Le parole di padre Bianchi mi aiutano a vivere la vecchiaia

A ottantadue anni come non posso non pensare alla vecchiaia? Dico questo senza tristezza e rimpianto per la stagione bella della primavera, stagione dei fiori, dei sogni e dei progetti, che ormai è definitivamente passata.

Anche la vecchiaia però è una stagione da scoprire e da esplorare. Chi non fosse capace di cogliere l’autunno, la stagione della raccolta e il tempo in cui la natura si veste d’oro e di intimità, perderebbe molto.

E chi non s’incantasse di fronte al gelo, alla neve e al freddo dei mesi d’inverno, sentendo che essi proteggono con il loro manto i germi che stanno mettendo radici nel cuore della terra, sarebbe pure un uomo che si priva di un’esperienza tanto inebriante.

Rimane però tutta la titubanza e la preoccupazione di muoverti su un terreno ignoto, lasciandoti alle spalle la terra amata e il tempo vissuto.

Io mi muovo con passi incerti verso la quarta età e non vi nascondo preoccupazioni e paure che rendono un po’ incerto il mio andare. Spesso la mancanza di sonno, l’incertezza della memoria, il fiato grosso quando allungo il passo, lo scorrere veloce dei giorni sul calendario, mettono un po’ di disagio e di angoscia nel mio animo; mi pare di avanzare quasi in solitudine su questo mondo finora ignoto.

Fortunatamente ho incontrato in questa settimana un compagno di viaggio molto più saggio e preparato di quanto non lo sia io. Le riflessioni di Enzo Bianchi, il priore della Comunità di Bose, sta accompagnandomi con le sue meditazioni alle quali dedica un intero capitolo nel suo ultimo e meraviglioso volume “Ogni cosa alla sua stagione”.

Padre Bianchi mi è di conforto e di aiuto, parlando della vecchiaia come tempo della fraternità, della tenerezza, dello stupore per le piccole cose del quotidiano, date prima per scontate, e della rilettura più attenta ed approfondita del passato.

Voglio consigliare vivamente ai miei coetanei questo “giovane” vecchio, quanto mai sapiente.

“Fa, Signore, che i germi di bene seminati nei solchi di questa giornata producano una messe abbondante!”

Ho confessato più volte che spesso non mi trovo a mio agio con i salmi del breviario. L’orgoglio ebraico di cui trasudano questi canti poetici di più di mille anni fa, la voglia di sopraffazione ad ogni costo degli ebrei nei riguardi dei nemici, l’esaltazione del proprio Dio a scapito di “quelli” di altri popoli e la presunzione che Egli sia il Dio degli dei, mal si conciliano con la mia concezione dell’Assoluto, filtrata da tanti secoli di ricerca e soprattutto dal razionalismo, arrivatoci dall’oltralpe, figlio di quell’illuminismo di cui tutti siamo in qualche modo affetti.

Spesso neanche i testi delle letture degli antichi Padri della Chiesa mi appagano e mi aprono orizzonti e visioni spirituali serene e tranquillizzanti. Le argomentazioni teologiche di questi scrittori ecclesiastici e di questi “dottori della Chiesa” mi pare, spesso, che si arrampichino sugli specchi e che riescano tanto poco convincenti.

Talvolta mi ridico e mi giustifico pensando di non aver sufficiente cultura biblica per decodificare questi testi e coglierne la sostanza: rimane quindi il fatto che spesso colgo il tutto, più come una medicina amara, che come un liquore dolce ed inebriante quale, secondo me, dovrebbero essere le meditazioni e le lodi dell’Altissimo.

Talvolta però mi capita di scoprire qualche parola che fa da contrappeso e che mi canta nel cuore per tutta la giornata. Questa mattina, ad esempio, ho colto una preghiera che letteralmente mi fa sognare: “Fa, Signore, che i germi di bene seminati nei solchi di questa giornata producano una messe abbondante!”

Dopo questa preghiera, sono uscito di casa di buon mattino, quasi sentendo d’avere nel cuore e nello spirito un sacco di ottima semente da seminare con gioia e speranza nell’animo di tutte le persone che avrei avuto modo di incontrare durante le ore del giorno.

