Uomini di Dio ma non di Chiesa e viceversa

Invecchiando mi pare di intravedere nella vita della società la mano provvida di Dio che, con grande libertà e lucidità, si serve di persone tanto diverse per realizzare il suo progetto a favore dell’uomo.

Nelle scelte di Dio, mi pare che non sempre i ruoli più importanti Dio li affidi all’apparato ecclesiastico, e che pure il Signore non si attenga a quella distinzione tanto netta perseguita con tanta foga sia da parte degli uomini di chiesa che da parte di quelli dello stato, ma invece il Signore, con tanta disinvoltura, adoperi uomini della società civile, che si qualificano come ricercatori della verità per dare dei contributi seri e consistenti alla purificazione del mondo religioso ed altresì adoperi credenti non impegnati ufficialmente in politica per purificare la vita pubblica e soprattutto i suoi protagonisti.

Forse tutto questo si avvera a motivo di quella verità illuminante scoperta molti secoli fa da S. Agostino, che aveva fatto esperienza di “lontano” e poi di “vicino” alla chiesa, quando affermò che ci sono “uomini che la chiesa possiede e Dio non possiede e altri uomini che Dio possiede, ma che sono almeno apparentemente, estranei alla vita formalmente religiosa”. Mi sono tornate in mente queste idee poco tempo fa, quando il nostro sindaco Cacciari ai funerali di don Mario Sinigaglia, citando non Marx o Gramsci, ma due tra i mistici più noti e più sublimi: Santa Teresa d’Avila e S. Giovanni della Croce, affermò con le loro parole che dalla fede vera “nascono opere, opere, opere”, “la fede edifica, la fede costruisce”. E Beppe Caccia e Bettin, che si sono dichiarati discepoli di questo prete impegnato nella solidarietà, avendo compreso di dover superare i concetti di pubblico e di privato.

Forse, prima o poi, dovrò suggerire in Curia di depennare dall’annuario il nome di qualche prete e di inserire quello di qualche laico o di qualche non credente.

Da parte mia questa operazione l’ho già fatta da molto tempo!

Don Marcello prete della mia infanzia

Nella mia parrocchia dell’infanzia c’era un vecchio prete, don Marcello, che è rimasto cappellano per tutta la vita.

Quando io lo conobbi era già anziano; la gente gli voleva bene perché adempiva con regolarità a tutti i compiti che un tempo si ritenevano propri di un prete: dir messa, far catechismo, accompagnare i morti al camposanto, ma c’era l’opinione diffusa che non avesse grandi capacità per cui non lo proponevano a parroco. Viveva con due donne anziane che in paese erano soprannominate “le signorine della posta” perché gestivano da una eternità l’ufficio postale. Visse una vita tranquilla ed è sepolto nella parte vecchia del nostro cimitero.

Credo che solamente gli ultra ottantenni lo ricordino ancora.

Di questo vecchio prete ricordo due tipi di prediche che erano il suo cavallo di battaglia e su cui ritornava quasi ogni domenica: “ gli dei falsi e bugiardi” e “la pecorella smarrita”.

Ho pensato a don Marcello come anticipatore dei nuovi tempi, leggendo quest’ultima pagina del Vangelo durante la messa che ho celebrato in cimitero.

Chi ci pensa oggi alla pecorella smarrita, quando l’ovile è pieno di buchi per cui i fedeli se ne vanno comodamente, quando una che decide di entrare, come il vice direttore del Corriere, si è quasi imbarazzati nel riceverlo, quando i pastori passano l’intera giornata a coccolare le quattro pecore vecchiotte che non saprebbero scappare anche se lo volessero.

Caro don Marcello! Stai diventando, almeno per me, che ti credevo sorpassato, un punto di riferimento nell’impegno pastorale.

In ricordo di don Mario Sinigaglia

Soltanto da poco tempo sono venuto a sapere che don Mario Sinigaglia era seriamente ammalato. Avevo pensato, pochi giorni fa, di fargli sapere che gli ero vicino e per promettergli la preghiera.

