Il gallo che mi fa la predica al mattino

Di natura sono un uomo metodico, mi pare che l’osservare un orario sia quasi un mettermi in un binario per giungere nei tempi esatti ai vari appuntamenti della mia vita di vecchio prete in pensione.

La sveglia suona alle 5,45, pulizie personali, rifacimento del letto, recita del breviario, breve meditazione, colazione e alla 7,30 ingresso nella mia cattedrale ancora dormiente tra i vecchi cipressi.

Ora alle 5,40 è ancora buio. Il grande campo prospiciente al mio terrazzino se ne sta sdraiato, muto ed incolore. Al mattino però non c’è solamente la coltre scura che copre linee e colori, che con l’aurora si ravvivano, ma si avvertono suoni e rumori che durante la giornata non mi capita mai di avvertire.

Si sente dalla bretella dell’autostrada di via Martiri della Libertà, un brontolio sordo e costante delle macchine e dei camion sempre in movimento. Ogni tanto sovrasta questo rumore cupo lo sferragliare del treno della ferrovia che passa abbastanza rapido, ma soprattutto aspetto con trepida attesa il canto del gallo di una piccola fattoria che ha qualche campo coltivato vicino al don Vecchi.

Deve essere un piccolo gallo perché il suo canto giunge flebile, ma ben distinto.

Da più di cinquant’anni non sento il cantare del gallo che nella mia infanzia era tanto gradito, gioioso e familiare.

Ogni mattina il canto del gallo mi fa pensare al tradimento di Pietro col rimprovero di Gesù, ma soprattutto, penso con preoccupazione, durante il nuovo giorno, di non essere capace di dare una testimonianza coerente, coraggiosa e limpida della mia fiducia della parola di Cristo.

Il gallo del mattino mi turba, mi stimola in maniera più efficace dei salmi e delle riflessioni del libro di meditazione.

Spero tanto che la padrona di casa non finisca di tirare il collo al gallo che mi fa la predica al mattino!

La chiesa veneziana e l’ospedale dell’Angelo

Nota: don Armando ha scritto questa riflessione prima che don Robert Skrzypczak fosse chiamato a curare in forma permanente la chiesa e l’assistenza ai malati nel nuovo ospedale.

Ieri ho sentito il bisogno di tessere l’elogio del nuovo ospedale e dello staff che lo ha progettato, delle imprese che hanno realizzato la grande opera, che non ho difficoltà a definire storica, di chi ne ha organizzato il finanziamento e l’esecuzione.

Da quanto ho sentito, si vuol fare dell’Angelo un ospedale di eccellenza e perciò, pian piano, si assumeranno professionisti di primo piano.

Come cittadino, almeno per una volta, sono soddisfatto.

L’ospedale però è destinato al recupero fisico, e perché no, anche spirituale dell’uomo.

L’ospedale dovrebbe essere destinato al recupero e al restauro di tutto l’uomo, almeno di quanto è umanamente possibile.

Affermato tutto questo, deve quindi operare all’interno di questa poliedrica struttura, uno staff di operatori religiosi di eccellenza per cogliere il momento favorevole per una proposta religiosa quanto mai seria ed attenta del momento propizio per riordinare lo spirito, per recuperare la coscienza del bisogno di Dio, per incentivare la consapevolezza del dono della vita, per ringraziare, chiedere perdono al Signore, e per rilanciare il desiderio di vivere la proposta cristiana in maniera degna e coerente.

La società ha offerto a Mestre una struttura meravigliosa, temo però che la chiesa veneziana stia contribuendo per quanto la riguarda, in maniera assolutamente inadeguata e carente.

Pur essendo le porte dell’ospedale spalancate, la chiesa non sta dando un volto riconoscibile, vivo efficiente a Cristo Gesù nel nuovo ospedale.

Ci sono, pare delle speranze, finora però la risposta a questa attesa è assolutamente manchevole.

So che a qualcuno o a molti dispiacerà questa mia affermazione però credo sia un dovere che questo vecchio prete diventi coscienza critica e dica apertamente che il nuovo ospedale esige molto di più e di meglio dalla chiesa veneziana, ed aggiungo che, volendolo questo è assolutamente possibile!

