La dolce e fiduciosa cornice del primo mattino

Il primo pensiero, dopo il tormentato sonno notturno, mentre la sveglia non ha ancora smesso di suonare le cinque e trenta, è sempre lo stesso: “Signore aiutami”. Ogni giorno è per me un’avventura, ma anche nello stesso tempo una “battaglia”. Ora più che mai sono consapevole della mia fragilità.

Gli psicologi pare abbiano scoperto che la terza età è un tempo di portento e di meraviglia, io però rimango del parere dei nostri antichi romani, i quali avevano sentenziato “Senectus, ipsa morbus”, la vecchiaia è di per se stessa una malattia invalidante!

Segue alla preghiera del risveglio la pulizia personale e quindi la recita del breviario, per giungere alle 7, quando suor Teresa mi porta “Il Gazzettino” e mi scalda il caffelatte.

Recito il breviario nella stanzetta d’ingresso che mi fa da cucina e nello stesso tempo da salotto. Ora che è bella stagione tengo aperta la porta che si apre sulla piccola veranda, che ha il bordo del muretto tutto pieno di petunie multicolori ed una spalliera di gelsomino.

Talora, per preparare lo spirito alla lode del Signore, esco sulla veranda ad ammirare il cielo, a sentire la voce del silenzio, a vedere i merli in redingote nera e i gabbiani in bianco che passeggiano disinvolti e felici nel grande prato di levante. D’istinto mi vengono in mente le parole di Gesù: “Guardate gli uccelli dell’aria e i fiori del campo!” I primi vivono felici, pur non preoccupandosi troppo di che mangiare, i secondi vestono da re, senza andare in boutique!

Rientro quindi in casa per la preghiera del mattino, di mezzogiorno e della sera, al Signore dico tutto d’un fiato la mia riconoscenza, la mia fiducia e il mio abbandono in Lui. Mentre prego, il ciclamino profuma ed accompagna in cielo il tutto, anche quando leggo vecchie storie di guerra e di sangue, intrighi, soprusi e malefatte di tempi lontani; anche quando ripeto le parole di un piccolo popolo che si credeva al centro del mondo e che spesso tentava di ricattare anche il Signore.

Alle sette e venti esco per andare nella mia cattedrale tra i cipressi, ove la cornice è più seria, ma non meno dolce e fiduciosa.

Corsi e ricorsi

Ho notato, con felice sorpresa, che quando l’Annunziata, la giornalista di Rai3, intervista una persona di grosso spessore umano, prende un atteggiamento cortese e rispettoso. Mi pare che questa donna tenga conto del detto popolare “Scherza con i fanti e lascia stare i santi”.

L’ultimo dibattito a cui ho assistito, è stata l’intervista fatta a Bonanni, il segretario della CISL, sull’accordo per la fabbrica della Fiat a Pomigliano. L’Annunziata in questa occasione è stata, come sempre, arguta, stuzzicante, sorniona, puntuale ed intelligente, ma estremamente rispettosa; m’è sembrato che nutrisse un naturale rispetto per il sindacalista pacato, saggio, libero e corretto. In questa occasione, come in altre simili, m’è parsa perfino più donna e più bella!

Bonanni, pur evitando ogni polemica e tenendo aperta la porta alla CGIL, m’è parso un uomo saggio, deciso, libero e coraggioso, offrendo criteri realistici per una lettura della situazione del nostro Paese e quella del mondo e, da persona di buon senso e con i piedi per terra, ha difeso l’accordo raggiunto, pur temendo che esso non sia portato in porto a causa della faziosità del sindacato della sinistra.

Son passati tanti anni da quando la CISL ha dovuto rompere con la CGIL perché asservita al partito comunista e cinghia di trasmissione tra il mondo del lavoro e il partito, però pare che la Fiom, ancora una volta, voglia dare una mano al partito di Bersani che si muove con affanno e specializzandosi nel dire sempre di no, opponendosi disperatamente ad ogni collaborazione con il Governo.

Oggi, come allora, qualche “comunistello da sagrestia” tenta di puntellare la barca arrogante e presuntuosa, nonostante le dure batoste e il bisogno di sentirsi chiamare “compagno”! Tutto questo, mentre perfino Putin va in chiesa ed abbraccia il Patriarca di Mosca.

