La lode a Dio dei giorni nostri è ben espressa dalla solidarietà

Dopo vent’anni di impegno per elaborare la dottrina che l’anziano ha diritto ad avere un alloggio tutto suo, che possa decidere liberamente sul tipo di vita che vuole condurre e che possa avere i mezzi economici sufficienti per gestire, senza mendicare dagli altri, la propria casa, mi pare di riscontrare che un po’ alla volta la città stia recependo questa dottrina e stia facendosi carico di questa esperienza pilota.

Imputo questo splendido e difficile risultato al fatto che le strutture dei quattro Centri don Vecchi presenti nel territorio danno credito e prova concreta a questa nuova filosofia nei riguardi della terza e quarta età.

Secondo elemento determinante credo provenga dal fatto che i giornali e le televisioni locali hanno costantemente informato positivamente sull’evolversi ed affermarsi di questa esperienza. “L’incontro” poi si è fatto carico e ragion d’essere della proposta portata avanti dalla Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi, esperienza innovativa e, per molti versi, pilota a livello nazionale.

L’informazione incalzante ha creato una nuova cultura ed una nuova coscienza riguardo la possibilità di offrire un vespero più dignitoso e gradito ai nostri vecchi.

Pensavo con soddisfazione a tutto questo quando, qualche tempo fa, sono stato invitato ad una conferenza stampa in Comune per lanciare l’iniziativa di donare ai Centri don Vecchi una vettura attrezzata per favorire il trasporto nei luoghi di cura ai nostri anziani.

Tutti i giornalisti, ma pure i rappresentanti politici, mostravano non solamente conoscenza, ma pure condivisione degli obiettivi portati avanti dalla Fondazione che gestisce i vari Centri esistenti in città.

Questa sensazione aveva cominciato ad affermarsi nel mio animo avendo constatato che la città manifestava conoscenza e consenso con una “pioggerella” lieve, ma consistente, di donazioni fatte nelle occasioni più disparate della vita dei concittadini.

Alla “pioggerella” ultimamente si sono aggiunte le eredità e le donazioni di notevole consistenza, tanto che hanno incoraggiato la Fondazione ad elaborare progetti veramente consistenti.

A me, prete, il fatto che la solidarietà abbia trovato uno sbocco così promettente, ha fatto sentire che “Il Regno” si sta affermando in maniera solida, anche se i riti sono spesso disertati, conscio dell’antica sentenza “Ubi caritas, ibi Deus”: dove cresce la solidarietà è sempre presente Dio! Oggi la lode a Dio è ben espressa dalla condivisione e dalla solidarietà.

I frutti della semina

E’ faticoso dissodare la terra, specie quando è arida, ma con la costanza, la convinzione ch’essa ha in sé i semi che possono sbocciare, e soprattutto con la fatica, prima o poi si raccolgono i frutti.

Tante volte ho confidato ai miei amici che per me la rivoluzione che rinnova il mondo e la stessa Chiesa è la rivoluzione che si rifà alla dottrina della solidarietà. Per raggiungere questo obiettivo ho speso il meglio del mio tempo e delle mie risorse e non me ne pento.

Pian piano anche a Mestre, la nostra città senza radici e con nessuna o poca tradizione, mi pare si possano cogliere dei germogli che stanno sbocciando rigogliosi, nati da semi sparsi con tanta fatica.

Tante volte m’ero lagnato perché, a differenza di altre città, facevo fatica a cogliere nella nostra dei cittadini, con risorse economiche più o meno consistenti, cittadini benestanti che si facessero avanti con gesti generosi per permettere la nascita di strutture che dessero risposte ai bisogni della gente in difficoltà.

La gente umile e senza mezzi non ha mai fatto mancare una pioggerella di offerte minute con le quali si sono fatti autentici miracoli. Basti pensare che in questi ultimi anni, con l'”offerta della vedova” sono stati costruiti a Mestre ben 315 appartamenti in strutture appositamente pensate per la terza età. Però sembrava che la classe benestante, arricchita da poco tempo, rimanesse indifferente e solo preoccupata di custodire gelosamente quanto aveva accumulato. Oggi invece posso affermare, con soddisfazione, che la semina fiduciosa sta dando frutti ed anche frutti generosi ed abbondanti, anche da parte di chi ha possibilità più o meno rilevanti.

In quest’ultimo mese un signore m’ha portato una quarantina di milioni di vecchie lire, motivando la sua offerta col riferirmi una usanza tedesca. Mi diceva questo signore che l’abito con il quale i tedeschi seppelliscono i loro morti è, per tradizione, senza tasche. Evidentemente perché né tedeschi, né cittadini di qualsiasi altra nazione possono portare con sé nulla di quanto posseggono.

Io spero che a questo motivo aggiungano quello indicato da Gesù: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Chissà che per il primo o il secondo motivo la gente sia sempre più generosa verso i fratelli in difficoltà!

Ho finalmente celebrato a sant’Andrea

Qualche giorno fa, dopo infinite peripezie, durate ben sette anni, ho avuto l’opportunità di dir messa in un piccolo borgo ai margini della nostra città. Confesso che ho provato una profonda emozione nel vedere questa chiesetta pulita, ordinata, munita di tutte le suppellettili per la liturgia.