Stavo cercando di sapere la gravità della malattia e dove si trovasse, perché le notizie che avevo ricevuto erano molto vaghe. Se non che, la signorina Rita, che una volta terminato il suo servizio di tuttofare nella parrocchia di Carpenedo, sta donando le sue residue energie a don Paolo, il giovane sacerdote, che è sovra occupato, con due parrocchiette, gli scout, la scuola e il gruppo vocazionale, che ora è più informata sulle vicende della chiesa veneziana, mi ha telefonato una sera che don Mario era morto.
Ne fui profondamente addolorato.

Non eravamo amici nel senso stretto della parola, ma ci stimavamo alquanto. C’era tra di noi un comune denominatore che passava attraverso la convinzione primo che la fede che non si incarna nella solidarietà si riduce a sogno, illusione e forse evasione dalla realtà della vita, secondo che oggi l’annuncio evangelico passa attraverso la carta stampata, la radio, la televisione e i mezzi di comunicazione di massa. Don Mario ed io abbiamo fatto percorsi ed esperienze diverse, lui operò sempre al centro della chiesa veneziana, io nei suoi suburbi, lui era un diplomatico che raggiungeva i suoi obiettivi attraverso i contatti diplomatici, io il barricadiero che ha sempre preferito la denuncia e la pressione popolare. Comunque qualche obiettivo lo abbiamo raggiunto ambedue, qualche altro progetto e rimasto all’orizzonte. Sempre siamo rimasti soli e senza seguito, però gli ideali e le tensioni sono rimaste integre e forti in ambedue.

Sono molto addolorato della morte di don Mario; ora mi sento più solo anche se non ci parlavamo quasi mai, ed ognuno tirava con fatica la sua carretta.

Spero tanto che chi gli è successo porti avanti il sogno di don Mario, del secondo hospice da farsi a villa Elena, perché i nostri concittadini possano morire in un luogo dignitoso, con accanto i propri cari.

Ora faranno, a don Mario, gli elogi di rito, io però preferirei che accettassero a cuore aperto la sua eredità ideale e la portassero avanti, perché don Mario ha custodito con fatica ed amore “i tesori” della chiesa di Venezia.

Una bella chiesa al Villaggio S. Marco

E’ morta qualche settimana fa la sorella della mia vecchia governante, una cara donna più che novantenne che si è spenta dolcemente, in umiltà e silenzio circondata dall’affetto dei suoi figli. Mi è parso doveroso esprime il cordoglio e la mia profonda riconoscenza verso chi mi è stato accanto per ben 35 anni, nonostante la mia intransigenza nel chiedere tutto e più di tutto a chi mi offrì la sua collaborazione. Sono andato quindi nella chiesa di S. Giuseppe in viale S. Marco, chiesa che fu per molti anni quella di don Gino, il più fedele e il più vicino, come indirizzo pastorale, dei parecchi cappellani con cui sono vissuto in canonica a Carpenedo.

Sono arrivato per tempo come è mio costume, così ho avuto modo di osservare questa chiesa nata col villaggio S. Marco, credo quasi mezzo secolo fa.
Ne fui veramente ammirato.

La chiesa non ha pretese architettoniche, ma si rifà alle basiliche romane, sobrie, essenziali nelle linee, ordinate e silenti strutturalmente. Su questo impianto si sovrappone l’animo e lo stile di don Cristiano, il suo giovane parroco. Tutto lucido profumato di pulizia, di ordine e di buon gusto.

Questa chiesa periferica, può darsi che non sia frequentatissima, ma sono certo che si presenterebbe così anche se fosse affollata cento volte al giorno.

Arrivò don Cristiano, magro ed abbronzato per essere stato in montagna con i suoi ragazzi, la vacanza dei preti credenti, camice lungo con un gran pizzo, la pianeta preconciliare, una omelia preparata e linda. Una giovane signora ha letto con proprietà i brani della Scrittura, ed un volontario, facente funzione di sagrestano, collaborò col canto e col servizio. Chiesa e cristiani, puliti e seri. Buttai poi lo sguardo sulla parete di fondo, e scorsi come a Torcello la grande tela di Joos, il pittore triestino, mio amico, che dipinse con vera passione “Il giudizio sull’amore”, forse la più grande tela, ma comunque la più artisticamente pregevole, esistente nelle chiese di Mestre.