Il Vespero

Avevo pensato come titolo del volume che raccoglie “il diario” del 2007: “Prima del tramonto”

Avevo scelto questo titolo riferendomi ai guai fisici per nulla debellati e che mi lasciano costantemente in uno stato di precarietà psicologica ed esistenziale.

Già nel passato avevo tentato, per quanto ciò sia possibile, di prepararmi bene al transito, poi invece i sintomi sono risultati segnali di una falsa partenza e perciò sono ritornato ai blocchi.

Ogni tanto mi pare di sentire i segni dei “tempi nuovi”, e ad ottant’anni è più che facile sentire questi ammonimenti che però non sono mai veramente chiari, ma invece rimangono sempre problematici. Ora, pur rimanendo, come sempre, l’orizzonte un po’ rannuvolato, ho la sensazione di poter sperare d’avere ancora un po’ di tempo a disposizione e perciò ho deciso di riservarmi il titolo che avevo pensato per un eventuale domani e di ripiegare su uno che mi offra la possibilità di poterlo usare semmai un’altra volta.

Stando così le cose ho deciso che il nuovo volume porterà come titolo “Il Vespero”, rimane tutto sommato la cornice temporale, però mi offre la possibilità di poter utilizzare un po’ di spazio ulteriore.

Strana cosa leggere le registrazioni di fatti, sensazioni, sogni, realizzazioni recenti, che però mi sembrano ormai lontani nel tempo.

Ci sono cose che, rileggendo la loro registrazione a così poca distanza, non vorrei aver detto, pensato e fatto ed altre che desidererei aver fatto meglio e con più intensità.

Sto capendo che la vita bisogna viverla con più sapienza, con più lungimiranza e con più responsabilità.

Spero di aver ancora un po’ di tempo, e gestire meglio il tempo che mi sarà donato!

“Chi è in mare naviga e chi è a terra critica!”

Questo tempo, a livello pastorale, è caratterizzato dal “servizio” che mi sono offerto di compiere nel nuovo ospedale.

Sto vivendo degli stati d’animo che tento di analizzare, ma che non sempre mi è facile definire.

La struttura dell’ospedale dell’Angelo è veramente stupenda. Non credo di avere aggettivi adeguati per apprezzare l’architetto che l’ha progettato, le maestranze che l’hanno realizzato in così poco tempo ed il manager che ha messo assieme così tanti e diversi finanziatori, e portato avanti una organizzazione così complessa ed impegnativa a livello di progettazione, di esecuzione e di finanziamento.

Quando leggo sui giornali le critiche, talvolta aspre, per presunte o vere carenze, per qualche disagio o per qualche difficoltà provo un senso di indignazione.

Sono gli inetti e gli incapaci che solitamente diventano critici provetti.

Ricordo che una trentina di anni fa scrissi un articolo mordace affermando, che come un tempo si mettevano le lapidi su certi edifici pubblici con i nomi dei benefattori che avevano concorso nell’edificazione dell’opera, così auspicavo che nel vecchio Umberto I° si apponesse una lapide con i nomi dei politici ed amministratori, di tutti coloro che avevano concorso a vanificare il progetto di un nuovo e più adeguato ospedale.

L’ospedale dell’Angelo è veramente superbo, è collocato in un paesaggio che presto diverrà da sogno e solamente a pochi giorni dall’inaugurazione è estremamente efficiente.

Le critiche sono ingiuste, ignobili, e frutto di menti inette.

Monsignor Vecchi, più propenso a fare che a parlare, diceva citando un proverbio marinaro “Chi è in mare naviga e chi è a terra critica!”

Una volta tanto che possiamo essere orgogliosi di qualche nostro amministratore e di una qualche struttura degna, apprezziamola e non diventiamo meschini a cercare le pulci!

Voglio ricordare le cose come le ho lasciate

Tra la posta ho trovato, con lieta sorpresa, una cartolina proveniente dalla Malga dei Faggi di Gosaldo, la casa di montagna della mia vecchia parrocchia.

Rita, la proverbiale “governante”, che con l’uscita dal servizio attivo in canonica, come l’Araba Fenice è risorta dalle ceneri a vita nuova.