All’ora fissata, verso il tramonto, pian piano sono arrivati una trentina di fedeli, la gran parte donne anziane, ma c’erano pure degli uomini e qualche donna di mezza età.

Mi raccontarono che un tempo il borgo era vivo, si diceva messa ogni domenica, c’era pure la scuola. Poi i giovani cominciarono ad andarsene, i bambini furono dirottati in altre scuole, qualche persona è emigrata in città, tanto che ci sono alcune case chiuse che i proprietari non riescono a vendere..

Salii l’altare. Dapprima ebbi l’impressione di impersonare il protagonista di un romanzo di Gran Green, quando un uomo sconosciuto si presenta a pochi abitanti di un villaggio da cui la persecuzione aveva cacciato il parroco, dicendo: «Sono un prete, posso celebrare?». Poi la mia mente andò al vecchio prete del film di Olmi “Il villaggio di cartone” che si era trovato senza più fedeli, con la chiesa vuota ed inutile. Ma poi capii subito che la situazione non era la stessa, perché nel villaggio di Olmi i fedeli avevano abbandonato, mentre qui tutti avevano desiderato avere un prete tutto per loro.

Cominciai un po’ titubante, sentendomi in una chiesa per me sconosciuta, anche se accogliente, ma poi, quando sentii cantare a voce spiegata i canti della Chiesa, il mio animo si aprì alla fraternità e m’apparve caldo e incoraggiante il volto di don Serafino, il vecchio parroco di quella gente che per molti anni aveva “seminato” a larghe mani la fede. In seminario lo chiamavano “testa di ferro”, tanto era convinto e determinato nella sua fede e nella sua missione.

Un tempo a Mestre non c’era chiesa più affollata, più partecipe alla vita parrocchiale e alla liturgia della Chiesa, non c’era parrocchia in cui tutti i fedeli cantassero con entusiasmo quanto a Sant’Andrea.

Terminata la messa scambiai contento qualche chiacchiera con i fedeli nel sagrato di quella chiesa e di quel borgo un po’ tagliato fuori dal contesto della città.

Me ne tornai felice di aver scoperto della gente con una fede così semplice ma radicata, che con nostalgia e con rimpianto riandava al passato, quando la fede si manifestava in maniera rigogliosa anche nel loro villaggio.

Per me l’unico rimpianto è d’essere ormai tanto vecchio da non sapere per quanto tempo e come potrò aiutare questa cara gente a camminare assieme verso la casa del Signore.

Una predica senza parole

Per me i “I fioretti di san Francesco” conservano una freschezza tale che mi paiono appena usciti dalla penna del Poverello di Assisi. Ogni tanto me li rileggo perché sono un ristoro per la mia anima e mi aiutano a guardare al creato e alle creature con simpatia e tenerezza, perché la poesia di Francesco li sa avvolgere di candore e di semplicità.

Lo spirito dei “fioretti” mi ha pervaso talmente l’animo che spesso mi pare che “il poverello” mi offra tale lettura della vita tradotta in contemporanea. Chi non si ricorda la vicenda della predica di Francesco per le vie di Assisi? “Frate Masseo, preparati che oggi andiamo a predicare”. Per tutta la giornata i due fraticelli umili e compunti camminano con gli occhi bassi per le viuzze del piccolo borgo dell’Umbria verde. Ma sul far del vespero frate Francesco dice al compagno: «Torniamo a casa». «Ma non dovevamo predicare?». E frate Francesco: «E non abbiamo predicato mediante madonna povertà e sorella letizia!?»

Il mondo fortunatamente è del tutto cambiato. Mauro, uno dei vecchi ragazzi di Carpenedo mi disse che aveva sentito che da un grande magazzino di generi alimentari forse avremmo potuto avere i prodotti in scadenza. L’indomani mi accompagnò, attraverso un dedalo di rotonde, svincoli e rotatorie, fino a Pianiga. (da solo in quel labirinto non sarei uscito neanche dopo un secolo) Ci ricevette il capo area, percorremmo un lungo corridoio di uffici, finalmente arrivammo a quello di questo signor Tramontini.

Gli illustrai il “polo caritativo del don Vecchi” e la drammatica situazione di non aver più la possibilità di aiutare la fila sconfinata di richiedenti arrivati dall’Africa e dall’Europa del nord. Ci chiese lo statuto dell’associazione e ci accordammo sulle modalità del ritiro dei “generi alimentari possibilmente consumabili entro una certa data” /ma che in realtà possono durare ancora per mesi).

La sensibilità, la fiducia, l’immediatezza della risposta e la cordialità di quest’uomo, che fino a un minuto prima non sapevo chi fosse e cosa facesse, mi ha allargato il cuore e mi ha riconciliato con tutto il settore del commercio.

Io non so se questo signore vada a messa, se sia credente o meno, però sono sicuro che il Signore l’ha messo sulla mia strada e sono altresì sicuro che “la sua predica” senza parole m’ha fatto altrettanto bene della predica silenziosa di frate Francesco.