Una croce sempre più difficile da portare

Confesso che sento sempre di più il peso del comando. Io, pur avendo ben chiari gli obiettivi e pur perseguendoli con tenacia, con determinazione e sempre disposto a pagarne il prezzo, non ho il coraggio e forse la forza per tenere in riga i vari “colonnelli”.

Spesso, anche con le più buone intenzioni, avendo essi una visione parziale dell'”azienda”, finiscono per combinarmi dei guai e mettermi nei pasticci. Purtroppo lo spirito gerarchico nel mondo dei volontari, non dico che sia tenue, ma spesso è inesistente. Ognuno pensa al suo orticello, ognuno persegue l’interesse del suo comparto e, non avendo una visione globale del problema, crea disagio, contrapposizioni che molto di frequente nuocciono alla causa ultima.

Papa Giovanni XXIII era un uomo mite e aveva come obiettivo questa virtù; quante volte non citava la frase di Gesù “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore”. Però, contemporaneamente, lo stesso “Papa buono” citava la frase strategica della sua guida pastorale: “Miles pro duce et dux pro victoria”, iI soldato deve stare agli ordini del comandante e questi deve essere totalmente impegnato e deve impegnare i suoi subordinati e perseguire il successo, l’obiettivo fissato.

Recentemente Obama ha licenziato il comandante in capo del suo esercito in Afghanistan perché egli non condivideva la strategia della Casa Bianca. Ma Obama ne avrà avuti altri trenta generali che sognavano di diventare comandante in capo, mentre io non ho quasi nessuno disposto ad addossarsi una nuova croce; devo far quadrare il bilancio con la gente che ho! Il cardinale Urbani era solito dire in proposito che anche quando aveva una bella candela, non aveva il bossolo adatto. Io mi reputo già fortunato, nonostante tutto, d’avere un volontariato consistente, pur dovendo ammettere che provo la fatica di Sisifo nel farlo andare d’accordo, nel non permettere che non si travalichino confini delle proprie competenze, che non si ricatti minacciando di andarsene.

Come capisco quel Papa che avendo avuto la maggioranza dei voti dei cardinali elettori, alla richiesta se accettava la nomina, rispose : «Accetto di portare la croce». Finora ci sono riuscito anch’io, ma non so fin quando ci riuscirò.

“Non frequentava, ma credeva”

Mi par d’aver ripetuto che in occasione del sermone che tengo durante le messe di commiato, evito i panegirici o le orazioni funebri, tentando di passare invece qualche verità fondamentale, che mi pare che i fedeli non conoscano più perché le nuove generazioni hanno passato il tempo del catechismo facendo cartelloni, o tutt’al più qualche recita biblica. Però, pur perseguendo questo obiettivo, mi pare giusto, sotto ogni punto di vista, avere un’idea, seppur minima, del morto per cui celebro il commiato cristiano.

Nel tempo, mi sono creato una serie di domande sommarie e discrete da porre ai parenti, per non dir cose che proprio non ci stanno, in modo d’aver un’idea, seppur minima, del soggetto, per adoperare il tasto della speranza piuttosto che quello della misericordia del Signore. Tra queste veloci e sobrie domandine, mi pare non possa mancare quella se il defunto era una persona religiosa. Pare che la gente abbia raggiunto un accordo sociale a livello globale. La risposta pronta e convinta è quasi sempre questa: «Non frequentava, ma credeva». Talvolta: «Era un buon credente anche se non andava in chiesa come certuni». E s’aggiunge quasi la commiserazione e il malcelato disprezzo per i praticanti.

Di certo è un bel problema farci stare dentro agli otto minuti di predica l’idea che è ben difficile conservare o acquistare una fede viva, che innervi la vita, senza confrontarsi con i fratelli, senza ascoltare la parola del Maestro, senza alimentare la fede come si alimenta l’amore, con parole, gesti, tensioni interiori, confronti, senza una dimestichezza di rapporti con la persona amata. Io tento di fare del mio meglio, ma ci vorrebbero almeno trenta-quaranta morti all’anno della stessa famiglia per fare una catechesi cristiana abbastanza decente. Per fortuna, o per disgrazia, ciò capita circa ogni circa dieci anni, per cui temo che ci si dimentichi anche quel po’ che ho tentato di passare la prima volta. Mi consola però la certezza che a questo scopo il buon Dio non ha solamente a disposizione la predichetta del funerale!

