Autoreferenzialità

Confesso di non aver mai avuto un buon rapporto con l’autoreferenzialità, vocabolo di cui fino a una dozzina di anni fa non conoscevo neppure il significato.

Sono venuto a conoscenza di questa “brutta bestia” quando suggerii ad un giovanissimo cappellano, di primo pelo, di iniziare il suo servizio pastorale in parrocchia facendo un giro per accertarsi di come si muovessero in questo campo le comunità più vivaci. Tra le altre suggerii di far visita a mio fratello don Roberto perché, per quanto riguarda associazioni giovanili e catechismo, ero e sono convinto che quella di Chirignago sia certamente una delle parrocchie migliori. Quel giovane prete mi rispose che non riteneva opportuno farlo perché sosteneva che anche mio fratello peccava di autoreferenzialità. Non gli chiesi quale fosse il senso della sua affermazione ma successivamente appresi dal dizionario il significato di tale termine: “Autoreferenzialità è la tendenza a parlare e ad agire riferendosi solo alla propria persona”.

Questo discorso mi si è ripresentato recentemente in merito ad una presa di posizione di un mio collega più giovane. Dopo aver manifestato la mia stima per lui e per il suo operato in parrocchia, ho affermato di non condividere fino in fondo le sue tesi, che ritengo opinabili, spiegando che nella parrocchia, ove ho operato per trentacinque anni, pur avendo battuto strade ben diverse da quelle che lui indicava, abbiamo raggiunto risultati molto positivi. A corollario di quest’affermazione ho elencato una serie di realizzazioni che mi sono costate care ma delle quali sono veramente orgoglioso. Nonostante questo disse che peccavo di autoreferenzialità!

I fanfaroni, i “faccio tutto io!” non piacciono neppure a me ma credo che chi, con onestà e sano realismo, si limita a riferire gli obiettivi che è riuscito a raggiungere, pur con gli errori e i limiti di ogni essere umano, non solo abbia il diritto di essere fiero e contento del proprio operato ma talvolta sia perfino meritorio perché indica strade percorribili. Mi è sorto quindi il timore che chi accusa gli altri di essere autoreferenziali lo faccia perché lui ha poco o nulla di buono da riferire.

Frugalità

Sono perfettamente cosciente delle difficoltà che gli amici incontrano nello scegliere un libro come regalo in occasione di qualche mia ricorrenza. Molti, avendo letto su “L’incontro” che mi piace leggere, scelgono quasi sempre come dono un volume e quasi sempre optano per l’ultima opera che tratta temi religiosi oppure si fanno consigliare dal libraio. Il volume di cui voglio parlarvi mi fu regalato in occasione dell’ultimo Natale da una mia carissima amica e collaboratrice, volume che penso le sia stato suggerito dal libraio e il cui titolo è: “Frugalità”.

Si tratta di un’opera di Paolo Legrenzi, professore di Psicologia a Ca’ Foscari a Venezia. Trascrivo la presentazione della casa editrice “Il Mulino” di Bologna per offrire ai miei amici un piccolo assaggio del contenuto dell’opera: “Millenni di vita in ambienti ostili e di lotta per la sopravvivenza hanno plasmato un uomo proiettato verso l’accaparrare risorse, soprattutto della natura. Ma oggi, nei tempi di crisi che stiamo vivendo, una parola un po’ desueta sembra trovare un nuovo senso ed una nuova pregnanza. Frugalità è la scelta consapevole di chi sa che non si può continuare a consumare il mondo che ci circonda con i ritmi degli ultimi decenni. Non significa tornare ad un edenico quanto irreale passato, ma abitare il presente e proiettarsi nel futuro facendo giusti investimenti e puntando su ambiente, educazione, ricerca, arte, scienza”.

Il volume è di difficile lettura e diretto a specialisti della materia ma è anche ricco di argomentazioni razionali. È giusto cercare di capire le argomentazioni di chi lucidamente afferma che oggi la sobrietà è quanto mai difficile in quanto la società attuale, in tutte le sue espressioni: letteratura, commercio e mass-media, costringe a costruire una realtà basata su bisogni fasulli e artificiosi che mal si coniugano con le vere esigenze della vita e provocano disagio, povertà, spreco e disordine sociale ma per me la testimonianza di Francesco d’Assisi che “sposa Madonna povertà” è molto più facile e convincente. La lettura del volume mi ha riconfermato la necessità di un serio esame di coscienza e la scelta di vivere più sobriamente per non diventare un ladro dei beni della natura anche perché quando ci si appropria di risorse in misura maggiore delle reali necessità si commette un furto verso i fratelli più poveri.