“Mestre, terra di missione”

Periodicamente mi reco dal primario Di Pede per il controllo al cuore. Tra le tante magagne ho anche quella del cuore stanco e perciò bisognoso di controlli e di aiuti. Puntualmente questo medico amico ausculta e mi fa l’elettrocardiogramma. Io invece, che mi preoccupo della sorte della Chiesa a cui appartengo, ne verifico la “salute” e le prospettive di vita leggendo i bollettini parrocchiali in genere e, in particolare, quello della mia vecchia parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio di Carpenedo, della quale sono stato responsabile per ben 35 anni.

Il bollettino diretto dal nuovo parroco, don Gianni, è un periodico veloce, prevalentemente informativo; non trascura però anche qualche proposta religiosa espressa in maniera sommaria senza eccessivi approfondimenti.

Nel numero 2131 dell’8 luglio scorso di “Lettera aperta” ho letto una notiziola che mi ha sorpreso e soprattutto grandemente preoccupato. Riporto esattamente la notizia e di seguito qualche considerazione personale.

BENEDIZIONE DELLE FAMIGLIE
Durante l’ultimo anno pastorale i sacerdoti hanno cercato di visitare le famiglie della parrocchia portando, a chi lo desiderava, la benedizione del Signore. Possiamo dare un primo sintetico bilancio. L’avviso è stato portato a circa 2330 famiglie. Di queste 1120 hanno accolto il sacerdote. Altre 1142 sono state assenti, mentre altre 68 hanno rifiutato l’incontro, quasi sempre senza spiegare la ragione. Fin qui i cenni di statistica. Elementi più completi cercheremo di darli all’inizio del prossimo anno.

Prima reazione che ho provato, leggendo questo scarno trafiletto su argomento quanto mai importante, è stata di sollievo. Per me il “presidio sul territorio” è assolutamente necessario come elemento basilare per ogni soluzione pastorale.

La seconda, circa la reperibilità, mi ha lasciato perplesso. In verità mai io avevo pensato di conteggiare gli assenti e i presenti. Gli assenti di certo non potevo conteggiarli come “rifiuto”, poiché oggi il numero medio per famiglia credo che sia uno e mezzo, perciò è quanto mai facile che in casa non ci sia nessuno per via del lavoro. Comunque, essendo rimasto 35 anni in parrocchia, prima o poi ho avuto modo di incontrarli tutti.

La terza nota mi ha lasciato di stucco: “sessantotto hanno rifiutato l’incontro, quasi sempre senza spiegare la ragione”.

Sette anni fa “i parrocchiani che mi hanno rifiutato più o meno cortesemente” erano non più di quattro o cinque. Di certo oggi la presenza di mussulmani è più numerosa, però settanta rifiuti sono veramente tanti! Mi è venuta in mente la lettera pastorale di quarant’anni fa del cardinal Suard: “Parigi, terra di missione”

Ora il responsabile della Chiesa mestrina può scrivere purtroppo anche lui: “Mestre, terra di missione”. Il guaio però è che l’impianto pastorale non si discosta generalmente di molto da quello dei tempi di Pio X nonostante questa situazione estremamente diversa.

L’annuario

La settimana scorsa una volta ancora mi sono lasciato andare alla curiosità morbosa di prendere conoscenza della “ricchezza” della mia diocesi, messa in bella mostra nell'”annuario”.

Ogni anno viene pubblicato un volume assai consistente di pagine e più ancora di notizie, indirizzi, enti e persone che costituiscono la nervatura della Chiesa veneziana. Ho già scritto che provo sempre, in occasione di questa “visura”, due reazioni contrapposte: una di orgoglio per essere parte di una realtà così ricca di persone e di istituzioni impegnate per realizzare “il Regno”, la seconda di perplessità di fronte a tanta organizzazione di cui, io perlomeno, non riesco ad avvertire e soprattutto a beneficiare.

In quest’ultima rivisitazione mi sono soffermato qualche momento su una dicitura che compare forse solamente da un anno: “Ordo virginum”.

Tra le tante realtà ho scoperto che a Venezia c’è, seppur striminzita, una organizzazione ufficiale di donne vergini. L’annuario ne riporta nome, cognome, indirizzo, numero di telefono e perfino l’indirizzo di posta elettronica.

In verità lo scorso anno, ancora quando c’era il cardinale Scola, avevo sentito parlare della loro solenne consacrazione in basilica di San Marco, ora però di esse c’era tutto, ci mancava solamente la foto.

Per una strana associazione di idee mi venne in mente che il vecchio parroco della mia fanciullezza voleva che le ragazze e le donne di azione cattolica, durante le processioni, che erano piuttosto frequenti, sfilassero in centro con le bandiere dell’associazione in testa. Mi ricordo nitidamente ancora le critiche e gli appunti che la gente faceva nei loro riguardi, che credo poi tutto sommato fossero delle care creature, però come tutte le altre donne del paese

Ritengo che ci siano certe cose che esigono riserbo. Poi penso a quelle tante ragazze, signorine nubili e donne sposate, che sono dei tesori di bontà e di dedizione e che si spendono senza riserve, senza che alcuno offra loro una cornice più o meno preziosa o adeguata.