Nonostante la sua veneranda età si è trovata un nuovo servizio nella parrocchia di S. Nicolò dei Mendicoli a Venezia e fa, non solo la spola tra il don Vecchi e la nuova canonica del giovane parroco don Paolo, ma accompagna i ragazzi in montagna e vive e partecipa alla loro avventura estiva.

La cartolina, che ho fatto stampare più di 20 anni fa, riporta un gruppo di ragazzini che gioca sotto la croce che abbiamo piantato sul prato per ricordare Paolo Vesnaver, lo scout morto tragicamente tantissimi anni fa e che in quei prati aveva vissuto giorni spensierati e felici.

Quanti ricordi, quanta nostalgia ha suscitato nel mio animo questa cartolina un po’ ingiallita, testimone di tempi andati!

Tutti mi dicono che la casa in montagna della parrocchia è tenuta bene, continua la sua funzione di offrire ricordi felici alle nuove generazioni di bambini, la cosa mi fa tanto felice perché mi testimonia che non ho faticato invano. Non altrettanto qualcuno mi riferisce di Villa Flangini, la casa asolana per gli anziani.

Io voglio ricordare strutture, persone ed atmosfere belle ed efficienti come le ho lasciate, il resto non mi appartiene e non ne sono più responsabile.

Io sto con la minoranza della minoranza…

Un mio collega, avendo letto una pagina in cui ho espresso un certo gaudio sociale perché il popolo italiano ha dato un calcio sul sedere all’estrema sinistra, massimalista e nostalgica di un progetto fallito sotto ogni punto di vista, ha pensato che io provassi almeno eguale gaudio per la vittoria di Berlusconi, verso cui egli esprime disprezzo e rifiuto.

Quando capitano queste cose io provo un enorme imbarazzo e veramente non so come uscirne.

Nell’arco politico esistente non ho ancora trovato chi a livello di indirizzo sociale, di coerenza personale, di saggezza e di sano realismo interpreti le mie posizioni ideali e perciò quando mi pare che qualcuno passi il limite del lecito, mi viene di tentare di dargli una sonora ”legnata”.

Con ciò non mi sento nè di destra nè di sinistra, nè di centro, nè con le fazioni che annacquano qualcuna di queste tendenze, che sia dalla parte dei poveri, degli oppressi, dei senza parola, mi pare scontato. Lo sono per nascita, per istinto, per coerenza religiosa, per scelta personale, infatti nella vita sono sempre con la minoranza della minoranza e le legnate ideali le ho sempre prese sia dall’una che dall’altra parte ieri ed anche oggi.

Speravo, ed in verità lo spero ancora, che la vita che ho fatto, gli obiettivi su cui mi sono impegnato, la decisione di condividere la fine degli ultimi della nostra città dovrebbe essere una garanzia. Certo avrei potuto far meglio, però anch’io ho dei limiti che non sono stato capace di superare perciò resto ammirato quando uno riesce a far meglio di me.

Un tempo di raccolta gioiosa

C’è una frase della Bibbia che in certi momenti amari della mia vita mi ha donato conforto, sollievo e speranza: “C’è chi semina nel pianto e chi raccoglie nella gioia”.

In questa frase sembra siano due i protagonisti degli eventi amari e di quelli lieti. Però credo che la sentenza biblica si possa interpretare come riguardante la stessa persona in momenti diversi.

Nel lontano 1971, in un momento di devastante contestazione mi trovai a diventar parroco in un momento veramente burrascoso in cui sembrava pressoché impossibile tenere la rotta voluta dentro un uragano così scatenato.

Pensai subito che dovevo crearmi uno strumento per poter comunicare con tutte le componenti della comunità per non essere travolto da quelle più irrequiete e più radicali. Creai “Lettera aperta” il settimanale che portava come sottotitolo: “Circolare settimanale del parroco” in modo che nessuno potesse pretendere di prendere in mano il “megafono”. Così fu.

I giovani più esagitati tentarono più volte di far diventare il foglio come veicolo del pensiero della comunità, che poi in realtà avrebbe veicolato solamente il loro pensiero malato. Tenni duro, ed ebbi ragione.

Nacque poi sulla stessa linea il periodico “Carpinetum” e all’interno di questo la rubrica “Il diario del parroco” che mi permise di parlare in maniera sciolta, non troppo impegnata, usando tutte le corde: dal sentimento all’humor, alla poesia o al patetico.