Provai un pizzico di orgoglio e di commozione. Il Joos del sacro è nato attorno al Cenacolo artistico de “La cella”, la galleria del Campanile di Carpenedo.

Mi parve che la mia antica concezione, che l’ umanesimo cristiano, non si esaurisce nel culto o nel catechismo, ma investe tutto l’uomo e ciò deve trovare riscontro anche nella pastorale, abbia attecchito, seppur timidamente, nella nostra città.

Mestieri in via d’estinzione

Il pomeriggio di qualche domenica fa è venuto a trovarmi mio fratello Luigi, che ha portato avanti la bottega di falegname di mio padre. Il nonno Vittorio ha fatto il carraio, il babbo il carpentiere, mentre mio fratello è diventato un esperto di serramenti.

Luigi aveva una bella notizia da dirmi; in verità me l’aveva telefonata appena sfornata, ma evidentemente sentiva il desiderio e il legittimo orgoglio di dirmela a voce: ossia aveva ottenuto 110 e lode dalla Commissione Universitaria Europea che dà la certificazione ai modelli di serramenti.

Oggi per la legislazione in atto che si rifà al Parlamento d’Europa nessuna fabbrica e nessuna bottega artigiana può lavorare se non presenta suddetta certificazione, che consiste nel sottoporre il serramento a prove estreme di tenuta al vento, all’acqua ed altre inclemenze atmosferiche.

La certificazione è, da quanto ho capito, una specie di master per cui il falegname è riconosciuto come un professionista serio e capace e può esercitare il suo mestiere.

Questo è esigito per un semplice falegname, come auspicherei, a maggior ragione, che anche i preti fossero sottoposti ad esami così rigidi per esercitare il sacerdozio ben più importante di una finestra o di un balcone!

Il discorso non si è fermato alla certificazione per cui mio fratello può costruire la finestra “Aisha” e la portafinestra “Anne” i nomi delle nipotine per cui egli va pazzo, ma si è spinto più in là. Ma qui le cose si sono fatte tristi: oggi non ci sono più nè garzoni nè apprendisti, morti questi artigiani ormai anziani, dietro a loro c’è il nulla a cui la Comunità Europea non pensa! Dietro ai nostri muratori, falegnami, fabbri, idraulici, ci sono rumeni, turchi, algerini, marocchini.

Ormai siamo giunti alla mollezza, in un tempo in cui la globalizzazione esige un impegno ulteriore i nostri giovani scelgono di fare i signori, con la benedizione delle televisioni e dei sindacati!

La concretezza di San Giacomo

Ho ricevuto una telefonata da una persona che si è complimentata per il mio diario. A suo dire, la franchezza, l’umanità dei discorsi, la libertà di pensiero, l’amore per l’uomo ed il messaggio cristiano espressi in maniera disinvolta, senza complessi e senza fronzoli pietistici, sono aspetti graditi e che fan bene.

La cosa mi fa molto contento. Finora non ho ricevuto che consensi per il mio diario.

Tutto questo non mi illude affatto che non vi siano anche critiche e dissensi, ma questo fa parte della vita. Quello che però mi conforta è che a manifestarmi compiacimento siano normalmente cittadini, “liberi pensatori” ossia poco allineati e poco partecipi alle consorterie religiose della nostra chiesa e soprattutto persone poco praticanti, ossia cristiani che sostanzialmente si sentono tali, ma che non amano troppo il linguaggio e il comportamento delle cosiddette persone di chiesa.

Qualche settimana fa, celebrando la festa dell’apostolo Giacomo, dissi ai pochi fedeli che partecipavano all’Eucarestia, che stavo celebrando nella cappella dell’ospedale all’Angelo, che mi sentivo amico di questo apostolo perché condividevo la sua libertà, la sua franchezza di linguaggio, la sua concretezza e la sua profonda convinzione che la solidarietà umana sia l’espressione più autentica della fede ed è ancora ciò che la rende credibile alla gente di ogni tempo.