Come sarebbe bella una società senza il peccato!

Credo che ognuno, quando legge un testo che racconta un episodio di vita, sia pronto con la fantasia a crearsi attorno ciò che ha letto una ambientazione che incornicia l’evento e lo immagini seguendo le suggestioni della sua sensibilità e della sua cultura.

Stamattina ho letto, durante la messa, l’episodio del paralitico calato dal tetto da quattro generosi volontari, che non riuscendo ad entrare nella casa in cui si trovavaa Gesù, a causa della calca di gente che ostruiva il passaggio, con decisione presero la coraggiosa iniziativa di calare il malcapitato dal tetto. Spesso, commentando l’episodio evangelico ho parlato del dovere della solidarietà, del senso della partecipazione, della pietà di Gesù e della dimostrazione della sua divinità, avendo Egli operato una guarigione naturalmente impossibile.

Quest’anno, nella mia fantasia, ho messo in moto l’immaginazione prima nel pensare al volto di quell’infelice alle parole: «Ti siano rimessi i tuoi peccati». Mi è stato facile pensare allo stupore, alla delusione, alla tristezza, allo scoramento e forse alla stizza di quel malcapitato a cui può darsi non interessasse la faccenda dei peccati, come d’altronde anche alla gente del nostro tempo non interessa più di tanto la “facezia” del peccato, che spesso è considerato come l’espressione di certi tabù del passato e, peggio ancora, considera una “manna” poter cogliere le cose piacevoli della vita.

Poi la ragione mi ha costretto ad approfondire l’argomento, concludendo, senza troppa fatica, che il peccato è causa di tutto il disordine interiore e della società, crea malessere nella coscienza della persona e tutti i malanni che la cattiveria e la trasgressione fatalmente mettono in moto nel vivere sociale, facendomi concludere che di certo era giusto quello che Cristo volle affermare, che cioè una società senza peccato sarebbe veramente la più bella e la più felice delle società.

Mi sono sforzato di trasmettere questo concetto mediante il sermoncino che ho tenuto ai devoti, ma poi ho pensato che potevo anche risparmiarmelo perché, per l’età e le condizioni, i miei fedeli non avrebbero avuto nemmeno la possibilità di tentare di cogliere “i fiori del male”.

La società civile riscopre la visita casa per casa che i preti hanno dimenticato!

Qualche giorno fa, prima ho letto sul “Gazzettino” e poi, il giorno dopo, ho ascoltato alla radio, una notizia piuttosto singolare. Il sindaco di Meolo, un paesotto ad una ventina di chilometri da Mestre, aveva scoperto che per conoscere meglio i suoi amministrati e stabilire con essi un rapporto più costruttivo, era una buona idea andarli a visitare nelle loro case, piuttosto che attenderli nel suo ufficio nella Casa Comunale.

La notizia ha sorpreso gli operatori dei mass-media per un verso, ossia perché è piuttosto insolita una soluzione così intelligente e democratica come questa del primo cittadino di Meolo. Io invece sono rimasto sorpreso per un altro verso, per il fatto che quella che era una vecchia prassi adottata da quasi tutti i parroci anziani, e poi abbandonata col pretesto che fosse vetusta e superata, ora quasi completamente abbandonata dalle nuove generazioni di ecclesiastici, sia stata riscoperta a livello civile tra il plauso, non solamente dei concittadini amministrati, ma dall’opinione pubblica più avanzata, come soluzione d’avanguardia che attua il principio “porta a porta” e del contatto personale, come ormai sta avvenendo per le competizioni elettorali anche nei grandi Paesi del mondo.

Povere parrocchie, ma soprattutto poveri preti: assumono la prassi retributiva dei Paesi socialisti, quando questi le hanno abbandonate perché favoriscono il disimpegno e la tentazione di non far nulla e abbandonano prassi consolidate e sicuramente efficaci benché impegnative e faticose.

