Gli amici telematici

Mi sorprendono e mi stupiscono alquanto i miei colleghi preti, sia anziani e purtroppo anche giovani, che non hanno compreso l’assoluta necessità di utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione.

A me piace il suono delle campane e quando ero parroco più di qualche parrocchiano si lamentava che le suonavo troppo. Un giorno ho avvertito la necessità di utilizzare il campanile della mia parrocchia, di quelle di Caorle, di Jesolo, di Mira, di Burano e perfino il campanile di San Marco per collocare i trasmettitori di Radio Carpini con cui riuscivamo a trasmettere il messaggio in cui credo ad almeno un milione di potenziali ascoltatori.

Lo stesso successo lo abbiamo ottenuto con la carta stampata e in queste ultime settimane stiamo raggiungendo una tiratura di quasi seimila copie per il settimanale “L’incontro”.

Spessissimo incontro persone che si rivolgono a me come fossi un loro amico d’infanzia e quando chiedo loro se mi conoscono tutti mi ripetono: “Come si fa a non conoscerla sappiamo tutto di lei e delle sue imprese solidali.” Questo mi rende molto felice perché mi conferma che “ho fatto centro”. Una volta un primario dell’Angelo mi disse: “Ce l’ho con lei”, al che obiettai: “Perché?” e lui continuò: “Perché mi turba la coscienza con i suoi scritti!”. Non poteva dirmi cosa più bella.

I miei amici sanno che in questo periodo sono tutto preso dall’apertura del nuovo ristorante per i poveri che vivono in silenzio e con dignità la loro difficile situazione ma come avrei potuto comunicare questa notizia ai miei quattrocentomila concittadini di Mestre e Venezia? Mi sono detto: “So io cosa fare!”. Qualche telefonata e le testate cittadine: Il Gazzettino, La Nuova Venezia e Il Corriere del Veneto mi hanno subito offerto il loro “megafono”. Qualche altra telefonata e “Rai Tre”, “Televenezia”, “Telechiara” e “Rete Veneta” mi hanno subito messo a disposizione i loro teleschermi”. Non so se riuscirò a bucare ma se non avessi questi amici telematici sono certo che fallirei.

I nuovi “misteri”

Come tutti sanno io non solo sono del secolo scorso ma addirittura dell’altro millennio. L’educazione, la cultura, il tipo di religiosità, la dialettica e soprattutto la capacità di usare i mass-media sono qualcosa che potrei paragonare ad un bollo sopra una lettera infatti, purtroppo, non sono riuscito a padroneggiare queste tecniche e questi strumenti di dialogo e di proposta. In verità questi strumenti non li ho mai rifiutati, li ho anzi apprezzati quanto mai perché li ritengo indispensabili per uno come me che desidera annunciare il Vangelo a tutti, proprio a tutti ma purtroppo per farlo sono costretto ad avvalermi dell’aiuto di gente più giovane, gente che più di me è parte di questo “mondo nuovo”. Io scrivo ancora a mano con la penna biro consapevole che la biro rappresenta il livello più alto di modernità che sono riuscito a raggiungere.

Mi è capitato di vivere in un’epoca nella quale tutto si evolve con una velocità che per quanto io mi sforzi di correre perdo sempre più terreno. Da ragazzo ho letto “Piccolo mondo antico” di Fogazzaro, romanzo in cui ho colto il risucchio e la tenera nostalgia del passato e il disagio nel comprendere il mondo nuovo, accettando i cambiamenti causati da sessanta settant’anni di evoluzione, oggi però questo lasso di tempo ha inciso tanto profondamente sul nostro modo di vivere da trasformare il passato prossimo in passato remoto in un soffio e da renderci perfino difficile immaginare il futuro.

Io comunque vivo bene lo stesso, guardo con simpatia i tempi nuovi e mi faccio aiutare dai più giovani per non apparire simile all’uomo delle caverne.
Mi piacerebbe un mondo saper usare con disinvoltura Internet e quell’aggeggio misterioso chiamato smartphone. Mio papà mi raccontava che mio nonno un giorno riferì alla famiglia allibita che nell’osteria, dove andava a giocare a tresette, avevano acquistato “una scatola che parlava”, io non sono a questo livello ma comunque ho collocato tra i misteri ai quali è giusto credere anche questi strumenti di comunicazione sociale e così facendo mi trovo bene.

Il male oscuro

Credo che sia abbastanza ovvio affermare che le malattie più pericolose sono quelle di cui non si sa di essere affetti. Mi è capitato più volte che qualcuno mi abbia confidato che mentre pensava di stare bene un male subdolo e senza sintomi evidenti stava minando la sua salute tanto che quando se n’è reso conto era tardi e talvolta troppo tardi.

