I Santini

C’è stato un tempo in cui i libri delle “Massime eterne” prima e dei “Messalini” poi, erano gonfi di “santini”.

Le nostre nonne e le nostre mamme avevano il culto per queste immaginette che portavano da un lato la figura della Madonna o di un santo e nel retro una preghiera relativa.

C’erano immagini per tutte le problematiche e per tutti i guai dell’uomo, perché in quel tempo, che ormai ci sta definitivamente alle spalle, i santi erano ritenuti soprattutto dei protettori ed intercessori piuttosto che dei testimoni e degli interpreti del messaggio evangelico, come li pensiamo oggi. Dai “santini” pian piano, c’è stata una evoluzione verso delle immagini della natura con qualche frase interpretativa, per passare alla fine al collezionismo.

Ora i famosi “santini” si comprano e si vendono dai collezionisti perché ormai c’è un mercato anche per questi poveri santi segni!

Da ragazzo e da giovane è capitato anche a me di fare una raccolta di immagini della Madonna, ma l’ho fatta solamente perchè non avevo mezzi per acquistare libri d’arte.

Qualche giorno fa, riordinando le mie carte, rimasugli del trasloco da Carpenedo, è emerso un pacchettino di “santini” della mia ordinazione sacerdotale, una dolcissima Madonna del Luini con alle spalle un paesaggio collinare, in calce la scritta “Spes nostra” e nel retro: “Venezia 27.VI.1954 – anno mariano” l’immagine è povera ed un po’ ingiallita, ma racchiude nella sua povertà 54 anni di vita da prete.

Mi ha fatto piacere ritrovare l’immagine della mia ordinazione sacerdotale, me la guardo con riconoscenza ed affetto cento volte al giorno, sembrandomi quasi impossibile che possa custodire più di mezzo secolo di fatica, di drammi interiori, di speranze e di delusioni.

Sono riconoscente a questa Madonna del Luini così pudica ed armoniosa, che mi ha protetto per tanto tempo, tutto sommato posso dire che mi è andata bene!

L’assurda rassegnazione di tanti responsabili parrocchiali!

Gesù stesso ha affermato che “I figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della luce”; era vero ai suoi tempi ed è ancora più vero anche e soprattutto ai nostri giorni. Come però capita per ogni regola, ci sono pure le eccezioni.

lo vissi la mia infanzia in una comunità cristiana che era retta da Monsignor Umberto Mezzaroba, parroco zelantissimo, direi che bisognerebbe inventare un supplemento a questo superlativo assoluto per indicarne lo zelo e la sua passione per le anime.

In quella comunità di campagna 60-70 anni fa quasi tutti la frequentavamo, però c’era pure un gruppetto di una trentina di pecorelle smarrite che non venivano a messa alla domenica.

Ricordo che questo parroco non si dava pace; arrivò ad organizzare per loro un pellegrinaggio a Sant’Antonio da Padova, caricando nella corriera vino a volontà e salami, insistette così tanto che la maggior parte finì per confessarsi e far la comunione.

Diventato sacerdote chiese al Patriarca di avere il suo vecchio chierichetto e fui così con lui a Venezia nella parrocchia dei Gesuati per ben due anni.

La sua passione per le anime era senza limiti, non c’era occasione o mezzo che lui non cogliesse al volo per aiutarmi ad avvicinare i ragazzi e portarli in parrocchia.

Nonostante qualche sua pia esagerazione, furono due anni intensi, appassionati che lasciarono una traccia profonda nella mia coscienza, il suo ricordo continua a stimolarmi ancora soprattutto notando tanta tiepidezza e superficialità nei preti e nei cristiani di oggi.

Questa forte esperienza acuisce in me la tristezza nel vedere apatia, mancanza di slancio, di inventiva, di intraprendenza nella pastorale parrocchiale.