Profughi

Ci sono eventi molto lontani nel tempo che, a poco a poco, sfumano per poi finire nel dimenticatoio, relegati in qualche remoto angolo della memoria. Le scene di disperazione e di angoscia che ci mostrano profughi in fuga da paesi nei quali infuriano guerre spietate e disumane, trattati dai paesi alle cui sponde approdano con mezzi di fortuna dopo essere scampati ad un’infinità di pericoli, quasi sempre guardati a vista dalle forze dell’ordine e considerati come una calamità, hanno fatto riemergere dalla mia memoria situazioni analoghe, anche se meno tragiche, di un tempo lontano.

Mio nonno materno, i suoi figli tra cui anche mia madre, dopo la prima guerra mondiale furono costretti ad emigrare in Brasile. Anch’io ho vissuto, molti anni fa l’amara esperienza del rifiuto. Correva il 1943-44, si era diffusa nel mio paese natio la voce che i tedeschi avevano deciso di allagare una grande fascia di territorio prospicente all’Adriatico nel tentativo di impedire, o perlomeno di rendere più difficile, un eventuale sbarco delle truppe alleate. Da quello che ricordo era uscito un bando che intimava alla popolazione di evacuare quel territorio entro una certa data e la casa della mia famiglia era proprio all’interno di questa grande fetta di terra. Ricordo che i miei genitori furono costretti a darsi da fare per trovare una casa che potesse accogliere loro e la loro nidiata di figlioli. Papà tante volte mi aveva raccontato le vicende di quando, durante la prima guerra mondiale, dovette emigrare ma io quelle storie le avevo ascoltate come favole quanto mai interessanti mentre il ricordo di quella domenica pomeriggio in cui ci avviammo verso San Stino e Latisana per cercare un alloggio, dicendo a tutti che ci saremmo accontentati anche di un fienile, è ancora vivo. I no si succedettero uno dopo l’altro perché ognuno temeva di essere costretto a fare dei sacrifici. Fortunatamente i tedeschi desistettero dalla decisione di allagare il paese.

Ora però quando vedo quelle facce disperate, quei reticolati, quei poliziotti e quei governi egoisti concludo che non è assolutamente vero che “la storia è maestra di vita”. Lo potrebbe anche essere ma purtroppo ancora non lo è!

Mi vergogno di essere cittadino d’Europa

Le immagini dei profughi che la televisione ci mette davanti agli occhi, ad ogni ora del giorno, tormentano in maniera lancinante la mia coscienza di uomo e di cristiano.

Pensavo che Hitler, Stalin, Mussolini e i vari dittatori che si sono succeduti nel corso dei secoli fossero giunti all’apice della crudeltà e del disprezzo per l’uomo ma quelli erano dittatori spietati che mantenevano il potere con il terrore. Oggi però sono i Capi di Stato, eletti democraticamente e che spesso affermano di rifarsi alla cultura e alla tradizione cristiana, a dimostrare lo stesso disprezzo per la vita e per le sofferenze di tante povere creature che, senza colpa, sono state risucchiate nel vortice di guerre spietate e crudeli.

In questo frangente mi consola il fatto che il governo italiano stia dimostrando maggior civiltà di altri popoli europei più ricchi e con maggior potere. Ci sono, è vero, pecore nere come Salvini e Grillo, come qualche sindaco con la puzza sotto il naso però tutto sommato l’Italia, in questo frangente, sta facendo scelte umanitarie di alto valore morale e civile e, anche se siamo un popolo che conta meno di altri sullo scenario europeo e mondiale a livello sia economico che strategico, la testimonianza che stiamo offrendo, tutto sommato, è nobile, civile e umana.