Giacomo è un apostolo, ed è il primo degli apostoli, che versa il suo sangue a segno della sua fedeltà al Signore, la chiesa lo venera e propone ai fedeli la sua testimonianza e il suo messaggio. Sono convinto che San Giacomo sia un tassello essenziale per dare il volto a Cristo!

Lascio volentieri ad altri seguire il misticismo di S. Giovanni, o la razionalità profonda di S. Paolo; io mi ritaglio questo spazio, questa componente del messaggio, senza la pretesa di presentare tutto il Cristo.
Lascio volentieri ad altri più convinti e più idonei di testimoniare altri aspetti della vita di Gesù.

Con un filo si può recuperare uno spago, con uno spago si può acquisire una fune…

Da un po’ di tempo, in attesa di una soluzione adeguata, sto celebrando messa nella cappella del nuovo ospedale.

Confesso che sono affascinato dal nuovo ospedale, è semplicemente splendido!

Sento molte critiche, ogni giorno “Il Gazzettino” riporta un problema sempre nuovo, comunque, per me, il nuovo ospedale dell’Angelo rimane splendido!

Pure la cappella è bella: raccolta, posta in un sito opportuno, in cui il raccoglimento si coniuga con il verde, il silenzio e la facile accessibilità per tutti. Ora però manca un prete che la faccia vivere, vibrare, che dia voce a Cristo! Per ora tento di farlo io, seppur vecchio ed impegnato sull’altro versante della vita, ossia in quello del cimitero. Qualche domenica fa ho celebrato e la chiesetta si è pian piano riempita e a detta della suora della cappella dell’ospedale, non si era mai vista tanta gente così. Ho celebrato volentieri, ho riflettuto a voce alta sulla parabola del grano e della parabola che come ogni brano del Vangelo, offriva motivi di riflessione attualissimi e validi.

A fine messa mi ha raggiunto in sagrestia una signora la quale, forse incoraggiata dalle mie aperture fiduciose sull’uomo, mi ha posto il problema del nipotino non battezzato. Le solite storie! Il genero che si dichiara ateo, la figlia, praticante fino alla vigilia del matrimonio segue pedissequa il marito, che fare per il nipotino? La mia risposta è stata pronta, senza perplessità: “è opportuno battezzarlo, checché ne dicano gli specialisti in chiacchiere religiose” .

Col papà non è difficile ottenere un consenso. Forse è lui il primo che desidera che lo si “costringa” a battezzare il figlio; l’ateismo nostrano è sempre epidermico! Secondo non bisogna mai tagliare i ponti; con un filo si può recuperare uno spago, con uno spago si può acquisire una fune. Terzo, il sacramento, ossia la grazia, ha una sua vitalità che agisce indipendentemente da ogni realtà.

Di certo bisognerà superare le resistenze del parroco, aggirando “i percorsi di guerra” della preparazione, ma soprattutto ci vorrà una parrocchia viva in cui il bimbo, l’adolescente e il giovane di domani, incontri un cristianesimo non lagnoso ma splendido.

Ho incontrato un Pope

Ormai sono rimasto uno degli ultimi preti che, secondo i giovani preti, hanno il malcostume di accontentare i fedeli che desiderano che si reciti una preghiera e che si invochi la benedizione del Signore prima che il legno copra per sempre dal loro sguardo il volto dei propri cari prima della sepoltura. Lo faccio un po’ perché l’ho sempre fatto, un po’ perché convinto che una preghiera in più non faccia male e soprattutto per non spezzare quel sottile legame di fiducia che unisce il sacerdote al popolo di Dio.

Qualche giorno fa mi sono recato nella sala mortuaria del Policlinico per adempiere a questo gesto di carità cristiana. Quando arrivai c’era un pope ortodosso che stava compiendo lo stesso servizio religioso nei riguardi di un connazionale morto a Mestre. Sono ormai molti i cittadini dei Paesi dell’Est europeo che abitano da noi e quindi non sono infrequenti gli eventi luttuosi anche per questi ospiti della nostra città.

