azzardare di imbarcarmi in un’impresa che indubbiamente presenta qualche difficoltà?

Io, però, non sono un soggetto disposto ad arrendersi alle prime difficoltà perciò, da mane a sera, sto seminando, nei solchi delle coscienze delle persone che mi sono vicine, questo seme bello e fecondo coinvolgendole con ogni mezzo in questa impresa difficile anche se non impossibile ma soprattutto sto coinvolgendo, da mane a sera, il mio “Principale” perché mi dia una mano!

Il bianco e il nero

Credo che mai come ai nostri giorni i cittadini ricevono tante informazioni su tutti gli aspetti della vita. I mass-media ci sommergono letteralmente di notizie però, a questo riguardo, c’è da osservare un fatto che mi pare importante: gli strumenti di comunicazione di massa, oggi estremamente efficienti, tendono per natura a privilegiare le notizie negative e cioè tutto quanto riguarda drammi, rivoluzioni, soprusi, ruberie e malaffare mentre concedono uno spazio assolutamente marginale a tutto ciò che è positivo come la generosità, l’altruismo, lo spirito di abnegazione e le opere buone. Questa sperequazione ci induce a pensare che la società sia più cupa, più rissosa e più guasta di quanto non lo sia in realtà e che l’onestà, la generosità e l’impegno stiano scomparendo dal nostro mondo. A livello personale ho compreso e affrontato questo problema già da molti anni, mi sono infatti sforzato di creare strumenti di comunicazione sociale più attenti a quello che c’è di positivo nella nostra società; da queste considerazioni sono nati i vari periodici a cui ho dato vita: l’emittente radiofonica “Radio Carpini” e la testata de “L’Incontro”.

In questi giorni il problema mi si è riproposto leggendo un fatterello, una specie di parabola, su una rivista poco nota. In questo periodico si raccontava di un docente universitario che prima della lezione, dopo aver mostrato ai suoi studenti un grande foglio bianco con una piccola macchia nera in un angolo, chiese loro: “Cosa vedete in questo foglio?”. Tutti risposero all’unanimità: “Una macchiolina nera!”. Il professore, a quel punto, iniziò la sua lezione sui mass-media facendo osservare che nessuno si era accorto che il foglio, per più di nove decimi, era bianco. Quel docente era certamente un uomo saggio. Credo che in assoluto nel mondo il bene sia più presente del male. Da quando ho letto questo fatterello, con felice sorpresa, sto accorgendomi che il mondo è molto più bello e più buono di quanto i giornali e la televisione vorrebbero farci credere!

Ferragosto o Assunta

All’inizio di questa settimana, quando ho cominciato a preparare il mio sermone per la festa dell’Assunzione della Beata Vergine in Cielo, il primo pensiero che mi si è affacciato alla mente è stato abbastanza desolante: “Questa è la sessantaduesima volta che parlo di questo soave e dolcissimo mistero che però, nonostante la sua soavità, è sempre lo stesso. Cosa mai posso dire di nuovo di quanto non abbia già detto?”. È pur vero che è molto più facile per me di quanto non lo sia per i fedeli ricordare i concetti già espressi anche perché, per preparare l’omelia, rifletto a fondo sull’argomento e mi gioco la vita sulle verità che esso contiene. Sono però cosciente che, anche se i fedeli non sempre ascoltano con grande attenzione le mie parole, per il rispetto che ho nei riguardi del messaggio di Dio e del suo popolo non posso ripetere a pappagallo ciò che ho già detto in passato anche perché sono convinto che tutto invecchia e quindi la riflessione deve essere viva, fresca e attuale e non una “minestra riscaldata”.