Non riesco però ad assegnare alla Chiesa italiana lo stesso merito. È vero che Papa Francesco, umile e indifeso, ha fatto sentire la sua voce forte e libera a favore di questi “dannati della terra”, è altrettanto vero che alcuni vescovi e alcuni movimenti di ispirazione cristiana hanno fatto scelte di partecipazione e di solidarietà quanto mai encomiabili ma la Chiesa italiana, nel suo complesso, e soprattutto le unità di base, ossia le parrocchie, pare siano in letargo, pressoché indifferenti ai segni dei tempi e ai drammi umani tanto da apparire intente a giocherellare all’ombra del campanile accontentandosi di qualche rito e di qualche pia orazione. Purtroppo nulla di più!

Bravo Brugnaro!

Ho sempre affermato, e chi mi legge da più di sessant’anni lo ha potuto verificare, che a me piacciono le persone che escono allo scoperto, che prendono posizione apertamente e che dicono “pane al pane”. Se poi lo dicono con coraggio, con franchezza, in maniera incisiva e senza peli sulla lingua mi piacciono ancora di più. Chi si compromette per un’idea in cui crede, anche se quell’idea è antitetica a quello che io credo sia giusto, ha tutta la mia stima. Forse per questa mia scelta e per questo mio modo di affrontare i problemi, la mia “carriera” ecclesiastica è stata molto modesta, anzi più che modesta, però non rimpiango nulla e sono sempre stato contento di pagare il prezzo, per quanto salato esso fosse, pur di esercitare la mia libertà di pensiero e di parola. Penso poi che tutti i miei fratelli abbiano, chi più chi meno, la mia stessa convinzione ma con don Roberto, il più piccolo tra di noi che fa il mio stesso “mestiere”, ho più spesso l’occasione di trovarmi sulla stessa lunghezza d’onda in merito ai problemi che la società fa emergere. Nell’ultimo numero di Proposta, il periodico della comunità di Chirignago, don Roberto ha scritto, con quello stile brillante che gli è proprio, il “pezzo” che proprio non riesco a non offrire ai lettori de “L’incontro”. Eccovelo… :

“Premetto che ho il massimo rispetto per chi è omosessuale e che perciò non mi permetto, neanche lontanamente di giudicare e meno che mai di condannare. Ma devo fare un applauso al nostro nuovo sindaco. Per due motivi. Il primo: se uno viene eletto dal popolo con un programma e poi lo mette in pratica, o cerca di farlo è solo un galantuomo. Brugnaro aveva dichiarato guerra, in campagna elettorale ai libretti che per comodità chiameremo “genders” che si stavano diffondendo nelle scuole e coerentemente li ha vietati. Se si voleva il contrario bisognava votare Casson, Ma Casson non è stato eletto e Brugnaro fa benissimo a mantenere le promesse. Il secondo: è riuscito ad irritare il mostriciattolo inglese, al secolo Elton John, il “rospo”, che di suo crede di essere il padreterno, anzi, di più. Mi sono sempre domandato perché e come mai tutto il mondo si è inchinato e si inchina davanti ad un personaggio del genere. Non me ne intendo, ma anche se fosse un ottimo musicista questo non gli darebbe titolo per considerarsi il maestro del mondo intero. Così pieno di sé che non accetta critiche o pensieri diversi dal suo: ricordate la polemica con Dolce e Gabbana a proposito dei figli da adottare o meno? Bene. Si è fatto il fegato grosso, ha definito il nostro sindaco un contadino. Ma lo zotico è lui. Le sue offese? Fossi Brugnaro ne andrei fiero, e le terrei come un titolo nobiliare”.

don Roberto Trevisiol

Io aggiungo che non so se nel programma elettorale di Brugnaro vi fossero anche lo sfratto o per lo meno un controllo a vista dei centri sociali; una posizione decisa nei riguardi dei vari sindacati per far capire, una volta per tutte, ai loro iscritti che oltre al diritto di protestare hanno anche il dovere di lavorare; il rifiuto di ogni complesso di inferiorità nei riguardi delle signore da salotto; una posizione ferma nei riguardi dei vari comitati che a Venezia sorgono come funghi; un occhio vigile nei confronti del popolo dei dipendenti comunali e del continente dei dipendenti delle società partecipate e infine se ha previsto di ricordare ai veneziani che non si può vivere della gloria della Serenissima ma è indispensabile il lavoro di tutti coloro che abitano la città insulare e in terraferma ma, se tutto questo non fosse nel suo programma, sarebbe opportuno che ve lo inserisse al più presto.