Talvolta ho parlato di una maestrina del sud che conduce il “Foyer San Benedetto”, la piccola struttura che dà alloggio ai famigliari degli ammalati dell’Ospedale dell’Angelo, a cui ricorro quando qualcuno bussa alla mia porta in cerca di alloggio e che sempre serena e sorridente risolve i casi più difficili e non appare nell’annuario della diocesi.

Ho deciso, nel mio cuore, che stamperò in proprio un “annuario segreto” per dar posto alle tante creature care e buone che incontro tutti i giorni.

Il Comune deve mettere in sicurezza via Orlanda!

Spero che quando questa pagina vedrà la luce io avrò ricevuto la concessione per mettere in sicurezza l’uscita e l’ingresso del Centro don Vecchi di Campalto che ospita ottanta anziani.

Sono passati ormai otto mesi dai primi approcci con il Comune e con l’Anas per garantire che gli anziani del “don Vecchi” potessero uscire e rientrare al Centro senza incorrere in pericolo di morte. La pratica, nonostante le promesse ufficiali dell’assessore alla viabilità, avv. Ugo Bergamo, e dell’ingegnere responsabile dell’Anas, si sono impantanate nei relativi uffici senza che ci fossero spiragli di speranza.

Sennonché, per puro miracolo, non c’è scappato il morto. Una signora che era venuta a visitare sua madre al “don Vecchi”, è stata centrata da un furgone in fase di sorpasso che ha scaraventato la sua auto nel fosso riducendola ad un rottame.

L’incidente ha mosso le acque, tanto che mi arrivarono due o tre comunicazioni dall’Anas. Poi la pratica si insabbiò di nuovo. Sono passati ancora due mesi ed ogni volta che telefono pare che l’indomani arrivi il permesso. Però non arriva.

Mi pare di ritrovarmi dentro il racconto “Aspettando Godot”, l’attesa vana di una risoluzione.

Una volta che quegli enti mi dessero il permesso a mettere in sicurezza, a mie spese, la salita e la discesa dall’autobus, il problema non sarà ancora risolto perché i miei vecchi non potrebbero usare la bicicletta e le loro gambe per fare una spesa a Campalto, mancando una pista ciclopedonabile che permetta loro di uscire – come ha detto un’anziana residente – dalla loro “prigione” dorata, ma che comunque rimane prigione.

In questi ultimi giorni m’è venuta in mente una strategia imparata da un mio vecchio parrocchiano, Bepi Toldo, il quale, avendo tentato di farsi pubblicare una lettera dal “Gazzettino” e non riuscendoci, la rispedì per 87 volte, finché i redattori capitolarono!

Forte di questo esempio, non appena avrò il primo permesso, ho deciso che ogni settimana manderò al sindaco Orsoni, all’assessore Bergamo e a quello dei lavori pubblici una petizione per ottenere la pista ciclopedonabile. La cosa mi è resa meno dispendiosa perché ho scoperto che posso usare l’ufficio protocollo di via Ca’ Rossa per l’invio delle lettere senza pagare un soldo.

Terrò pure informati i ventimila lettori de “L’incontro” pubblicando anche per loro la richiesta, sperando che Bondi dimagrisca i quattromilaseicento dipendenti comunali per renderli più efficienti.

Esperienze preziose

Ringrazio veramente il Signore che durante la mia lunga vita mi ha fatto fare delle belle esperienze, rendendomi sempre curioso del nuovo e aiutandomi a non vivere mai nelle retrovie, ma sempre in prima linea, ricevendo talora qualche colpo dal “nemico” e, forse più spesso, delle “ferite” dal “fuoco amico”. Comunque sia quello che queste mi sono state sempre sostanzialmente di aiuto.

Con monsignor Vecchi, ripeto ancora una volta, ho sempre avuto un rapporto totalmente dialettico, rapporto che credo sia stato inevitabile a motivo dell’età, della provenienza e della sensibilità diversa, però per me lui è stato comunque un maestro valido per tanti motivi. Uno di questi è quello che monsignore mi insegnò che bisogna sempre verificare sul campo, accertarsi in prima persona per valutare ogni esperienza ed ogni scelta o orientamento pastorale.

A tal proposito voglio far riferimento a tre esperienze particolari. Al tempo in cui sembrava che la Francia fosse l’antesignana e la punta di diamante nel campo della pastorale e della liturgia, andammo insieme a vedere cosa si faceva in Francia. In realtà abbiamo scoperto cose interessanti, ad esempio l’uso del foglietto parrocchiale l’apprendemmo da quel viaggio e lo abbiamo propagato a Mestre.

In quella esperienza capimmo però che allora, in Francia, c’erano delle avanguardie interessanti, ma il grosso era ancora arroccato al tempo della post-rivoluzione.

Quando stavamo sognando la mensa per i poveri e quello che riguardava le iniziative caritative, andammo a Brescia, che a quel tempo rappresentava il top del settore. E quando, al tempo del Concilio abbiamo sentito il bisogno di verificare l’impianto dell’associazionismo giovanile, siamo andati a Milano, quando don Giussani aveva appena dato vita a “La gioventù studentesca”, la madre di “Comunione e liberazione”.

