Due splendide madri

In queste ultime settimane un dramma gravissimo ha funestato la vita del nostro splendido litorale.

I giornali e la televisione, per alcuni giorni, sono ritornati sull’argomento illustrando in lungo e in largo un incidente che ha coinvolto due donne, due madri.

Una nonna aveva accompagnato in spiaggia il nipotino e mentre ritornava a casa è stata investita da un automobilista.

Questo è il nudo e tragico fatto, che purtroppo, data la notevole frequenza di fatti del genere, correva il pericolo di non fare quasi più notizia, perché non si contano ormai più gli incidenti, tanto che mentre l’uccisione di uno delle tante migliaia di soldati, che abbiamo in giro per il mondo, mette a soqquadro lo Stato, fa intervenire il Capo dello Stato e l’intero parlamento, “la guerra della strada” che fa ogni anno migliaia di morti e di feriti, pare quasi che non meriti più l’attenzione di alcuno.

Il modo in cui è avvenuto l’incidente di Jesolo, ha aggiunto in questo caso, un tocco di sacralità al dramma. La nonna, nell’ultimo istante prima dell’impatto, ha intuito quello che stava succedendo e con gesto eroico s’è sacrificata dando una spinta alla carrozzina e mettendo così in salvo il nipotino e perdendo lei la vita.

Il giorno dopo s’è presentata al comando del vigili un’altra donna dicendo ch’era stata lei a provocare l’incidente mortale del giorno prima. Ci volle però poco ai vigili per scoprire ch’ella voleva salvare il figlio, poco più che ventenne, il vero investitore della sfortunata nonna.

Due belle, splendide figure di madri, in posizioni diverse, ma ugualmente generose testimoni di un amore sublime.

Ho pensato lungamente a queste due madri, con ammirazione e commozione, volendo scoprire quasi nel mio cuore questi volti belli e sacri, perchè so di aver bisogno estremo di queste immagini per non avvilirmi di fronte all’imperversare nei giornali, di vicende squallide e deludenti che hanno come protagoniste e comprimarie femmine fatue, volubili ed indecenti che destano solamente sentimenti di squallore e tristezza per la leggerezza con cui profanano il dono della loro femminilità.

Un pizzico di anarchia

Uno degli slogan del Centro Destra è certamente quello di “Meno Stato!”

Non ho mai abbracciato totalmente questa verità, come non ho pure aderito a quella del Centro Sinistra.

Soprattutto nel passato, si auspicava uno Stato onnipresente, che col suo poderoso apparato burocratico, doveva presiedere ad ogni attività produttiva, ad ogni processo sociale e doveva regolare la vita del singolo e delle comunità.

Questo regime è fallito perché illiberale e soprattutto capace solamente di produrre passività e miseria.

L’alternativa però facilita l’emergere di caste di furbi ed ingordi che s’arricchiscono in maniera smoderata incuranti della miseria dei più deboli, e dei meno spregiudicati.

Il tragico è però che anche chi, come la Democrazia Cristiana, che si riproponeva di moderare queste due dottrine, scegliendo il “giusto mezzo” è fallita anche quella, motivo per cui la nostra società procede a saltoni, zoppicando, ora facendo un passo in una direzione, ora un altro passo nella direzione opposta.

Mi auguro e prego che la Provvidenza faccia nascere uno statista o meglio ancora un movimento politico capace di contemperare in maniera armoniosa questi due sistemi, favorendo contemporaneamente la libera iniziativa e l’intervento dello Stato, per proteggere e favorire i più deboli che altrimenti sarebbero lasciati alla loro sorte.

Qualche giorno fa a causa del non funzionamento del semaforo dell’incrocio di Via Vallon con via San Donà, ebbi la sensazione che senza semaforo il traffico fosse più scorrevole, senza attese e senza incidenti, mi ha fatto pensare che l’aver fiducia nell’intelligenza e nella libertà dei cittadini, non è proprio la cosa peggiore!

Uno Stato vigile, presente e una difesa dei più deboli è certamente un fatto positivo, purché non soffochi con carte, provvedimenti e circolari la libertà e l’intelligenza dei propri sudditi e non interferisca troppo sia nella vita economica che in quella personale, perché un pizzico di anarchia rende più scorrevole e piacevole il vivere.