Quando confronto l’insistenza e l’impegno di certi agenti di commercio per piazzare i loro prodotti, di certi commercianti e di piccoli imprenditori o la determinazione dei giovani mormoni o dei testimoni di Geova, mi sconforta ancora di più confrontandoli allo spirito di resa, la chiusura, la rassegnazione o l’accontentarsi del poco presente in tanti responsabili parrocchiali.

Spero e prego per una nuova Pentecoste in cui vento e fuoco scuotano nuovamente la nostra chiesa!

L’iscrizione al catechismo dei bambini

Sono riapparsi con le prime brezze di autunno e l’apertura delle scuole, i bollettini parrocchiali sui banchi della stampa delle chiese di Mestre. Gli addetti alla distribuzione de “L’incontro” si fanno carico di portarmi a casa una copia di suddetti periodici. Ho notato dalla lettura dei fogli parrocchiali, un argomento che risulta il denominatore comune di tutte le comunità cristiane: l’iscrizione al catechismo dei bambini che frequentano le elementari.

E’ molto meno frequente l’accenno ai ragazzi delle medie, pochissimo per non dire quasi mai, quello delle superiori.

In genere si parla del post-cresima che per qualche parrocchia si riferisce perfino ai bambini di terza o quarta elementare, rifacendosi, per certi parroci, ad una prassi del lontano medioevo.

Questa iscrizione penso sia richiesta, da un lato, perché in moltissime parrocchie non esiste uno stato d’anime (dicasi un’anagrafe parrocchiale) aggiornata e da un altro lato perché si tende a far capire che l’andare a catechismo deve essere concepito come una scelta del ragazzo e soprattutto della famiglia, come non fosse lecito pretendere che chi ha fatto la scelta del battesimo conseguentemente deve fare tutte quelle che ne derivano.

Quando ero parroco mi sono sempre battuto e quasi sempre sono stato sconfitto dai miei giovani collaboratori, perché all’inizio dell’anno mandassimo ad ogni famiglia una lettera informandoli che il giorno tale, all’ora tale, nella tale aula e con la tale insegnante sarebbe iniziata la scuola di catechismo per il loro figlio.

Noi eravamo in grado di far questo e la famiglia apprendeva così qual’era il suo preciso dovere.

Le iscrizioni attuali denunciano una carenza organizzativa della parrocchia e dall’altra la resa e la rassegnazione d’ammettere che dei battezzati possono non dar seguito alla scelta iniziale e perciò il battesimo è quasi una scelta formale.

Se uno parte per qualsiasi impresa sentendosi perdente, non può che aspettarsi che una sconfitta ed è questo purtroppo lo spirito e l’atteggiamento oggi diffuso nella maggioranza delle nostre parrocchie, cosa pastoralmente non esaltante.

Un bellissimo esempio di solidarietà!

Talvolta capita che un fotografo faccia un’istantanea, senza studiare troppo la luce o la posizione delle persone da ritrarre e gli risulti una foto viva, armoniosa, capace di forti emozioni.

Così è capitato anche a me una mattina al don Vecchi.

Incontrai nella hall del Centro una giovane donna; sembrava una ragazzina, un bel volto armonioso, una voce calda e due occhi luminosi; stava arrabattandosi con due marmocchietti che sgusciavano da tutte le parti. La sala grande, i divani, gli anziani che andavano e venivano li eccitava e la mamma faceva una gran fatica a tenerli a “guinzaglio”.

Appena mi vide, mi salutò come se fossimo due vecchi amici; Dio solo lo sa dove l’ho incontrata e come mi conoscesse. Senza tanti preamboli, mi chiese se potevo indicarle due anziani bisognosi perché, quando sarebbe andata a fare la spesa per la sua famiglia, desiderava farla anche almeno per due di loro, poi gliela avrebbe portata a casa per abituare i suoi piccoli (avranno avuto tre e cinque anni) fin dall’infanzia a pensare anche a chi è meno fortunato di loro. Chissà chi ha cresciuto questa giovane donna (appariva perfino più giovane di quanto credo lo fosse) a questo senso di solidarietà? Se ne andò dicendomi che si sarebbe fatta viva dopo il periodo delle vacanze.