Il foyer dopo vent’anni

La Fondazione sta studiando come utilizzare il Don Vecchi 6, la nuova struttura degli Arzeroni che ormai è giunta al tetto, struttura destinata a dare una risposta alle criticità abitative. Dei nuovi sessantacinque alloggi, quindici si era ipotizzato di destinarli ai congiunti degli ammalati, provenienti da altre città, ricoverati negli ospedali mestrini. Questo progetto è nato più di vent’anni fa sotto il nome “Il Samaritano”. A quel tempo vi erano molti ammalati che dall’Italia meridionale venivano a Mestre per farsi operare dal prof. Rama e quindi il problema era quanto mai sentito.

Sapevo dell’esistenza di questa esigenza anche in altre città ma la goccia che mi ha spinto a questa scelta impegnativa fu un episodio di carattere familiare. Un mio nipote, nato con una malformazione cardiaca, dovette subire un intervento chirurgico a Milano e mia sorella che lo accompagnò in ospedale, dovendo trattenersi per qualche giorno, cercò un luogo dal costo contenuto. Seguendo il consiglio di una persona che la prese troppo alla lettera si ritrovò in un asilo notturno dove trascorse una notte da incubo fra i barboni. Mi detti tanto da fare che Cacciari mi affidò diecimila metri quadrati di un’area a ridosso dell’Ospedale dell’Angelo, sennonché il progetto di cura protonica, destinato a fornire terapie agli ammalati provenienti anche da altre regioni dell’Italia Settentrionale, finì nel nulla e l’Angelo, che doveva diventare un ospedale di eccellenza, non decollò.

Nell’attesa di realizzare il progetto, l’appartamento di Via Girolamo Miani con dieci posti letto più soggiorno e cucinotto, grazie ad alcune donne semplicemente meravigliose che lo condussero con stile più che familiare, per vent’anni funzionò egregiamente ad un costo di dieci euro a notte come casa di ospitalità che denominai “Foyer San Benedetto”. Ora esso pare più che sufficiente a rispondere alle esigenze attuali perciò la Fondazione mi ha affidato l’incarico di verificare se le quindici stanze della nuova struttura, destinate a questo scopo, sono ancora necessarie. Qualche giorno fa, per scrupolo di coscienza, mi sono recato a visitare il “Foyer” e, a parte le scale che mi sono sembrate come quelle del Campanile di San Marco, cosa di cui vent’anni fa non mi ero accorto, ho trovato l’ambiente pulito, ordinato, profumato di casa e soprattutto ho incontrato Teresa, la giovane donna che ora lo gestisce e che illumina la casa di freschezza e di umanità. Non solo non sono rimasto deluso ma sono ancora entusiasta di questa mia creatura.

Le vacanze del Papa

Quando alcuni anni fa scrissi, da mascalzone quale sono sempre stato, che non approvavo le vacanze del Papa che venivano a costare allo Stato Italiano circa venti milioni di lire, metà dei cattolici mi guardò bieco e tutti i preti storsero il naso e presero le distanze da quel vecchio prete che aveva avuto l’ardire di “non voler bene” al Papa.

Quell’evento fu la classica tempesta in un bicchier d’acqua. La Segreteria di Stato tempestò di telefonate la Curia di Venezia e di Treviso per accettarsi che, dietro a quel semplice trafiletto, non ci fosse un movimento anti cristiano; i miei colleghi presero immediatamente le distanze; il cardinal Scola non aprì bocca ma per un paio di anni mi tenne il broncio mentre la stampa laica dalla Nuova Venezia a “Le Monde” in Francia suonò la grancassa per dare rilievo alla presunta critica di questo povero vecchio prete che in realtà pensava di compiere un gesto d’amore verso il Vicario di Cristo.

Quest’anno la stampa nazionale, in maniera più o meno esplicita, ha mostrato ampie riserve verso Marino, sindaco di Roma che, mentre la città “bruciava”, imperturbabile è rimasto fino all’ultimo giorno negli Stati Uniti a trascorrere le sue vacanze. Questo una volta ancora sottolinea il fatto che il comandante, specie quando c’è burrasca, deve rimanere sulla tolda al timone della sua nave e in verità credo che con Marino la stampa sia stata perfino troppo benevola.

