Don Mazzi, per me un punto di riferimento e di confronto

Io non prendo “Famiglia Cristiana”, un po’ per motivo dei costi, perché prendo già molti giornali, un po’ perché mi sembra un bazar di paese di montagna in cui si trova un po’ di tutto, ma niente di valido. Non posso poi non aggiungere che non condivido la sua svolta politica marcatamente favorevole alla sinistra.

Infine ho l’impressione che la rivista non abbia dei contenuti con inserti pubblicitari, ma sia una rivista di pubblicità con qualche notizia sempre frettolosa sugli argomenti più svariati, ma senza approfondimento alcuno. Forse “Famiglia Cristiana”, ispirandosi a “Grand Hotel” o a periodici similari, sta puntando al vasto mondo delle casalinghe o delle brave donne di Chiesa!

Ogni settimana però do una sbirciata abbastanza veloce al numero della settimana prima, che suor Michela, assidua lettrice del periodico, mi passa puntualmente. Sono convinto che i settimanali si possano leggere anche con notevole ritardo, perché non hanno un legame troppo stretto con la “notizia”. Al liceo avevo un professore di storia, mons. Angelo Altan, uomo arguto ed intelligente, che comperava il quotidiano e lo leggeva due settimane dopo, perché le notizie si decantassero o purgassero come le lumache.

Detto tutto questo, per dovere di onestà, confesso che non ometto quasi mai di leggermi la rubrica tenuta da un mio confratello, che è pure mio coetaneo. Anche don Mazzi tiene su “Famiglia Cristiana” una specie di “diario”, dal tono molto personale, con giudizi mai edulcorati e “prudenti”, ma sempre liberi, taglienti e talvolta perfino angolosi. Ho l’impressione che questo prete, ormai anziano, ma sempre in prima linea, si giochi sempre tutto, non abbia mai la paura di sporcarsi le mani o di compromettersi su argomenti che appartengono al nostro povero mondo, non sia preoccupato della carriera o di come possano reagire la destra o la sinistra, i credenti o i laici.

Non credo di poter annoverare don Mazzi tra i profeti del nostro tempo, comunque lo ritengo “un bel prete” che fa onore alla nostra Chiesa e alla mia categoria, spendendo bene la sua vecchiaia. Mi piacerebbe saperlo imitare, comunque lo ritengo sempre un punto di riferimento e di confronto.

Dubbi e timori sull’Angelo

Più di un amico o di un lettore de “L’incontro” mi ha fatto osservare che non capiva o non condivideva la mia ammirazione, per nulla nascosta, per l’Ospedale all’Angelo di Mestre. E’ vero che da un lato ero e sono ancora orgoglioso che finalmente a Mestre, città condannata ad essere un sobborgo e dormitorio – ora del turismo lagunare e, prima, dell’attività industriale di Marghera – si fosse finalmente fatto qualcosa di bello e da un altro lato mi rasserenava che la mia gente ed io potessimo contare su un ospedale di eccellenza come gli “addetti al lavoro” non perdono occasione di farci sapere.

Io frequento spesso l’ospedale, sia per motivi di ordine pastorale, perché due volte la settimana porto “la buona stampa”, sia per motivi di salute perché più di una volta sono stato ricoverato in questo ospedale per i guai che da qualche anno mi affliggono.

Da un punto di vista estetico la mia ammirazione non ha subìto crepa alcuna. La “piramide maya” dell’Angelo, l’oasi verde, ora più che mai rigogliosa ed accogliente, gli spazi di ampio respiro, l’entrata larga e funzionale che ti offre l’alternativa, ai soliti gradini, della scala mobile o del comodo ascensore, la collinetta verde trapunta di cipressi, il laghetto artificiale e il prato verde sempre ben rasato che sembra un soffice tappeto su cui posa delicatamente la struttura, mi pare facciano concorrenza ad un quadro del Pinturicchio. Tutto ciò continua ad incantarmi.

Dall’altro lato la stampa cittadina, che ogni giorno ti mette sott’occhio le scoperte, i primati, i risultati scientifici dei primari che vi lavorano, le eccellenze che si manifestano nelle varie divisioni, mi hanno sempre tenuto lontano e in posizione di rifiuto di certe voci malevole per l’angustia degli ambulatori, per il costo del posteggio, per la poca praticità delle “finestre”, per le critiche dei sindacati o per l’affollamento esagerato del pronto soccorso.