I riti religiosi della liturgia orientale non sono veloci e sbrigativi come da noi, indulgono in lunghe preghiere, canti e gesti quali l’aspersione con l’acqua benedetta ed incensazioni varie.

Essendo io sopraggiunto quando quest’altro ministro del Signore adempiva al suo compito, me ne stetti in disparte partecipando intimamente al dramma dei pochi presenti che, al dolore per la perdita di un loro congiunto, dovevano dargli l’ultimo saluto in terra straniera, lontano dalla loro gente, quasi sopportati per preghiere e vesti religiose diverse.

Il pope si accorse che io stavo aspettando, pazientemente e rispettosamente, che lui finisse. Terminata la sua lunga preghiera si avvicinò a me e mi diede il rituale abbraccio di pace, ma con calore e sincerità. Ne fui molto felice, vergognandomi quasi che la mia naturale riservatezza non mi spinga mai a gesti del genere.

E’ certamente bello ed opportuno coltivare nel cuore sentimenti di fraternità universale, ma è ancora più bello esprimerli esteriormente con calore ed amicizia fraterna.

Un magnifico manuale di istruzioni

C’è un detto popolare che afferma che gli estremi si toccano. Forse sarà in forza di questo principio che alla mia bella età, talvolta mi trovo a fare le esperienze e le considerazioni che ho fatto da adolescente.

Quando era ragazzino don Nardino Mazzardis, che era il mio cappellano, mi passava dei libretti per la meditazione. In verità non ero capace di meditare a quel tempo e continuo ad aver difficoltà a percorrere i difficili e intricati sentieri della mistica, però i libretti che mi passava quel carissimo ed intelligente sacerdote, contenevano dei fatterelli per cui li leggevo volentieri e ricordavo il messaggio che essi offrivano. Mi ritrovo ottantenne, quasi incapace di sopportare certi discorsi complicati ed astrusi e se voglio cogliere dei messaggi per la vita debbo ricorrere a testi che contengono immagini vive e concrete.

Il testo che adopero parte da una frase della Bibbia, ma poi è interpretata ogni giorno da un cristiano diverso che la cala nella sua esperienza quotidiana. Talvolta in maniera incisiva ed efficace, talora un po’ meno, comunque, tutto sommato, trovo messaggi utili e fecondi.

Questa mattina, un cristiano d’America ha commentato così la funzione che ha la Bibbia nei riguardi della nostra vita: “Un giorno ho acquistato un mobile per la televisione. Tornato a casa, cominciai a mettere insieme i diversi componenti seguendo le indicazioni del manuale che avevo accanto. Quando ebbi finito, rimasero nella scatola delle viti in più e due altri pezzi, ma il mobile sembrava a posto. Tuttavia, quando vi posi sopra la televisione ed altri oggetti, si curvò da una parte perché non reggeva tutto quel peso. Ovviamente, non avevo montato tutti i pezzi correttamente, secondo le istruzioni del manuale. Per quanto riguarda la nostra vita spirituale, abbiamo una risorsa che ci guida, un manuale di istruzioni composto di sessantasei libri pieno di consigli saggi perché si possa vivere secondo la volontà di Dio. Questo manuale è la Bibbia. Se la leggiamo, la studiamo ed applichiamo la sua saggezza come guida per vivere una vita che ha Dio al centro, possiamo portare il peso che la vita ci reca. Non solo questo. Guidati dalla parola di Dio possiamo vivere vittoriosamente”.

Non si tratta di certo di un volo di alta mistica, però è efficace per convincerci che una lettura ed una conoscenza approfondita della Sacra Scrittura ci aiuterebbe ad acquisire sapienza.

La Bibbia è punto di riferimento per le nostre scelte e per acquisire una mentalità sana, però bisogna conoscerla bene per applicare gli insegnamenti.

Ritratto di una bella signora

I miei rapporti con la stampa sono veramente positivi, nell’ambiente della carta stampata conto tanti amici ed ogni volta che ho bisogno di un piacere essi si fanno in quattro per darmi una mano.