Combattenti del Sol Levante

Mi reco due volte la settimana a rifornire, della buona stampa, gli espositori dell’Angelo.

Non ci sono più sacerdoti a servizio a tempo pieno “della cittadella della sofferenza”; che almeno il messaggio di speranza offerto da Cristo giunga attraverso i nostri periodici!

Ogni settimana portiamo cinque/seicento copie de “L’incontro”, un centinaio di copie del mensile “Il sole sul nuovo giorno”, ottocento/novecento copie di “Coraggio”, un centinaio di copie settimanali delle preghiere del cristiano e un centinaio di copie de “L’albero della vita”, per la lettura positiva del mistero della morte.

Con questi contributi non risolviamo certamente il problema della pastorale degli ammalati, ma almeno la nostra diventa una presenza, umile finché si vuole, ma gradita.

Infatti non solo i nostri periodici non rimangono sugli espositori, ma anzi li aumentiamo di settimana in settimana.

L’altra sera facendo il giro degli espositori del primo piano, forse la visione delle grandi palme dello splendido giardino pensile, per associazione di idee, mi fecero venire in mente il fatto di alcuni combattenti del Sol Levante, che non essendo stati avvertiti della fine della guerra perché in servizio all’interno della giungla, anche dopo vent’anni dalla fine si consideravano ancora in armi.

Guardando suor Teresa, che mi accompagnava, mi venne da chiedermi: “Ma non saremo anche noi come i soldati giapponesi, sopravissuti al mutare degli eventi?” Un tempo le suore di San Paolo, organizzavano tavole della buona stampa, le Figlie della Chiesa passavano di casa in casa, per l’apostolato del libro. Pare che tanti forse troppi, cattolici si siano ritirati, accontentandosi della routine, della prassi religiosa.

S’è celebrato l’anno di San Paolo, ma pere che all’infuori di qualche sermone di maniera abbia inciso ben poco la sua testimonianza del “combattente per la fede per antonomasia!”

Certo che fare i combattenti, quando è calata la fase secolare costa e costa molto, sarebbe molto più facile e perfino meno costoso andare in vacanza come ogni buon cristiano!

Il nuovo stadio di Mestre

Qualche tempo fa “Il Gazzettino” ha dedicato, per più giorni, colonne su colonne ad un nuovo dramma che ha colpito la nostra città.

Lo spazio, i titoli, l’insistenza mi hanno quasi costretto ad accertarmi sulla nuova calamità che s’è aggiunta all’acqua alta, al degrado urbanistico ed ai contraccolpi della crisi economica. Quando poi ho visto che anche il nostro sindaco filosofo s’è fatto coinvolgere dall’evento, ho sentito il dovere come cittadino d’informarmi su questa sventura che sta colpendo la nostra città.

Non ho letto tutto, perché il giornale vi ha dedicato pagine intere, ma ho potuto finalmente comprendere che “Il Venezia” dovrebbe partire, sempre se riesce a trovare qualche allocco disposto a buttare soldi dalla finestra, che gli darà fiducia e finanzierà la squadra che da qualche anno colleziona sconfitte una sull’altra.

Comunque il cronista sportivo assicura che il progetto del nuovo stadio di tessera si farà.

Questa rassicurante notizia, che apre il cuore al sole dell’avvenire, mi ha fatto venire in mente l’intervento al Laurentianum di uno dei fedeli tipografi de “L’incontro”, a quel tempo egli era pressoché ragazzino, perché si tratta di discorsi di più di quarant’anni fa. Anche allora si parlava del nuovo stadio. Tatino lo chiamavano tutti così, in realtà si chiama Massimo, prendendo il tono dell’imbonitore del mercato di paese cominciò col dire: “Forse uno stadio da cinquantamila è un po’ esagerato!” e poi pian piano cominciò a scendere come Abramo con i giusti di Sodoma e Gomorra, arrivando a concludere: “Anche se fosse uno stadio da mille persone, accettiamolo pur che si faccia!”.