Ora però cominciano a far breccia certi dubbi per voci che non ci possono non preoccupare, quali la fuga dei primari o dei dottori più promettenti, la carenza della strumentazione, il mancato aggiornamento delle macchine. Queste voci, che spero siano solo critiche malevole, non mi possono lasciar tranquillo e cominciano col preoccupare anche me. Sono critiche che io non posso però verificare, ma il fatto che l’ospedale mi appaia come “il deserto dei tartari”, che i negozi non abbiano mai dentro un’anima viva, quando a Padova o il Ca’ Foncello di Treviso sembrano dei mercati brulicanti di gente, che senta a destra e a sinistra concittadini che vanno a farsi curare altrove, mi danno pensiero; mi spiacerebbe proprio scoprire che l’Angelo è una patacca e non un gioiello.

Le “piume” del mio diario

Almeno mi illudo di aver qualcosa da dire, ma vorrei dirlo, questo pizzico di verità che vado conquistando tanto faticosamente, solamente alle persone giuste. Non rifletto, non metto sulla carta le mie povere riflessioni, spendendo denaro o fatica, perché esse giungano alle persone che non sono interessate ai relativi problemi.

Purtroppo le cose vanno poche volte così, le mie “scoperte” spesso giungono alle persone meno interessate o nei momenti meno opportuni. Mi capita assai di sovente che anime candide e delicate leggano certi miei morsi rabbiosi che avrei destinato a furbastri, a burocrati indolenti, a “cristiani” che dovrebbero appartenere alla sinagoga piuttosto che alla Chiesa, mentre talaltra giungono invece a qualche concittadino smaliziato i motivi di qualche nota lirica, colta con compatimento da gente che non apprezza per nulla il sentimento o la poesia.

Spesso ho l’impressione che un monito fatto ad un “nemico” sia interpretato come critica amara fatta ad un “amico” e viceversa. Quando mi capita di riscontrare che le note del mio diario vanno a finire a destinatari sbagliati, mi viene in mente la storiella del penitente di san Filippo Neri, il quale confessava a questo prete santo, ma sornione, d’aver fatto della maldicenza, e questi gli rispondeva che per penitenza spellasse un pollo nelle strade di Roma in cui soffiava il ponentino e poi andasse a raccogliere tutte le piume che il vento aveva portato in ogni dove. Questa immagine mi preoccupa e talora mi spaventa, finora ho pregato il mio angelo custode che accompagni i miei pensieri alle persone giuste e nei momenti propizi. Mi sono sempre fidato del mio accompagnatore celeste, al quale il buon Dio mi ha affidato; non so però se soltanto questo basti e se il mio angelo custode abbia fatto il suo dovere. Se non fosse così, sarei alquanto triste e amareggiato perché “predico” solamente nella speranza di far del bene. Vorrei che almeno questo sapessero coloro a cui giungono , forse per sbaglio, le “piume” di questo diario!

La festa del Redentore ha ancora senso?

Anche quest’anno Venezia e il popolo veneto hanno celebrato il 18 luglio la festa del “Redentore”. Questa volta però, come non avevo fatto seriamente nel passato, ho voluto accertarmi degli ingredienti, degli effetti di questo evento religioso. Non mi basta assolutamente più l’etichetta cristiana; ho bisogno e sento il dovere di verificare i contenuti, i dosaggi delle diverse componenti. Sono sempre più preoccupato della valenza religiosa di certi eventi, perché mi viene sempre più il terribile sospetto che contengano ingredienti “placebo” o di folklore e non abbiano più nulla in comune con la redenzione e la salvezza offerta da Cristo.

La festa del “Redentore” è nata dal fatto che i nostri padri si sentirono veramente impotenti contro la peste e ricorsero al Signore per essere salvati. Ora la “peste” è più grave e più diffusa che nel passato e i rimedi della farmacopea sociale odierna sono assolutamente nulli!

Traduco. La peste di oggi è denominata droga, disordine sociale, cattiva politica, operatori economici bari confessi, mafia diffusa, disfacimento della famiglia, assoluta mancanza di valori, ecc… Rimedi? Una volta scartati quelli offerti dai “medici” ufficiali (sociologi, psicologi, politici), perché assolutamente inefficaci – anzi spesso nocivi – la nostra gente si rivolge al Redentore. Però, in che modo, con quale fede, con che spirito? Qui la risposta mi mette in crisi. Il ponte di barche, i “foghi”, una mangiata in barca, baldoria con gli amici, attesa di Febo al Lido, processione delle congregazioni del clero, alla quale molti preti sono costretti a partecipare per avere il dividendo, sindaco con la fascia tricolore, lezione magistrale del Patriarca!