In quella occasione, avendo partecipato, in una grossa parrocchia, all’incontro di un numeroso gruppo di giovani del movimento appena nato, sono stato colpito dal modo con cui si svolgeva l’incontro. Fissato l’argomento, ognuno poteva ordinatamente offrire il suo contributo, ma non poteva polemizzare o anche ribattere su quello che aveva detto l’amico. Questo metodo evita inutili diatribe e discussioni e fa emergere il meglio che si possa ricavare su un argomento.

Ho tentato per tutta la vita di introdurre questa metodologia, poche volte ci sono riuscito. Molto probabilmente ciò non è avvenuto perché tutti devono essere d’accordo in partenza su valori di fondo, cosa che per l’individualismo della gente della laguna è piuttosto difficile.

La pastorale del mondo dell’arte

Stavo cercando l’indirizzo di un mio confratello che la curia ha incaricato di occuparsi dei beni di valore artistico della Chiesa veneziana, sperando che sia pure delegato ad occuparsi della pastorale del mondo dell’arte.

Io sono appassionato di tutto quello che esprime armonia e bellezza, convinto più che mai che la “bellezza” sia una strada che porta a Dio. Nella mia vita ho cercato con tutte le mie risorse di portare nella mia comunità questo “raggio di Dio” così dolce e suadente.
La galleria “La Cella”, con le sue 400 mostre, la biennale di arte sacra e lo sterminato numero di quadri con i quali ho ornato le pareti delle strutture della comunità, sono una testimonianza di questa mia convinzione.

Ora sto continuando questo servizio pastorale con l’apertura della galleria “San Valentino”, presso il Centro don Vecchi di Marghera, ma sto incontrando notevoli difficoltà.

Consultando il Prontuario della diocesi per la ricerca dell’indirizzo dell’architetto don Caputo, mi sono lasciato prendere dal desiderio di scoprire il meccanismo estremamente complesso della nostra diocesi: nomi, strutture, commissioni, incarichi, deleghe, organismi… Ogni volta che consulto questo volume che la curia cura con estrema pignoleria e stampa puntualmente ogni anno, da un lato mi sento orgoglioso di appartenere ad una Chiesa che abbraccia ogni ambito, pensa e provvede ad ogni aspetto della vita di tutti i suoi membri, dispone di un numero straordinario di collaboratori specialisti in ogni settore – tanto che non potrei desiderare qualcosa di meglio – dall’altro lato resto pensoso sulle ricadute reali di aiuto che questa organizzazione offre ai combattenti della prima linea.

Il settore della cura pastorale di quello splendido mondo degli artisti e della loro produzione, forse non sarà il punto focale della pastorale diocesana, ma neppure può essere abbandonato a se stesso perché non cresca incolto come l’orto di Renzo Tramaglino di venerata memoria.

Constatando come a Mestre e nell’interland, con una popolazione di duecentomila anime non vedo quasi nulla in proposito, spero che la mia richiesta di aiuto trovi una risposta finalmente esauriente.

Chiedo scusa al Comune, alle assistenti sociali e ad una persona che abbiamo accolto

La Chiesa con tanta sapienza, prima che i cristiani si incontrino con Dio per l’Eucaristia, li invita a confessare le loro colpe non solo a Dio, ma anche ai fratelli. Il “Confiteor” infatti dice testualmente: “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”, e quindi il fedele è invitato a battersi il petto in segno di pentimento.

Alcuni mesi fa, proprio su questo diario, me la sono presa con certe assistenti sociali perché avevano fatto pressione affinché un’ospite dell’asilo notturno – luogo che oggi si denomina col titolo più civile “Casa dell’ospitalità”, ma il cui contenuto non cambia – fosse accolta al Centro don Vecchi di Campalto. La cosa non mi era andata giù più di tanto, anzi mi aveva irritato perché ero, e sono, convinto che ogni istituzione debba operare in maniera coerente e quindi non si riduca ad una specie di “rifugium peccatorum” valido per tutti. Semmai è opportuno creare altre strutture che diano risposte adeguate ad esigenze diverse. Col “don Vecchi” vogliamo aiutare gli anziani autosufficienti, quanto basta! Perciò non mi pareva giusto accogliere una persona che da una decina d’anni viveva con i senzatetto dell’asilo notturno e poi, perché le era venuto il ghiribizzo di avere un alloggio tutto per sé, dovessimo spalancarle le porte del “don Vecchi”.

Per affetto e per riconoscenza verso un funzionario del Comune, persona che stimo quanto mai per il suo impegno e per la sua collaborazione con il nostro ente, chiusi un occhio e, pur a malincuore, accettai questa persona perfino a condizioni di favore.

Il primo impatto è stato tutt’altro che felice e da qui è nata la mia contrarietà e la critica alle assistenti sociali, categoria di persone con alcune delle quali, in passato, avevo avuto più di un motivo per lamentarmi ed essere più che mai deluso. Di questa colpa ho preso coscienza quando, prima mi fu riferito, e poi ho avuto modo di verificare di persona, che questa persona s’era inserita bene, ha cominciato subito a mostrarsi disponibile, tanto che si comportava con l’attenzione e la premura come il “don Vecchi” fosse la sua casa e la sua famiglia. Questo inserimento, con esito così positivo, nonostante le premesse per nulla favorevoli, mi costringe a battermi il petto pubblicamente e a chiedere perdono a lei, alle assistenti sociali che si sono occupate del caso e al Comune, e mi induce a fare il proposito di trattare ogni creatura come persona unica ed irripetibile, non permettendomi più di pensare che perché uno vive in un certo luogo, debba avere tutte le caratteristiche proprie di quell’ambiente. Spero ora di ottenere il perdono.