Sono passati più di quarant’anni e a Venezia si continua a parlare di un mega stadio che dovrebbe servire a non so chi, dato che i verdi-arancione, non si sa neppure se riescono a trovare i quattro soldi per iscriversi al campionato dei “pulcini”.
“Povera Venezia, sì bella e perduta!”
Il guaio poi è che ciò non avviene solo per il calcio!”.

Spero in una rinascita dei patronati

A Milano li chiamano oratori, i luoghi dove i ragazzi e i giovani della parrocchia s’incontrano, giocano e vengono educati alla vita cristiana. Pure i ricreatori dei Salesiani si chiamavano oratori.

Quando ero ragazzino ho frequentato per due anni l’oratorio dei salesiani di San Donà di Piave. Era un luogo frequentatissimo e ne riporto un ricordo semplicemente meraviglioso.
Da noi questi luoghi invece sono chiamati patronati.

A Milano avevano, nel passato, una organizzazione poderosa, mentre da noi, anche nei tempi migliori, sono sempre stati ben poca cosa.

Ricordo che ai Gesuati, ove fui cappellano, il patronato era costituito da una vecchia bicocca, seppur restaurata di recente, e lo scoperto consisteva in un cortiletto di pochi metri quadrati, condiviso coi Cavanis, e circondato da ogni parte da una rete metallica perché il pallone non finisse nelle cucine o nelle camere da letto delle case circostanti.

Quando giunsi a Carpenedo nel 1971, c’erano vere folle di ragazzi, un po’ selvaggi e poco desiderosi della parola di Gesù, ma comunque erano tantissimi. Poi con i decenni la cosa andò scemando, riducendosi ultimamente, nonostante notevoli investimenti, al luogo della raccolta dei rompi tutto!

Tutto questo perché non ci sono quasi più giovani cappellani e quando ci sono pare che non reputino più giusto perdere il loro tempo stando insieme ai ragazzi perché impegnati altrimenti con il computer, convegni, incontri, università e quant’altro!

In questi giorni ho letto che i pochi futuri preti faranno un giro di tre settimane col Patriarca in Brasile per conoscere le realtà di quel Paese.

Spero tanto che vedano giovani preti animare la gioventù e i ragazzi, anche se mi rimane qualche dubbio, da un lato perché il Brasile è un po’ lontano e queste esperienze pastorali spero che si trovino, pur se rare, anche nel nostro Paese e dall’altro lato perché immaginavo che l’America latina fosse un Paese importatore piuttosto che esportatore di esperienze pastorali!

La nota positiva, che mi apre il cuore alla speranza, è la buona riuscita dei “grest” di alcune parrocchie della Terraferma, spero proprio che sia una prima nota della rinascita.

La vera ricchezza non sta nella forma ma nel valore e nella bontà del messaggio

L’inizio del mio servizio da prete è avvenuto nel lontano 1954 presso la parrocchia dei Gesuati a Venezia. Suddetta parrocchia è costituita da quella parte di territorio veneziano che va dal ponte dell’Accademia e termina con la Punta della dogana, limitato a destra dal Canal Grande e a sinistra dal canale della Giudecca.

Era parroco a quel tempo Monsignor Mezzaroba, sacerdote che mi aveva conosciuto da bambino ad Eraclea, quel parroco era un prete zelantissimo, con una fede semplice come quella di un bimbo è col desiderio di convertire e salvare anche il cristiano più renitente. Se aveva un limite era quello d’essere di una ingenuità disarmante tanto da riporre una cieca ed assoluta fiducia in ogni novità che a suo parere poteva realizzare il miracolo della conversione dei suoi parrocchiani piuttosto renitenti alla vita cristiana.

Ricordo che a quei tempi era uscito il “magnetofono” a filo, per registrare le voci.

Comperò immediatamente questo marchingegno essendo certo che con quello strumento io avrei incantato tutti i ragazzi della parrocchia che mi avrebbero seguito come il pifferaio magico.

Sono ritornato a questi lontani ricordi qualche settimana fa leggendo ai fedeli il brano del Vangelo che parla del mandato di Gesù agli apostoli: “Non portate bisaccia, né bastone, né denaro, e nemmeno due tuniche!” quasi a dire: “La vostra ricchezza non sta nelle tecniche raffinate dell’offerta, ma nel valore e nella bontà del messaggio: Il Regno di Dio è vicino!”