Mi domando sempre più spesso e con più preoccupazione “che ha a che fare tutto questo col Vangelo, col messaggio di Gesù?” Quasi niente!, anzi diventa pericoloso perché questo “memoriale” svuota dei contenuti proprio l’evento religioso e può indurre gli ingenui a pensare che questa “devozione” si possa chiamare ancora “fede”.

Non sarebbe il caso di “chiudere baracca” e lasciare pure che il Comune organizzi con figuranti, per motivi turistici, la ricostruzione storica, ma cessi finalmente questo inquinamento della religione con il folklore lagunare, e introduca ulteriori elementi pagani ad una celebrazione cristiana? Sono contento di non esser io a fare questa scelta, ma prego per chi “gli tocca” che il Signore gli doni la grazia di stato!

Non tutti vanno in vacanza

Tutta la stampa sottolinea i riflessi che la crisi finanziaria provoca anche sul comparto delle vacanze.

Premetto che il fatto che molti concittadini quest’anno abbiano accorciato i giorni di vacanza o debbano eliminare la voce “ferie”, com’è generalmente intesa, è però un “dramma” che non mi tocca più di tanto. Si può vivere benissimo senza doversi tuffare in luglio e in agosto in quella bolgia dantesca costituita dalle spiagge o dai cosidetti luoghi di villeggiatura. Far vacanza a quel modo non può che provocare nevrosi, perché di certo essa non ristora né il fisico, né lo spirito.

Dove viviamo tutti i giorni troviamo più facilmente ristoro, comodità, silenzio, distensione e perfino una ristorazione più confortevole. Ciò detto, so di non poter pretendere che l’universo intero, che normalmente si comporta secondo certi luoghi comuni imposti dall’opinione pubblica, possa arrivare alle mie conclusioni, perciò provo un senso di compassione per tutte quelle famigliole di operai e di impiegati che non si possono permettere qualche giorno diverso dai ritmi sempre uguali e da quel quotidiano che per molti finisce per diventar monotono. Provo perfino compassione per tutti quei miei concittadini che ingabbiati e condizionati dai mass-media, non possono soddisfare quella che il nostro vecchio Goldoni chiamava, già secoli fa, “la smania della villeggiatura”.

Siamo sommersi in maniera ossessiva e perfino drammatica da un mare di notizie riportate da giornali e televisioni su questo argomento, ne ho però colta una che, confesso, mi ha fatto piacere. Quest’anno il nostro caro Papa ha scelto di non andare in vacanza. L’avrei stimato comunque e gli avrei pure voluto bene, anche se si fosse preso un paio di settimane a Lorenzago o in val d’Aosta, perché di grane, in quest’ultimo tempo, ne ha avute fin troppe, a causa dei preti, dei governi e di come va il mondo.

Il Papa ha qualche anno più di me e quindi capisco bene quanto siano pesanti “le sue chiavi”- Confesso comunque che provo piacere che si conceda un po’ di tempo a Castelgandolfo per scrivere su Gesù. Io gli farò compagnia assieme a tutti i poveri del mondo, e lui farà compagnia a tutti quelli che forse non potranno far vacanze, ma che “di loro è il Regno dei Cieli”.

“Signore, mandaci preti folli!”

Chi mi conosce un po’, sa che sono impegnato da un paio di anni in un’altra impresa editoriale, oltre la pubblicazione de “L’incontro” e del quindicinale per gli ammalati “Coraggio”, cioè quella del mensile “Sole sul nuovo giorno”.

A quest’ultimo periodico sono particolarmente affezionato, come un padre al più piccolo dei figli, all’ultimo nato. Il mensile è costituito da una raccolta che offre ogni giorno “un pezzo” di autore, più o meno noto, sugli argomenti più disparati, ma sempre dal contenuto molto sostanzioso e dall’involucro dai colori smaglianti. Immagino quasi che un raggio del sole nuovo del mattino illumini un aspetto vero, cruciale ed estremamente significativo della vita sempre diversa e poliedrica. Mi è sempre più impegnativo scoprire riflessioni nuove, soprattutto espresse in maniera intensa, coinvolgente, con termini ed immagini che ti prendano per il bavero e che ti mettano colle spalle al muro. Io amo tanto questo tipo di letteratura, tagliente, che ti toglie il respiro e la pace.

Qualche giorno fa mi sono messo a sfogliare un numero pubblicato mesi fa nel quale c’era questa preghiera: “Signore, mandaci preti folli!” Riecheggiava le parole di san Paolo: “Nos stulti proter Christum”, noi accettiamo di essere considerati della gente folle perché seguiamo “lo sconfitto” vincitore: Gesù.

Non so ripetervi le parole e le argomentazioni di questa singolare preghiera, perché la bellezza specifica sta proprio nella scelta dei termini e dei concetti.