Mi ritelefonò trovandomi impreparato perché avevo rimandato per imbarazzo la scelta; tanti sono gli anziani al don Vecchi con la pensione minima! Le ritelefonai dandogli due nominativi di due anziane; gli sarebbe piaciuto anche un uomo, ma al don Vecchi gli uomini sono in assoluta minoranza.

Questa è la prima adozione! Speriamo che l’esempio trascini!

lo ora però mi sento pure beneficato perché conservo nel cuore questa bellissima istantanea!

Fare queste esperienze, conservare queste belle immagini è una vera ricchezza anche per un vecchio prete!

Oltre il don Vecchi

Ho visitato, su sua richiesta, un’anziana signora, che a livello di linguaggio tecnico appartiene alla quarta età, vive sola perché vedova da alcuni anni di un valente e stimato pedagogo mestrino. La mia interlocutrice possiede una mente lucidissima, un parlare sciolto, informato, una buona conoscenza dei sacerdoti e delle comunità parrocchiali di Mestre e soprattutto è credente e coerentemente praticante.

Vive sola, con una governante straniera in una casa non di lusso, ma grande, bene arredata e situata in una zona centrale di Mestre. Il suo problema? La solitudine e la preoccupazione per il domani incombente, dato che ormai ha messo piede nella quarta età! Qualcuno le ha fatto il mio nome e le ha suggerito di parlarmi e di chiedermi un consiglio e possibilmente un aiuto.

Un tempo le persone che si trovavano in queste condizioni facevano un vitalizio con una casa di riposo per garantirsi una sicurezza ed una protezione nel tempo difficile della vecchiaia.

Ora nessuna persona autosufficiente accetta la soluzione della casa di riposo, soluzione ottocentesca superata perché mortifica la persona e non garantisce minimamente una vita autonoma, in cui uno possa scegliere e vivere da persona. Ho capito subito che questa signora praticamente era disponibile a destinare tutti i suoi averi purché la nostra fondazione le garantisse un alloggio ed una assistenza adeguata. La cosa potrebbe essere anche appetibile purché la fondazione sia in grado di creare pian piano una rete di strutture rispondenti alle varie attese di un mondo che sarà sempre variegato.

L’attuale don Vecchi è certamente una valida, forse la più valida, risposta agli anziani autosufficienti di condizione povera, dovremo però creare una struttura migliore per chi è abituato ad un regime di vita superiore e soprattutto dovremo avere una risposta degna per i non più autosufficienti. Tutto questo potrà essere un programma ed un progetto per chi oggi è ancora adolescente!

Nuovi e diversi tipi di povertà

Ormai da quasi un ventennio ho compreso appieno il discorso portato avanti da eminenti sociologi circa la vecchia e la nuova povertà; le povertà elementari e condivise, quali la carenza di mezzi di sussistenza, a quelle nuove e più complesse, quali la solitudine, la mancanza di valori, ecc.

Il discorso era rimasto, per me, solamente a livello teorico, ben altra cosa è però trovarsi di fronte e fare esperienze di questa seconda situazione.

lo, nel passato, avevo fatto la scelta di occuparmi delle povertà primordiali, quelle storiche, ormai fatte proprie dalla cultura corrente, perché le seconde non mi sembravano così gravi, così urgenti, ma tutto sommato un po’ artificiali e sofisticate.

Da queste scelte è nata l’attenzione e la ricerca, a livello abitativo, di dare risposta agli anziani poveri economicamente e ciò mi ha portato al don Vecchi, che tutto sommato, mi pare oggi una soluzione adeguata e rispondente ai tempi. Ora però tocco sempre più con mano che ci sono in città anziani, che possiamo chiamare benestanti, che vivono, pur dentro a questa città così convulsa ed affollata, il dramma amaro della solitudine, della precarietà esistenziale e della paura del domani. Per costoro, abituati però ed un certo livello di vita economico e culturale “la soluzione don Vecchi” non è appetibile, né idonea.