Ora un po’ meno, ma fino a qualche anno fa quando non s’è parlato d’altro che di strategie pastorali, di strumenti di apostolato, di organizzazioni ecclesiali, di gruppi con metodologie e dei carismi più diversi, di formazione teologica ecc.

Certamente anche questi strumenti quali: giornali, radio, televisione, gruppi, metodi, hanno una loro funzione però essa sarà sempre modesta, limitata e marginale!

Quello che vale però è il messaggio che dà risposte alle domande esistenziali, la coerenza dell’apostolo, la solidarietà che l’accompagna, la convinzione assoluta di offrire la “merce migliore” che supera di gran lunga quello che offre la “concorrenza”; tutto il resto è solamente carta da pacchi più o meno colorata!

Chiamarla musica? Chiamarla arte? Chiamarla moda?

Sono diventato anche un po’ sordo, motivo per cui sono costretto a tenere un po’ alto il volume della radio e della televisione. Al mattino mi alzo ufficialmente alle 5,30 perché desidero sentire le novità di questo nostro povero mondo, fornite dal giornale radio che si trasmette a quell’ora.

La veglia è però avanti di una decina di minuti tempo in cui si trasmette musica moderna.

Ogni tanto penso che se qualche anziano coinquilino mattiniero, facesse la passeggiata sulla stradina che passa sotto il mio davanzale, cosa potrebbe pensare di questo vecchio prete che di prima mattina ascolta una musica così stridula, fracassona ed opposta ad ogni seppur minimo cenno di armonia.

Se dicesse “Don Armando è diventato matto o si è rincitrullito” sarebbe il più benevolo commento che potrebbe fare!

Bisognerebbe inventare un nome nuovo per definire quell’obbrobrio di suoni; chiamarla musica è semplicemente un sacrilegio!
Questo è il nostro mondo!

Ma non basta! Qualche giorno fa ho avuto modo di leggere qualche critica illustrativa sia sulle sale espositive della Punta della dogana, che sulla biennale a Sant’Elena.

Io non ho tempo, né voglia di sentirmi umiliato nel mio senso estetico per vedere simili mostruosità fatte passare per opere d’arte.

In un mondo in cui c’è il trionfo dell’armonia e della bellezza dovrei avere lo sfizio di visitare simili obbrobri?

Bisognerebbe scoprire un altro termine per definire quell’insulto al buon gusto.

Chiamarla arte è un sacrilegio veramente imperdonabile!
Questo è il mondo attuale.

C’è però una terza scena, che durante l’estate è ancora maggiormente esasperata: la moda femminile ma anche quella maschile: brandelli, stracci che cercano in maniera quasi parossistica di imbruttire l’armonia del corpo dell’uomo e della donna. C’è una inventiva nell’imbruttimento che batte ogni record che una mente possa immaginare!

S’è arrivati al ridicolo, dalla perversione alla stonatura più stridente tra il vestire dell’uomo e quello del creato in cui egli pur vive!

La moda nel passato è sempre stata un po’ frivola, ma ora è semplicemente banale e decisamente brutta. Quella di oggi chiamarla moda, se non è anche questa parola un sacrilegio è almeno una maniera impropria per definirle la cornice per la più bella opera d’arte che il Signore ha creato: il corpo umano!

Purtroppo anche questo è il nostro mondo. Speriamo che ora toccato il fondo ci sia il rimbalzo!

“Respice stella et voca Maria”

Non so se agli altri capiti talvolta quello che capita a me, cioè trovarmi in una situazione così imbrogliata da non sapere come uscirvi. Avere un interlocutore in cui pare che non valgano assolutamente le regole della logica, sentirti travolto da una specie di valanga devastante ed inarrestabile, per cui avverti l’assoluta impotenza, una incapacità ed inutilità di reazione tanto d’essere quasi rassegnato a sentirti travolto dagli eventi.

Anche recentemente mi sono trovato in questo stato d’animo, triste, impotente, frustrato ed arrovellato. Avendo tentato tutto e non vedendo, non solo risultati positivi, ma costatando anzi l’aggravarsi della situazione, mi sono ricordato della preghiera un po’ aulica, ma appassionata di S. Bernardo: “Respice stella et voca Maria” (guarda in direzione della stella polare ed invoca l’aiuto di Maria).