Pensavo, durante la lettura, che la Chiesa veneziana ebbe, soprattutto nel passato, delle splendide figure di preti con questa “pazzia”, che in definitiva è la ricchezza spirituale ed umana espressa in modi diversi, ma sempre ricca, sebbene spesso fuori dalle righe di una ordinarietà stanca e monotona.

Mi vengono in mente figure sacerdotali come don Barecchia, il cappellano della ritirata del Don, don Dell’Andrea, che accompagna fascisti e partigiani all’esecuzione capitale, monsignor Scarpa, col suo sigaro in bocca, ma col pensiero lucido e tagliente, don Vecchi, capace di tirar giù dalle nuvole i sogni più impossibili, don Da Villa, il cappellano dei nostri soldati nella fallimentare vicenda bellica dell’Africa settentrionale, don Giuliano Bertoli, il rettore del seminario che rimane impavido sulla barricata di fronte alla contestazione e salva il seminario, don Giorgio Busso, il prete sorridente che, contro tutti, crede che il Signore chiami ancora i nostri ragazzi, don Mezzaroba, che spalanca il suo cuore e la sua casa ai parrocchiani, don Spanio, che crea “i ragazzi di don Bepi”, don Niero, che recupera in maniera arguta ed intelligente la pietà popolare della nostra gente ed altri ancora.

Pensando a queste figure sacerdotali così diverse, ma così originali ed intense, ho ripetuto, quasi sillabando, la preghiera “Signore, mandaci preti folli!”, perché ho un sacrosanto timore di incontrare preti come soldatini di piombo immobili ed insignificanti!

Di tempo ne hai, usalo!

Michel Quoist ha composto una bellissima preghiera sul tempo. In pratica questo sacerdote francese, morto una ventina di anni fa, offre la parola a nostro Signore per dire a noi poveri uomini che spessissimo affermiamo “non ho tempo”, perché siamo convinti di non averne a sufficienza per aiutare gli altri, per ascoltare un po’ di musica che rassereni lo spirito, per visitare una persona in ospedale, per pregare, per meditare e per mille altre cose che sarebbe bello ed opportuno fare.

Quoist mette in bocca al Signore la risposta per chi si nega affermando ad ogni pié sospinto “non ho tempo”: «Non è vero che tu non hai tempo. Io infatti ti garantisco ogni anno tutti i 365 giorni, ogni giorno con tutte le 24 ore, ore con tutti i sessanta minuti, minuti con tutti i loro sessanta secondi… Non è vero che non hai tempo, forse è più vero che non lo sai usare bene o forse lo sprechi per cose di poco conto!»

Un paio di settimane fa ho trovato, in una delle tante riviste che sfoglio ogni giorno, una bella storiella a proposito di questo argomento. Un insegnante mostra un grosso vaso di vetro e lo riempie di palle da tennis. Poi domanda agli allievi: «E’ pieno il vaso?» Tutti rispondono di si, ma l’insegnante butta dentro sassolini che riempiono gli interstizi e poi domanda: «E’pieno?» «Si» rispondono. Al che egli versa della sabbia e richiede ancora «Ora è pieno?» Il “si” diventa ancora più convinto e definitivo. Allora l’insegnante tira fuori due birre e le versa affermando : «Vedete, ci vuole saggezza per occupare bene e fino in fondo il proprio tempo. A chi usa bene il proprio tempo resta perfino la possibilità di bere due birre con gli amici!»

Come si fa a dire al Signore che ha torto? Come mi posso giustificare dicendo “non ho tempo”? Ho ricordato più di una volta che il cardinale Urbani, nostro Patriarca, diceva al proposito: «Quando hai bisogno di un piacere, non chiederlo a chi è sempre libero, perché di certo ti dirà di no, chiedilo invece ad uno che è molto occupato, perché lui troverà un po’ di tempo anche per te».

Ora, ogni volta che sarei tentato di dire “non posso, non ho tempo”, mi calano avanti queste due sbarre che mi impediscono di passare. Ho scritto tutto questo nella speranza che queste sbarre si calino anche per gli altri.

La maggioranza silenziosa

Io ho scoperto la realtà della “maggioranza silenziosa” ai tempi ormai lontani in cui dominava negli stabilimenti e nelle piazze la CGIL e in Parlamento una coalizione di sinistra.

Sembrava che qualcuno avesse dipinto di rosso l’intera Penisola e che ormai fossero prossimi i giorni della dittatura del proletariato, senonché quasi per incanto e sorprendentemente, ci fu una marcia silenziosa di circa quarantamila cittadini che espressero in maniera civile il loro dissenso dalla politica del Governo e dagli indirizzi del sindacato.