Mi piace e mi consola il pensiero di poter gettare nel “solco” solamente il germe, il quale poi germoglierà e fiorirà da solo, senza che io lo debba seguire ed alimentare!

L’annuncio del Signore al don Vecchi

Ho terminato da pochi giorni la visita alle famiglie della mia “parrocchietta” del “don Vecchi” o, per adoperare il linguaggio della tradizione,”ho finito di benedire le case” della mia comunità cristiana. La mia parrocchia è piccola – 192 famiglie con 230 anime. Il “don Vecchi” però non è la più piccola comunità cristiana della diocesi di Venezia. Infatti Ca’ Corniani ha 147 anime, Marango 52, Brussa 88, Altino 116, per giungere a Torcello che non supera i 16 (sedici) parrocchiani, divisi in due chiese!

Nella mia visita ho tentato di aprire la porta ed introdurre Gesù nella speranza che la parola e la presenza di Cristo operi lo stesso effetto di quando entrò nella casa di Zaccheo. In quell’occasione la luce del Figlio di Dio fece esplodere tutte le contraddizioni e le incongruenze, tanto che “il banchiere” disse: «Darò quattro volte quanto ho frodato e offrirò metà dei miei beni ai poveri!»

Finora non è avvenuto questo “miracolo”, infatti il “don Vecchi” è un campione esatto della nostra società e, a livello religioso, si parte da qualcuno che non desidera la visita del prete, di qualche altro che si fa trovare regolarmente assente, a chi ti accoglie con cortesia, a chi invece ti abbraccia come il padre atteso e l’inviato del Signore.

Io ho già detto che immaginavo che il “don Vecchi” fosse quasi un convento di frati e suore, perché a nessuno abbiamo nascosto il nostro sogno e il nostro tentativo di dar vita ad una comunità di fratelli e di cristiani. Al momento dell’accettazione sembrava che tutti abbracciassero questo sogno, in realtà dopo poche settimane ognuno riprende le vecchie abitudini e lo stile di vita proprio delle nostre parrocchie che annoverano dal bigotto, al praticante, all’apostolo, ma scendono poi all’ateo, all’indifferente, al praticante in certe occasioni, al presente a Pasqua e Natale, al cristiano nominale, per arrivare perfino a chi ha cercato di sbattezzarsi.

Io poi in questa realtà mi ritrovo nell’ambigua situazione del Papa-re nello Stato Pontificio: presidente del consiglio di amministrazione e nello stesso tempo sacerdote che, come invita san Paolo, dovrebbe “parlare, insistere a tempo e fuori tempo con ogni argomentazione ed ogni sforzo, per far accettare la Parola del Signore”.

Mi auguro che allo scadere di questo consiglio di amministrazione ci sia un presidente laico a dirigere ed un prete ad annunciare il Regno, due compiti ben distinti, in modo che ognuno possa sviluppare al meglio la sua funzione.

Il dono di speranza che posso offrire grazie alla Fede

Il sermone che tengo in occasione del funerale dei defunti, penso debba vertere sulle grandi verità che buttano luce sulla vita e sulla morte, sulla misericordia e la paternità di Dio e sulla vita nuova di cui ci ha parlato più volte Gesù nel suo Vangelo. Queste grandi e meravigliose verità sono l’autentica ricchezza e il dono meraviglioso che un prete può e deve offrire in occasione dei giorni del lutto e dell’amarezza.

In queste occasioni ho sempre presente una frase che Bernanos, il grande romanziere d’Oltralpe, mette in bocca al prete protagonista del suo romanzo “Il diario di un curato di campagna”: «Non è colpa mia se vesto da beccamorto, ma io posseggo la gioia e la speranza, che vi donerei per nulla, solamente se voi me la chiedeste».

Io posso donare ancora queste meravigliose verità ed indicare “le nuove frontiere”. Ora sono vecchio, non incontro più né bambini né giovani, non celebro né battesimi né matrimoni, ma mi sento pienamente prete potendo seminare speranza e perfino gaudio in occasione della morte.