Proprio in questi ultimi tempi il “Datore di lavoro dei sacerdoti” ha fatto, attraverso la pagina del Vangelo domenicale, alcune affermazioni piuttosto ostiche ma precise a proposito dei suoi aspiranti discepoli: «Gli uccelli hanno i loro nidi e le volpi le loro tane, ma il figlio dell’uomo non ha neppure una pietra su cui posare il capo» – «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» – «Chi pone mano all’aratro e poi si volta indietro è adatto per il Regno».

La figura del prete ieri e oggi

Quasi mai mi capita di invidiare il mestiere o la professione degli altri. Molto spesso invece sento di dover compatire chi per tutta la vita è stato costretto a compiere un lavoro ripetitivo, monotono o nel quale puoi mettere assai poco del tuo, o averne una gratificazione a livello umano. Forse gli unici che non compiango sono i medici, gli architetti o anche gli artigiani.

Mio padre, ad esempio, talvolta mi mostrava i serramenti di una casa facendomi osservare con legittimo orgoglio “quei serramenti li ho fatti io”; in genere si trattava di imposte che presentano delle difficoltà particolari per realizzarle. Ci sono però dei lavori manuali, ma anche di ordine intellettuale, talmente aridi per cui l’unica soddisfazione diventa lo stipendio che permette ad uno di vivere e di mantenere la propria famiglia.

Fare il prete, almeno come io intendo questa missione, è veramente una “professione” meravigliosa che impegna sentimento, pensiero, ricerca, rapporti umani, proposta per la vita, lettura del mistero dell’oggi e del domani. Fare il prete significa partecipare, condividere, accompagnare l’uomo nei passaggi più impegnativi della propria esistenza.

Quanta ebbrezza, anche se sofferta, è poter proporre utopie, nuove frontiere, ideali e valori umani durante un sermone! Quanta emozione interiore è prestare le parole e il cuore per accomiatarsi da una persona che lascia i propri cari! Quanto piacere nel poter indicare ad una coppia di giovani innamorati orizzonti nobili e splendidi per il loro domani! Quanta emotività interiore nel poter condividere i drammi della vita!

Quando ero giovane prete non di rado mi capitava di incontrare chi compativa la mia scelta di vita, perché la pensavano anormale e sacrificata. Ora non più. Per me che sono vecchio la cosa può essere comprensibile, ma mi pare che la gente non si curi più di tanto neanche dei giovani preti.

Io sono vissuto in un tempo in cui la letteratura e la società erano quasi sorprese, incantate o in rifiuto del mistero del prete. Ora pare che il problema del sacerdote non interessi più, non so se perché la società non si pone più problemi o perché il prete non pone più problemi alla società in cui vive.

La lezione della statua di Giano bifronte

I romani, nel loro pantheon, fra le tante altre divinità, avevano la statua di Giano bifronte. Un tempo pensavo che questo dio trovasse spazio nella fantasia primitiva di un mondo mitologico, mentre ora trova spazio soltanto nel mondo della fantasia e della favola.

Oggi però non butterei via del tutto la statua di Giano bifronte, che ci ricorda che la realtà ha sempre due facce. Al tempo di Guareschi, “il padre” di don Camillo e di Peppone, era abbastanza consueto leggere “visto da destra” e “visto da sinistra”, due versioni dei fatti diverse e molto spesso perfino contrapposte. Erano però i tempi in cui discutevano di politica non solamente deputati, senatori, segretari di partito – che fanno i politici a busta paga con redditi astronomici – ma anche la povera gente. Oggi, mi par di aver capito che è bene non dimenticare del tutto Giano bifronte e il “visto da destra e da sinistra”, perché molto spesso i mass-media di una tendenza o di un’altra sono così persuasivi che finiscono per condizionarti in maniera determinante.

Fino a qualche giorno fa ero convintissimo che avessero torto magistrati, giornalisti e sinistra nell’insistere sulle intercettazioni telefoniche esasperate.

A supporto di questa convinzione adducevo il discorso della privacy, del costo milionario e del fatto che Stati Uniti, Francia, Germania ed Inghilterra non raggiungevano il numero di “guardoni” delle intimità degli italiani, pur avendo una giustizia più funzionante della nostra; sennonché un amico che stimo e a cui voglio bene, mi ha fatto osservare l’altra faccia di Giano bifronte, dicendomi che in Italia c’è meno senso dello Stato, che gli italiani sono per tendenza atavica trasgressivi e che l’intreccio tra mafia, affari e politica è molto più forte che in altri Stati per cui c’è necessità di un’indagine più costante e più intensa. Di fronte all’onestà intellettuale dell’amico non potevo che prender atto della complessità del problema, motivo per cui, nonostante siano passati quasi duemila anni, non sarà male che mi ricordi che la realtà non ha solamente due facce, ma più ancora.