Bisognerebbe quindi pensare ad una formula di un livello superiore come struttura e come servizi e forse così queste persone potrebbero avere una risposta che li appaga e nel contempo essi potrebbero destinare i loro beni perché in città si moltiplichino queste strutture di valenza sociale.

Per me è tardi pensare alla soluzione di problemi del genere, ma parlarne e rifletterci matura una cultura dalla quale poi nascono soluzioni coerenti.

Parlando di società segrete

Quando ero bambino passavano, talvolta per la stradina su cui si affacciava la mia casa, le zingare. Avevamo dalla mamma l’ordine di non intrattenerci con loro e di non farle entrare in casa, perché la mamma diceva che portavano via i bambini.

L’incontro con queste donne, dai sottanoni lunghi fino alle caviglie, dalla forbice appesa con una fettuccia, dai capelli scapigliati e dalla carnagione scura, mi incuteva un sacro terrore.

A questa categoria di persone misteriose accomunavo anche i massoni, dei cui riti segreti avevo letto e sentito parlare come aderenti a sette segrete e pericolose, qualche tempo dopo finii di associare anche i comunisti. Per me tutta questa gente rappresentava un mondo oscuro, torbido e pericoloso. Ora capisco, per altri motivi, che non avevo tutti i torti.

Mi sono ritornate alla mente queste sensazioni remote e buie qualche giorno fa quando una persona autorevole affermò che un personaggio noto e importante in città, era massone. Alla mia sorpresa costui aggiunse altri nomi di personaggi che io conosco.

Pensavo che questa gente dal compasso e dal grembiulino e dai riti strani fosse scomparsa ormai dalla scena della nostra società.

Ora mi è venuto però qualche dubbio anche se sono convinto che l’adesione a queste società segrete, tanto prospere nell’ottocento, sia determinata quasi esclusivamente da motivi economici e di potere e che non appartengono ad esse soltanto i vecchi illuministi credenti nel grande architetto, ma tanti opportunisti, assetati di denaro, di potere, disposti a pagare questa sete anche col ridicolo e che appartengono non solamente a tutto l’arco politico, ma a tutte le articolazioni della nostra società povera di tutto.

La vita e la morte stanno diventando una banalità insignificante!

Una trentina di anni fa, o forse qualcuno di più, ebbi modo di partecipare in una casa dei padri Cavanis al Coldraga, sopra Possagno, ad un corso di studio sul problema della secolarizzazione.

Ricordo che lo studio si rifaceva ad un libro, che a quel tempo rappresentava la punta di diamante della ricerca sociologica a livello religioso.

Il volume che aveva come titolo “La città secolare”, mi pare di un certo Cox, analizzava con puntualità e precisione le linee di tendenza della società che stava affiorando e affermandosi in maniera quasi ineluttabile.

Lessi con grande attenzione e più ancora preoccupazione quello che, secondo l’autore, sarebbe stato il volto del comportamento religioso dei battezzati durante gli anni che ci separavano dalla fine del ‘900.

Però un discorso del genere in una località della Pedemontana della Marca Trevigiana, che aveva portato al soglio pontificio Pio X, in un mondo buono, semplice e praticante, non sembrava solo avveniristico, ma fantascientifico.

Mi ritrovo ora, pochi decenni dopo, ad imbattermi direttamente nelle espressioni concrete di questi studi anticipatori.

Un paio di giorni fa ho celebrato, nella cappella del cimitero, con la porta aperta in questa fine di un’estate strana, imprevista ed anomala. Notai il parlottare presso la porta della chiesetta, di tre o quattro vecchietti, che pareva che non si decidessero nè ad entrare nè ad allontanarsi.

Terminata la messa chiesi loro qual’era il motivo di quel trambusto: “Aspettavamo il funerale di un nostro amico; ci dissero che sarebbe avvenuto alle 15, abbiamo atteso invano, sennonché ora ci hanno riferito che il funerale è consistito nel caricare la bara sul carro funebre per portarla a  cremare a Marghera!”