Monsignor Vecchi talvolta arrivava a dire: «Partecipiamo alla festa della morte». Io non oso dir tanto, però faccio mia di frequente la confessione di san Paolo e l’invito a vivere in quella cornice: “Ho fatto la mia corsa, ho combattuto le mie battaglie, ho conservato la fede, ora non mi resta che ricevere la corona di gloria”. Offro la lettura positiva della realtà amara della morte, che tutti paventano, con il canto di san Francesco: “Laudato sii, mi Signore, per nostra sora morte corporale”.

Com’è bello ed inebriante dipingere di luce, di speranza e di bellezza perfino la morte; la fede ci offre questa splendida possibilità.

La gente, di solito, ascolta queste parole inusitate ed ho la sensazione che guardi in alto ed intraveda la gloria celeste anche se il coperto di legno della chiesa prefabbricata è tanto basso. La Parola di grazia sfora però facilmente le povere tavole della copertura e ci lascia sognare.

Cerco l’aiuto solo di chi crede alla solidarietà!

A me capita di sbottare talvolta e forse troppo spesso e troppo violentemente; la pazienza, la ponderazione e la moderazione non sono il mio forte!

Ho scritto e riscritto su “L’incontro”, il periodico che accoglie tutti i miei sfoghi, le mie angosce e i miei pensieri, che alcuni mesi fa me la sono vista veramente brutta quando la Fondazione Carive, che di solito mi aveva generosamente aiutato, a firma del presidente Segre mi ha detto, quasi cinicamente, che da essa non dovevo aspettarmi neppure un soldo; così aveva comunicato la Banca Antoniana presso cui la Fondazione movimenta ogni anno molto denaro. La Regione mi ha risposto dopo quattro mesi che non spetta ad essa erogare denaro per gli alloggi protetti. il Comune, la Cassa di Risparmio: silenzio assoluto. Mentre il Banco di san Marco ha stanziato per il “don Vecchi” di Campalto la bella somma di mille euro.

In questa situazione ho avuto paura! Come san Pietro ho dubitato ed ho cominciato ad affondare. Fortunatamente sono intervenuti i cittadini e la Provvidenza, motivo per cui non sono “annegato”, anzi vedo già la Terra Promessa.

Ma il motivo che mi ha mandato in bestia sono state alcune voci arrivatemi, che dicevano che i confratelli – non tutti per fortuna, perché don Liviero, il parroco di viale san Marco, don Bonini del Duomo, don Cicutto ed altri non è stato così anzi mi hanno aiutato, – mi criticavano perché non avrei dovuto mettermi nei guai perché non tocca ai preti pensare ai poveri, ma al Comune e allo Stato.

Poi ci fu qualche altro che mi fece capire che non è opportuno chiedere sempre, quasi dicendomi la frase fatidica di Berlusconi: “Non si deve mettere le mani nelle tasche dei cittadini!”. Non tutti la pensano così, ne fa fede la lista di offerte che pubblico ogni settimana. Tuttavia questo mi ha fatto scrivere quello che ribadisco: “Non voglio assolutamente i soldi di chi non ha fiducia in me, di chi non ritiene opportuno aiutare i vecchi in povertà, di chi è convinto che la Chiesa debba occuparsi solamente delle anime e del Paradiso, di chi è convinto che le cose debbano cadere dal cielo!

So di non avere la fede e l’umiltà del Cottolengo, di san Vincenzo de Paoli, dell’Abbé Pierre o di Teresa di Calcutta, ecc…, però lasciatemi dire che chi crede che sia giusto pensare solamente a se stessi e ai propri famigliari, i suoi soldi se li tenga, io e chi la pensa come me ci faremo aiutare da chi crede comunque alla solidarietà!

“In mezzo sta la virtù!”

Come tutti gli italiani, ho partecipato con passione e preoccupazione alla vicenda della Mirafiori della Fiat. E penso, come tutti gli italiani, che sia stato giusto tirare un sospiro di sollievo alla notizia che la maggioranza, seppur sparuta, ha votato per il contratto. Col tasso di disoccupazione che incombe sul nostro Paese, l’aggiungersi di nuove decine di migliaia di disoccupati non era proprio una prospettiva allettante.