Ho fatto così, dicendo alla Madonna consapevole che Cristo in croce me l’ha donata come madre: “Madonna cara, come vedi, non ci riesco, non ce la faccio, la situazione è più grande di me, metto tutto nel tuo cuore, pensaci tu!”

Mentre dicevo queste cose pensavo a Maria, alle nozze di Cana, quando tutto faceva pensare che la brutta figura di quei due giovani sposi fosse inevitabile. Mi sono un po’ rasserenato a questo pensiero, sapendo che la Madonna ha risolto durante i secoli dei guai ben più grossi dei miei pur ritenendo che per me “i miei” erano troppo grossi per me!

Subito però mi accorsi che nell’animo mi rimanevano alcune perplessità, pur ricordando l’opinione di Trilussa che la fede è tale, solamente se è senza ma, chissà e perché!

Finora non è successo nulla, anzi le cose si sono aggravate. Non posso però pensare che la Madonna abbia meno incidenza sul cuore di suo Figlio che ai tempi di Cana, che Gesù non si svegli prima che la mia barca affondi!

So di non meritare di essere aiutato, ma so anche che se la Madonna aiutasse solamente coloro che lo meritano avrebbe ben poco da fare.

Attendo: e scelgo di attendere con fiducia, anche se mi rode il tarlo che sarà una attesa vana. Mi pare che sia il solito S. Bernardo che afferma: “Che non si è mai ricorso alla Vergine senza trovare risposta!”

Dio non è un “re travicello”!

Una delle mie insistenti preoccupazioni a livello spirituale, sperando tanto che non diventi una mania, è quella di far sì che l’essere credente nel messaggio e nella persona del Cristo, non si riduca ad atto formale.

Io sono arciconvinto della necessità che il fedele partecipi all’Eucarestia domenicale, lo faccia seriamente, in maniera devota e partecipe, ma mi preoccupa alquanto che una volta assolto il dovere della frequenza, della correttezza e della partecipazione attiva, tutto si riduca a questo e non ci sia invece un confronto a tutto campo col Cristo che parla con te che dimostra interesse ai tuoi problemi, che ti dà consigli e semmai rimprovera.

La mia preoccupazione è che il fedele instauri un rapporto con Cristo, come una persona attuale, con cui si deve avere un dialogo esistenziale vivo, fecondo ed efficace, anche talvolta critico, burrascoso, o tenero ed affettuoso.

Qualche settimana fa ho avuto il bisogno di mettere a fuoco questo argomento in occasione del brano del Vangelo in cui si raccontava che i discepoli di Gesù, mandati in missione, tornano per riferire il risultato e le difficoltà incontrate durante il loro servizio. Gesù li ascolta e poi, vedendoli stressati, li invita ad un momento di quiete e di riposo.

Non so quanti fedeli alla domenica facciano questo e meno che meno conosco i dialoghi che dovrebbero essere sempre appassionati, che essi intrattengono con l’inviato da Dio.

Se tutto si riducesse alle botte e risposte, prefabbricate della liturgia, sarebbe un guaio, una delusione ed una perdita di tempo la stessa messa.

Mi ha fatto impressione, ma anche mi ha convinto, un padre del deserto che diceva al suo discepolo che la preghiera non era quella di un coro ben educato che salmodiava, ma le imprecazioni di un contadino che protestava con Dio per la tempesta che avevano subito i suoi campi.

Lui, il contadino da credente riteneva giusto protestare col titolare, mentre se il credente o meglio il pseudo credente non gli pare neppure valga la pena pigliarsela con chi può tutto, vuol dire che in realtà lo considera un “re travicello”!

La tentazione di Santa Teresina

I letterati in genere esasperano i problemi e i drammi umani, tingendoli con pennellate e colori forti, in modo da far emergere con più evidenza e più forza certe verità che spesso investono l’uomo.

Ricordo di aver letto moltissimi anni fa un dramma di Cesbron, il famoso letterato francese del secolo scorso, il secolo in cui praticamente sono vissuto ed in cui ho subito tutti i contraccolpi che la vita non risparmia a nessuno.