La collaborazione fra Comune e privato sociale è un bene prezioso

Per molti anni, soprattutto quando la sinistra era “pura”, cioè non annoverava nelle sue fila solamente qualche “comunistello di sagrestia”, avevo la netta sensazione che i cattolici fossero considerati come cittadini di serie B, perché pareva che la sinistra pensasse di possedere il monopolio della democrazia, della resistenza della cultura, del progresso, della libertà, dell’economia e di tutti i valori importanti della vita. Allora amministrazioni del nostro comune evidentemente si adeguavano a questi orientamenti nazionali, motivo per cui sembrava che il Comune dovesse gestire direttamente tutto e perciò non ci fosse più alcuno spazio per le parrocchie, per il privato sociale, per le organizzazioni di base. Dottrina che in pochi decenni si dimostrò onerosa, farraginosa e fallimentare.

In quel tempo io, che ho sempre voluto essere partecipe alla vita sociale, elaborai nel mio piccolo una dottrina che permettesse il confronto, o perlomeno la sopravvivenza di tutto l’apparato solidale che si rifaceva alla Chiesa, e per quanto sono stato capace, mi sono impegnato fino allo spasimo per creare una organizzazione parallela che si rifacesse ai valori portati avanti dalla Chiesa.

Il crollo del muro di Berlino non fu rovinoso solamente per quelle maledette ed insanguinate pietre di confine, ma per tutta la dottrina, la prosopopea e l’apparato pigliatutto della sinistra. Quando fui ben certo di questo, sempre nel mio piccolo, cominciai una mia politica di collaborazione critica, ma fondamentalmente sinergica con l’amministrazione pubblica.

Per il settore che mi riguarda, la collaborazione con Bettin e Cacciari mi pare sia stato quanto mai proficua. Tuttora perseguo questo indirizzo, nonostante la burocrazia comunale, che è perfino più tarda della politica, presenti ancora qualche difficoltà per un impegno paritario.

Vi sono dei problemi che è opportuno risolvere assieme, o perlomeno tentare delle soluzioni innovative di comune accordo. Talvolta però ho ancora la sensazione che la burocrazia comunale tenti di porsi in posizione di privilegio e di padronanza, piuttosto che di servizio e di incoraggiamento al privato sociale che è più snello, ha certamente più inventiva, è più economico, ma che ha pur bisogno della “mano secolare” per realizzare più velocemente e meglio il servizio a favore degli ultimi. Voglio però giocarmi sulla speranza!

Dove punta la bussola della religione oggi?

C’è un pensiero che mi tormenta come un tarlo e non mi dà pace. Mi spiace e nello stesso tempo sono felice che proprio ora, che sono nei tempi supplementari, mi accorga che i criteri con cui, ormai da molto tempo, si qualificano i discepoli di Gesù, non solo sono difettosi, ma forse falsi.

Ricordo che nei tempi ormai remoti in cui leggevo avidamente Emilio Salgari,  in uno dei suoi innumerevoli romanzi (forse “Capitano a quindici anni”) il timoniere scoprì che la rotta seguìta non era quella giusta, perché qualche marinaio galeotto aveva collocato vicino alla bussola di bordo una massa ferrosa che condizionava in maniera determinante la lancetta della bussola. La bussola segnava il nord, ma era un segnale falso, perché in realtà la rotta reale era quella del sud e quindi non avrebbe mai condotto il veliero in porto.

Il tarlo della mia analisi sulle qualità della religione oggi, mi fa sospettare che il criterio di orientamento sia profondamente falsato. La bussola della religione indica che la salvezza si ottiene tenendo la barra del timone a nord, ossia dicendo le formule della preghiera, andando a messa, dichiarandosi cristiani, mentre In realtà quella indicazione è assolutamente mendace, perché quello indicato non è il vero nord (ossia l’amore a Dio misericordioso, giusto, che ama i pacifici, gli uomini che lo cercano con cuore sincero, che sono solidali, veri, autentici, liberi e perseguono con ogni mezzo la redenzione), ma il sud, ossia una rotta che non si rifà né al bene di Dio, né a quello dell’uomo, ma soltanto una indicazione sfalsata per motivi di tradizione, di vantaggi di qualcuno, semplicemente di comodo.