L’incidente al don Vecchi 4: cosa aspetta il comune a mettere in sicurezza via Orlanda?

Ciò che da sei mesi temevamo è purtroppo puntualmente accaduto. Oggi (alcuni mesi fa, NdR), poco dopo mezzogiorno, la figlia di una residente al “don Vecchi” di Campalto, avendo visitato sua madre, mentre tentava di uscire dal Centro per immettersi in via Orlanda, è stata centrata da un furgone in fase di sorpasso e scaraventata nel fossato adiacente alla più famigerata e pericolosa strada della nostra città. L’auto su cui viaggiava la signora è stata ridotta ad un groviglio di lamiere e l’occupante, per puro miracolo, è stata tratta dall’abitacolo tutta malconcia ma, fortunatamente, ancora viva.

In un minuto sono arrivati i vigili urbani in gran numero, la Croce Rossa, il 118, i pompieri, il carro attrezzi, mentre i vecchi del Centro guardavano inorriditi e spaventati tutta questa gente trafficare convulsa, non sapendo che l’incidente riguardava proprio loro.

E’ dall’ottobre dello scorso anno, subito dopo aver inaugurato il nuovo Centro per anziani, il “don Vecchi 4”, che ospita 64 alloggi, con una popolazione di più di una settantina di anziani dell’età media di 80 anni, che mi sono accorto dell’estrema pericolosità dell’immissione su via Orlanda, unica via possibile per raggiungere qualsiasi altra meta per i residenti. Per questi anziani non è possibile andare in nessun luogo né a piedi né in bicicletta, ed anche l’uso dell’automobile, che pochi possiedono, è estremamente pericoloso.

Mi sono subito dato da fare: ho incontrato personalmente l’assessore alla viabilità del Comune di Venezia, avv. Ugo Bergamo; ho incontrato pure il capo compartimento dell’Anas, chiedendo una pista ciclopedonabile per raggiungere Campalto in sicurezza (500-600 metri di pista). Questi signori per ora hanno escluso questa soluzione per mancanza di soldi. Quindi si è concordata faticosamente una soluzione tampone provvisoria, una pista in sicurezza per usare l’autobus, addossandoci la maggior parte delle spese.

A tutt’oggi non abbiamo ancora ricevuto i necessari permessi. Per ottenere tutto ciò: 1) sono state raccolte 500 firme di residenti e dei loro famigliari; 2) ho mandato due lettere raccomandate con l’avvertimento che qualora fosse successo un incidente, avrei sporto denuncia contro i suddetti enti; 3) mi sono addossato il costo maggiore dell’operazione; 4) la stampa: “Il Gazzettino”, “La nuova Venezia”, “Gente veneta”, “Il Corriere del Veneto” sono intervenuti svariate volte denunciando il pericolo; 5) gli anziani mi hanno scritto: “Ci ha donato una prigione dorata, ma sempre di prigione si tratta”.

Ora è avvenuto l’incidente. Non so che cosa aspettino ancora!

Da aggiungere però che il 13 ottobre dell’anno scorso abbiamo affisso sull’edificio la scritta “Centro don Vecchi”. Il 14 ottobre, il giorno dopo, un agente dell’Anas ci ha intimato di oscurarla perché altrimenti avrebbe dovuto multarci. L’abbiamo coperta, abbiamo pagato la tassa e dopo tre mesi è giunto il permesso di esporre la scritta.

Volete la ciliegina? Oggi mi hanno riferito che all’Anas sono irritatissimi nei miei riguardi per la mia impertinenza nella richiesta. Questa è la burocrazia dei nostri enti pubblici!

Sogni come montagne da scalare, sogni fatti naufragare

Ci siamo ritrovati anche questa sera (alcuni mesi fa, NdR) per esaminare la planivolumetria del “Villaggio solidale degli Arzeroni” e dei problemi connessi, per farlo accettare dal Comune e dalla Regione. E’ più di un anno che ne parliamo, ne discutiamo, riempiamo carte su carte, esaminiamo soluzioni possibili ed alternative; nonostante tutto questo non siamo ancora molto lontani dai sogni. Quant’è difficile fare il bene del prossimo!

Ad ogni pié sospinto incontri una norma, un egoista preoccupato di difendere un suo presunto diritto, un burocrate che pretende che non manchi una virgola e deciso a difendere l’importanza del suo ruolo sociale, un avversario che, per partito preso o per dei princìpi misteriosi ed inconcepibili, ti vede come un nemico da cui difendersi o un soggetto che teme possa mettere in ombra la sua parte politica, o semplicemente un concittadino che gli risulti antipatico.

Tutti questi motivi, che io sono convinto siano delle assurdità di fronte al bene dei fratelli in difficoltà, diventano invece montagne da scalare, forse più impegnative del Cervino o dell’Everest per una guida alpina.