Cesbron, cattolico fino al midollo, descrive una tentazione che Santa Teresina avrebbe subito in punto di morte. Non so se il dramma di Cesbron abbia avuto un qualche riferimento alla vita reale di questa giovane santa carmelitana, o se egli abbia solo preso a pretesto per mettere in maggior rilievo la tentazione che può colpire o tormentare una persona che s’è spesa tutta e in maniera radicale per una scelta religiosa fuori dal comune.

Il drammaturgo immagina che il diavolo, sotto le sembianze di un medico dal pensiero lucido e sottile, le sussurri l’ipotesi che ella avesse fatto una scelta sbagliata ed avesse perciò investito la sua sete d’amore, di verità e di assoluto, su ideali religiosi inconsistenti, effimeri in cui altri per convenienza o per motivi e circostanze particolari si erano trovati a vivere in un modo illusorio ed inconsistente.

Ricordo come ora che le insinuazioni, di una razionalità perfida e sottile, portano la santa morente alla terribile sensazione d’aver sprecato tutte le sue potenzialità umane per qualcosa di fatuo, che altri non avevano perseguito se non solamente in maniera formale, mentre lei vi aveva investito tutto. Teresa stava per scoppiare per un’angoscia mortale ed una disperazione assoluta per il venir meno, almeno apparentemente, della scelta ch’ella aveva irrimediabilmente fatto.

Poi l’angelo la placa e la salva e le appare infatti il Padre che l’attende amoroso: ed ella muore serena.

A me ottantenne, al termine dei miei giorni, ormai al tramonto della vita s’affaccia talora qualcosa del genere soprattutto quando mi accorgo che confratelli o peggio personalità ecclesiastiche d’alto rango pare prendano molto alla leggera l’impegno religioso e ne colgano spesso solamente o quasi, i vantaggi sociali.

In questi momenti difficili mi aggrappo ai profeti e ai testimoni nei quali ho sempre avuto fiducia; per ora reggono e spero tanto che tengano fino alla fine!

Parlare al prossimo come se fosse l’ultima volta che lo si fa

La chiesa che ufficio da più di quarant’anni si qualifica soprattutto per la funzione del commiato.

Nella chiesetta tra i cipressi non si fanno battesimi, non si celebrano matrimoni, né prime comunioni né cresime. Al di fuori degli incontri festivi di questa comunità solo apparentemente raccogliticcia, io celebro spesso la funzione del commiato e sempre in questa occasione mi viene chiesto voce e cuore per dire al proprio caro che parte per il grande viaggio che lo porta alla casa del Padre, le parole belle che sono state dette poco o male e purtroppo talvolta non sono mai state pronunciate.

Lo faccio tanto volentieri, e mi sento talmente partecipe alla sofferenza e all’amarezza dei familiari, tanto che spesso mi commuovo anche in maniera sensibile.
Spesso la gente mi ringrazia per tutto questo.

Qualche giorno fa mi è giunta perfino una lettera di un’anziana signora che mi aveva chiesto di celebrare il funerale del marito, ma che non mi era stato possibile accontentarla perchè già impegnato per un altro commiato. Ebbene questa signora mi ringraziava perché nella triste occasione dell’ultimo saluto al marito, si è ricordata delle parole che spesso mi aveva sentito pronunciare in occasioni simili nella mia vecchia parrocchia.

Monsignor Da Villa in occasione della prima comunione dei bambini diceva loro: “Quando vi accosterete all’Eucarestia, fatelo come fosse la prima volta, l’unica volta e l’ultima volta!”

Chissà che non mi si ricordi per una frase analoga: “Quando parliamo con il nostro prossimo, facciamolo col tono, la convinzione e l’intensità che lo faremmo se fosse l’ultima volta che abbiamo la possibilità di parlare con quella persona!”

Quando le passioni impazziscono…

Sto navigando tra mille difficoltà. Il peggio è che queste difficoltà non nascono da eventi naturali incontrollabili, quali una tempesta od un terremoto, ma da passioni umane non controllate ed impazzite.