Credo che i criteri di distinzione tra buoni e cattivi, tra credenti ed atei, tra vicini e lontani, tra praticanti e credenti, vadano verificati in maniera seria e sincera. Infatti sta scritto: “Non chi dice Signore, Signore, entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio” ed è certo che la volontà del Padre è certamente quella che prima di tutto siamo onesti, ci vogliamo bene e ci aiutiamo a vicenda.

Oggi ho paura di non aver capito per tempo chi siano quelli che “Dio ama”.

Anche in politica, “un fatto vale mille chiacchiere”!

Confesso che Berlusconi, il capo del nostro governo, non è il tipo di uomo che mi piaccia più di tanto. Il fatto che ostenti di essere amico quanto mai ascoltato dai capi degli stati più importanti, che ad ogni pié sospinto ci ricordi che i sondaggi affermano che lui gode di un grande consenso popolare, che si mostri sempre con quell’aria un po’ cafoncella, che frequenti amicizie femminili piuttosto dubbie, che abbia alle spalle una situazione familiare fallimentare, e che sia imbarazzato nella scelta delle ville ove abitare, non collima con l’aria austera, responsabile e coerente che io mi aspetto da qualunque capo di una nazione.

Debbo dire però che gli riconosco le capacità di manager. Non è da tutti crearsi una fortuna in pochi anni, come ha fatto lui ed inventare un partito che attualmente è il più grande tra quelli esistenti nel nostro Paese. Come c’è riuscito? Alcuni insinuano che la sua fortuna nasca dall’appoggio di Craxi, altri dicono che è un abile persuasore populista, comunque resta il fatto che lui ha realizzato realtà veramente colossali, mentre altri tentano di vendere aria fritta da decenni.

Scusatemi se, una volta ancora, cito mons. Vecchi, il quale diceva che un fatto vale mille chiacchiere. Io condivido questa teoria. In questi giorni in cui le critiche di Bersani, Franceschini, Rosi Bindi e Di Pietro diventano più insistenti e taglienti (tanto che il primo più volte ha gridato “vada a casa”), mi sono chiesto cosa direi se Berlusconi venisse da questo vecchio prete a chiedere consiglio. La risposta m’è venuta pronta, ripescandola tra le mie lontane reminiscenze storiche. Gli direi: «Senta, signor Silvio, prenda esempio da Cincinnato, che s’è trovato in una situazione simile alla sua, dica mediante la televisione, lei che ha la chiave degli uffici di Mediaset “Cari concittadini, torno a fare il mio vecchio mestiere di muratore! Ma se domani avrete ancora bisogno di me, sappiate che mi potrete sempre trovare in un cantiere edile!” Soltanto allora avrà diritto, anzi dovere di cacciare a calci nel sedere i vari Bersani, Franceschini, Di Pietro, D’Alema e via di seguito!»

Un atto indegno!

Più volte ho confessato che sono molto critico con la Chiesa perché l’amo molto. Vorrei che la Chiesa fosse una realtà splendida, ricca di umanità, coerente col Vangelo, e soprattutto capace di fare, sia da un punto di vista teorico, ma soprattutto a livello di testimonianza, le proposte più coerenti alle attese ed ai bisogni degli uomini del nostro tempo.

Questa posizione, esigente nei riguardi della comunità a cui appartengo, che amo e alla quale dedico tutte le risorse della mia vita, credo che mi dia il diritto di essere, anche a livello di cittadino, altrettanto esigente nei riguardi di chi si rifà ad altre culture ed ad altri princìpi. Non dovrebbe quindi sorprendere nessuno quando intervengo in maniera schietta e talvolta ruvida nel condannare posizioni che reputo decisamente in contrasto con i valori umani più condivisi o semplicemente con la civiltà a cui la stragrande maggioranza pare volersi rifare.