Quella manifestazione pare non avesse alle spalle i partiti e non fosse pagata da alcuno, come invece sempre avviene quando gli operai scendono in piazza intruppati e finanziati dai sindacati che sono una potenza economica e per di più non presentano bilanci e non pagano tasse. Da allora ho capito che all’interno del Paese, della Chiesa o di un qualsiasi tipo di realtà sociale molto consistente, quasi sempre c’è una maggioranza silenziosa che raramente si oppone ai pochi scalmanati che si impadroniscono della scena e che danno l’impressione che tutti la pensino come loro.

Sono ritornato a questi ricordi e a questi convincimernti sentendo un signore che non era riuscito a trovare neanche una copia de “L’incontro”, il quale mi confidava che leggeva con estremo interesse il periodico perché sempre si ritrovava nelle convinzioni che io vado esprimendo.

Non passa giorno che qualcuno non mi esprima il suo gradimento e d’altronde il fatto che in piena estate si stampino quattromila copie del periodico e che già nella prima mattinata della domenica non se ne trovi neppure una, è una conferma non oppugnabile di tale gradimento.

Tutto questo mi aiuta a credere che non sia solo a pensarla in una determinata maniera, ma che sia presente nella nostra città e nella nostra Chiesa “una maggioranza silenziosa” che condivide i miei convincimenti. Questo, anche se può sorprendere i benpensanti, mi fa molto piacere.

L’essere cristiani non è solo questione di termini!

Mi accorgo sempre di più che il nostro linguaggio è estremamente grossolano e poco specifico, e pure i termini che usiamo sono quanto mai equivoci ed illusori. Motivo per cui dietro ad un certo termine religioso puoi trovare tutto e l’opposto di tutto.

Qualche tempo fa citavo Pittigrilli, che afferma che certe parole fascinose sono come dei paraventi dietro i quali si nasconde la banalità e perfino il marciume. Ma nello specifico della religione esiste lo stesso fenomeno; ad esempio, i termini “religioso, cristiano, cattolico, praticante, cristiano impegnato” sono terribilmente equivoci, sono dei comuni denominatori che hanno quasi nulla del comune e invece tanto del diverso.

È, o almeno dovrebbe essere, evidente, che questa disquisizione lessicale, non è puramente teorica, ma esprime la copertura di situazioni concrete che provocano nel mio animo stupore, sdegno, ribellione, perché certe mistificazioni sono amare.

Ho incontrato nel passato una persona aderente al movimento dei focolari, che non esprimeva un pensiero, un discorso, una preghiera, se non la condiva mille volte con la salsa dolciastra e stomachevole della parola “amore”. Conoscendo poi il comportamento di questa persona nella sua vita di relazione, era chiaro che non avrebbe mai mosso neppure il dito mignolo della mano sinistra per aiutare il suo prossimo. Contemporaneamente avevo incontrato una di quelle persone che nel nostro ambiente ecclesiastico chiamiamo “lontano”; non so se fosse credente o meno, comunque non era assolutamente praticante, so che alla richiesta di un piacere, il sì è giunto immediato, continuativo nel tempo, tanto da sembrare che il piacere glielo avessi fatto io e non lui.

Sarei tentato di richiamare ancora una volta sant’Agostino col suo “ci sono uomini che Dio possiede e la Chiesa non possiede, ed altri che la Chiesa possiede, ma che Dio non riconosce come suoi discepoli”.

Purtroppo ci sono persone più papiste del Papa, che hanno la bocca impastata di terminhi pseudoreligiosi, ma che sono settari, egoisti, menefreghisti nei riguardi di quelli che non sono “dei loro”.

Sarà ormai un ventennio che sono quanto mai scettico su distintivi, confraternite, registri, gruppi impegnati di ogni specie; ed invece sono quanto mai interessato ad altri elementi qualificanti quali l’onestà, l’autenticità, la generosità, il coraggio, la solidarietà, la libertà di giudizio ed altri ancora. Talvolta questo mi provoca incomprensioni e rifiuti, ma mi ci trovo bene e sono contento nonostante tutto.

Cosa mi insegnò la parabola del Samaritano

Qualche Domenica fa ho tenuto il sermone della parabola del buon samaritano.

Confesso che in quell’occasione avrei preferito il tono del comizio a quello della pia meditazione. Vi sono dei passaggi del Vangelo che non dico che mi entusiasmano, perché questo è troppo poco, ma che mi caricano di un’ebbrezza interiore.