Lo staff di tecnici scelto dalla Fondazione per realizzare il progetto è, questa volta, tutto rosa: tre architette giovani, agguerrite con le norme, sciolte nel linguaggio ed accattivanti nell’illustrare il progetto.

La brochure offertaci, che riassume la loro ricerca preliminare, l’ipotesi su cui discutere, sembrava un regalo porto con un sorriso che incorniciava di eleganza e di buon garbo il contenuto, ancora avvolto nel mistero per tutti noi.

Mentre ho assistito con curiosità e vera letizia a questo incontro, in cui il dialogo tra committenti e progettiste era facilitato dalla natura, che rende sempre più facile e vivace il dialogo tra uomini e donne, qualsiasi sia l’argomento trattato, sognavo ad occhi aperti “Il villaggio solidale degli Arzeroni”, che non solo darebbe risposta a tanti disagi e a tante attese, ma rappresenterebbe finalmente un altro, seppur piccolo primato per la nostra città, che da un punto di vista urbanistico, culturale, artistico e sociale, ha così poco di cui gloriarsi.

Però questa gioia e questa speranza erano mitigate dal recente naufragio di un altro affascinante progetto che ci ha fatto sognare e trepidare per un paio di anni: “La cittadella della solidarietà”!

Le onde dell’avvicendarsi degli avvenimenti e delle persone ha già fatto scomparire ogni traccia, cosicché a tanti non interessa punto il recupero del relitto, perché ciò metterebbe in luce l’inerzia, l’imperizia e la poca fede di chi ha praticamente facilitato questo naufragio.

Un sogno possibile

E’ vero che i vecchi vivono prevalentemente di ricordi. Nel mio caso debbo confessare che, per grazia di Dio, accanto ai ricordi si mescolano ancora sogni, anche se la ragione mi dice che per me rimarranno soltanto tali. Fino a ieri mi sorprendevo da mane a sera a sognare “La cittadella della solidarietà”. Prima pensavo che questo sogno la cicogna bianca lo calasse nel grande prato vicino al “don Vecchi”. Poi gli abitanti del viale don Sturzo, che sono allergici alla presenza dei poveri e la “Società dei 300 campi”, che preferisce tenerlo morto quel prato, piuttosto che realizzare un’opera sociale che dovrebbe rappresentare la sua ragion d’essere, l’ha fatto svanire.

Per un po’ di tempo le intenzioni e i propositi del cardinale Scola, che pareva sostenesse il progetto, nonostante le perplessità dell’apparato della curia, davano da sperare che la Cittadella si potesse realizzare trasferita in via Vallenari, ove l’architetto forse poteva farci donare prima cinquantamila, poi trentamila, e infine ventimila metri quadri di superficie. Ma è svanito anche questo sogno con l’uscita di scena del vecchio cardinale.

Infine non se n’è fatto nulla e i soldi che Scola aveva promesso più volte pubblicamente sono stati dirottati per altri scopi. Purtroppo i poveri sono sempre stati destinati a rimanere in attesa fuori dalla porta col cappello in mano!

Ora sogno “Il villaggio solidale” degli Arzeroni, un sogno in cui non è coinvolta né la curia né i confratelli. Un sogno laico, ancora molto sogno, ma presente nel regno dei possibili o peggio dei futuribili.

Gli ostacoli sono veramente infiniti, qui non sono di mezzo la curia e i confratelli, ma il Comune e i burocrati, che non sono tanto migliori. Stiamo navigando a vista, controvento, “bordizzando”, direbbe la gente di mare.

Il Comune dovrebbe metterci a disposizione una superficie di trentamila metri quadri, ove sogniamo di realizzare un intero villaggio per l’accoglienza di chi è in difficoltà: una struttura di 120 alloggi per anziani poveri in perdita di autosufficienza, “Il Samaritano”, per i parenti di città lontane che hanno i loro congiunti all’ospedale dell’Angelo – sempre nella speranza che il nuovo ospedale decolli. Inoltre: una serie di appartamenti per ospitare provvisoriamente coppie di giovani sposi, per dar loro modo di acquistarsi la casa; un ostello per operai, impiegati, senzatetto; una struttura per padri divorziati sull’orlo della miseria per il fallimento della famiglia; una struttura per preti vecchi ed acciaccati.

Il villaggio solidale degli Arzeroni dovrebbe essere una realtà di accoglienza per tutti coloro che hanno bisogno di un tetto e di pareti domestiche amiche.

Il cammino è tutto pieno di ostacoli e di difficoltà, però lo staff che guida questa avventura è quello che in meno di vent’anni ha messo a disposizione ben 315 alloggi per anziani poveri e quindi ha dimostrato di saper “far miracoli”.

Bonifiche

Qualche mattina fa qualcuno del “don Vecchi” è venuto a cercarmi, preoccupato, perché un gruppo di dipendenti comunali stava tramestando davanti al cancello, a dire di questi, per mettere in sicurezza l’accesso ai magazzini. Le notizie del genere mi mettono immediatamente in allarme perché l’ostilità emersa tante volte da parte del quartiere in cui abitiamo ormai da vent’anni, è capace di tutto!