Ho letto tempo fa un interessante articolo di Carlo Carretto, il famoso presidente dei giovani di Azione Cattolica, che quando venne rimosso dal suo ruolo perché ritenuto scomodo dalle gerarchie ecclesiastiche, ha scelto di farsi religioso nell’Ordine dei “Piccoli Fratelli di Gesù” di Charles De Foucauld. Carretto scriveva che la febbre o un qualsiasi dolore sono una grazia del cielo perché rappresentano un campanello d’allarme che ci avverte del pericolo perché sono i sintomi del male subdolo ed oscuro che ci sta minacciando.

Qualche giorno fa una troupe di Raitre è venuta da Roma al Don Vecchi per fare un “servizio” sul nuovo ristorante, destinato alle famiglie in difficoltà, e sull’impegno della Fondazione dei Centri Don Vecchi a favore dei poveri. L’intervistatrice non mi è parsa un granché perché mi è sembrato cercasse di pescare nel torbido facendo emergere la diffidenza nei riguardi degli extracomunitari e dei profughi piuttosto che sottolineare quanto la Fondazione ha fatto e sta facendo per i vecchi, per chi ha bisogno e anche per i fratelli che fuggono dalla guerra e dalla miseria.

Pensavo che le immagini tragiche che la televisione ci mostra ogni giorno di quegli uomini, donne, bambini, affamati, stanchi, disorientati avessero turbato, impietosito e fatto emergere sentimenti di pietà, di condivisione e di generosità e che l’esplicito monito di Papa Francesco “a non voltarsi dall’altra parte, invitando ogni comunità a farsi carico di una famiglia” avessero convinto tutti. Invece con infinita sorpresa e tristezza ho sentito riserve, preoccupazioni, stupide paure, egoismo, timore per il proprio benessere e per la propria tranquillità. Cari vecchi lasciate che vi dica che, anche senza saperlo, portate dentro di voi i peggiori virus e i più malefici bacilli quali l’egoismo, il razzismo, la mancanza di generosità e di consapevolezza che siamo tutti fratelli, che dobbiamo darci una mano e pensare ai più poveri e ai più provati. Vecchi miei curatevi e presto perché questi bacilli portano alla morte del cuore e dell’anima. Se poi il bacillo dell’egoismo si diffondesse sareste i primi a subirne le conseguenze perché nessuno penserebbe più a voi come è stato fatto finora.

Televenezia

In Via Piraghetto, nella sede di Televenezia, c’ero già stato in precedenza per un’intervista però, quando un ex generale dei carabinieri che collabora con quell’emittente mi ha chiesto di partecipare ad una rubrica che lui conduce, ho accettato subito e con entusiasmo.

Avevo un rospo nell’animo che non sapevo come buttare fuori e finalmente l’intervista televisiva mi permetteva di chiarire ai miei concittadini la vicenda dei profughi, dell’aiuto ai poveri di casa nostra e del pasticcio che è nato quando don Gianni, presidente della Fondazione Carpinetum, ha comunicato alla stampa che al Don Vecchi non abbiamo pensato solamente ai profughi, mettendo a loro disposizione due alloggi, ma anche ai poveri di casa nostra con l’apertura del ristorante che offrirà la cena ai concittadini che soffrono in silenzio e con dignità. La stampa ha dato un’interpretazione faziosa e reazionaria di questo annuncio quasi che la Fondazione volesse scusarsi con Salvini per aver pensato ai profughi e non alla nostra gente.

Spero che i miei successivi interventi al Gazzettino, al Corriere del Veneto, a Raitre, a Telechiara, a Rete Veneta e a Televenezia e la lettera che ho inviato a tutti i parroci e agli operatori sociali della città abbiano rimesso le cose a posto. La Fondazione non fa solo chiacchiere, come sta facendo Salvini, ma fatti: attualmente ha messo a disposizione degli anziani poveri quattrocento appartamenti e offre aiuto a più di tremila famiglie distribuendo vestiti, mobili, frutta, verdura, generi alimentari dimostrando abbondantemente, se mai ce ne fosse bisogno, la sua attenzione e il suo impegno concreto nei confronti della povera gente mestrina, italiana, dei paesi dell’Est e della sponda africana e ora, con il ristorante, sarà offerta la cena a centodieci famiglie in difficoltà indipendentemente dal colore della pelle e dalla religione professata.

L’opportunità di parlare per mezz’ora a ruota libera dagli studi di Televenezia comunque mi ha permesso di affermare, in modo chiaro e senza ambiguità, che la solidarietà deve essere per tutti altrimenti non è assolutamente solidarietà e che atteggiamenti razzisti, discriminatori, ed egoisti sono una autentica infamia per chi li promuove ma anche per chi li custodisce nel proprio animo.

Bianco su nero

Riflettendo sulle sensazioni che provo nell’impatto con realtà con le quali non ho né dimestichezza né rapporti frequenti, ho capito che nel mio animo avviene un processo di ripensamento, quasi una rimuginazione, con la quale rielaboro le sensazioni stesse e le immagini dell’ambiente in cui vengo a trovarmi.