Passato il primo momento di sgomento mi è parso di intravvedere una pista convincente. Ho cominciato con il fare un confronto tra il Ferragosto, la festa laica in cui la stragrande maggioranza dei concittadini cerca nell’evasione faticosa e certamente deludente pace, serenità e “felicità”, e l’assunto, “Dio ci ama come siamo e nonostante tutto, ci aspetta, ci offre una mano per salvarci e la comunità ci è accanto per incoraggiarci, sostenerci e condividere questo dono”, che ci offre verità veramente belle. A questo proposito ho citato un racconto di Tolstoj in cui si narra di un padre che sul letto di morte dice ai figli che nel suo podere c’è un tesoro e tocca a loro scoprirlo. I figli tanto lavorano quella terra per cercare il tesoro che essa comincia a produrre grano, uva, verdure e finalmente capiscono che il bene e la felicità non si devono cercare lontano ma dentro di noi. Ho proseguito dicendo che il percorso che portò Maria al “Magnificat”, e che anche noi possiamo seguire, fu quello di fidarsi di Dio, di abbandonarsi alla sua volontà, fu quello di credere alla fecondità dell’aiuto reciproco e di cantare la gloria di Dio per aver scoperto le cose belle della vita. La predica che mi sono fatto ha offerto al mio animo serenità e pace. Mi è parso poi, dall’attenzione con la quale i fedeli mi hanno ascoltato, che il discorso abbia fatto del bene anche a loro e che tutti siano usciti dalla chiesa più sereni di quanto non lo sarebbero stati dopo una gita a Cortina d’Ampezzo o in Costa Azzurra. Spero che tutti si siano convinti a non cercare lontano quello che possono trovare dentro di loro.

I Miserabili

Qualcuno, quando saprà che ieri sera mi sono concesso il lusso di vedere su Rai Storia “I Miserabili”, potrebbe pensare che anche questo vecchio prete si lasci andare al divertimento o quantomeno cominci a perdere tempo. Le cose sono andate così. Dopo cena, quando come ogni sera ho acceso il televisore, il film era già cominciato ma ho capito quasi subito che si trattava della versione cinematografica del famoso romanzo di Victor Hugo “I Miserabili”.

Il film era vecchiotto, lento, spesso scontato e di maniera ma l’ho visto ugualmente fino alla fine per due motivi.

Sapevo che il romanzo del grande scrittore, esponente di punta del romanticismo francese, in un primo momento era stato messo all’indice dal Santo Uffizio e, anche se poi era stato riabilitato, mi interessava conoscere il motivo per cui la Chiesa, o meglio certi uomini di chiesa, ne avevano proibito la lettura ai cristiani. Ho seguito il film con attenzione ma non sono riuscito a capire il motivo per cui la Chiesa fosse stata tanto severa dal momento che il messaggio del romanziere francese mi è parso assolutamente positivo e perfettamente in linea con quello di Cristo. Sono arrivato alla conclusione che il protagonista, l’ex ergastolano redento, possa essere additato come un vero cristiano mentre l’ispettore di polizia, che rappresenta la moralità laica, esprime il peggio di un legalismo purtroppo ancora molto presente nella cultura laico-radicale e in certi apparati non solo dello Stato ma anche della Chiesa.

Il secondo motivo, che mi ha trattenuto davanti allo schermo fino a mezzanotte, è stato il desiderio di vedere tutto il film di cui fino a quel momento avevo visto più volte solo il primo tempo. Nella prima parte viene presentato il famosissimo episodio dell’ergastolano in fuga, braccato dalla polizia e accolto con tanta bontà dal santo Vescovo. L’ergastolano nonostante abbia incontrato un uomo di fede e di carità, durante la notte lo deruba dell’argenteria ma quando, riacciuffato dagli sgherri, viene riportato dal Vescovo con la refurtiva questi non solo non lo accusa ma arriva al punto di consegnargli anche il candelabro che a suo dire il ladro si era dimenticato di prendere. La seconda parte del film viaggia sulla stessa linea della prima e mette in luce che nella Chiesa vi sono stati e vi sono ancora “fedeli” formali che della carità cristiana non solo non hanno capito niente ma anzi sembrano perfino irritati con quei cristiani che prendono sul serio il messaggio di Gesù.

Ieri sera, mentre guardavo il film, mi è sembrato che il comportamento, da vero cristiano, dell’ergastolano redento negli ultimi anni della sua vita ben si accordi con il messaggio e con l’esempio di Papa Francesco.