Quello che però mi ha sorpreso e indignato è che nessuno, al di là e al di qua del Tevere, abbia avuto una parola di elogio per Papa Francesco che non solo non è andato in vacanza in montagna ma non si è neppure preso qualche giorno per riposare a Castel Gandolfo continuando a fare il prete nonostante le ferie estive. Noi cristiani, in questo momento storico assai difficile, abbiamo una guida che alla parola aggiunge una testimonianza limpida e convincente. Per essere sulla strada giusta non abbiamo che da seguirlo sulla via della Croce.

“Che fai tu luna in ciel?”

Spero che i miei “nemici” non mi accusino di rivelazionismo se ripeto ancora una volta che mi alzo alle cinque del mattino per compiere, in pace e serenità, le mie pratiche di pietà. Penso sia una scelta che tutti possono fare senza violare alcuna norma anzi spero che molti dei miei colleghi si alzino ancor prima.

Appena alzato, dopo aver salutato nostro Signore, alzo le tapparelle del mio alloggio al Don Vecchi e mi affaccio al terrazzino per vedere come va il tempo. In questi giorni di settembre alle cinque è ancora buio e per due mattine di seguito, guardando il cielo, ho avuto la sorpresa di ammirare la luna: bella, luminosa e pulita. D’istinto mi è tornata alla mente la domanda di Giacomo Leopardi, il poeta dell’infanzia della gente della mia età: “Che fai tu luna in ciel?”. La risposta mi è venuta immediata: “Ti ricordo che Dio vigila su di te e ti dice: <Buon giorno figliolo mio!>”.

Un paio di anni fa è morto don Zega, il discepolo di don Alberione, che per alcuni anni diresse “Famiglia Cristiana”. In occasione della sua morte, nei vari servizi pubblicati sul settimanale, che questo buon prete aveva diretto, veniva riportato un aneddoto della sua vita: in occasione del cinquantesimo anniversario del suo sacerdozio confidò ai vecchi amici del suo paese natio che per tanti anni aveva avuto la gioia di annunciare la “tenerezza di Dio”.

Questa affermazione mi fece molta impressione tanto che ogni volta che vedo un fiore, ogni volta che il mio sguardo si allarga sul verde del grande campo che posso ammirare dal terrazzino del mio alloggio e ogni volta che incontro i volti belli ed armoniosi dei nostri ragazzi, delle giovani donne o dei nostri vecchi ho la sensazione di provare la tenerezza di una carezza di Dio. Sono molto grato a questo vecchio prete perché mi ha aiutato a vedere uomini e cose da un’angolatura piena di fascino e di gaudio interiore. Era molto tempo che non vedevo la luna e il cielo stellato, questa mattina ho avuto l’impressione che la carezza di Dio fosse più calda ed affettuosa di sempre.

Il vangelo secondo Cacciari

La liturgia della ventiduesima settimana dell’anno ha offerto ai fedeli la pagina del Vangelo in cui Gesù afferma che: “Non è quello che entra nell’uomo che lo rende colpevole ma è quello che gli esce dal cuore a renderlo responsabile di ciò che è male”. I benpensanti e i borghesi, di cui è piena la nostra società, non fanno che sottolineare tutte le magagne della società stessa che in verità sono proprio molte. Io però continuo a sperare che in realtà siano meno delle cose valide aggrappandomi al principio che il male è come i papaveri in un campo di grano, anche se non sono moltissimi lo tingono di rosso, mentre il bene è come le viole che anche quando sono moltissime nessuno se ne accorge. Ritenendo che Cristo con la sua affermazione volesse ribadire che ognuno è responsabile del male che fa e non di quello che fanno gli altri, penso che i cristiani, che da mane a sera tirano i politici per la manica perché impongano a tutti leggi che si rifanno alla concezione cristiana della vita, non siano in linea con l’insegnamento di Cristo. A questo riguardo io concordo con i radicali che vogliono garantire ad ogni uomo libertà di scelta, quindi anche i cristiani ai quali nessuno di loro si sognerebbe mai di impedire di essere coerenti con la loro fede e di testimoniare con la parola e con il comportamento la loro concezione della vita. Siamo onesti anche nella nostra società secolarizzata, pasticciona e spesso ipocrita nessuno ci impedisce di essere onesti o santi.