Di questo sono loro molto riconoscente e più volte, a voce e per iscritto ho manifestato la mia gratitudine. Però ho capito da un pezzo quello che posso chiedere a quello che sarebbe inutile chiedere perché non sono in grado di accontentarmi. I giornali, specie i quotidiani, hanno bisogno di notizie e quanto più sono fuori norma, dallo scontato, tanto più sono appetibili.

Il giornale ha bisogno di interessare il lettore e di farsi leggere incuriosen- dolo con notizie che stupiscono e che diano la sensazione di un qualcosa di interessante e sorprendente.

Soltanto nel romanzo lo scrittore può lasciarsi andare a descrizioni da acquerello, ricche di lirismo e di poesia, ma per queste cose ci vuole vero talento; per dire invece cose abbastanza scontate, ma dando al lettore la sensazione di scoprire nella normalità qualcosa di interessante ci vuole ancor più talento.

Io credo però di non avere questo talento, pur tuttavia tento di tracciare un breve profilo di una signora di mezza età che conosco da anni e che merita di essere conosciuta.

Ella continua a sgobbare ai magazzini dei poveri di santa ragione, chiacchierando continuamente, con frizzi, battute affettuose, rimbrotti apparenti, incitamenti e autocommiserazioni. E’ difficile inquadrare con parole banali questa creatura, che non ha nulla di particolare nè a livello estetico nè a quello razionale, da sottolineare con pennellate di colore che ne tracciano il volto, la sensibilità e il cuore, ma il lavoro generoso, la parlata pulita e cordiale di Giuliana ne fanno un numero caro ed interessante di donna tanto da sentire il desiderio di ringraziare il Signore di farcela incontrare tanto spesso là nello scantinato dei magazzini S. Martino nei quali ogni giorno dona il meglio di sè e rasserena l’animo di tutti.

Una crepa sulla diga

Gloria per i radicali e amarezza per il Vaticano per la sentenza che permette di non continuare ad alimentare la giovane donna che da 16 anni vive a livello vegetale per un grave incidente.

Ho ascoltato le parole pacate ma convinte del padre che da una decina di anni chiede di mettere fine alla vita irrecuperabile della figlia, ho ascoltato le affermazioni trionfalistiche di Pannella e company che da un lato combattono accanitamente la pena di morte nei riguardi dei peggiori delinquenti e da un altro lato rivendicano di strappare i teneri virgulti della vita nascente e di coloro che sono stanchi di vivere e di chi non può più decidere. Ho pure ascoltato le parole decise degli esperti della Chiesa che una volta ancora affermano convinti che qualsiasi autorità non può autorizzare la fine di una creatura umana, perché solo a Dio compete il nascere e il morire e l’uomo non può ne manomettere la vita e tanto meno spegnerla.

Infine ho guardato il volto bello di quella creatura, miracolo di bellezza e mistero insondabile, sulla cui sorte tanta gente disserta e vuol decidere.

Ho riflettuto penosamente, lungamente e liberamente non lasciandomi condizionare dalla tradizione, dalla cultura e perfino dai dogmi, avendo comprensione e soprattutto pietà per lei e per suo padre e sono giunto a questa conclusione: ad Atene, in Egitto, in Israele, nell’Impero Asburgico più vicino a noi ed infine Hitler ha deciso e spento la vita degli ebrei, degli zingari, degli ammalati psichiatrici, dei gay, degli avversari politici. E purtroppo Hitler non è l’unico esempio, perché Stalin fece altrettanto e come questi due tristi campioni molti altri despoti si comporteranno egualmente.

Una volta che si provoca una crepa sulla diga, non si sa dove si può andare a finire.

Intaccato il principio assoluto e la sacralità ed intangibilità della vita, non ci saranno più leggi, norme, tribunali che riescano a fermare la crepa provocata sul principio assoluto. Meglio tenerci il “non uccidere” che trovarci correi in uccisioni per i motivi più banali.

Già ora si sopprimono centinaia di migliaia di virgulti innocenti di bimbi solo per capriccio!