La Pira e Renzi

Ieri sera mi sono goduto un bellissimo servizio su Giorgio La Pira, il grande e santo sindaco di Firenze. Io, ai tempi di La Pira, ero per la sinistra democristiana e, seguendo gli insegnamenti della scuola di vita di don Mazzolari e di don Milani, facevo un tifo da “curva” per i cristiani progressisti. Allora seguivo con estrema attenzione le vicende del sindaco di Firenze però sentirle raccontare oggi, da chi conosce meglio di me i risvolti, le reazioni e i contraccolpi tra i “benpensanti” fuori e dentro la Chiesa e la politica italiana, ha fatto sì che questo servizio mi investisse e facesse riemergere ricordi di passioni e di discussioni che credevo ormai definitivamente sepolti sotto la cenere del tempo.

La rubrica di Rai Storia ha messo a fuoco la figura di questo amministratore pubblico “fuori serie” offertoci non dalla Bocconi ma dalla mistica Santa Teresa d’Avila o da San Giovanni della Croce; un uomo assolutamente inedito nella storia della Chiesa e della politica del nostro Paese e, mentre sullo schermo scorrevano le sequenze degli eventi che hanno contraddistinto la sua azione, d’istinto l’ho confrontato con un altro sindaco di Firenze, con quel Matteo Renzi che abbastanza di frequente afferma di ispirarsi al suo santo predecessore.

I due personaggi però hanno una caratura molto diversa e, anche se non ho nessuna difficoltà nel pensare a Renzi come ad un cristiano che a modo suo sta spendendosi per l’Italia, devo però ammettere che La Pira era un uomo di una tempra ben diversa, era un uomo che camminava con un altro passo, con ideali tanto diversi da essere il “folle” che si fidava ciecamente di Dio e che sulla fede ha giocato la sua vita ed ha lanciato le sue sfide impossibili. Ho concluso che uomini come La Pira, nel piano dell’economia della Provvidenza, sono un dono preziosissimo del Signore e questi uomini di Dio, fuori dalle righe della logica normale, diventano punti di riferimento straordinari che costituiscono un grande stimolo per chi vuole impegnarsi seriamente a favore della comunità. Rimangono però purtroppo figure uniche ed irripetibili uscite dalla mano di Dio, prototipi a cui non fa seguito una produzione di serie. Mi pare perciò buona cosa che Renzi, anche se per il suo impegno politico dice di ispirarsi a La Pira, continui a rimanere se stesso, magari moderando un po’ quella sua aria scanzonata e provocatrice, perché se tentasse di imitare La Pira farebbe fiasco.

Un medico solidale con la gente d’origine

Io sono un grande ammiratore di Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi. Si deve a questo giornalista, brillante e generoso, se la lebbra, la malattia sopravvissuta purtroppo al passare dei secoli, è quasi definitivamente sconfitta. Questo testimone del nostro tempo affermava che non può ritenersi uomo e men che meno cristiano chi non si fa coinvolgere dal dramma e dalla sofferenza di un suo simile in qualsiasi parte del mondo egli viva. Questo giornalista francese infatti si batté, senza risparmio, a favore degli ammalati di lebbra dei villaggi più remoti e sconosciuti di questo mondo.

Nelle ultime settimane mi è riaffiorata alla memoria questa testimonianza in occasione di una colletta promossa da un medico mio amico, nato nel Sud dell’Italia, che venuto a conoscenza della situazione tragica in cui si trovava un suo conterraneo, si è dato talmente da fare da riuscire a raccogliere una somma veramente significativa. In un paio di settimane, parlando con amici e conoscenti, è riuscito a racimolare quasi 15.000 euro, somma necessaria per evitare la messa all’asta della casa di questo operaio con moglie e figli, disoccupato ormai da diversi mesi a causa della chiusura dell’azienda in cui lavorava. Conoscevo già da tempo la disponibilità e la generosità di questo medico che, quando mi è venuta a mancare l’anziana organista che accompagnava il coro del Don Vecchi, dopo aver letto su “L’incontro” il mio appello per trovare un sostituto, si è offerto senza batter ciglio. Oltre che medico è anche un bravo organista e ha offerto la sua disponibilità due volte alla settimana per le prove e per l’esecuzione dei canti.