Io ho avuto modo di ascoltare un commento al “Laurentianum” di Mestre, da parte di Padre David Maria Turoldo, nel quale è venuto fuori il meglio dell’attore, del sacerdote e del poeta che questo frate, servo di Maria, assommava nella sua personalità ricca e appassionata, e non dimenticherò mai la lezione di vita e di Vangelo che è emersa dalla sua parola piena di passione religiosa e civile.

Qualche anno dopo, ebbi modo di leggere una delle migliori lettere pastorali del Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, che aveva come tema “Farsi prossimo” e che ruotava tutta attorno alle tematiche della parabola evangelica. Porto ancora con me alcune verità che sono diventate punto di forza nella filosofia della mia vita. Il “prossimo” non è colui che ti è vicino, ma colui a cui ti accosti con pietà e con partecipazione al suo dramma. E ancora: la religiosità non è quella teorica del dottore della legge, del sacerdote che tira dritto e del levìta, il quale aveva altro a cui pensare che soccorrere il malcapitato.

La salvezza non è per chi appartiene ad un certo schieramento, per chi è iscritto in un certo registro o si definisce con una certa terminologia formale, ma per chi si sporca le mani per soccorrere il prossimo, seppur incontrato per caso.

Ricordo un pezzo un po’ spregiudicato in cui si ipotizzava che in Cielo può accadere che vicino ad una monachella tutta pudore e preghiera, possa sedere il Ché Ghevara con il mitra sulle ginocchia perché anche lui, pur a modo suo, ha tentato di soccorrere il suo prossimo sfruttato!

Altra verità: nessuno può rifarsi solamente all’organizzazione sociale, alle competenze e tentare di scusarsi dicendo “non è compito mio!”, ma ognuno deve compromettersi col prossimo che ha bisogno.

Forse, se non avessi letto con questo cuore la parabola del samaritano, il “Don Vecchi” e tante altre cose sarebbero rimaste nella sfera delle utopie o, peggio ancora, dei futuribili.

L’importanza degli educatori in questo nostro tempo

Quando facevo l’assistente religioso dell’AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici), perché in quei tempi lontani insegnavo alle magistrali, ricordo che un docente di una delle moltissime lezioni che l’associazione organizzava per aggiornare i maestri, affermava che educare significa far emergere dalla personalità dei ragazzi quelle qualità positive che essi possedevano. L’ educatore doveva far prendere coscienza di queste sementi, curare la crescita dei germogli e fare da tutore perché essi crescessero dritti e robusti. In fondo c’è la legge di natura che regola questo meccanismo di crescita, essa vale per gli uomini, per gli animali e perfino per le piante. Se l’educatore non segue questa crescita in maniera decisa, con gli innesti opportuni e i necessari interventi, avremo delle creature selvagge, disordinate, improduttive e brutte da vedersi.

Da un paio di anni io sto addestrando un filare di oleandri a crescere ad alberello, perché solo così ci permettono di vedere lo splendido tappeto verde del prato che sta aldilà del filare delle piante di oleandro, e sono certo che riuscirò in questo intento!

Credo che in ogni settore della vita, dalla scuola alla società, dalla famiglia alla politica, servano educatori esperti, autorevoli e decisi, che inizino con un addestramento, proseguendo con un’opera di educazione e quindi di formazione, crescendo uomini veri e non selvaggi disordinati, irrequieti ed incapaci di vivere in una società ordinata e civile.

In questo momento storico credo che a livello familiare, scolastico, civile e politico, i preposti all’educazione siano incerti, poco decisi e senza idee chiare, cosicché nella scuola alligna il bullismo, nella fabbrica l’assenteismo e il disinteresse, nella società i no-globals e i centri sociali, in Parlamento le chiacchiere e nella famiglia il capriccio.

Quindi il problema è quello delle guide, che devono avere idee chiare e polso fermo, perché solo così è possibile creare una società migliore; chi rema sempre contro e chi non mantiene fermo il timone tradisce l’uomo e la società.

Pomigliano

Le vicissitudini degli operai e dei sindacalisti della fabbrica della Fiat di Pomigliano m’hanno coinvolto; vi ho partecipato, pur da lontano, appassionatamente, e mi sento tuttora coinvolto. Per chi parteggio?

Non so a chi possano interessare le mie scelte, però credo che sia doveroso avere delle opinioni e prendere posizione, almeno interiormente. Non mi sentirei uomo, cittadino, cristiano, se non mi lasciassi coinvolgere da questo conflitto e se idealmente non dessi il mio contributo, seppur sofferto ed aperto, ad ogni ulteriore elemento che possa modificare il quadro in cui sta avvenendo lo scontro.