Più di una volta avevo ascoltato la pacatezza e la saggezza di Bonanni, che era per il si, e del capo della Fiom che era invece per il no. Le argomentazioni dell’uno e dell’altro erano quanto mai stringenti, tanto che, ascoltando il primo, d’istinto mi veniva da parteggiare decisamente per la sua tesi, però poi, ascoltando il secondo, mi veniva da concludere che neanche lui aveva tutti i torti.

Ben s’intende io ho tifato in maniera appassionata per Bonanni, però non me la sento neppure ora di condannare totalmente Landini. Questa diatriba mi ha fatto venire in mente due ricordi.

Uno lontano: la giornalista milanese Lidia Menapace, simpatizzante per la sinistra, che in una conferenza al Laurentianum – eravamo ancora ai tempi di Stalin – dichiarò che in Russia c’era lavoro per tutti e che gli operai non erano sfruttati dai padroni. A chi le fece osservare che essi non si ammazzavano per lavorare e che producevano poco, essa rispose: «Ma non c’è alcun comandamento che stabilisca che uno debba ammazzarsi di lavoro!» Probabilmente ella sognava il “Paradiso” in terra, e non teneva conto delle leggi ferree dell’economia e del mercato, per cui solamente chi produce di più e a minor prezzo, guadagna e crea benessere.

L’altro modo di vedere il problema del lavoro mi viene dalla confidenza con un amico, che solitamente ha mille impegni e mille occupazioni, il quale mi ricordò che sua nonna ripeteva spesso e con convinzione: «Nessuno è mai morto di lavoro!» La nonna del mio amico probabilmente non era convinta che neppure “l’inferno si trova qui in terra!”

Mi è facile concludere con i nostri avi, i romani: “In mezzo sta la virtù!” Credo però che dovranno passare forse secoli o millenni perché riusciamo a trovare il giusto equilibrio. Nel frattempo prego perché la Fiat e la Fiom raggiungano almeno un compromesso!

Le parole non dette

Recentemente la televisione ha mandato in onda un film che mi ero proposto di vedere, ma che poi – non so per quale motivo – mi sono lasciato scappare. La suora, che l’ha visto, m’ha detto che era molto bello. Io però sono stato attratto dal titolo che accennava ad un tema che il mio ministero specifico mi sollecita ad affrontare personalmente per parlarne ai fedeli che partecipano al commiato che si celebra nella mia chiesa tra i cipressi.

Il titolo che mi ha incuriosito era questo: “Le parole non dette”. Questo argomento è sempre stato per me un problema di scottante attualità, perché essendo di carattere riservato, tinto di fondamentale timidezza e forse di un pizzico di poca propensione a manifestare i miei sentimenti, finisco per non dire quasi mai quelle parole di affetto e di tenerezza che butterebbero un ponte levatoio nei riguardi del prossimo con cui vivo o che comunque incontro e faciliterebbero quella comunione calda e profonda con le persone con le quali condivido la mia vita.

Questo problema è stato poi quasi esasperato dalla lettura di una serie di considerazioni di un poeta latino-americano, colpito da tumore, il quale scrive: “Se questo fosse l’ultimo giorno della mia vita, direi alle persone che mi sono care ….” e giù una serie di parole tenere e care.

Quando prendo la parola durante i funerali, spesso ripeto: «Avverto che voi chiedete cuore e parole per dire al vostro congiunto che vi lascia “grazie, ti voglio bene, ti chiedo perdono, ti debbo molto” ed ogni volta mi pare di coinvolgere e di dare voce a sentimenti non manifestati che costituiscono motivo di rimpianto e perfino di rimorso.

E’ da tanto che mi riprometto di dire le parole che sarebbe bello dire, che farebbero felici le persone alle quali sarebbero rivolte, ma che farebbero pure molto felici anche chi le dice. Al funerale però questo suscita solamente rimpianto, spero tuttavia che queste riflessioni, fatte a voce alta, aiutino me e i miei fedeli a pronunciarle con più frequenza e con più calore nei tempi nei quali è possibile dirle.