A chi crede veramente nella solidarietà nulla è impossibile. Gandhi, l’apostolo della liberazione dell’India, ha scritto: “L’amore risolve ogni difficoltà e se ciò non avviene non è perché quella difficoltà è irrisolvibile ma solamente perché quello non è vero amore”. Mi pare giusto che si conoscano anche questi lati belli della vita, per quelli negativi ci pensano già fin troppo bene i mass-media.

“Cadoro” e lo “Spaccio solidale”

A me piace giocare sempre a carte scoperte e comunque spero che, così facendo, i concittadini, ma soprattutto i colleghi sacerdoti, possano conoscere come nascono, crescono e si sviluppano certi progetti di solidarietà in grado di tradurre nel concreto il comandamento di Cristo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Dedico queste poche righe all’informazione sulla genesi, sullo sviluppo e sui risultati del progetto che abbiamo denominato “Spaccio Solidale”.

Circa un anno fa il signor Danilo Bagaggia, direttore del magazzino degli indumenti per i poveri, ha avuto la fortuna di conoscere la segretaria del nostro concittadino Cesare Bovolato, presidente della Cadoro, la catena di supermercati che dispone di una trentina di punti vendita. Questa cara signora ci ha organizzato un incontro con il signor Bovolato dal quale è nato un protocollo d’intesa tra Cadoro e la Fondazione Carpinetum che, nel rispetto della normativa vigente, prevede che la Società Cadoro conceda ogni giorno i prodotti alimentari di prossima scadenza e quindi non più commerciabili, in giacenza nei sette ipermercati di Mestre.

In quattro e quattr’otto abbiamo acquistato un furgone usato del costo di 5000 euro e abbiamo allestito due locali, uno per la distribuzione dei generi alimentari ed uno destinato alla catena del freddo per l’immediata conservazione. In un paio di settimane si è costituita una squadra di una trentina di volontari che, a turno, riordinano e distribuiscono i prodotti. Il furgone parte verso le undici e in un paio d’ore procede alla raccolta, verso le 14.00 una squadra dispone i generi alimentari in bella vista su delle scaffalature e alle 15.30 d’estate e alle 15.00 d’inverno inizia la distribuzione. Ogni “cliente” sceglie cinque prodotti a sua discrezione e normalmente offre un euro per coprire i costi di gestione (carburante, luce, sacchetti contenitori, ecc.).

La scelta del Polo alimentare del Don Vecchi, di chiedere ad ogni beneficiario un contributo, è scaturita anche dall’esigenza di aiutare altre persone con bisogni diversi così da far maturare una cultura della solidarietà. La gestione quindi non è in passivo, anzi riusciamo ad accantonare sempre qualche “cosetta” da destinare ad altre opere benefiche. L’iniziativa è attiva tutti i giorni dal lunedì al venerdì. Normalmente ogni giorno vengono aiutate dalle 180 alle 220 persone ed ogni giorno circa una decina di volontari si guadagnano la riconoscenza di chi è in difficoltà, riconoscenza che si somma al centuplo promesso da Cristo e questo non è poco.

Desidero ricordare che ho scritto questa relazione con la speranza che ognuna delle 28 parrocchie del mestrino, non essendo impegnata in altre imprese solidali, possa fare altrettanto se non di meglio.

La vita religiosa nel borgo di Ca’ Solaro

La vicenda grazie a cui sono diventato il “curato” di Ca’ Solaro, il piccolo borgo ubicato al di fuori delle “mura di cinta” della nostra città, è un po’ complessa ed arruffata. Preferisco evitare di raccontare nuovamente tutta la storia e limitarmi a confidare agli amici che, da un paio d’anni puntualmente verso il tardo vespero di ogni primo venerdì del mese, mi reco a Ca’ Solaro nella umile ma cara chiesa immersa nella campagna ancora coltivata a frumento, granoturco e viti, per celebrare la Santa Messa in quella piccola comunità tagliata fuori dal respiro della sua parrocchia di riferimento: la parrocchia di Sant’Andrea a Favaro.