Recentemente sono stato ricoverato per quattro giorni in ospedale per un problema che fortunatamente si è rivelato banale ma che di primo acchito si temeva potesse essere una paralisi o una ischemia cerebrale. Io nel nostro ospedale ci vado due volte alla settimana per portarvi un migliaio di copie de L’Incontro, motivo per cui ho molta dimestichezza con questa struttura della quale vado orgoglioso sia per la sua notevole bellezza architettonica sia per la sua funzionalità. Una cosa però è entrare in ospedale, immergersi nel giardino interno e percorrere velocemente il grande sentiero pensile del primo piano, altra cosa è entrarvi per essere ricoverati. L’ospedale ha le sue liturgie ben precise e complicate, offre un’atmosfera particolare e soprattutto ti fa sentire come una creatura debole ed indifesa che dipende, anima e corpo, dai camici bianchi.

In ospedale purtroppo ci sono stato molte altre volte e non solo a Mestre, nell’ultimo ricovero però mi ha particolarmente colpito e fatto riflettere la presenza di un giovanottone robusto la cui faccia e le cui braccia erano nere come l’ebano ed emergevano ancora più marcatamente nere dal camice bianco che indossava. Un secondo incontro, ma non a livello personale, l’ebbi con un medico sempre di colore e il terzo con un’infermiera, di pelle decisamente nera, chiacchierona ed affettuosa che mi ha accompagnato per un esame: tutti cordiali, professionalmente preparati e disponibili. Questi incontri mi hanno fatto pensare che il mondo sta diventando un villaggio globale dove l’incontro tra culture, religioni, tradizioni e costumi è ormai un fatto ineluttabile che nessuno potrà mai fermare.

Ho concluso quanto sia bello ed inebriante sentirci tutti figli di uno stesso Padre e fratelli con qualità diverse ma che possono essere una risorsa per tutti. Infine pensando a Salvini e compagni ho provato un sentimento di malinconia e di commiserazione.

Il prossimo

Io ho sempre creduto alla necessità di usare al meglio i mezzi di comunicazione per offrire, alla gente del nostro tempo, il messaggio di Gesù. Quando penso che tutti i preti di Mestre riescono a parlare di Dio solamente al dieci per cento dei mestrini vengo colto da vertigini e da angoscia.

Nella mia vita sacerdotale, in tutte le attività pastorali affidatemi, ho sempre cercato di instaurare un dialogo con il maggior numero possibile di concittadini. Quando più di una quarantina d’anni fa mi fu affidata la San Vincenzo, che allora poteva contare solo su un numero assai modesto di persone e che praticamente viveva ai margini del pubblico interesse, diedi vita ad un mensile che chiamai “Il Prossimo”, in linea con l’impegno dei vincenziani nel creare un mondo di fratelli e di “farsi prossimo” soprattutto nei confronti dei più deboli e dei più bisognosi ma purtroppo, con mio grande dispiacere e disappunto, questa testata è stata chiusa. A mio umile parere “Il Prossimo” aveva fatto rifiorire la S. Vincenzo e questa aggregazione di cristiani ha dato voce ai più poveri di Mestre e fatto nascere belle e promettenti realtà.

Un mese fa il Consiglio di Amministrazione della Fondazione Carpinetum ha deciso di unificare i gruppi di volontariato di quello che io ho sempre chiamato, con una certa enfasi: “Il Polo Solidale del Don Vecchi”, realtà diventata ormai la struttura caritativa di gran lunga più importante di Mestre e al suo posto è stato creato un nuovo ente no-profit in cui sono confluiti tutti i gruppi di volontariato. In quell’occasione ho suggerito immediatamente di chiamarlo “Il Prossimo”, un po’ per onorare la memoria della vecchia e gloriosa testata a cui ero molto affezionato ed un po’ perché i volontari fossero più consapevoli di lavorare per il prossimo e non per altri scopi.

Io ho condiviso la scelta della Fondazione, volta a creare una maggiore sinergia tra i vari comparti per abbassare le spese e per razionalizzare questa significativa entità di ordine solidale, ma nel mio animo c’è anche la segreta speranza che la nuova struttura organizzativa aiuti a rinvigorire i vincoli di fraternità cristiana fra i duecento volontari e soprattutto li renda maggiormente coscienti che l’obiettivo fondamentale è quello di amare concretamente il nostro prossimo.

Solidarietà a tutto tondo

Ricordo certe domande imbarazzanti e cretine che da bambino ho sentito porre ad alcuni miei coetanei: “Vuoi più bene a me o al papà?” e viceversa. Le persone serie devono insegnare a voler bene a tutti senza discriminazione.