Oggi questo capita poche volte, fra dieci anni forse i funerali si faranno per la maggior parte così!

La vita e la morte stanno diventando una banalità insignificante!

Un restauro radicale del cristiano

Credo di essere per costituzione e per formazione, oltre che per necessità contingenti, un uomo pragmatico e concreto, piuttosto che un mistico, seppur tendenziale. Molte volte ho confessato pubblicamente di preferire mille volte San Giacomo, che inchioda i discepoli del Signore alla carità concreta ed immediata, a San Giovanni che si lascia andare a discorsi tanto sublimi che talvolta mi appaiono perfino fumosi.

Stando così le cose del mio spirito, il meditare mi è stato sempre piuttosto difficile, spesso il pensiero parte da verità di ordine spirituale e poi prende strani sentieri che mi riportano ai miei problemi concreti che non ho ancora risolti. Quando mi scopro così lontano dalla rotta preordinata do un colpo di barra e per un po’ tengo la rotta, per poi ritrovarmi nel vasto mare della vita. Talvolta però ho la fortuna di imbattermi in una immagine o in una verità che mi affascina, allora tento di conquistarla ad ogni costo. Mi è capitato l’altra mattina che chi commentava un passo del Vangelo cominciò alla larga rifacendosi ad una sua recente esperienza concreta.

Aveva deciso di restaurare un vecchio mobile che aveva in casa, tentando di riportarlo allo stato di origine perchè nel tempo l’avevano più volte colorato, impasticciandolo.

Cominciò a sverniciare, passare con la carta vetrata, a raschiare finché riemerse il bel e caldo colore del larice di cui era fatto.

Concludendo che anche l’uomo, il cristiano talvolta ha bisogno di questo restauro radicale per tornare alla bellezza originale.

Il pensiero mi è parso valido; quanto non ho desiderato poter entrare nell’archivio di Dio per prendere visione di come il Creatore mi ha progettato per confrontare la mia vita al progetto originale. Certamente il progetto è più bello, ordinato, armonioso di come mi sono ridotto.

Se non farmi nuovo, almeno credo sia ancora possibile un restauro radicale per far emergere la bellezza dell’impianto originale.

Allora non c’è che a metter mano alla carta vetrata e allo sverniciatore!

Preghiere da Internet

Mio padre mi raccontava lo stupore e l’incredulità di mio nonno quando un suo compare gli raccontò che nell’osteria, che ambedue frequentavano alla domenica dopo la messa delle sei del mattino, avevano comperato una scatola che parlava.

Mio padre era un buon parlatore, alla sera ci raccontava sempre le stesse favole, ma sempre con varianti tali per cui ci sembravano sempre nuove o ci parlava dei fatti della prima guerra mondiale il cui fronte si era attestato sul Piave ove i miei cari vivevano in un casone, in prima linea; racconti che mi incantavano.

Il babbo perciò incorniciava l’incredulità del nonno per l’arrivo in Paese della prima radio come un avvenimento inverosimile e favoloso, tanto che, campassi altri cent’anni, non dimenticherò mai la scena del nonno incredulo di fronte ad una vicenda così sorprendente.

Ora io ho l’età che a quel tempo aveva mio nonno e mi capita di essere meravigliato e sorpreso, quanto fu lui, quando arrivò la prima radio ad Eraclea, mio paese natale.

I miei collaboratori di internet mi avevano avvertito che mi avevano aperto un blog perché io potessi colloquiare non solo con i cittadini i Mestre, ma con gli italiani e il mondo intero e perciò quando avevo qualcosa da dire lo facessi scrivendo sul mio blog. Sinceramente non ho ancora capito questo strano marchingegno, poi diffido che in questa “Treccani” mediatica moltiplicata per mille o per diecimila ci sia chi va a scoprire il mio indirizzo!

Vedendo che io non adoperavo questo blog, qualcuno degli amici deve aver scritto che lunedì scorso ero stato ricoverato in ospedale, martedì mi portano un foglio con tanto di disegno a colori con la scritta di una ragazzina dodicenne di Mondello, Palermo, che mi ha conosciuto mediante il sito internet, è rimasta colpita dalla notizia.