Qualche giorno fa la televisione di Stato ha intervistato Cacciari in merito alla presa di posizione del Papa e di molti Vescovi circa l’accoglienza dei profughi. Cacciari, in contrapposizione a coloro che accusano la Chiesa di ingerenza nei fatti della nostra Repubblica, ha sostenuto con forza che ha ragione il Papa perché è proprio del suo “mestiere” ambire la misericordia, spetta poi ai politici affrontare questo difficile problema e stabilire norme per risolverlo. Il commento al Vangelo secondo Cacciari mi pare sia perfetto: i cristiani auspichino pure misericordia o meglio ancora la traducano in atti concreti ma penso che nella preparazione del mio commento al Vangelo dovrò prestare più attenzione al pensiero dei laici piuttosto che a quello dei bigotti.

Il circo Orfei agli Arzeroni

Alcuni anni fa mi recai negli uffici comunali, che ormai da tempo avevano sede nell’ex “Carbonifera” di viale Ancona, per verificare la disponibilità del Comune a metterci a disposizione un’area in una zona centrale su cui costruire una nuova struttura per anziani non completamente autosufficienti.

Presentammo alcune proposte che risultarono però inattuabili per vari motivi, poi uno dei funzionari ci disse che in località Arzeroni era disponibile un’area di circa trentamila metri quadrati che aveva il vantaggio di farci risparmiare il denaro per la costruzione del parcheggio in quanto già realizzato dal Comune. Un altro impiegato, che assisteva al colloquio, uscì con una battuta che mi fece sorridere: “Aiutereste così anche noi perché non vorrei mai che, prima o poi, passasse un giornalista di Striscia la Notizia e tutta l’Italia venisse a sapere che il Comune di Venezia ha costruito un parcheggio inutilizzato in mezzo alla campagna e non collegato con una strada”.

La soluzione ci parve allettante ma alla prova dei fatti l’impresa si rivelò assai più difficile di quanto avremmo potuto immaginare. Realizzato il Don Vecchi agli Arzeroni abbiamo avuto subito l’impressione d’aver costruito una cattedrale nel deserto, in verità c’è ancora qualcosa che ci preoccupa e per questo stiamo stuzzicando la nuova amministrazione comunale affinché predisponga una fermata per autobus vicino alla nostra struttura.

L’altro giorno, quando mi sono recato al Don Vecchi 5, ho notato, con mia grande sorpresa, che sull’area antistante la struttura era nata in un giorno, come per incanto, una città: prefabbricati di ogni genere, un tendone che poteva contenere centinaia o forse migliaia di persone, roulotte e quant’altro. Una strana città con giardino zoologico: un elefante, dei dromedari ed altri animali che brucavano nei prati antistanti la nostra struttura. Il Don Vecchi 5 e il 6, che è già al tetto, sono diventati la piazza maggiore della città del Circo Orfei. Credo che questo evento riuscirà a far conoscere a tutta Mestre le nostre nuove strutture. Il circo è stato un dono inaspettato ma quanto mai gradito.

Il ristorante dei poveri dignitosi

Anche se da dietro le quinte sto dandomi da fare perché si realizzi anche a Mestre un’esperienza di solidarietà tanto diversa dalle altre e che spero possa raggiungere dei concittadini che non sono soliti frequentare le assistenti sociali, la San Vincenzo, la Caritas o le canoniche per battere cassa. So quanto sia difficile fare accettare un aiuto a chi conserva, nonostante i disagi, la propria dignità e vorrebbe a tutti i costi vivere del proprio lavoro.

A casa mia eravamo sette fratelli, vivevamo in una casupola con annesso un pezzo di terra, dove scorrazzavano galline e oche, però in casa entrava solamente lo stipendio di mio padre che, quando eravamo molto piccoli, faceva il carpentiere del legno. Non dimenticherò mai quando, al tempo del frumento, andavamo a raccogliere le spighe sulle terre bonificate dal duce. Mia madre con una brigata di ragazzini svogliati e rissosi andava a raccogliere i semi del ricino, le patate, i fagioli e le pannocchie. Ricordo ancora quando ci affidavano una coppia di buoi per sarchiare la terra ed essi, che non ci riconoscevano come guide valide, facevano i fatti loro. Ricordo anche quando mio padre dovette andare in Germania per mandare avanti la baracca, ma mai i miei genitori si sarebbero presentati alle porte del Comune o all’E.C.A. per chiedere aiuto. Mio padre poi arrivava perfino ad affermare che noi, in confronto a tanti altri, eravamo dei “scioretti”.