Questi discorsi balordi e di scarso respiro umano e civile mi sono ritornati alla mente recentemente in rapporto ai profughi e all’invito del nostro Santo Padre a “non voltarsi dall’altra parte” e ad aprire il cuore al dramma di chi soffre. Per i cristiani tutti gli uomini sono figli di Dio; tutti, bianchi o neri, intelligenti o illetterati, europei, africani o americani possono rivolgere gli occhi in alto per dire: “Padre nostro” e guardandosi attorno scoprire che siamo tutti fratelli. Dio ci ha donato questo mondo così ricco e bello affinché ciascuno ne goda in pari misura e non perché qualche privilegiato ne goda più di altri.

In questo momento ai cittadini della nostra vecchia Europa si prospetta la splendida opportunità di aiutare chi soffre e di riparare alle ruberie, alle prepotenze e allo schiavismo civile, politico ed economico che per secoli i loro paesi hanno perpetrato nei confronti di tutti quei popoli che ora ci chiedono disperatamente aiuto. Oggi, Inghilterra in primis, seguita da Spagna, Portogallo, Francia, Germania e, come fanalino di coda, Italia, socia anche se tardiva della “compagnia di merende”. potrebbero ritrovare verginità umana e civile e ripulirsi la coscienza spalancando le porte ai profughi che in definitiva vengono solamente a riprendersi un po’ di quanto abbiamo loro rubato lungo i secoli.

Vengo poi a quella stupida affermazione che mi sovviene dal passato e che ora è riproposta da leghisti, nazionalisti, venetisti e dagli egoisti in genere: “Bisogna prima pensare agli italiani” a cui replico che bisogna pensare a tutti perché solo se pensiamo agli altri riusciamo a pensare anche a quelli di casa nostra. Noi della Fondazione dei Centri Don Vecchi, mentre Bossi ieri e Salvini oggi hanno seminato e continuano a seminare egoismo, da sempre pensiamo con i fatti ai nostri poveri: vedi i Centri Don Vecchi, il Polo Solidale, le mense ed altro ancora e nel contempo sentiamo il dovere di pensare anche agli altri. Sono felice che la Fondazione, senza lasciar passare un solo giorno dall’invito del Papa, abbia messo a disposizione di questi disperati un appartamento alla Cipressina e un altro al Centro Don Vecchi. Contemporaneamente stiamo aprendo un ristorante solidale per tutti mentre Salvini e compagnia cantante non hanno fatto e non fanno nulla né per gli altri né per i nostri ma pensano solamente alle loro tasche.

Una ulteriore responsabilità

Ho conosciuto il dottor Paolo Fusco, il brillante giornalista del settimanale della diocesi “Gente Veneta”, quando era poco più di un ragazzo ed ho mantenuto con lui un rapporto di ammirazione e di stima profonda, non solo perché ho riconosciuto in lui un professionista versatile, attento al respiro della città e della Chiesa veneziana, ma anche un cristiano che ha sempre cercato di dare una lettura positiva della vita e prospettare soluzioni in sintonia con il pensiero della Chiesa. Molte volte gli ho manifestato pubblicamente la mia stima e la mia riconoscenza.

Faccio questa premessa perché si possa comprendere lo stupore e la grande amarezza che ho provato, alcuni giorni fa, quando mi ha telefonato comunicandomi che aveva colto l’opportunità di insegnare lettere nella scuola pubblica. Lo stato di disagio economico in cui è venuto a trovarsi il settimanale e le sue responsabilità di marito e di padre lo hanno costretto, anche se a malincuore e con tristezza, ad accettare la soluzione che gli offriva quelle garanzie necessarie al sostentamento della sua famiglia ma che, contemporaneamente, lo costringeva ad abbandonare la professione di giornalista, quella professione che tanto amava e che aveva scelto per vocazione e per spirito di servizio verso la Chiesa piuttosto che come fonte di reddito per godere di una vita agiata. Confesso che ho provato dolore per questa scelta pressoché obbligata ed altrettanto dolore per la situazione nella quale è venuto a trovarsi l’unico strumento di comunicazione sociale di cui dispone attualmente la diocesi di Venezia poiché Radio Carpini San Marco, la nostra gloriosa e amata emittente, è stata lasciata morire ingloriosamente alcuni anni fa. Ora “Gente Veneta” può contare solamente su due giornalisti e la Chiesa veneziana corre il rischio di far arrivare il suo messaggio solo al dieci per cento dei nostri concittadini e solo dai pulpiti delle nostre chiese.