Mi scrive che si è impegnata assieme alla madre di pregare per la mia guarigione scrivendomi “Don Armando, guarisci presto!”.

La mia pronipote più piccola si chiama Anne, le racconterò questo evento perché quando sarà vecchia racconti ai suoi cari la sorpresa e la meraviglia del suo vecchio prozio!

“Bonsignor Bottacin” di Chirignago

Ognuno tira fuori dal cassetto le vecchie glorie che crede di avere. Roma dice di essere stata fondata da Romolo e Remo, Padova da Antenore. Chissà poi quanto sarà vero?

Questi non erano espedienti del passato o delle grandi città, ma vi ricorrono anche le piccole o ignote comunità. Chirignago non ha mai goduto di grande fama anche se si tratta di un vecchio paese che fino al 1928 apparteneva alla Marca Trevigiana.

C’era un detto popolare, che i più vecchi e il popolino indigeno ricorda ancora, che affermava che “a Chirignago piantavano fagioli e nascevano ladri”. Andare controcorrente per glorificare questo borgo credo che non sia troppo facile. Se poi si pensa che l’attività più eminente è stata fino al recente passato una fabbrica di scope di saggina e che prima dell’ultima guerra fu un popolo di fede decisamente fascista e terminata la guerra divenne e rimase una comunità prevalentemente comunista, nonostante tutti i richiami del loro parroco d’allora, non c’era granché per nobilitare la parrocchia perché perfino il comune fu soppresso dal duce nel 1926.

Mio fratello don Roberto, attuale parroco di quel paese della periferia mestrina, si ricordò che pure Chirignago aveva una gloria da mettere sul piatto: monsignor Bottacin, un parroco proverbiale per la sua carità, parroco ancora ricordato dai vecchi che condivisero la miseria di prima e dopo l’ultima guerra.

Gianni Montagni, mio lupetto ai Gesuati, giornalista in pensione de “Il Gazzettino” e trasferitosi con l’abitazione a Mestre, accettò l’incarico di scrivere la vita e le opere di questo “Bonsignor”, così infatti lo chiamava la gente.

Durante la breve degenza in ospedale ho letto questo volume per ammazzare il tempo. Montagni ha fatto ricerche, interviste ed ha riportato a galla tutto quello che era umanamente possibile riportare. Il volume tipograficamente è bello e costoso perché curato dall’editore Marciano, questo storico improvvisato fa sfoggio di tutta la sua cultura tentando di inquadrare questa persona facendo riferimento a tutti i possibili riferimenti religiosi, sociali e culturali, ma sarebbe bastato che avesse scritto che mons. Bottacin, era molto caritatevole, e questo non è davvero poco, ed uomo di preghiera, per il resto sarebbe stato meglio che l’avesse coperto con un velo di pietoso silenzio.

Piazza maggiore e il futuro di Mestre

Nota: don Armando ha scritto queste righe alcune settimane fa durante un breve ricovero all’Ospedale dell’Angelo.

Mentre tento di ammazzare il tempo ogni tanto alzo le testa da “Piazza maggiore”, il giornale dal grande formato della Comunità di San Lorenzo, perché il mio sguardo attraversi la grande vela di vetro dell’Angelo, accarezzi leggermente i prati verdi che fanno da cornice al nuovo ospedale e si spinga più in là dove inizia la nostra città.

Sono entusiasta nel vedere come si coniuga la città descritta nell’interessante periodico del Duomo; il ricordo caro che porto nel cuore  della città in cui ho vissuto molti anni della mia prima esperienza pastorale e il domani prospettato per quella, che fino ad un paio di decenni fa, era descritta Mestre come la città dormitorio.

D’istinto sono portato a pensare che le lontane radici di questo sforzo di coniugare il destino civile con quello cristiano siano state poste a metà del secolo scorso quando mons. Vecchi cominciò la sua “rivoluzione”: la fine di parrocchie autarchiche per impiantare la chiesa di Mestre, la ricerca di dialogo tra i gruppi ecclesiali col segretariato della gioventù ed una crescita culturale con respiro cattolico mediante il Laurentianum.