Ebbene farò di tutto perché famiglie di disoccupati, di lavoratori in cassa integrazione o in mobilità possano cenare in un ristorante signorile, serviti a tavola e accolti fraternamente. Prego il buon Dio che mi aiuti a condurre a termine questa mia ultima avventura solidale ma soprattutto prego e chiedo a tutti i miei amici di mettersi a disposizione del buon Dio per aiutare chi è meno fortunato a sentirsi accolto come un fratello amato e atteso.

Il funerale di una mia vecchia parrocchiana

Qualche giorno fa mi è giunta una telefonata, una voce rotta dal pianto mi ha informato che era appena morta sua madre e che avrebbe desiderato che andassi a darle la benedizione. Per farsi riconoscere mi ha detto il suo nome, come se questo avesse potuto farmi inquadrare la famiglia e il domicilio. Purtroppo nella mia vecchia memoria c’è ormai una grande confusione di nomi, di volti e di strade ma, piano piano, sono riuscito a capire di chi si trattava e dove abitava. Ho preso la macchina e ci sono andato subito perché ho avvertito quanto questa figliola tenesse alla benedizione del sacerdote.

Sono entrato in una piccola villetta dove, a piano terra, c’era la salma composta di una anziana signora quasi centenaria. Negli anni in cui ero parroco a Carpenedo sono entrato in quella casa almeno altre trentacinque volte sempre accolto in maniera affabile da questa signora, elegante, compita e signorile. Ella mi ha sempre accettato con affetto e con fede così come hanno fatto i suoi figli in questa triste occasione. Le visite in questa casa sono sempre state particolari perché il marito, di cui pure ho celebrato il funerale e che fu per anni il presidente della vecchia società dei 300 campi di Carpenedo, era conosciuto da tutti come il commissario politico della brigata garibaldina dei partigiani che operarono nella nostra zona. Molte volte questa donna mi aveva parlato del marito, comunista convinto, che però aveva sempre rispettato la sua fede, che si era sposato in chiesa, aveva avviato ai sacramenti i figli e speso i suoi ultimi anni facendo il bene dei suoi concittadini.

Questi due sposi sono stati due belle figure di persone decise, convinte dei loro valori e rispettose l’uno dell’altra. Sono stato felice di aiutare la mia vecchia parrocchiana a raggiungere il suo sposo nella casa del Padre. Sono convinto che, anche se per strade diverse, ora si siano ritrovati e sono assieme nella Casa di Dio.

Fare “il morto”

Ora la gente pare impazzire più per il mare che per la montagna, io però ho sempre preferito i monti al mare perché i miei rapporti con la spiaggia non sono mai stati troppo positivi. Quando ero ragazzino abitavo a Eraclea ed il lido di Jesolo era a un tiro di schioppo così una mia vecchia zia, senza figli e molto religiosa, d’estate mi ci accompagnava. La località, naturalmente, non era attrezzata e mondana come oggi.

Una volta arrivati la mia vecchia zia mi imponeva un rito che mi ha fatto detestare il mare per tutta la vita. Proprio al centro del Lido di Jesolo c’era una fontana da cui sgorgava acqua ferruginosa con un terribile gusto di uova marce e la zia imponeva, a me e a mia sorella, di bere ogni giorno almeno un buon bicchiere di quest’acqua nauseabonda perché, a parer suo, aveva il valore nutritivo di una banana, anche se di certo non ne aveva il gusto! Arrivati in spiaggia su due pali si posava un lenzuolo che serviva per avere un po’ d’ombra. Delle mie vacanze al mare non ricordo tanto altro se non il sole accecante, il caldo e la noia. A quel tempo imparai i primi rudimenti del nuoto ma non divenni mai un buon nuotatore. Ricordo solamente un signore della tenda accanto che tentò di insegnarmi a stare a galla “facendo il morto” ossia facendosi cullare e condurre dalle onde in maniera passiva.

Questa vacanza marinara non mi fece fare grandi progressi sportivi ma da essa imparai che talvolta, quando si è stanchi e con poca fiducia, se ci si abbandona tra le braccia della Provvidenza confidando nella paternità del Signore, Egli ti mantiene a galla e ti fa andare avanti senza che tu faccia troppa fatica. Dal mare non ho imparato altro ma già questo si è rivelato molto utile.