Questa realtà carica noi de “L’incontro” di un’altra pesante responsabilità poiché attualmente il nostro settimanale è rimasto pressoché l’unica voce. “L’incontro”, che ha raggiunto una tiratura di cinquemila copie settimanali e che viene letto da ventimila mestrini, è arrivato ad essere il primo e forse l’unico strumento di comunicazione sociale in città poiché gli altri periodici, di ispirazione cristiana che sono più che modesti e pressoché inconsistenti, ci inseguono ma a molte leghe di distanza. Credo che si impongano quindi alle nostre coscienze sia la ricerca di altri collaboratori sia l’incremento del numero di pagine del nostro periodico affinché l’apporto dei cristiani alla vita della nostra città non diventi talmente flebile da non essere percepito da nessuno.

La sanità nel Veneto

Talvolta mi chiedo a chi possano interessare le mie vicende, le mie avventure e i miei pensieri. So perfettamente di essere un vecchio prete che ha molto poco da offrire agli altri, però sono anche convinto che solamente il confronto delle idee favorisce, nelle donne e negli uomini, la crescita dello spirito di umanità e del senso civico. Partendo da questi presupposti, con grande umiltà e semplicità, mi pare opportuno rendere partecipi i miei concittadini delle esperienze che vado facendo.

Come ho scritto un paio di giorni fa sono stato ricoverato nell’ospedale all’Angelo per quattro giorni per una presunta ischemia cerebrale. Il timore dei medici derivava dalla paralisi parziale che aveva colpito la mia mano sinistra ma poi i controlli a cui sono stato sottoposto hanno rivelato che il problema era riconducibile ad un banale incidente notturno causato forse da una postura errata del corpo che ha determinato la compressione di qualche nervo. Tutto, fortunatamente, si è risolto per il meglio e dopo quattro giorni di degenza sono ritornato alla normalità.

Quello che però sento il bisogno di esternare ai miei concittadini è la presa di coscienza dell’eccellente accoglienza, del trattamento e dell’efficienza della struttura sanitaria del nostro ospedale. Ho incontrato medici cortesi, competenti, scrupolosi e ben coordinati che in pochi giorni hanno effettuato un checkup completo delle funzioni del mio organismo e hanno messo a punto una cura efficace e risolutiva. Lo stesso encomio lo devo riservare agli infermieri e a tutta l’organizzazione dell’ospedale: dal personale curante, a quello addetto alle pulizie e alla cucina, insomma proprio a tutti. Ho riscontrato puntualità, competenza, cortesia e grande efficienza.

Una nota estremamente positiva la debbo esprimere anche all’organizzazione nel suo insieme che mi è parsa veramente stupenda. Sono uscito con la convinzione che in Italia, e nel Veneto in particolare, godiamo di una sanità d’eccellenza tanto da augurare a tutti i paesi d’Italia e d’Europa strutture confortevoli con lo stesso standard serio e con la stessa efficienza. La ciliegina sulla torta di tutto questo l’ho scoperta poi nella parte finale della lettera di dimissione con la quale l’ULSS 12 mi ha informato che i quattro giorni di degenza sono costati alla Regione 1.592,45 euro. Tutto questo mi impegna a non ammalarmi più perché il costo del ricovero ospedaliero è veramente molto salato.

Incubo notturno

Il Don Vecchi è una struttura destinata agli anziani autosufficienti, questa è stata la scelta lucida che abbiamo fatto ancor prima di definire la struttura dei Centri Don Vecchi oggi esistenti. Avevamo anche previsto un comma inserito nella domanda d’accoglimento ai Centri secondo cui, nel caso di sopraggiunta mancanza di autosufficienza, i familiari avrebbero dovuto portare l’anziano nella propria casa o inserirlo in una casa di riposo. Le cose però sono andate molto diversamente. A ottant’anni il passaggio tra autosufficienza e non autosufficienza è più rapido che mai e le motivazioni per cui un essere umano dovrebbe abbandonare un ambiente signorile, che offre autonomia e nel contempo amicizia e sollievo, non sono facili né da far capire né tantomeno da far accettare a chi si è affezionato alla vita presso uno dei nostri Centri. La scelta iniziale della dismissione è diventata ogni anno più difficile da far accettare e il colpo di grazia a questa regola lo ha inferto la dottoressa Francesca Corsi, funzionaria illuminata e amica vera dei poveri e dei vecchi, quando un giorno mi disse: “Don Armando perché un anziano non può decidere di vivere ed anche desiderare di morire nella propria casa?”. Questa domanda ci ha indotto ad offrire ai nostri residenti la possibilità di vivere e morire al Don Vecchi, nella loro dimora come tutti i comuni mortali. Decidere di offrire a tutti l’opportunità di continuare a vivere al Don Vecchi ci ha imposto di ricorrere ad un’assistente disponibile sia di giorno che di notte, è sufficiente che l’anziano componga al telefono il numero 333 e dopo poco arriva l’assistente per prestare un primo aiuto.