Questa premessa nasce dall’aver conosciuto dalla stampa di qualche giorno fa un fatto che mi costringe ad un commento severo. Si tratta di questo: in un ospedale del meridione si è proceduto ad un aborto previsto dalla legge (come se la legge potesse anteporsi alla natura). Ebbene il feto, ma sarebbe più giusto dire il bambino, estratto dal seno della madre, fu messo in un recipiente di ferro in attesa di essere buttato tra i rifiuti organici da smaltire. Contro ogni previsione l’esserino, rifiutato dalla madre e costretto a morire dai medici, contro ogni logica, sopravvisse per due giorni abbandonato alla sua sorte. Ora pare si voglia procedere penalmente contro i medici per le mancate cure a questa creatura, uccisa da sua madre, dai medici, dalla legge e dalla pseudomorale laica.

Mi pare proprio che non si possa assolutamente superare tanta ipocrisia e l’efferatezza con cui si è causata la morte di un essere innocente ed indifeso da parte dei legislatori, dei medici pseudo-sacerdoti della sanità, e soprattutto di una cultura laica che ha partorito una morale talmente disumana ed assurda!

Per questa gente la gogna alla quale la Serenssima condannava certi delinquenti, sarebbe ancora troppo poco!

Il nostro Patriarca dice cose giuste, ma è ascoltato e seguito?

In questi giorni il nostro Patriarca ha rilasciato al direttore de “Il Gazzettino”, dottor Pappetti, una lunga intervista, il cui testo ha riempito una pagina intera del giornale e ha suscitato una notevole serie di commenti tra i politici e gli amministrativi della cosa pubblica.

Normalmente il nostro Patriarca due-tre volte l’anno interviene in maniera autorevole con proposte sociali che riguardano la vita pubblica della nostra città e, in questa occasione, della nostra Regione.

Ho l’impressione che certi interventi, quali quello sul meticciato, sulla tendenza all’autocommiserazione, all’autoflagellazione dei veneziani, e su temi del genere, abbiano smosso le acque; la politica pare non sia rimasta indifferente, segno che il Patriarca di Venezia e soprattutto il nostro Patriarca, che in queste cose è un esperto, ha ancora un ruolo accettato da tutti.

Spesso però ho il timore che il sasso lanciato in laguna abbia un certo impatto e formi i soliti centri concentrici più o meno rilevanti, ma che poi l’acqua della laguna ridiventi ben presto quieta e pigra come sempre. Gli interventi del Patriarca sono sempre autorevoli e pertinenti, ciò si deduce dall’eco della stampa; essi sempre colpiscono nel segno, e certamente hanno una funzione, però ho la sensazione che esprimano lo sprint di un campione, ma che dietro a lui non ci sia una squadra e che egli faccia solitario le sue fughe in avanti. In tutto questo non posso che ammirare lo sforzo del Pastore, ma contemporaneamente debbo anche dolermi che le parrocchie, le associazioni e “l’intelligentia” del popolo di Dio se ne rimanga sonnacchiosa e poco partecipe al destino della propria città e della propria gente.

Il discorso del nostro Maestro sulla missione che i singoli e le comunità cristiane diventino lievito, luce e sale mi pare che non sia troppo attuato e che il consumismo e il relativismo rendano ancora poco partecipe il gregge, che segue pigramente le indicazioni del Pastore, trascinando le ciabatte e lasciando che le tematiche più attuali, più urgenti e più importanti le gestiscano altri.

Pare che questa Chiesa stanca e rannicchiata in se stessa lasci ad altri portar avanti il discorso sulle sorti della Regione e del federalismo, che è lo strumento per evidenziare la nostra individualità e le nostre potenzialità, paga che il Patriarca intervenga, senza però lasciarsi coinvolgere più di tanto.

Non so proprio chi e come possa suonare la carica e spingere all’impegno, ma so che occorrerebbe far tutto questo.