Rimasi solo, ma potei comunicare e raggiungere tutti.

Don Gino Cicutto, che mi fu accanto per molti anni, capì la validità della soluzione e nella sua parrocchia di Mira la tradusse con “Gli appunti di don Gino” e adopera attualmente questo strumento in maniera disinvolta ed efficace. Ora mi capita di scoprire che anche un altro giovane prete, don Cristiano Bobbo, adotta la soluzione con un titolo pure diverso: “I giorni del prete” nel suo periodico “Comunità e servizio” con gli stessi risultati positivi.

Il mio pare ormai tempo di raccolta gioiosa; la ricerca, la fatica non è andata perduta, ma sta germogliando non appena trova intelligenza e buona volontà!

Una testimonianza edificante all’ospedale

Mi sono reso disponibile, prima e dopo la messa dell’Angelo, di amministrare i sacramenti della penitenza, dell’Eucarestia e dell’Unzione agli ammalati o per dare una parola di conforto o di una benedizione a qualche paziente che ne avesse fatto richiesta.

La suoretta dell’ospedale mi aveva chiesto l’altro giorno di dare gli “olii santi”, come si diceva un tempo, ad una anziana signora che era degente in un determinato reparto.

Appena smesse le vesti liturgiche dopo la celebrazione, stavo prendendo il vasetto dell’olio santo, allorchè due signori, piuttosto preoccupati, mi chiesero di andare subito a dare una benedizione alla loro mamma che, a loro dire, stava per morire.

Dissi che non appena avessi evaso la richiesta precedente sarei andato immediatamente da loro. Mi parvero preoccupati per questo ritardo ed insistettero perché andassi subito dalla loro mamma. Se non che pian piano capii che la loro pressante richiesta e quella della suora riguardavano la stessa paziente.

Andai con sollecitudine e di buon grado. In una stanzetta linda, appartata, che si affacciava sui prati verdi, in cui è immerso l’ospedale, c’era una cara nonnetta, accanto a lei due figli affettuosi, una nuora ed un nipote. Dissi due parole di preparazione prossima, ma non ce n’era bisogno perché lei era pronta e tutti gli altri partecipi al sacro rito, quasi desiderosi che io purificassi e vestissi a festa la loro mamma perché potesse presentarsi pulita, in ordine e bella al cospetto di Dio. Rimasi tanto edificato per la fede di questa cara donna e per quella che aveva trasmessa ai suoi cari, tanto che le domandai che mi tenesse un posto per me lassù accanto a Dio.

Mi sorrise e mi benedisse. Forse ora ha già messo un giornale nella sedia accanto alla sua perché questo povero vecchio prete non debba stare a lungo in piedi ad attendere.

“Il cristianesimo se non diventa solidarietà si riduce ad aria fritta!”

Il dottor Marco Doria, docente universitario a Ca’ Foscari e consigliere di amministrazione della Fondazione Carpinetum, che attualmente gestisce i centri don Vecchi e i progetti solidali in fase di realizzazione, oggi mi ha presentato lo studente di Economia e Commercio che ha vinto una borsa di studio per una tesi di laurea sulla dottrina sociale ed economica che sottintende questa struttura residenziale per la terza età.

Il laureando, residente a Marghera, figlio o nipote di esuli Giuliano Dalmati, è un giovane sveglio ed intelligente che ha colto la palla al balzo di aver subito una tesi, un tutor nel dottor Doria che lo guiderà, un argomento attuale ed interessante, ed infine una gratificazione economica che gli permetterà di sostenere le spese e di aver pure un introito economico con cui affrontare i primi tempi per cercare un lavoro.

Io sono felice che l’università studi e dia un supporto scientifico a quella che per me è stata un’intuizione nata dal condividere le esperienze e i drammi amari degli anziani.

Abbiamo passato assieme a questo studente e al dottor Doria un’oretta di conversazione cordiale in cui ho tentato di puntualizzare le motivazioni di fondo, che attingono a principi di fede e quindi ho illustrato le mediazioni intermedie che hanno tradotto gradatamente in scelte sociali, strutturali ed organizzative il progetto nato da questi principi religiosi.