Ieri notte l’assistente è stata chiamata e si è presentata alla porta della residente chiedendo cosa fosse successo. Sbalordita si è sentita rispondere: “Sono tanto turbata perché ho sentito dire che al Don Vecchi sarà accolta una famiglia di profughi, io però non sono assolutamente d’accordo”. Quando mi sono state riferite le pretese che questa anziana signora aveva espresso nonostante l’accoglienza ricevuta, dapprima sono rimasto interdetto e poi ho pensato a quel Salvini che per un pugno di voti va spargendo una zizzania tanto meschina. Il segretario della Lega, dopo aver governato una dozzina d’anni assieme a Berlusconi facendo fallire l’Italia, ora offre frottole e cattiverie. Di fronte a questo fatto mi è venuto da pensare che dovremmo inserire nel contratto di accoglienza ai Centri Don Vecchi una clausola: chi non crede alla solidarietà non può essere accolto perché è solo grazie alla solidarietà che è stato possibile realizzare le nostre strutture.

La suora dalla bicicletta rosa

Alcuni mesi fa, o forse l’anno scorso, ho letto su “Gente Veneta”, il settimanale della nostra diocesi, un bellissimo “pezzo” a firma di mio nipote don Sandro Vigani sull’apostolato di una suora che era solita spostarsi su una bicicletta rosa.

La lettura mi aveva piacevolmente incuriosito per la prosa scorrevole ma soprattutto per il suo contenuto. Si trattava di una suora, né mistica né da miracoli, una semplice suora di mezza età che occupava tutte le sue giornate incontrando gente, visitando ammalati, consolando sofferenti cioè offrendo il suo calore di donna e la sua ricchezza di cristiana convinta. L’articolo mi è piaciuto e questa semplice testimonianza mi ha edificato, oggi c’è tanto bisogno di gente semplice e cara, animata da ideali che offre con semplicità mediante l’incontro affettuoso e sereno.

Questo ricordo era andato a finire in quel grande serbatoio della memoria e in qualche occasione forse avrebbe anche potuto riemergere sennonché, nel primo pomeriggio di uno dei miei pochi giorni di degenza all’Angelo, ha bussato alla porta della mia stanzetta una suoretta di mezza età dal volto dolce e rasserenante. Io di certo non l’avevo mai incontrata eppure lei mi trattava come se mi conoscesse da sempre. Poi pian piano ho capito che svolgeva la sua attività a Trivignano assieme a tre consorelle, non aveva nessun compito proprio delle attività pastorali ma svolgeva la sua missione intessendo rapporti un po’ con tutti, offrendo il calore di una parola di conforto, visitando le famiglie, i vecchi e gli ammalati.

Il dialogo con questa cara donna di Dio si è fatto ben presto cordiale e confidenziale e mi ha confidato che, poiché a fine anno la sua comunità sarà smembrata, dovrà lasciare la vecchia parrocchia nella quale è conosciuta e in cui ha intessuto mille legami. La prospettiva di questa decisione determinata dall’ormai cronica mancanza di vocazioni lasciava trasparire nella sua voce e sul suo volto una nota di comprensibile amarezza. Nella mia giovinezza sacerdotale ho incontrato a San Lorenzo delle bellissime creature quasi sempre mortificate da regole chiuse e frustranti; oggi, epoca in cui stanno acquisendo una dimensione religiosa più vera, le suore purtroppo stanno scomparendo. Spero proprio che il Signore, anche in questo campo, ci riservi qualche bella sorpresa.

L’incidente di percorso

Il sonno dei vecchi è spesso irrequieto e discontinuo. Qualche giorno fa (la riflessione risale a un paio di mesi fa, NdR) mi sono svegliato verso le due di notte e mi sono accorto immediatamente, riaggiustando le coperte, che la mano sinistra “farfugliava” non riuscendo ad afferrare le lenzuola. Ho acceso la luce, ho guardato la mia mano sinistra e mi sono accorto con sorpresa e preoccupazione che non reggeva e penzolava come fosse spenta e inerme. Ho cominciato a sfregarla ma inutilmente, sembrava priva di nervatura.

Io vivo con piena coscienza la mia età, consapevole che se possono morire anche i giovani, i vecchi hanno certo una maggiore probabilità e perciò mi pare sia giusto e inevitabile pensarci seriamente e accettare la nostra sorte. D’istinto ho pensato a un ictus, malanno che spesso si ripete dopo la prima avvisaglia, e quindi mi è parso giusto dire al Signore: “Sia fatta la tua volontà se è arrivato il mio momento di lasciare questa terra”. Ho poi realizzato che la mano colpita era la sinistra e quindi ho provato un po’ di sollievo pensando che, anche con l’uso della sola mano destra, avrei potuto fare ancora qualcosa.