Io c’ero, e fui partecipe cosciente e pieno di speranza di questo inizio di tempi nuovi.

Ora leggendo con calma “Piazza maggiore” in una stanza linda e spaziosa nell’ospedale dell’Angelo, ospedale che è pure una pietra miliare avanzata di questo percorso verso il domani, sono più che certo che don Fausto, il ragazzino di un tempo, che ho incontrato più di mezzo secolo fa sulla fondamenta delle Zattere ai Gesuati, ha preso ben saldo in mano il testimone e lo sta portando avanti con intelligenza, sicurezza e decisione.

Sono così felice nell’apprendere come mons. Bonini dialoga con la città e i suoi amministratori, scruta ed interpreta il domani ed irradia di contenuti religiosi la ricerca e l’azione pastorale, che se non avessi la mia veneranda età, mi metterei a sua disposizione per condividere la bella avventura cristiana in questo contesto ricco di attese e di prospettive!

La gente non vuol fare i mestieri che richiedono sacrificio

Finora l’Angelo l’ho conosciuto soprattutto dal lato estetico. Ripeto per me il nuovo ospedale è una delle sette o nove meraviglie del mondo, di cui vado fiero.

Prima di questo ultimo ricovero, ho ammirato il paesaggio collinare che lo circonda, i cipressi che mettono in rilievo il verde dei prati e l’incrocio armonioso delle strade, l’entrata solenne, il giardino pensile che ti fa sentire in una isole delle Hawaii, la cappella in cui celebro da più di due mesi, le celle mortuarie, ma non mi ero reso conto dell’immensità della struttura e della sua estrema funzionalità, checché ne dicano i critici di turno e i politici che per quarant’anni hanno speso in sovrabbondanza soldi e chiacchiere. Ora ho sperimentato da dentro il disegno e la disposizione intelligente per rendere più efficiente la struttura e per risparmiare sul personale.

Credo che noi dobbiamo andar fieri circa la sanità a Mestre: pulizia estrema, abbondanza e nitidezza nella biancheria, efficienza nel corpo infermieristico, competenza ed umanità in quello medico.

Cibo vario, abbondante e buono, strumentazione d’avanguardia.

Ho potuto, per onestà, notare due fattori, non dico negativi, ma che fanno pensare.

Il primo, si chiede al personale di lavorare sodo, credo che tra l’altro si sia studiata la struttura in modo tale per cui gli operatori non possono rintanarsi e perder tempo. Ricordo che molti anni fa un infermiere mi tolse la flebo dicendomi: “Don Armando questa notte la lascio riposare” e il mattino dopo un suo collega mi confidò che nella nottata avevano fatto una splendida spaghettata!

Non credo che all’Angelo sia facile ripetere questa impresa!

La seconda che il personale infermieristico è composto solamente da giovani donne, belle, con belle divise premurose finché vuoi, ma solo donne. Pare che i giovani disertino questo lavoro perché non sufficientemente retribuito, fatto di turni, di riposi collocati nei tempi meno appetibili. Per le retribuzioni non dovrebbe essere difficile ovviare a questa difficoltà, ma per quanto riguarda il sacrificio la cosa è certamente più impegnativa.

In Italia bisogna, a mio parere, avviare una rivoluzione culturale perché non è possibile che non ci sia più chi vuol fare il panettiere, l’apprendista, l’artigiano solo perché richiede sacrificio. Se le cose andassero ancora così, vorrebbe dire che la decadenza è ormai fatale!

I cittadini a cui dobbiamo rispetto

Nell’ultimo, fortunatamente breve, soggiorno all’Angelo ho condiviso la bellissima stanza con ogni confort, ben diversa da quelle in cui avevo soggiornato nel vecchio Umberto I°, con due anziani signori.