Uno dei fiori all’occhiello del don Vecchi ha 96 anni e molto da insegnare

Il primo sabato del mese vado sempre a portare la comunione ad una mia coinquilina del “don Vecchi”. Questa signora porta bene i suoi novantasei anni; un po’ lenta nei movimenti perché “robustina”, ma se ci vedesse un po’ di più potremmo dire che sta bene! Vive da parecchi anni con grande serenità nel suo appartamentino, che s’affaccia sul grande prato verde di viale don Sturzo.

Una volta fatta la comunione e recitate assieme le principali preghiere della nostra fede, mi siedo a conversare un po’ con lei. Mi racconta della sua vita, delle figlie che le vogliono tanto bene e la vengono spesso a visitare, di un mondo di nipoti, pronipoti ed assimilati; è felice perché si sente tanto amata e le pare di vivere da regina nel suo piccolo regno fatto della cucina-soggiorno, della stanza da letto, del bagno e di un bel terrazzino nel quale cura con infinito amore le sue piante.

Non esce quasi mai perché vede solo qualche penombra ed ha paura, ma nonostante questo mi dice che passa con tanta serenità le sue giornate: un po’ riordina la casa, un po’ prega, un po’ segue soprattutto il parlato della televisione e poi ascolta la radio durante la notte.

Credo che questa vecchia donna abbia veramente tutta la felicità possibile a questo mondo e relativa ai suoi anni. Da tanto tempo io la ritengo un fiore all’occhiello del “don Vecchi” ed un sicuro punto di riferimento nel proporre il modello degli alloggi protetti con assoluta convinzione.

L’ultima volta che sono andato da lei mi ha raccontato della sua infanzia, passata in una vecchia casa tra i campi della Bissuola. E’ rimasta orfana ancora bambina, da poco finita la prima guerra mondiale, assieme ad altri cinque fratelli più piccoli di lei. Andò a vivere con una zia, anche lei con sei figli, che è morta anch’essa un mese dopo la sua sorella. Alla nonna, in 30 giorni, sono rimasti 12 bambini piccoli da crescere, oltre il dover badare alle galline e ai campi.

La mia inquilina mi parla sempre con venerazione e riconoscenza infinita di questa nonna che ha cresciuto questa tribù di bambini, passando loro valori e coraggio di vivere, senza aver fatto corsi di psicologia.

La “nipotina orfana” del dopoguerra ha 96 anni e vive ancora appoggiandosi a quei sani principi che la nonna, pur in situazioni impossibili, le passò con sicurezza e amore. Ogni volta che questa creatura mi parla d’altri tempi, mi verrebbe voglia, se ne avessi la possibilità, di offrirle una laurea honoris causa ed una cattedra all’università di pedagogia, alla cui frequenza obbligherei tutte le ragazze della nostra città.

La bellissima testimonianza di padre Bianchi

Ho appena terminato di leggere l’ultimo volume di Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose. Ho letto con tanto piacere e, spero, con profitto, questo volume in cui ben si coniugano una calda umanità ed un apprezzamento delle cose buone della vita con una capacità di scoprire in esse una valenza profondamente spirituale.

Non è frequente scoprire questo connubio armonioso perché l’ascetica che si rifà al passato, che spesso viaggia nella stratosfera della vita, è incapace di dialogare con la gente comune di questo nostro mondo. Sentire un monaco che s’incanta e gode della terra in cui vive, accetta la gente con la propria umanità traballante e povera di valori culturali ed ascetici, cogliendone pur tuttavia gli aspetti positivi, un monaco che assapora con gusto un buon bicchiere di grignolino, non è cosa che si incontra tutti i giorni.

Ho provato gran piacere nello scoprire che il dialogo tra lo spirito e la vita, Dio e il mondo, non solamente sono ancora possibili, ma che ci sono movimenti e comunità religiose per nulla integraliste ed in rottura con la mentalità e la società dei nostri giorni, che stanno realizzando tutto questo con grande spontaneità, convinzione e naturalezza.