Avrei voluto informare qualcuno ma poi ho pensato che avrei provocato tanto trambusto, mi sono quindi seduto in poltrona davanti alla televisione e mi sono addormentato: per me la televisione è il più potente e sicuro sonnifero. Alle sette, come sempre, suor Teresa è arrivata per la colazione ed allora l’ho informata dell’accaduto ma lei ha finto che la cosa non la preoccupasse granché. Alle sette e mezzo sono salito in macchina e, poiché ero in grado di guidare, mi sono diretto al cimitero dove ho aperto le chiese e celebrato un funerale rassicurato nel constatare che potevo ancora funzionare. Sennonché appena terminata la funzione religiosa suor Teresa, che nel frattempo aveva allertato mezzo mondo, ha preteso che andassi subito al Pronto Soccorso.

Dopo un’attesa tanto breve da farmi sentire colpevole per essere un privilegiato, un ottimo medico mi ha visitato e la prima diagnosi è stata: ischemia o schiacciamento di un nervo. A questa prima visita ha fatto seguito quella della neurologa con i suoi martelletti, una TAC e una Risonanza Magnetica che hanno escluso gravi danni cerebrali, sono poi stato trasferito nella sala delle gravi urgenze neurologiche e collegato con una serie di fili ad apparecchiature che hanno monitorato ogni mia reazione. Il giorno seguente sono stato sistemato in una linda stanzetta del reparto di Neurologia. Non avrei potuto incontrare gente più efficiente, più gentile e più preparata e sono arrivato alla conclusione che, se tutti gli ospedali fossero come quello dell’Angelo, in Italia dovremmo essere riconoscenti ed orgogliosi della Sanità, checché se ne dica.

La mia proroga

Ho letto che i sondaggi affermano che in Italia il gradimento e la stima nei confronti dei politici e degli amministratori pubblici è pressoché vicina allo zero. Considerando che quasi la metà degli italiani ha disertato le urne durante l’ultima tornata elettorale è facile ritenere che l’esito di queste rilevazioni statistiche rappresenti correttamente il pensiero degli italiani. Quello che vale per l’Italia naturalmente vale anche per Venezia. Credo che la cosiddetta “discontinuità” con una prassi politica che dura da più di mezzo secolo sia il desiderio di tutti ed io non sono da meno degli altri.

Alcuni ricorderanno che avevo auspicato, in occasione delle ultime elezioni, che il Patriarca – preceduto dalla Croce Astile, seguito dal clero e dal popolo veneziano – si recasse in processione da un imprenditore che nella sua azienda avesse dimostrato di saperci fare, per chiedergli, sperando nella sua onestà, di dedicare alla città cinque anni della sua vita per risollevare le sorti del nostro Comune. Quasi per miracolo il mio sogno si è avverato e Luigi Brugnaro, dopo essersi buttato a capofitto in una campagna elettorale appassionata in cui ha giurato che avrebbe cambiato il modo di governare, è stato eletto; confesso, anche con il mio voto convinto. Il nuovo sindaco aveva promesso che si sarebbe rinchiuso in Comune e assieme ad alcuni esperti avrebbe tradotto a livello operativo il suo progetto. I primi segnali sono positivi, vedi la piazza di Carpenedo e il ritiro dei volumetti Gender dalle scuole materne. Sennonché è arrivata la “scomunica” boriosa ed insultante di quel famoso cantante inglese, famoso anche per il suo matrimonio omosessuale e per l’adozione di due bambini. Di primo acchito è sembrato che Brugnaro tirasse diritto per la sua strada, per nulla preoccupato dalla critica e coerente al suo programma, tanto che mio fratello don Roberto gli ha dedicato un trafiletto dal titolo: “Bravo Brugnaro”. Successivamente il sindaco, forse intimorito dalla reazione dei radicali, ha affermato di essere stato frainteso e puntuale è arrivata la dura reazione di mio fratello che trascrivo:

“Ritiro parola sindaco quaraquaquà”

Non mi riferisco al Gay Pryde, manifestazione che non mi piace per motivi estetici (troppo esibizionismo) ma mi lascia indifferente per i contenuti che eventualmente andrebbero esaminati in altra sede e con altro metodo.
Mi riferisco alla pace fatta – senza scuse – con il rospo, il quale dando del contadino al Sindaco di Venezia ha offeso anche il popolo che lo aveva eletto.
Bene aveva fatto il sindaco a rispondere per le rime.
Male ha fatto a riapparire in pubblico facendo finta di niente, anzi, agitando la vecchia improponibile scusa del “mi hanno frainteso”.
Brugnaro, credevo che tu fossi un uomo: sei, come tanti politici: un quaraquaquà.

don Roberto Trevisiol

Io che ho vent’anni più di don Roberto, spero che si tratti della proverbiale buccia di banana ma sia ben chiaro che se continuasse su questa strada sarebbe “diabolico” e perciò lo combatterei con tutte le mie forze.

L’ultimo libro

Ho terminato da poco di leggere il volumetto “Frugalità” del prof. Paolo Legrenzi e spero, rifacendomi alle conclusioni di questo volume, di essere in grado di offrire almeno un piccolo contributo allo stile di vita dei miei amici.