Il “don Vecchi” è, per il quartiere don Sturzo, o meglio per alcuni del quartiere, un “figlio non voluto” e sopportato a malincuore. Una volta per il traffico dei poveri che vanno ai magazzini, un’altra perché si pensa che i topi presenti nel quartiere vengano dal nostro Centro, un’altra ancora perché non si gradisce la collocazione dei cassonetti fatta dalla Veritas, un’altra perché si è temuto di essere frodati del verde con la cementificazione del parco, oppure per la “poveraglia” che è costretta a prendersi i generi alimentari presso i magazzini, o perché le foglie degli alberi del Centro vanno ad intasare i tombini, o perché ancora pochi dei residenti frequentano la parrocchia. Pare insomma che ogni giorno essi scoprano una nuova magagna di questo Centro.

Sentendo la notizia del gruppo di tecnici del Comune, mi sono precipitato per difendermi dalla nuova calamità. Fortunatamente si trattava di un’altra cosa. Un ingegnere comunale, più cortese di quello dei topi, mi ha informato che sul fianco sinistro del sentiero che porta dal viale don Sturzo al Centro, un tempo c’era una cava che è stata colmata con i rifiuti industriali di Marghera; perciò doveva essere bonificata.

Si dovrà asportare un centinaio di metri cubi di terra inquinata per sostituirli con altrettanti metri cubi di terra sana. La schiera assai numerosa di tecnici, composta da esperti di ogni genere, stava studiando come intervenire senza impedire il transito.

Io sono un pover’uomo che s’intende solamente un po’ di candele e di acquasanta, ma sono rimasto un tantino incredulo che sotto il manto verde di siepi rigogliose e di alberi robusti si siano nascosti acidi così micidiali da mettere a repentaglio la salute della gente. Di certo i trecento abitanti del “don Vecchi” – che sono gli unici a transitare per questi luoghi e che, quasi tutti, hanno dagli ottant’anni in su – come l’erba del prato e gli alberi della stradina, pare che fortunatamente non siano stati inquinati e minacciati di morte da quei veleni che giacciono da mezzo secolo sotto il manto verde.

Ho pensato subito invece al “massacro” che subirà il paesaggio. Però ho approfittato per segnalare il salice alto venti metri, morto in piedi, perché quello sì è una minaccia vera per chi passa da quelle parti, ma che pare che finora non abbia turbato la coscienza del Comune.

Ancora sulla polemica delle campane

Ho seguito con curiosità ed indignazione la polemica del suono delle campane. La mia partecipazione agli eventi che riguardano la mia chiesa non è mai disattenta e rassegnata. Sono di natura polemico ed interventista. Ho scritto più volte che ho sempre ammirato i giovani di Comunione e Liberazione perché non sono mai passivi e soprattutto nel settore della scuola, che è un loro specifico campo di azione, sono non solo presenti, ma quanto mai attivi.

Fui ammirato ed orgoglioso quando la feccia de “La Sapienza” impedì al Papa di parlare in quell’università, quando il mattino dopo i ciellini erano già agli ingressi dell’ateneo a denunciare con i volantini la meschinità di certi loro colleghi. La passività, la rassegnazione per il quieto vivere, il subire gli affronti senza reagire, non riesco né ad approvarli né ad accettarli.

Quando ho visto su “Il Gazzettino” che il giovane parroco di Carpenedo, a differenza della diplomazia curiale, aveva scritto: “Non le nostre campane facciamo tacere, ma facciamo zittire quei venti-trenta atei militanti che nella nostra città non hanno diritto di imporre le loro idee sulla stragrande maggioranza della popolazione”, ho pensato subito anch’io che non meriti troppa attenzione neanche quel certo numero di poltroni e di pigri ai quali non dà fastidio il rumore delle auto, ma solamente il concerto armonioso delle nostre campane, né credo si debbano prender troppo in considerazione i tecnici dell’Arpav che avrebbero ben motivo di cercare altrove le fonti dell’inquinamento acustico, invece di occuparsi di multare la musica delle campane.

Scrissi già che quando ero parroco avevo due parrocchiane che telefonavano “a nome di tutti”, come dicevano loro, per il fastidio che provocavano le mie campane. Dissi loro che le campane suonavano a Carpenedo fin dall’anno mille e perciò, quando hanno acquistato casa dovevano tener conto che l’acquistavano in un determinato contesto urbanistico. Io poi che “conoscevo i miei polli”, ben sapevo che non era il suono delle campane, ma quel che esse rappresentavano che infastidiva i loro sonni e le loro coscienze.

Una se n’è andata e l’altra si è rassegnata, perché io, memore del patriota italico Pier Capponi che affermò “…e noi suoneremo le nostre campane!”, ho continuato a suonarle e di gusto!

Romano Guardini ha scritto un bel volumetto sul valore dei “santi segni”, uno dei quali è il suono delle campane che sono la voce della comunità cristiana e che fanno memoria delle meraviglie di Dio.

Venuto a sapere della sottoscrizione di don Gianni, mi sono recato di buon mattino a mettere il mio nome sulla “contropetizione” e ad offrirmi a tirare le corde nel campanile se fosse necessario.