Nelle ultime pagine del volume mi è parso più che mai di cogliere la particolare ricchezza spirituale di questo monaco, atipico dai cliché tradizionali, nella narrazione di un colloquio con un vecchio contadino della sua terra. L’incontro avviene tra le vigne, mentre il contadino sta potando le viti, e si conclude nella cascina con l’offerta di un bicchiere, offerta quanto mai gradita all’uomo di fede, che a sua volta regala una copia del Vangelo all’uomo della terra. L’anno dopo padre Bianchi ritorna e il vecchio gli confida che il “libretto” che lui gli aveva donato gli era piaciuto e aveva sentito Cristo vicino che l’aiutava ad un approccio più ricco e più “spirituale” con il suo lavorare nei campi.

Padre Bianchi confessa a sua volta come la testimonianza del contadino abbia aiutato lui stesso a leggere il Vangelo da un’angolatura più “terrestre”, perché s’accorge che Gesù parla di 31 tipi di piante diverse e 29 specie di animali, facendo concludere che Gesù non solo abbraccia e si immedesima nell’uomo, ma si cala completamente dentro il “mondo vero”, quello del quotidiano e della normalità del vivere.

Scoprire tutto questo non è da poco, perché accorcia le distanze tra lo spirito e la materia, e soprattutto ci fa capire che con l’incarnazione Dio s’immerge totalmente nel cuore dell’uomo e nel suo habitat esistenziale.

Questi preti lontani dalla gente…

«Don Armando, le sarei grato se venisse dalla mamma perché ormai siamo alla fine». Era la voce di uno di quei tantissimi membri delle nostre comunità parrocchiali, dei quali i parroci ignorano perfino l’esistenza.

Mi dicono che il nostro Patriarca perori la presenza della Chiesa nel territorio e in tutte le realtà in cui l’uomo di oggi è impegnato. Io condivido fino in fondo questa visione della pastorale, ma purtroppo il presidio parrocchiale sul territorio è pressoché inesistente.

Ho scritto in passato di un mio collaboratore che mi ha chiesto che, seppur in maniera clandestina, andassi a dare una benedizione alla sua famiglia. Mi confessò: «Sono 25 anni che abito in questa strada, qui sono nati dei bambini, sono morte delle persone che vi abitavano, si sono sposati dei giovani, ma in 25 anni mai un prete vi ha messo piede, lei è il primo!»

I preti d’oggi sono certamente più preparati di quelli del passato, sono più informati e soprattutto i più giovani sanno usare con disinvoltura l’informatica, però sono assenti dalla vita dei battezzati “normali”. Sono ormai mosche bianche i parroci che visitano almeno una volta all’anno le famiglie della loro parrocchia.

Monsignor Da Villa, mio vecchio parroco, mi diceva che molti preti impiegano troppo del loro tempo a “lucidare i pomoli” delle porte, pomoli che sono già lustri. A qualcuno danno “troppo” e a molti altri “nulla”.

Ci accordammo con quel signore che sarei andato dalla mamma appena celebrata la messa del pomeriggio. Arrivai tardi, la mamma era morta da circa un’ora. Fortunatamente per me le avevo portato la comunione un paio di giorni prima e mi aveva lasciato chiedendomi che mi unissi a lei per chiedere al Signore che la venisse a prendere. Il Signore l’ha ascoltata! Una vicina di casa precedentemente mi aveva avvisato che da due anni era ammalata e che sarebbe stata contenta di ricevere il Signore. E io ci ero andato, sempre da “clandestino”. Ma questa esperienza mi conferma che la pastorale moderna ha più bisogno di concretezza che di tante chiacchiere sul sesso degli angeli!

La Fede

Non è raro che di fronte ad una prova seria o ad un momento difficile della vita, al mio tentativo di aiutare chi ne è colpito, ad inquadrare in una cornice di speranza e di fiducia nella paternità di Dio il suo dramma, qualcuno mi risponda: «E’ facile per lei, perché ha la fede!» Per certuni pare che la fede sia una prerogativa riservata solamente ai sacerdoti e alle suore, ma soprattutto che la fede sia un faro che illumina la realtà a pieno giorno ed infonda una forza capace di superare ogni ostacolo.