Quel borgo, fino a una ventina di anni fa, aveva il suo prete, la sua scuola, il suo catechismo e una vita autonoma a livello religioso e civile. A causa della scarsità di sacerdoti, dell’accorpamento scolastico, della fuga dai campi verso attività più redditizie e del decremento demografico, quella comunità è diventata veramente piccola e credo che ora non conti più di un centinaio di anime però non ha perso il senso di comunità strettamente legata alla sua piccola chiesa sobria e ordinata.

Ca’ Solaro come comunità cristiana trova il suo punto di riferimento in “Mario Papa”, il cristiano vecchio stampo che apre e chiude la chiesa, raccoglie le offerte, informa e gestisce la liturgia.

Io mi trovo un gran bene in questa minuscola comunità cristiana, ogni volta che celebro mi sento in famiglia forse perché recupero le mie radici di campagnolo e mi pare che la preghiera, pur umile e dimessa, salga più vera al Signore. Ieri sera poi quando, pur traballante per i miei quasi novant’anni, ho prima salito e poi disceso i pochi gradini del presbiterio e mi sono rivolto con semplicità alla piccola assemblea di una trentina di fedeli che riempiva metà della chiesa, mi sono commosso alle parole di un’anziana signora che mi ha chiesto: “Don Armando perché non viene ad abitare qui da noi?”. Mi fa tanto piacere che questo “piccolo mondo antico” sopravviva al mutare degli eventi e rimanga strettamente aggrappato alla sua piccola chiesa e alla fede dei padri, provo la sensazione che esso offra ancora spazio e motivo di vivere a questo prete di un tempo quasi scomparso.

“Chi vuol essere mio discepolo”

Vi sono frasi del Vangelo che forse, per le sensazioni che suscitano nell’essere umano, sono ormai entrate a far parte della cultura universale. Questo fenomeno avviene anche in Italia, un Paese che per vicende storiche non ha mai avuto molta familiarità con la Bibbia. I motivi sono molti, non ultimo la reazione alla riforma protestante che ebbe, come punto d’appoggio, il divieto della Chiesa cattolica di leggere le Sacre Scritture senza note e senza guida di religiosi. È pur vero che la Chiesa, in questo ultimo mezzo secolo, si è impegnata a fondo per recuperare questa ricchezza spirituale però i risultati sono ancora poco consistenti.

Già altre volte ho confessato ai miei amici che al mattino leggo sempre, come spunto di riflessione, una paginetta della rivista della Chiesa Cristiana Metodista “Il Cenacolo” perché mi rasserenano le riflessioni dei cristiani di tutto il mondo che ci confidano quanto bene faccia loro la lettura di qualche passaggio dei libri del Vecchio e del Nuovo Testamento. Sono riflessioni semplici, elementari ma piene di fiducia e di abbandono nel Signore che parla mediante il Testo Sacro.

Alla mia bella età tento anch’io, partendo soprattutto dai brani del Vangelo che la Chiesa offre all’attenzione dei fedeli durante la Messa, di coglierne il cuore per poi innestarli nel mio quotidiano. Qualche volta il tentativo va a vuoto però, altre volte, grazie a Dio, mi pare di fare centro. Questa mattina la pagina del Vangelo conteneva una serie di affermazioni raccolte da vari discorsi di Gesù e la frase che più mi ha colpito è una frase che tutti conoscono, che fa ormai parte della cultura della nostra gente, in cui Gesù afferma: “Chi vuol essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua”. Mi sono chiesto quale sia la croce che in questi giorni mi provoca maggior disagio, che mi toglie serenità, che mi ammacca le spalle e mi pare di poter dire che è la mia convinzione di non essere più all’altezza della situazione e di non avere risposte convincenti per la gente del nostro tempo. Mi è parso anche che Cristo mi dicesse: “Seguimi!”, cosa che tenterò di fare. Sarò contento se riuscirò a fare bella figura ma sarò contento anche se riuscirò a seguirlo barcollando: in fondo è solo a Lui che debbo piacere!

“Un minuto per Dio”

Molti anni fa mi è capitato di leggere un volume che aveva questo strano titolo: “Un minuto per Dio”.