Mi pareva di essere tornato ai tempi di scuola in cui il professore di storia monsignor Altan, tipo intelligente, ma originale, quando incominciò a parlarci della riforma protestante distinse le cause remote da quelle prossime. Le cause remote della riforma, secondo lui, risalivano al peccato di Adamo ed Eva!

Credo che avesse ragione.

Traducendo, nel caso del don Vecchi, sono convinto che la causa remota sia la mia profonda ed assoluta convinzione che il cristianesimo se non diventa solidarietà si riduce ad aria fritta!

Da questa convinzione con infinite mediazioni si è arrivati pian piano al don Vecchi. Quindi se togli questo principio crolla tutto!

Una “collisione” evitata

In questi giorni ho temuto di entrare in collisione con la San Vincenzo, movimento in cui ho militato per alcuni decenni e da cui non mi sono mai idealmente staccato.

In genere quando mi pare di aver terminato un’esperienza, volto pagina, non perché rifiuto o rinneghi il passato, ma solamente perché l’esperienza successiva che sposo, mi assorbe totalmente per cui non mi pare di aver più tempo per quella che ho lasciato.

Così è avvenuto per la San Vincenzo.

Una quindicina di anni fa mi è parso di non riuscire più a dare quel contributo che ritenevo doveroso, per cui ho lasciato, dedicandomi più liberamente sempre alla carità, però seguendo il mio intuito, le mie esigenze interiori, perseguendo obiettivi che io ritenevo più impellenti e più bisognosi di persone che vi dedicassero attenzione ed impegno.

Con questo ho seguito, sempre discretamente a da lontano, il servizio che questo movimento continua ad offrire alle frange più indifese della nostra popolazione.

La San Vincenzo da qualche anno è entrata in ospedale con un centinaio di volontari per svolgere un’opera di supporto e di testimonianza cristiana.

Per una serie di circostanze e di carenze di assistenza religiosa anch’io, seppur vecchio, sono rientrato in servizio attivo in qualità di richiamato.

Una delle prime urgenze che ho avvertito fu quella della comunicazione e della formazione religiosa e senza pensarci troppo ho, per la seconda volta, dato vita ad un foglio settimanale, essendomi stato erroneamente detto che, il primo a cui avevo pensato tanti anni fa “Il coraggio” è stato chiuso.

Le cose non stanno così, il foglio precedente era solamente “dormiente”.

Chiarito l’equivoco, troveremo certamente modo di arricchire l’iniziativa in maniera tale che la presenza e la testimonianza cristiana sia più viva ed efficace all’interno dell’Angelo.

Sono stanco di una religiosità compassata…

Ho sempre tenuta ben stretta la razionalità anche quando ragiono o mi occupo di fatti o discorsi che riguardano la fede.

Io sono ben legato all’affermazione: “Credo ut intelligam ed intelligo ut credam” credo per capire più a fondo e meglio e cerco motivazioni razionali perché facciano da supporto alla mia fede e la rendano credibile per chi mi sta accanto.

Però non ho mai disdegnato di dare un giusto rilievo anche alle sensazioni, ai sentimenti emotivi che accompagnano e talvolta avvolgono i fatti di fede.

Come ho confessato più volte adopero, per la mia meditazione mattutina, un libretto edito dalla congregazione metodista di Genova, una delle tante chiese nate dal movimento protestante, particolarmente diffusa negli Stati Uniti d’America, ma diffusa in tutto il mondo.

La paginetta quotidiana parte da qualche riga del nuovo o vecchio testamento ed è commentata da uno dei tanti fedeli aderenti ad una piccola comunità cristiana sparsa nel mondo, che fa capo a questa chiesa protestante.

Sono quasi sempre riflessioni ingenue, che si rifanno a delle esperienze personali, quasi a commento, supporto e prove della validità del dato biblico. Talvolta sono centrate, talvolta un po’ tirate, ma sempre fresche, candide, luminose e soprattutto illuminate dalla fede che fa brillare come il prato verde illuminato dalla rugiada mattutina.

Mi pare di avvertire, sempre più, che la fede ha bisogno per esprimersi, per farsi sentire vera e convinta, anche di questa freschezza, di questo candore e di questo entusiasmo che sa quasi di estasi e letizia interiore. Sono stanco di una religiosità compassata quasi preoccupata di non avere il consenso degli uomini e dei ben pensanti. Sono anzi sempre più convinto che la fede deve esprimersi con l’incontro di chi è veramente innamorato.