Se le risorse umane fossero sfruttate al meglio, in maniera ordinata, rispettose delle qualità, esigenze e competenze degli altri, senza prevaricazioni e senza competizioni esasperate, credo che potremmo vivere la tanto sognata “età dell’oro”.

Io sono per natura e per scelta un ammiratore entusiasta dell’uomo, delle sue qualità e delle sue risorse fisiche ed intellettuali, tanto da sgranare gli occhi e talvolta lodare Dio per l’enorme generosità con cui ha trattato l’uomo e l’ha fornito di doni pressoché infiniti.

La natura è deliziosamente bella, sia quando si manifesta nella sua idilliaca dolcezza, che quando manifesta tutta la sua forza e la sovrumana potenza, però l’uomo, la donna, il vecchio ed il bambino sono opere talmente sublimi che mi fanno sgranare gli occhi, e mi costringono quasi ad intonare il “Magnificat”.

Però l’uomo quando si lascia trascinare dalle passioni, che Platone immagina quali cavalli impazziti che non obbediscono più ai comandi del cocchiere, allora è una vera desolazione!

La bellezza e la perfezione umana allora pare che incontrino un pittore mostruoso quale Pablo Picasso, che scompagina, storpia ed imbruttisce la divina armonia con cui Iddio l’ha creato!

il mio infimo apporto

Non so come definire certi sentimenti che nascono spontanei, senza averli per nulla coltivati nella mia coscienza.

Spesso soprattutto quando sono stanco e deluso, mi viene spontaneo chiedermi: ha senso tutto questo mio tentativo di spendermi per il prossimo, quando pare che nulla cambi, anzi talvolta sembra che la situazione non soltanto non migliori, ma anzi sia tendenzialmente in fase di peggioramento?

Prediche, preghiere, incontri, progetti, scritti, rapporti umani, e perchè no, arrabbiature e scontri…; risultato? Mi pare, ormai al tramonto della mia vita, di trovarmi con un pugno di mosche in mano.

Vale la pena uno spreco di tante energie per essere coerenti a certi valori, per perseguire certi obiettivi che ritengo in linea con la fede che professo?

Questa mattina mi ha portato una certa consolazione, il pensiero di una cristiana d’America, la quale ha forse avuto anche lei le mie stesse tribolazioni interiori. Questa creatura ha scritto, in una sua riflessione, che l’ape operaia, durante tutta la sua vita riesce a produrre un dodicesimo del miele che è contenuto in un cucchiaino da caffè. Ben poca cosa in verità! Ma che comunque un alveare riesce a produrre ben 25 kg di miele all’anno.

Non ci sarebbe nulla da meravigliarsi se il mio impegno pastorale producesse il dodicesimo di risultato di un cucchiaino di caffè!

Madre Teresa di Calcutta riprende il discorso a modo suo: “Quanto sono riuscita a fare col mio impegno, rappresenta una goccia d’acqua del grande oceano, però anche l’immenso oceano è formato da tante piccole gocce”.

Ho capito e spero di ricordarmelo, che io debbo essere impegnato a dare il mio infimo apporto; sarà il Signore a metterlo insieme a tanti altri piccoli apporti. Solamente così si raggiunge un certo risultato!

Una scelta d’amore e un ringraziamento a Dio

Biagio Pascal, tra tutte le cose tanto intelligenti, ma soprattutto sagge, che ha scritto nei suoi “Pensieri”, c’è anche quello che l’uomo è tale perchè pensa e se non pensasse non lo si può neanche ritenere uomo!

Quindi una delle attività essenziali per l’uomo d’oggi e quella di pensare, riflettere, meditare.

Lasciarsi andare al riflettere anche sulle cose più strane e poco significanti, non è mai ozio o perdita di tempo, ma questa capacità e volontà di meditazione prima o poi produce effetti che ci arricchiscono in umanità.

Da ragazzo, credo come tutti i ragazzi di un tempo, ho letto Verne, Salgari e tanti volumi con i quali un tempo i missionari parlavano dei luoghi e di mondi lontani in cui svolgevano il loro ministero.

Fra le tante realtà che allora non riuscivamo a comprendere c’era anche, ma non solo, la cultura e la sensibilità degli indù, della loro prassi di vita e delle loro regole etiche.