In questi ultimi anni la televisione di Stato è diventata sempre più secolarizzata e mette a disposizione della proposta religiosa sempre meno spazio offrendo, al massimo, la cronaca di qualche evento religioso. Chi non ricorda le rubriche del passato: “Il Santo del giorno”, “Il pensiero religioso del mattino” e altre simili, rubriche nelle quali, molto spesso, sacerdoti o frati offrivano le loro riflessioni ai telespettatori. I più anziani ricorderanno Padre Mariano, il cappuccino dalla lunga barba bianca che, con quel suo fare accattivante, ebbe tanto successo presso il pubblico italiano.

Il libro in cui mi sono imbattuto raccoglie le riflessioni di fede di un intero anno offerte da un sacerdote bravo e intelligente che una casa editrice cattolica ha pensato di divulgare come raccolta di pensieri mattutini riunendoli in questo volume. Ricordo il pensiero del primo gennaio che riportava il contenuto della prima riflessione ed era presentato con il titolo del volume. Ricordo ancora il filo conduttore del discorso che diceva pressappoco così: “Ogni giorno, per tutti i giorni dell’anno, il buon Dio, per sua liberalità e senza avere alcun obbligo, ci offre 1440 minuti. È possibile essere tanto poco riconoscenti da non dedicargli almeno un minuto per dirgli grazie e per ascoltare la voce del Padre? Ebbene talvolta non gli dedichiamo neppure quel minuto”.

Sollecitato da questa lettura, per vent’anni, ogni giorno, le trasmissioni di Radio Carpini iniziavano con la rubrica: “Il Dio del mattino” a cui io ho dato voce per tutto il tempo che la nostra emittente ha operato. Radio Carpini è stata fatta morire di inedia e per disinteresse ma ogni giorno, quando alle cinque inizia la mia giornata, offro ancora la primizia al Signore e mi trovo bene.

Ancora su don Ciotti

Don Ciotti, il prete di cui ho parlato ieri, non lo ritenevo molto gradevole, un po’ per quella sua voce rauca, un po’ per la capigliatura trasandata ed un po’ perché mi pareva che bazzicasse troppo la gente di sinistra. Ora però ho capito che è un gran prete, uno dei sacerdoti più significativi del nostro tempo e del nostro Paese.

A farmi cambiare idea è stato un suo discorso riportato su una rivista cattolica in cui affermava che il Cardinal Pellegrino, il grande arcivescovo di Torino che l’Ordine dei Benedettini ha offerto alla Chiesa Italiana, il giorno in cui lo ha consacrato prete, forse intuendo, da uomo di Dio quale fu quel vescovo, la particolare personalità di quel giovane prete montanaro delle Dolomiti, gli assegnò come parrocchia la strada. In realtà don Ciotti è sempre stato un prete di strada, un prete che ha sempre voluto incontrare non gli uomini e i cittadini da manuale ma gli uomini autentici del nostro tempo, con i loro pregi ma anche con le loro enormi deformazioni assunte da un mondo assolutamente secolarizzato. Ebbene oggi ho avuto modo di “incontrarmi” con don Ciotti. Vi dico come.

Un mio amico pompiere in pensione, attualmente in montagna, mi ha telefonato dicendomi di mettermi in contratto con un droghiere di Piazza Ferretto che mi avrebbe fornito l’indirizzo per ottenere un carico di pesche. Luigi, il factotum del don Vecchi, l’uomo per ogni evenienza, anche la più imprevedibile, ha preso il suo furgone ed ha portato a casa una quindicina di quintali di pesche di prima qualità provenienti dall’Italia del Sud. Queste pesche sono state raccolte da una cooperativa di “Libera”, l’organizzazione di don Ciotti a cui sono state assegnate le campagne sequestrate alla mafia e che, non so per quale strada, sono giunte alle organizzazioni di beneficenza del nostro Nord. Pochi giorni fa ho letto una frase in cui si afferma che “l’impatto di un sasso lanciato nel fiume provoca dei cerchi concentrici che arrivano fino a sponde quanto mai lontane e sconosciute”. Il sasso di don Ciotti, ossia le sue pesche, ha raggiunto anche me e i poveri di Mestre!