La “guerra degli spazi”

Qualche giorno fa sono sceso, come faccio ogni giorno, nell’interrato del don Vecchi per gratificare i cento volontari che impegnano il pomeriggio a servizio della gente che ha bisogno di vestiti, coperte e mobili per gli appartamenti che faticosamente riescono ad affittare.

La visita non ha il solo scopo di far sentire a chi serve con umiltà e generosità la povera gente che il capo conosce ed approva, ma anche per fare da interposizione tra i contendenti nella “guerra degli spazi”.

Ogni gruppo rivendica, costantemente con passione, il bisogno di più spazio per svolgere al meglio il proprio servizio, perciò come presidente della fondazione e dell’associazione di volontariato sono chiamato a fare da paciere e da controllore perché non si invadano i territori altrui.

Proprio in una delle ultime mie visite notai come certi spazi siano quasi sprecati perché costituiti da sgabuzzini angusti. Mentre mi stavo chiedendo come mai l’interrato è stato strutturato in quel modo, mi venne in mente che l’artefice sono stato proprio io, perché avevo lungamente sognato di fare di quella parte di interrato una trentina di stanze per lavoratori extracomunitari.

Il progetto andò a vuoto perché, l’assessore Zordan, nonostante tutta la buona volontà, stante le leggi vigenti, non poteva darmi questo permesso. Da questo fallimento nacque il progetto alternativo dell’ostello San Benedetto di Campalto.

Quanto ringraziai il Signore per avermi impedito, tramite la burocrazia del Comune, di realizzare l’incauta soluzione sognata! Ora capisco che avrei costruito una polveriera sotto gli alloggi del don Vecchi e il Signore, più cauto e lungimirante del suo vecchio e sprovveduto ministro, pensò bene di impedirmelo.

Prima di tornare al piano nobile, non solo ho ringraziato il buon Dio di avermi messo i pali tra le ruote, ma ho pure fatto il proposito di fidarmi di più e sempre della Provvidenza, che talvolta si avvale perfino della burocrazia, per impedire la sventatezza di qualcuno dei suoi ministri meno avveduti e prudenti.

L’arcobaleno mi emoziona

Ogni tanto riscopro in fondo al mio animo emozioni provate nei tempi lontani e che con sorpresa ricompaiono, riaffiorando da spazi interiori che non sapevo quasi più di avere.

Qualche giorno fa me ne ritornavo a casa, percorrendo la circonvallazione che dal nuovo ospedale conduce velocemente al don Vecchi.

Ero entrato in ospedale quando incombevano, sulla periferia che incontra i primi campi ancora coltivati, dei nuvoloni neri, bassi e cupi e stavano cadendo i primi goccioloni pesanti di pioggia.

Entrato in ospedale incontrai un’atmosfera dolce e serena nel giardino pensile bello ed accogliente, come ci trovassimo in una isola del Pacifico.

Celebrai assieme ad un gruppetto di degenti che, con me, chiedeva al Signore salute e serenità per i tanti ospiti accomunati dalla preoccupazione e dalla sofferenza.

Ripresi la mia vecchia Fiat, dopo aver passato i vari check-point, per uscire sono sbucato sul nuovo vialone che prima punta, per un breve tratto, a nord e poi volta a destra conducendomi in un battibaleno al don Vecchi. Il cielo era ancora un po’ cupo ma uniforme e sulla grande volta del cielo mi apparve quasi per incanto l’arcobaleno, nitido, enorme con i colori della pace. Era talmente grande che pareva che nascesse da piazza Grande di Treviso e terminasse, dopo l’alto arco, in piazza Ferretto.

Provai un’emozione profonda a questa visione insolita; ritornai indietro di almeno settant’anni ritrovando la meraviglia, lo stupore, la certezza che il buon Dio si è rappacificato con noi, ha desistito dal proposito di punirci e ci riprometteva un domani più sereno.

Ho dimenticato le nozioni di fisica sulla rifrazione ed ho abbracciato frettolosamente la visione biblica del mondo.

Sono tornato certo che il nostro domani sarà più bello.