Ad esempio m’era assolutamente inconcepibile il rispetto assoluto per la vita, anche nelle forme più elementari che gli abitanti dell’India praticano nei riguardi degli animali.

La mia conoscenza del mondo dell’India è solo libresca e certamente di livello popolare, per nulla critica, motivo per cui mi sembrava irrazionale che in una realtà povera ci fosse un rapporto speciale con il mondo degli animali, a parer mio poco razionale ed economicamente poco redditizio.

Tutto questo filosofare di un tempo è riemerso dal fondo della coscienza qualche giorno fa quando, mentre scrivevo su un foglio bianco, un piccolo insetto, minuscolo con passetti frettolosi, si mise ad attraversare il foglio, sebbene non mi provocasse alcun fastidio e sarebbe uscito presto dal foglio, d’istinto lo schiacciai premendo appena la punta di un dito.

Però subito cominciai a pensare: “Perché l’ho fatto? perché ho messo fine a questa vita? Chi sono io per decidere la vita e la morte? Che mi ha fatto questa piccola creaturina? Che ne so io della sua vita e della sua funzione nel microcosmo?”
Vi confesso che provai rimorso.

Cominciai poi ad allargare il campo di riflessione: “Per Dio io sono certamente meno di quell’insetto, eppure non solamente io non sono innocuo come lui, ma talvolta invece ribelle, cattivo, irriconoscente. Eppure Dio non solamente non mi ha mai schiacciato, ma anzi mi manda a dire mille volte al giorno che mi vuole bene!

Ho deciso non ucciderò e non farò mai del male a nessuna creatura vivente, né animale né vegetale e ringrazierò mille volte il Signore che per ottant’anni ha continuato ad avere pazienza nei miei riguardi nonostante tutto!

Padre Ugo Molinari e don Giuliano Bertoli, preti che non fecero compromessi

Il ricordo di don Giorgio prete che per obbedienza e convinzione, si impegnò, con risultati positivi contro ogni speranza, a proporre il sacerdozio in tempi in cui una crisi gravissima si abbatteva contro i preti e molti appendevano la tonaca al chiodo, ha fatto emergere in me, altre due figure di preti che voglio ricordare perchè lo meritano.

Padre Ugo Molinari, prete somasco, parroco di Altobello.

Padre Ugo, che penso fosse proveniente dalla Somasca oltre ad essere un discepolo di San Girolamo Emiliani, esercitò negli anni difficili, attorno al ’68, il ministero di parroco di Altobello.

Ora quella zona s’è risanata, a quel tempo era ancora in subbuglio in cui povertà e prostituzione si accompagnavano come sorelle siamesi. L’intero apparato della parrocchia cominciò prima a scricchiolare per poi franare completamente. Ricordo che a San Lorenzo, a quei tempi, avevamo più di mille iscritti alle varie associazioni, dopo un paio di anni tutto era raso al suolo. Don Ugo, a differenza di tantissimi preti, che si lasciavano andare alla moda del tempo, blindò la parrocchia, continuò imperterrito il suo ministero e la comunità resistette al tornado della contestazione.

Don Ugo fu un prete che con saggezza, forza e santità salvò dal disastro della contestazione la sua comunità. Gli altri preti lo definivano “matusa” (così venivano chiamati i preti che i progressisti ritenevano reazionari e conservatori), ma egli riuscì a tenere in piedi l’ossatura della sua comunità.

Il ricordo di don Giorgio è per me collegato a quello di don Giuliano Bertoli, il rettore del seminario, altra figura di “prete resistente”.

I seminari di tutta Italia con il ’68 sbandavano, chiudevano o si davano alle sperimentazioni più spericolate, ma a Venezia don Giuliano, con il suo sorrisetto a mezz’aria, con un atteggiamento sornione ma con spirito saggio resistette alla moda del tempo, tenne ben fermo il timone e non si lasciò incantare né dalle sirene, né temette l’impopolarità. Finché visse a Venezia ci fu il seminario. Poi fu un’altra cosa!

Desidero ricordare questi preti saggi e coraggiosi quando quasi tutti si illusero di stare a galla scendendo a compromessi pericolosi che poi li travolsero!