Magari fosse così! Innanzitutto è dovere precisare che la fede è un dono per tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero e con umiltà, ma poi essa più che un faro che abbaglia è una luce che balugina e che con fatica ti indica una strada. Rimane all’uomo, usando di tutte le risorse di cui il Signore lo ha fornito, il compito di aprirsi il cammino tra le mille difficoltà. Per nessuno la fede sostituisce la propria razionalità e le proprie opzioni.

Ricordo un dramma di Cesbron che immagina che a santa Teresina di Lisieux il tentatore si presenti in veste di un vecchio ed incallito razionalista che le insinua che la sua è stata solamente una illusione che l’ha condotta a sprecare la sua vita per un ideale inesistente.

Il drammaturgo francese riesce a trasmettere al lettore l’angoscia e il tormento mortale della piccola santa, la quale finalmente si rappacifica abbandonandosi fiduciosamente tra le braccia del Signore.

Pensavo a questo problema leggendo il dubbio di Giovanni Battista in carcere. Ormai certo che la sua fine è prossima – lui che aveva scoperto ed indicato pubblicamente il Messia – di fronte alla morte, roso da un comprensibile dubbio, manda i suoi discepoli da Gesù per domandargli: «Sei tu quello che doveva venire o ne dobbiamo aspettare un altro?» E questo era il precursore, colui che Dio aveva destinato a preparare la strada al Signore!

La fede rimane un dono meraviglioso ed impagabile, ma non bisogna illuderci che essa ci liberi dal dubbio e dalla tentazione e soprattutto si sostituisca alla nostra scelta e alla nostra volontà.

La carità è la via maestra per ogni tentativo di rievangelizzazione

A questo mondo non si finisce mai di fare nuove esperienze e di scoprire i lati in penombra della vita.

Qualche domenica fa andai, come al solito, in cimitero, per riordinare la vecchia chiesa. Mentre ripulivo le ceriere entrò un gruppetto di persone per una preghiera. Uscendo, la signora relativamente giovane mi domandò: «E’ lei, don Armando?» Avuto il mio sì, soggiunse, inaspettatamente per me: «Permetta che le baci la mano, perché desidero toccare la mano di un prete che si impegna per la carità!»

Rimasi evidentemente imbarazzato e senza parole, perché a persone come Madre Teresa di Calcutta, al camilliano fratel Ettore da Milano o a Madre Elvira dei drogati penso che sia giusto baciare la mano, non certamente ad un povero diavolo come me, che mi arrabatto per far qualcosa per gli altri, com’è doveroso per ogni cristiano e soprattutto per ogni prete.

Incuriosito dal gesto e soprattutto dalle parole, volli saperne un po’ di più e chiesi come mai mi conoscesse. Venne fuori una delle solite storie. Una sua anziana cugina era rimasta sola in una bicocca di un paesino del Friuli ormai completamente spopolato. Qualcuno venne a sapere del “don Vecchi” di Marghera, s’è fatta la domanda, fu accolta. Ma di tutto questo procedimento io non sapevo proprio nulla e quindi i miei meriti sono del tutto marginali.

Il gesto però mi confermò ancora la mia convinzione che la gente del nostro tempo riconosce i cristiani dalla carità che tentano di praticare. Il biglietto da visita e le credenziali del messaggio cristiano rimangono: la solidarietà – di fronte ad essa non ci sono staccionate, paracarri o rifiuti – e la carità, che apre ogni porta ed è questa la via maestra per ogni tentativo di rievangelizzazione.

La solidarietà nasce dalla condivisione delle situazioni

Dovrei averlo capito almeno cinquant’anni fa, ma purtroppo solamente in questi ultimi decenni ho compreso che la forma più alta e più vera della solidarietà è rappresentata dalla condivisione. Credo che ben difficilmente si può comprendere il disagio, la frustrazione e la solitudine umana se non calandosi totalmente dentro alla condizione esistenziale di chi si vuol aiutare. Mi sorprende e mi fa arrossire tutto questo perché questa verità è stata testimoniata in maniera veramente esemplare da Gesù ben tanto tempo fa.