Una società fallimentare senza principi e senza valori

Ho ben chiaro il monito di Cristo “Non giudicate se non volete essere giudicati”. Detto questo credo di non contravvenire a questa giusta norma evangelica facendo delle riflessioni su certi comportamenti di costume che sono ormai diventati norma accettata dalla società che di contraddizioni ne ha ormai troppe. Mi riferisco a due episodi di cronaca nera avvenuti a poco tempo di distanza e che riguardano una giovane del sud ed una del nord.

Non ho letto molto al riguardo perché non amo quella cronaca nera in cui ci sguazza dentro la curiosità morbosa non solo del popolino ma che coinvolge un po’ tutta la società e alla quale tutti i giornali forniscono esca per molti giorni e con innumerevoli servizi quasi sempre ripetitivi e banali.

Il primo in ordine di tempo riguarda una sedicenne meridionale, rimasta incinta, da uno, ma non sapeva neppure lei quale, dei suoi amici che normalmente frequentava. Saputo della gravidanza, l’uccisero e buttarono il suo corpo in un pozzo. Scoperti, si sono comportati nemmeno coerentemente alla profanazione di una compagna e all’assassinio, ma da incoscienti stupidi ed irresponsabili. Ma quel che è peggio, è che l’intero paese trattò quella ragazza come una eroina con un battimano a fine funerale. La seconda, una ragazza del nostro Veneto, in vacanza in Spagna con una amica, che dopo una notte brava, è stata assassinata da non so chi. Già parenti ed amici si sono premurati ad affermare che era una brava ragazza, solare e sana.

Io ho pregato per loro e spero che il buon Dio trovi anche per loro un pertugio in un qualche angolo del paradiso. Però mi si lasci dire che queste non sono brave ragazze, che il loro comportamento e la loro educazione non ha nulla a che fare con un comportamento corretto e con una sana educazione. Queste due povere ragazze sono il risultato plateale di una morale sbagliata, di una educazione inconsistente e il risultato di una società fallimentare senza principi e senza valori, altro che eroine da applaudire!

Subire indifferenza, menefreghismo e disimpegno

Mi convinco sempre di più che la causa di molti guai del nostro Paese è l’egoismo.

Ognuno pensa ai fatti propri e gli altri che si arrangino, ognuno è ben desto e deciso di difendere i propri diritti, veri o presunti, non preoccupandosi di ledere in qualche modo quelli degli altri perché non sempre la legge può tagliare come una lama il confine del diritto dal dovere.

Ed un altro grosso guaio sta nel fatto che i funzionari che gestiscono la cosa pubblica talvolta non fanno il loro dovere, spesso sorvolano sulle soperchierie di qualcuno per non aver grane e più spesso ancora tirano a campare perché, che uno sia impegnato o meno, comunque arriva il 27 del mese.

Stando così le cose, senza intraprendenza, senza zelo nel proprio lavoro, senza attenzione per gli altri, soccombe sempre il più debole, quello meno propenso ad attaccar brighe, quello meno spregiudicato e meno incline alle denunce ed alle aule di tribunali.

A questo proposito sto facendo delle esperienze amare che talora mi lasciano tanto perplesso.

Quando uno conduce una sua vita privata, pur con qualche difficoltà, può talvolta subire per amor di Dio e del prossimo, certe ingiustizie, ma quando uno, come me e tanti altri, è responsabile di qualche centinaio di persone anziane, indifese, cariche di mille difficoltà, è giusto che subisca l’indifferenza, il menefreghismo e il disimpegno di certi funzionari che dovrebbero soprattutto avere a cuore la sorte dei più deboli, di quelli che non hanno più voce, che non sanno e non riescono più a difendersi da soli ed invece se ne stanno tranquilli nei loro uffici refrigerati a girar carte?

Spesso provo quasi angoscia nel dover prendere decisioni che possono sembrare frutto di un temperamento intemperante, mentre spero siano difesa doverosa del povero e dell’infelice!