Se la Fiat, nella persona di Marchionne, coltivasse il tentativo di schiavizzare gli operai, di sfruttarli in maniera disumana, di imporre criteri nuovi di sudditanza per guadagnare di più, per comandare più agevolmente, per fiaccare la resistenza dei dipendenti e violare la loro dignità, sarei con la FIOM senza alcuna perplessità; mi sentirei in peccato mortale e lontano dal mio Signore se assecondassi chi volesse mortificare ed opprimere tanti figli di Dio. D’altronde, se mi accorgessi che la FIOM sostiene la sua tesi per preconcetti di partito, per agevolare l’opposizione di sinistra, per mantenere la sua inveterata cinghia di trasmissione con una certa dottrina sociale, sonoramente battuta dalla storia, se comprendessi che la FIOM non tien conto della situazione globale dell’economia. se essa assecondasse la naturale tendenza del sud ad impegnarsi poco nel lavoro, a sfruttare lo Stato; se praticasse la teoria tante volte seguita del “tanto peggio tanto meglio”, se capissi che il sindacato di sinistra è connivente con la mafia che a Pomigliano ha interessi e sudditi a non finire, se fossi certo che questo sindacato bara, come ha detto Bonanni alla televisione, credo che pure dovrei confessarmi per peccato grave di connivenza, e dovrei accettare a capo chino una grossa penitenza dal confessore.

Per ora c’è dentro la mia coscienza un dibattito forte ed una battaglia senza esclusione di colpi; devo però confessare che, mentre la prosopopea e la prepotenza del segretario della FIOM mi ha fortemente irritato, il ragionare pacato e perlomeno apparentemente saggio di Banoni, segretario della CISL, ha accattivato le mie simpatie.

Qualcuno dirà «ma dove va a impegolarsi questo vecchio prete?» Gli rispondo: «Voglio essere un cittadino di questo mondo ed un cristiano che partecipa ai drammi dei propri fratelli!»

“Si può lodare Dio egualmente costruendo cattedrali che pelando patate!”

Spesso mi verrebbe la tentazione di pensare e parlare sempre di argomenti di carattere religioso. Credo che per un prete che deve occuparsi di questo settore particolare della vita, questo sia giusto e doveroso.

Il guaio però sta in un equivoco di fondo che è persino troppo radicato, non solamente nel mondo ecclesiastico, ma anche tra la gente comune.

Per troppi, a mio modesto parere, l’etichetta religiosa riguarda non la vita, ma alcuni aspetti che spesso sono marginali, in un certo senso, della vita. Ad esempio, che il prete si occupi della preghiera, è sensato, ma per certuni la preghiera corrisponde ad una definizione troppo generica e molto equivoca. I testi di mistica affermano che la preghiera consiste in una “elevatio mentis ad Deum”, ossia in una elevazione della mente a Dio, quindi in una certa riflessione interiore nei riguardi di Dio.

Mi domando però che cosa significhi questo per l’uomo contemporaneo; per qualcuno consisterà in un gruppo che recita rosari su rosari, per qualche altro in un coro di frati o monache che indossando certe tonache bianche salmodiano a certe ore del giorno e della notte. Non dico che tutto questo sia in disaccordo con la vita, però credo che la modificherà molto marginalmente.

Io sono profondamente convinto invece che, partendo da valori di fondo, come la considerazione che l’uomo è persona, che è figlio di Dio e fratello di ogni essere umano e che Dio è la fonte della verità, della sapienza, della bellezza, della giustizia e di ogni altra virtù, la preghiera è il tentativo onesto di tradurre in comportamenti, in scelte, in pensieri e nella vita quotidiana anche gli aspetti – dai più sublimi ai più banali – questa realtà di fondo. Quindi il vero orante non è il frate del convento, o il membro del gruppo di preghiera in quanto tale, ma il professionista che si aggiorna e richiede solamente il giusto compenso, il politico che non bara, non fa discorsi solamente per accaparrare la gente e raccogliere voti, l’operaio che fa il proprio dovere senza rinunciare a pensare con la propria testa, il cittadino che collabora alle sorti della sua città, il prete che testimonia con la vita il messaggio di Gesù, l’insegnante preparato che sa educare.

Ricordo, a questo proposito, un’affermazione di un giovane scout francese; “Si può lodare Dio egualmente costruendo cattedrali che pelando patate!”

Ho sempre avuto fiducia nella vita, anche durante la battaglia contro la malattia!

I miei concittadini hanno appreso la mia avventura chirurgica da “L’incontro”, forse lasciandosi impressionare dalla cronaca un po’ fiorita del mio diario. Tanto che ho l’impressione che siano tutti un po’ sorpresi di vedermi sano e pimpante nonostante i miei ottant’anni passati e le mie disavventure renali.