Un culto forse troppo legato alla rievocazione

Il 13 giugno, festa di sant’Antonio da Padova, ho visto su “Telechiara” un lungo servizio sul “santo”. La parte che ho guardato con più attenzione è stata la rievocazione storica del trasporto del corpo del santo dall’Arcella alla basilica ora a lui dedicata. Non si è trattato di una semplice processione con preghiere e canti, come quelle abbastanza frequenti che avevano luogo nel mio piccolo paese di campagna, quando in due lunghe file – uomini davanti e donne dietro il baldacchino – si procedeva per le vie del paese recitando il rosario, si trattasse della Madonna come del Sacro Cuore, intervallando le avemarie con i soliti canti di chiesa. A Padova il rito si avvicinava piuttosto ad una ricostruzione storica, con tanto di figuranti, carro a ruote piene trainato da buoi, con tanto di banda, di confraternite di vario tipo in divisa, di labari e di gruppi di ogni genere, che per le grandi occasioni indossano grandi mantelli multicolori. E poi paggi e soldati con uniformi medioevali.

Io non sono un grande esperto del settore, ma questa, piuttosto che una processione caratterizzata dal silenzio, dalla preghiera e dalla testimonianza umile ma intensa di fede, m’è sembrata uno spettacolo, pur interessante, organizzato da un regista non di grandissima levatura.

Purtroppo, prima una pioggerella fastidiosa e quindi un temporalone, hanno determinato un fuggi fuggi generale di preti, suore e figuranti verso la basilica, mentre gli spettatori si son ritirati sotto i portici, dei quali Padova abbonda.

Sono profondamente convinto che la basilica del “santo” rappresenti un vero centro di spiritualità che fa certamente del bene, però che assorbe un gran numero di frati che concorrono con riti, prediche e quant’altro a mantenere efficiente l’apparato che richiama ogni anno centinaia di migliaia di pellegrini. Forse essi sarebbero più produttivi per il regno se si inserissero nelle parrocchie ora sguarnite di sacerdoti.

Poi, senza togliere nulla all’importanza religiosa dell’attività del santuario, ho il grave timore che la religione si riduca pian piano alla rievocazione di esperienze di fede del passato, piuttosto che alla promozione di testimoni che con la vita seminino la semente evangelica tra la gente del nostro tempo. Spero però tanto che tutto questo sia una mia esagerata preoccupazione.

Bisogna amare anche chi cerca l’amore su strade sbagliate!

Mi pare di avere finalmente appreso dal Vangelo che l’amore equivale a salvezza. Chi ama si salva, chi non ama si perde. Credo poi che il Vangelo non pretenda un amore filtrato da ogni scoria come i cuochi richiedono l’olio vergine di oliva, ma accetti pure l’amore grezzo, quello ancora spurio.

Mi riconferma in questa convinzione la pagina del Vangelo che la Chiesa ha offerto all’attenzione dei fedeli qualche settimana fa. San Luca, l’evangelista più colto dei quattro, ha descritto con sobrietà, ma anche con estrema efficacia, l’incontro di Gesù con la “peccatrice”, quella che nel passato, ma anche oggi, viene sbrigativamente definita una volgare donna di strada: il Maestro è talmente preoccupato di recuperare la potenzialità d’amore di questa donna, da affermare che è stata perdonata perché ha molto amato.

I santi, e particolarmente quelli che hanno fatto questo percorso di redenzione, hanno intuito tutto questo, tanto che Agostino, che certamente fu uno di questa categoria, fa un’affermazione in maniera perentoria e liberatrice, che recupera la validità di una delle sconfinate ricchezze dell’uomo qual è l’amore: egli afferma “Ama e poi fa tutto quello che vuoi!”

Tentavo di trovare le parole che potessero esprimere ai fedeli che mi ascoltavano la purificazione operata dall’amore in quella bella ed infelice creatura, che dimostrava a Gesù tutto il suo bisogno di redenzione, toccando tutte le corde della sua umanità (l’accostarsi ai piedi di Cristo, il pianto incontenibile e poi la tenerezza del voler asciugare le lacrime con le sue lunghe chiome). Mi venne in mente una confidenza di padre Ugo Molinari. Bergamasco DOC, padre Ugo fu un parroco forte, severo, deciso nel tenere la barra della sua comunità di Altobello. Parlando delle tante prostitute che battevano la sua zona, diceva di esse che erano delle care ragazze che purtroppo cercavano l’amore su strade sbagliate, ma che comunque cercavano l’amore, che è la ricchezza più grande che Dio ci ha donato.

Ho viva speranza che i miei fedeli abbiano scoperto che essere cristiani non vuol dire tagliare alla radice queste piante stupende che sono solo bisognose di essere coltivate con tanta tenerezza.