Ho già confidato la mia fatica nell’arrivare alla fine di questo volume il cui autore è professore di psicologia presso l’università Ca’ Foscari. L’elevato livello intellettuale del testo mi fa pensare che probabilmente si tratta di un’opera diretta ad una platea di specialisti. Legrenzi non si è limitato ad utilizzare un linguaggio impegnativo per chi non conosce la materia ma cita anche il pensiero di una serie di autori a me assolutamente sconosciuti.

La tesi di fondo che emerge, e che non mi trova evidentemente d’accordo, è questa: “Molti di noi sanno che la nostra storia è qui, sulla nostra terra, che non ci sono altri mondi, né un futuro garantito da ideologie o religioni. Possiamo quindi dare solamente una nuova direzione alle nostre vite individuali e così facendo salvare il pianeta dalla spogliazione sistematica delle risorse formatesi in milioni di anni”.

Pur non essendo d’accordo sulla premessa, perché a parer mio la vita non ha né giustificazione né senso se non nella prospettiva dell’eternità, concordo sulla conclusione e cioè che non abbiamo il diritto di sprecare le risorse del Creato, a danno delle generazioni future, col nostro consumismo esasperato ed assurdo. L’autore continua poi sostenendo che dobbiamo prendere coscienza dei debiti che abbiamo contratto a causa dei danni provocati dai nostri sperperi, frutto di una vita innaturale a cui ci siamo abituati ritenendo lecito e perfino necessario quello che non lo è affatto. L’emerito professore suggerisce di riflettere su questo argomento per avviarci verso quella frugalità necessaria per educarci e per educare ad uno stile di vita più sobrio e meno artificioso. L’illustre psicologo ci suggerisce di imboccare la strada della frugalità invece di perseverare in modi di vivere impostici subdolamente dal consumismo che produce sprechi e riduce drasticamente la disponibilità di risorse per il futuro. Invita poi a sostituire i nuovi piaceri fittizi della vita contemporanea con i piaceri antichi in linea con la natura ma per cominciare questo processo, prima di decidere che non possiamo fare a meno di qualcosa, dobbiamo imparare a domandarci: “Ne abbiamo proprio bisogno? E se ne facessimo a meno?”. Queste simulazioni, a parere dell’autore, potrebbero avviarci nella giusta direzione. Questo discorso a me non risulta nuovo perché ci viene riproposto ogni anno dalla Quaresima. Mi auguro che le tesi espresse in questo volume, grazie al ruolo dell’autore, sortiscano effetti migliori di quelli che abbiamo ottenuto noi sacerdoti in tanti anni di prediche.

“Ricominciare”

Sapeste, amici miei, quante volte mi si è affacciata alla mente una domanda: “Servono a qualcosa le mie prediche?”.

Un prete parte svantaggiato se si confronta con altre persone convinte di avere un messaggio da trasmettere agli altri. Un medico, ad esempio, è assolutamente avvantaggiato perché il paziente pende letteralmente dalle sue labbra; un avvocato, se riesce ad argomentare bene, aumenta le probabilità di convincere il giudice; un commerciante un po’ meno perché il cliente è comunque convinto che sia interessato a magnificare quello che vuole vendere mentre la strada di un prete è tutta in salita, infatti già dire che “questa è una predica!” fa pensare che si tratti di qualcosa di scontato e di già noto. Ci vuole tanto e tanto coraggio e determinazione nel continuare ad andare controcorrente con proposte scomode e impegnative che difficilmente vengono ritenute utili e vantaggiose e al giorno d’oggi è ancora più difficile perché le proposte cristiane subiscono una concorrenza agguerrita.

Non si vive più in un mondo in cui contava solamente la parola del farmacista, del carabiniere e del prete e, se si escludono l’attenzione dei fedeli e la cortesia di alcuni che talvolta ti fanno un complimento, i riscontri positivi sono pochi, pochi veramente. Ogni domenica mi pare che la gente si ripresenti sempre uguale e che le parole scivolino via leggere sopra le teste dei fedeli.

Giorni fa, mentre mi tormentavo con queste domande, mi è tornata alla mente una predica di Monsignor Aldo Da Villa, un buon prete, che ho incontrato nella mia giovinezza. A quel tempo ero appena adolescente ed egli, che fu poi uno dei miei primi parroci, incentrò tutto il suo discorso sull’affermazione che bisogna sempre ripartire dall’inizio perché avere la possibilità di voltare pagina e ricominciare daccapo è un gran dono di Dio. Non sto a spiegarvi perché oggi la predica mi sia diventata un appiglio esistenziale quanto mai necessario però vi posso assicurare che per me è stato ed è un gran dono. Mi auguro che almeno a qualcuno dei miei ascoltatori capiti altrettanto.