Il senso del dovere

Gli anziani con cui vivo talvolta appaiono logori, suonati o rassegnati alla monotonia del quotidiano, quasi sempre poco propensi all’impegno e a nuove iniziative. In realtà non è proprio così, almeno per certi aspetti della vita sto rendendomi conto che sono più informati di quanto non sembri su tutte le provvidenze che la civica amministrazione e la Ulss pongono in atto a loro favore. A cominciare da metà giugno, e credo che la cosa procedaerà fino a settembre, li vedo spesso che arrancano dietro a valigioni trascinati da qualche figliolo o nipote diretti ai luoghi di villeggiatura.

Gli anziani conoscono veramente bene tutti la provvidenza messa in atto dal comune; non hanno certa bisogno di “Centri di ascolto o di sportelli di informazione per sapere le modalità e i calendari dei turni di villeggiatura al mare e ai monti. Taluni partono ritornano e ripartono senza darlo troppo a vedere, mentre mostrano d’essere sorpresi per qualche euro d’aumento. Con estrema facilità hanno scoperto molto in fretta di poter fruire dei generi alimentari offerti dal Banco alimentare e della medesima opportunità di beneficiare dello spaccio che mette a disposizione gratuitamente frutta e verdura.

Anche nel settore della terza età c’è una grande sensibilità e prontezza per quanto riguarda i diritti mentre spesso si fa orecchio da mercante per quanto riguarda ciò che si può e deve fare per gli altri.

Tempo fa un opinionista osservava in un periodico che dopo Mazzini non c’è stato alcun altro in Italia che abbia parlato dei doveri del cittadino! Mi convinco sempre di più che nel nostro Paese la necessità più grave non sono tanto le leggi, provvedimenti perequativi, le riforme sociali che facciano cambiare la mentalità, il costume della nostra gente. I politici, i sindacalisti e i mass media hanno arrecato dei danni che sono pressoché irreparabili, che solamente grandi riformatori possono riparare.

Lo scrupolo

Ora non faccio quasi più “il mestiere” del confessore, un po’ perché vivo in un modo di vecchi che son convinti, quasi con rammarico di non poter più peccare, ed un po’ perchè ormai la confessione fa parte del museo dei vecchi mestieri ora non più praticati.

Un tempo quando confessavo e molto, ogni tanto m’imbattevo in qualche penitente scrupoloso.

Era una pena, perché lo scrupoloso non trova mai pace, sempre convinto di non aver detto tutto, o di non aver detto bene.

Io credo di non aver mai sofferto di scrupoli, anzi talvolta mi pare d’essere di manica larga, forse troppo larga con me stesso.

Ultimamente però ho uno scrupolo che mi perseguita e che mi toglie pace, nonostante sia più che in regola con i canoni della chiesa, mi pare d’aver abbandonato troppo presto la vita attiva a livello pastorale, e anche se ho accettato il fatto della pensione, mi viene da temere che anche nella condizione in cui mi trovo potrei fare di più o di diverso di quello di cui sto occupandomi.

Mi ero offerto senza ricevere risposte ed “essere preso a giornata” dai miei confratelli. Contrariamente dissero di non aver bisogno, questi rifiuti mi avevano tranquillizzato sennonché l’aver sentito che l’unico frate sacerdote, quindi in grado di celebrare l’Eucarestia, amministrare il perdono e dare l’unzione degli infermi se n’è andato con il 30 giugno dall’ospedale mi ha riacceso il tormentone, tanto da costringermi di fare una seppur modesta e limitata avance. L’aver un’ ospedale di eccellenza sotto ogni punto di vista, ma carente di una adeguata assistenza religiosa è diventato per me un assillo. Sebbene che prima di me a dover preoccuparsi di queste cose c’è il cardinal Patriarca sua eminenza Angelo Scola, il patriarca emerito cardinal Marco Cè, il vescovo ausiliare sua ecc.za monsignor Beniamino Piziol, il delegato per la pastorale degli infermi monsignor Dino Pistolato, il delegato per l’evangelizzazione monsignor Orlando Barbaro, ma nonostante questo rimane pure “il servo dei servi di Dio” don Armando Trevisiol.

La responsabilità morale lambisce pure la mia coscienza tanto da farmi dire “posso fare ancora qualcosa anch’io!”