Il primo di questi colleghi di “sventura” non ho fatto quasi in tempo a conoscerlo, primo perché siamo rimasti insieme poco più di una mezza giornata, secondo perché tra un letto e l’altro esce dalla parete una tenda linda a cannocchiale che divide la stanza in due parti e ti garantisce una privacy quasi completa.

Col secondo però le cose sono andate un po’ meglio anche se la notevole sordità del compagno e quella parziale mia, non hanno reso facile il dialogo.

Il collega era un vecchietto arzillo di 87 anni, mi pare, con un figlio ingegnere ed una figlia affezionatissima al papà che l’ha seguito in quei giorni con tanto amore.

Credo di non fargli torto raccontando la sua storia perché lo faccio solamente per ammirazione.

Richiamato in guerra, il 9 settembre 1943, si trovò la caserma circondata dai tedeschi, i quali lo spedirono in carro bestiame, in cui non riuscivano neanche a sedersi, nella Germania del nord. Pesava 75 chili quando fu internato in un lager e quando fu liberato dai russi, poco più di 30.

Tornato a casa nell’ottobre del ’45, fu assunto alla Sava di Marghera ove lavorò per ben 40 anni; messo in pensione lavorò altri 20 anni “in nero” per costruirsi la casa e far studiare il figlio ingegnere.

Fece il muratore, curò i giardini ed ogni altro lavoro che gli capitava, comperandosi un lotto di 500 metri di terra e costruendovi una casetta ove vive felicemente, con la moglie, curando l’orto, leggendo il Gazzettino, in un rapporto affettuoso e caro con la moglie, figli e nipoti.

Se avessi stima nelle onorificenze chiederei a Napolitano perlomeno il titolo di commendatore per questo cittadino e se fossi il titolare del ministero del lavoro, gli concederei la croce al merito per i 40 anni di lavoro in bianco e più ancora per i 20 in nero.

Questi sono i cittadini probi a cui dobbiamo rispetto e riconoscenza altro che i tanti fannulloni dell’Alitalia e dei relativi sindacati che sono la vergogna del nostro Paese!

Liana Foletto

Alla messa che celebro nell’ospedale all’Angelo non c’è mai tanta gente, specie durante la settimana, ma mentre quando celebro in cimitero debbo leggermi le letture perché nessuno si offre a farlo, in ospedale c’è sempre qualcuno che si alza e s’accosta al leggio.

Stamattina, mentre me ne stavo un po’ assorto, ho sentito un timbro di voce che mi pareva di ricordare. Diedi una sbirciata e scorsi una signora di mezza età in vestaglia, con i capelli un po’ arruffati ed un braccio in gesso. Conclusi di non conoscerla. Durante la predica più di una volta cercai con lo sguardo, ora che mi stava di fronte, la lettrice dalla dizione perfetta che aveva proclamato la Parola del Signore in maniera egregia. Accanto a lei c’era seduto un signore che riconobbi subito perché per molti anni aveva fatto il contabile della San Vincenzo.

Finalmente compresi che la signora ospite dell’ortopedia, era Liana Foletto, la splendida creatura che ha donato voce alla liturgia, cuore ai poveri, sensibilità alla musica e al canto.

In un baleno si accavallarono nella mia mente tanti fotogrammi, precisi che mi fecero riaffiorare la memoria di tante vicende vissute assieme.

Liana per anni ed anni si era impegnata con la casa di Riposo di via Spalti, alla mensa dei poveri di Ca’ Letizia, per anni questa donna ha animato la liturgia ai Cappuccini per non averlo potuto fare nella sua comunità per un parroco impossibile. Liana ogni anno mi donava voce e cuore nel tessuto de “Il Quaresimale” la paraliturgia vespertina delle domeniche in preparazione alla Pasqua.

Terminata la messa l’incontro è stato quanto mai caldo, affettuoso e cordiale; due vecchi amici, due commilitoni di tante battaglie sul campo della carità.

Ora io sono vecchio e lei quasi, ma mi fa felice di averla incontrata ancora una volta in prima linea!