Foglietti, statistiche e ricordi

Ho eliminato la gran parte di carte che riempivano gli scaffali della mia grande canonica che la mia perpetua non si è mai rassegnata ad accettarla come la casa di tutti senza chiavi e senza orari, tanto che un giorno sbottò in una frase da potersi accostare a quella di Pietro Micca: “Maramaldo, tu uccidi un uomo morto”

Rita sentenziò in maniera un po’ meno epica: “Questa non è una casa ma un municipio!”.

Sono sempre stato grato, alla mia governante, perché era la riprova che tutto sommato qualcosa di quanto andavo sognando si stava realizzando.

Tornando a noi, ogni tanto trovo ancora in qualche contenitore, le cui carte non avevo selezionato al momento dell’uscita dalla parrocchia, qualche carta che mi fa riandare ai drammi, alle imprese o ai sogni di un tempo.

Qualche giorno fa ho trovato una pagina di un quaderno a quadretti in cui il dottor Mario Carraro aveva annotato i risultati del sondaggio che il Patriarca aveva disposto in tutte le parrocchie 5-6 anni fa.

Prima di buttare la carta nel cestino, lo girata e rigirata tra le mani come una preziosa reliquia, tanto che mi sento spinto a trasferirne i contenuti su qualcosa che non è tanto meno fragile del foglietto.

Ecco il contenuto: nella parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio con le due messe vespertine si celebravano 10 messe ogni domenica.

Ed ecco i dati: 5167 parrocchiani i praticanti erano 2182 così ripartiti: messa vespertina al don Vecchi n. 107 – nella chiesa parrocchiale n. 134 – alla domenica ore 8 n. 67 – ore 9 n. 410 – ore 10 n. 339 – ore 11 n. 300 – ore 12 n. 340 – ore 18 n. 211 – ore 19 n. 127 – in monastero n. 36 – in cimitero n. 111.

Io spero che attualmente con un parroco giovane e con più aiuti di sacerdoti, diaconi ed accoliti la situazione sia ancora migliore, ma solo Dio lo sa quanta fatica, quanto sacrificio e quanta ricerca appassionata di soluzioni pastorali per superare questo 40% di praticanti.

Certo io non mi sono rassegnato di ridurre la parrocchia ai vicini, ma ho sempre cercato la pecorella perduta

“Va dove ti porta il cuore”

Mi pare sia di una giovane scrittrice triestina il volume che porta un titolo che mi affascina: “Va dove ti porta il cuore”. Mi pare che in questo messaggio ci sia il profumo di un altro splendido pensiero di Sant’Agostino: “Ama e fa quello che vuoi”.

In questi messaggi c’è una componente comune: il coraggio, la radicalità delle scelte, la determinazione ed una magnifica follia.

Ho letto una volta una bellissima preghiera che aveva per titolo: “Signore mandaci dei preti folli!” e tutto il contenuto della preghiera ruotava attorno al concetto di rifiuto della prudenza da ragioniere, d’impiegato d’azienda, di persona che tende a calcolare tutti i rischi, le ragioni che si oppongono all’avventura e ad un’impresa cristiana che non tiene conto eccessivamente dei propri limiti umani per esaltare invece l’aiuto di Dio.

S. Paolo se avesse messo in conto tutti i rischi che avrebbe incontrato sulla sua scelta di portare il Vangelo ai gentili, si sarebbe appoggiato al potere costituito e sulla soluzione che gli avrebbe garantito meno rischi e più risultati. Lui invece scelse l’atto di fede “Nos stulti proter Cristo!” “Non vogliamo per scelta essere folli sulla fiducia in Cristo!”

Le scelte cristiane presuppongono sempre la fede, non però una fede da contabile, ma una fede assoluta che fa il salto fidandosi interamente sulla parola di Gesù.

Trilussa, il poeta romano che scrisse le sue belle e indovinate poesie in vernacolo romanesco, sentenziò: “La fede è bella però senza i ma, i chissà e i perché”

La fede ha una logica che sorpassa con un gran salto la grammatica e la sintassi dei furbi. Oggi nella chiesa e soprattutto nel clero temo sia venuta meno questa santa follia.

Senza questa follia avremo impresette artigiane, botteghe languenti, ma certamente ne testimoni ne apostoli e meno che meno profeti!.