I miei discepoli

Questa mattina mi ha colpito un’inquietante domanda che si è posta una fedele californiana: “Chi sta seguendo Gesù grazie al mio esempio?”.

Questa discepola di Gesù annota poi tra il compiaciuto e il confortato: “Quando un’amica ha notato che, durante la pausa pranzo, leggevo la Bibbia mi ha chiesto se fosse quello che mi manteneva serena”. Continua poi dicendo che l’amica le aveva chiesto di cominciare a studiare la Bibbia e a pregare assieme. Credo che una domanda del genere dovrebbe porsela ogni cristiano convinto e in modo particolare ogni prete e in maniera particolarissima un vecchio prete come me che è giunto ormai quasi al termine della sua vita e dei suoi giorni.

Questa mattina quindi mi sono sentito costretto a fare il punto sul risultato dell’attività di apostolato che ho cercato di svolgere, al meglio delle mie possibilità, durante i novant’anni della mia vita e i sessantacinque anni del mio ministero pastorale. Di primo acchito mi ha consolato ricordare che due miei ragazzi sono diventati sacerdoti molti anni fa: uno, uscito dalle fila dell’Azione Cattolica, si è fatto gesuita e da tantissimi anni è missionario in Giappone mentre l’altro, uscito dai miei scout, da molto tempo è il parroco di una piccola parrocchia in riva al Piave. Alcune ragazze, che mi consideravano il loro padre spirituale, sono diventate suore e una grande moltitudine sono diventate ottime mamme. Non passa giorno poi che qualcuno, più o meno anziano, non mi fermi per ricordarmi i “bei tempi” dei Gesuati, di San Lorenzo, di Carpenedo, della San Vincenzo, degli Scout, del Pacinotti, delle Magistrali, dei Maestri di Azione Cattolica o mi ricordi che li ho sposati, ammessi alla comunione o celebrato il commiato dei loro cari.

Di certo la mia vita è stata lunga e intensa, e credo che moltissima gente mi ricordi con affetto e riconoscenza però non so se le tante persone che ho incontrato, attraverso la mia testimonianza, siano diventate veramente discepoli di Gesù. Ora non mi resta che pregare per tutti.

“Conversione” parziale

Pochi giorni fa ho tentato di fare un abbozzo di riflessione su un fenomeno religioso che è suggerito, e forse anche imposto dalla globalizzazione perché, mai come oggi, vuoi per i mass-media, che raggiungono anche l’angolo più remoto della terra, e vuoi per il rimescolamento progressivo che sta avvenendo tra popoli tanto diversi, si genera anche un rimescolamento di culture, tradizioni e costumi.

Nella mia fanciullezza non ricordo di aver mai incontrato nel mio paese natio un uomo di colore. I primi li ho conosciuti al tempo delle elementari quando ci veniva insegnato che l’Italia aveva bisogno dell’Impero e per raggiungere tale scopo il Duce inviò in Etiopia i nostri soldati a “civilizzare” i sudditi del Negus. Quelli erano i tempi di “Faccetta Nera”. Il Don Vecchi ora, invece, è un centro cosmopolita nel quale si possono incontrare cittadini di tutte le nazionalità. Riferendomi alle parole del Cardinal Scola, nostro vecchio Patriarca, che amava definire questo rimescolamento “meticciato” civile e religioso, mi sono chiesto “Ma io sto subendo qualche influenza a livello civile, culturale e religioso dal progressivo contatto con culture e civiltà tanto diverse?”.

Ho constatato che purtroppo, o per fortuna, questo sta avvenendo. Tutti sanno come il buddismo predichi il rispetto per ogni creatura. Un tempo il rispetto per le vacche, tanto diffuso in India, mi faceva ridere, ora non più. Ho scoperto di aver imparato in maniera inconscia a rispettare anche le creature più minute. Quando suor Teresa spazza la casa dalle formiche mi disturba, accetto a malapena la “guerra” alle zanzare perché la considero legittima difesa. Da un po’ di mesi, sul grande prato davanti al terrazzino del mio alloggio, è comparsa una famigliola di nutrie che verso sera escono per brucare l’erba e, quando ho appreso che le vogliono eliminare, confesso che mi dispiace tanto sembrano pacifiche e indifese. Confesso anche che questa mia parziale conversione all’induismo non mi provoca né dispiacere né pentimento.