“La mia pagina bianca”

Da molti anni sono abbonato al bimestrale “Se vuoi”, una bella rivista edita dalle suore di San Paolo, le discepole di don Alberione l’apostolo dei mass-media cattolici, rivista che pone ai giovani il problema delle scelte nella vita. Il discorso, che di certo pone il problema della propria vocazione e del posto che si vuole occupare nella società, penso sia di grande interesse per queste suore perché oggi anche la loro congregazione religiosa, che fino a una trentina di anni fa poteva contare su un crescente numero di ragazze che sceglievano di dedicare la propria vita alla diffusione dei mezzi di comunicazione con cui la Chiesa tenta di calare il progetto cristiano nella società attuale, risente della crisi che ha investito in maniera massiva tutto il mondo delle suore.

Qualche giorno fa, mentre sfogliavo un numero di questa rivista per cogliere i servizi più interessanti, sono stato colpito da una frase di don Luigi Ciotti, il sacerdote cadorino che con il progetto “Abele” per molti anni si è dedicato ai tossicodipendenti e che in questi ultimi dieci anni ha spostato il suo obiettivo impegnandosi, con tutte le forze, contro la mafia, ogni tipo di mafia.

La frase che ha attirato la mia attenzione e che mi ha letteralmente investito è la seguente: “Non dobbiamo fermarci, la storia ha bisogno di noi. Nella storia c’è una pagina bianca che siamo chiamati a scrivere. È nostra! Ci è stata affidata. È Dio che ci dice: Scrivila Tu!”. Quest’ultima battuta è scritta in rosso e a caratteri cubitali tanto che ho avuto l’impressione che mi prendesse per il bavero e mi mettesse contro il muro. Ormai da parecchi anni non sogno altro che di farmi da parte, di delegare e mi ripeto frequentemente: “Ho fatto il mio tempo, ora tocca ad altri”. Adesso, dopo aver letto questo messaggio, mi vien da pensare che Dio si aspetti da me ancora qualcosa anche se piccola. Posso dirgli di no?

Incidenti sul lavoro

Ho scritto fin troppe volte che, essendo un prete vecchio e pensionato, la mia occupazione principale è quella del “suffragio” e del “commiato”, un “lavoro” che a molti può sembrare marginale ma che invece io vado scoprendo ogni giorno di più quanto può diventare importante ai fini dell’annuncio del regno. Mi pare quindi quanto mai doveroso che io tenti di specializzarmi in questo aspetto della vita pastorale per poter fare il meglio possibile.

Il commiato cristiano mi offre sempre l’opportunità di fare una breve ma incisiva catechesi su argomenti fondamentali: la vita considerata come dono di Dio, l’opportunità di trasformare l’esistenza come un servizio ai fratelli, la prova come mezzo per una purificazione interiore, la prospettiva di una vita nuova, l’annuncio della misericordia e della paternità di Dio, l’assurdo di una esistenza senza la prospettiva dell’eternità.

Questa catechesi risulterebbe abbastanza arida però se non ci fosse almeno qualche piccolo riferimento alle vicende della persona a cui mi si è stato chiesto di dare l’ultimo saluto guidando la preghiera della comunità. Questi cenni particolari dovrebbero essere marginali mentre alcuni familiari si aspetterebbero che trasformassi l’omelia in un elogio funebre.

Tempo fa la figlia di un defunto se n’è avuta a male perché non ho citato il nome del nipotino tanto amato, in un’altra occasione un congiunto si è lagnato perché non avevo accennato all’amore del morto per gli animali. Qualche giorno fa, ho preso contatto con la moglie di un defunto e lei mi ha detto di lui quanto di meglio si può dire: buono, generoso, altruista, impegnato; però mentre lo accompagnavo alla sepoltura e parlavo della generosità dell’estinto con l’incaricato delle pompe funebri egli mi ha detto: “Ma don Armando, la signora non le ha anche detto che il marito ha trascorso più anni in galera che fuori?”. Purtroppo anche questi sono incidenti del mestiere!