Talvolta penso che “L’incontro” faccia la funzione di seminare certe notizie che poi, come le piume sparse dal vento, vanno a finire in ogni dove e perciò tanti cittadini, più di quanti io pensi, finiscano per conoscere certe vicissitudini della vita, oppure che passino delle immagini settimanali che rimangono impresse nella fantasia senza poterne conoscere il seguito.

Io ritengo che tutto questo sia positivo, perché da un lato crea una familiarità, per cui ci sentiamo tutti coinvolti da un comune destino e dall’altro lato sdrammatizza certi eventi, che sono certamente gravi, ma che si possono anche vincere. Non mi spiace di poter dare questa testimonianza in diretta, spero che tutto questo possa aiutare taluno a superare angosce forse esagerate e al tempo stesso aiuti a capire che certi incidenti, anche di una certa gravità, fan parte dell’avventura della vita. Non si deve pensare che la nostra esistenza debba procedere tutta piatta, informe e tranquilla. Una battaglia vinta procura molta soddisfazione, aiuta i medici a cimentarsi con fiducia contro il male, constatando che esso, pur chiamandosi col nome tetro di cancro, si può vincere e non una volta soltanto!

Molti non immaginano neanche quanta ricchezza interiore procurino certe prove superate, io penso che non sarei neanche quel poco che sono, se non fossi passato attraverso certe disavventure fisiche. Poi non vi dico il piacere che provo quando mi capita di incontrare persone, di cui non ricordo il nome e che forse neanche conosco, che si sorprendono felicemente vedendomi perfino troppo florido, dopo essere stato sottoposto ai ferri della sala operatoria.

Spero che la mia testimonianza di fiducia nella vita, nel prossimo, negli operatori sanitari, possa aiutare chi ha timori del genere e che la mia scelta di vivere tutta la vita in tutti i suoi aspetti come un’avventura, tutto sommato positiva, possa essere di una qualche utilità anche per i miei concittadini.

La “ricetta” per una chiesa gremita!

Il mio coro domenica mattina ha ricevuto a fine messa un caldo e prolungato applauso dall’assemblea che gremiva la chiesa, occupando tutte le 220 sedie, stando in piedi lungo le pareti e gremendo pure il sagrato.

Sono troppo vecchio per chiedere alla Veritas e al Comune di ampliare la chiesa del cimitero, mi accontento anche così e spero che i fedeli della mia splendida comunità facciano lo stesso.

Essendo stonato, ma tanto stonato, ho chiesto alla “Corale Santa Cecilia” del “Don Vecchi” il dono di animare alla domenica l’Eucaristia che celebro in cimitero alle dieci. Ho avuto immediatamente la disponibilità della signora Giovanna che è il Toscanini del mio gruppo corale. Abbiamo superato qualche difficoltà per il trasporto – perché il cimitero, come tante altre parti della città, non è servito dagli autobus dell’ACTV – mediante la disponibilità di due miei coinquilini, Primo e Rino i quali, facendo la spola “Don Vecchi-cimitero” trasportano soprani, contralti, organista e maestro del coro, tutta gioventù che ruota attorno agli ottant’anni.

Fortuna mia e loro, essendo i canti facili e “cantabili”, tutta l’assemblea, se non altro per un motivo di tenerezza verso tanta veneranda età, si lascia coinvolgere e canta; qualche anziano si è unito da volontario e la signora Buggio fa da soprano solista, pur potendo essere considerata una nipotina con i suoi quarant’anni. Nino, il violinista novantenne, ogni domenica giunge in bicicletta col violino a tracolla, accompagna il coro, assieme all’armonium suonato dalla signora Dolens, e in altri momenti si esibisce con i virtuosismi che, in tempi andati, strappava gli applausi dei “foresti” e dei veneziani, quando suonava al “Lavena” o al “Quadri” in Piazza San Marco; adesso fa ancora venire i brividi e fa sognare la beatitudine del Paradiso.

Domenica scorsa la chiesa era gremita, com’era gremito il porticato antistante la porta principale. Dicono che le chiese sono deserte e che poca gente va a messa la domenica, ma se penso alla mia chiesa mi vien da concludere che bisognerebbe che le prediche fossero più corte e più sostanziose, la liturgia più curata e l’animazione più accattivante e più consona all’incontro col buon Dio che ci viene a visitare.

Mi son permesso di scrivere tutto questo perché non voglio essere il solo a beneficiare di questa “ricetta”, almeno “provare per credere!”