In occasione della celebrazione del battesimo di Gesù, ho tentato di passare questo concetto evangelico ai fedeli che gremivano la mia chiesa prefabbricata nel nostro cimitero. Gesù chiede a Giovanni il battesimo, evidentemente perché vuol condividere con i suoi conterranei la consapevolezza che il peccato è fonte del disagio sociale e della povertà di qualità di vita a livello personale. Verità che poi Gesù avrebbe ribadito durante la passione, caricandosi delle colpe dell’umanità, volendo purificarla mediante la via dolorosa.

Mi ha aperto gli occhi su questa verità la testimonianza di Charles de Foucauld, quando dice che non si può comprendere ed aiutare i poveri se non calandosi dentro la loro condizione esistenziale e vivendo “come loro”.

Ricordo al proposito tre giovani donne appartenenti alla comunità fondata da questo ex generale di Francia convertito alla fede, le quali, avendo ubicato la loro roulotte in via Vallenari nel campo degli zingari, vennero a chiedermi se potevo aiutarle a trovare un lavoro per poter sopravvivere. Io cercai un lavoro compatibile con la loro condizione di religiose. Esse rifiutarono, dicendosi disposte ad andare a lavare le scale perché ai poveri sono riservati questi mestieri e loro volevano vivere da povere per comprendere e testimoniare la loro carità.

Quando si trattò di scegliere dove abitare dopo il mio pensionamento, in forza di questa “scoperta”, non esitai un istante nel scegliere un minialloggio al “don Vecchi”, uguale a quelli che sono destinati ad avere gli anziani poveri. Il condividere ti permette di parlare, di indicare orizzonti di speranza, di acquisire una certa autorità presso i coetanei.

Chi non vive almeno con sobrietà non può illudersi di amare i poveri, anche se destina loro, come pare faccia Berlusconi, milioni di euro!

Anche il dramma dell’uomo può essere un invito alla riflessione e alla saggezza

In qualche altra occasione ho manifestato il mio rifiuto di qualche segno di ascesi spirituale e di misticismo proprie dei secoli passati, preferendo ad essi una spiritualità fresca, sorridente, calda ed umana. Mi pare che tutto questo debba essere condivisibile senza troppa fatica.

Ricordo che durante un ritiro spirituale tenutosi nella chiesa dei Cappuccini di Mestre, mi capitò di essere seduto di fronte ad una tela di notevoli dimensioni del sei-settecento, in cui era ritratto un frate, dalle occhiaie scavate, che teneva in mano un teschio, probabilmente meditando su come “passa la gloria di questo mondo”. Preferisco di gran lunga il giovane scout che di fronte al manifesto di un’attrice affascinante, dai capelli platinati e dalle labbra carnose, pensa ai drammi che certamente questa donna, piena di fascino, deve avere nel suo animo ed entra perciò in una chiesa a dire una preghiera per la sua salvezza.

L’altro giorno mi è capitato di dare l’ultima benedizione ad un medico settantenne della nostra città, che da venticinque anni soffriva di sclerosi multipla e da dodici anni era ridotto a letto. Il suo corpo era distrutto e deforme, privo di ogni armonia, sembrava veramente un disegno di Picasso. Accanto c’era la moglie e le due giovani figlie. Mi venne da pensare ai sogni, all’amore, ai progetti professionali di questo fratello: tutto infranto miseramente!

Ho passato tutta la messa di commiato nel tentativo di trasfigurare, alla luce della vita nuova, quel corpo, per tentare di ridonare una immagine viva e bella per i suoi cari. Ringrazio di tutto cuore il buon Dio per la bontà con cui mi ha trattato finora, nonostante le mie miserie e i miei guai. I nostri vecchi hanno ragione nel dire che prima di lagnarci dobbiamo guardarci indietro per vedere chi sta peggio di noi. Anche il dramma dell’uomo può essere un invito alla riflessione e alla saggezza.

il dono del vivere quotidiano preparato dal Signore per noi

Qualche tempo fa ho letto una considerazione di un uomo di Dio che affermava che, ogni volta che incontri una persona, di certo hai il dovere di darle qualcosa, come, nel contempo, hai sempre la possibilità di ricevere da lei qualcosa di positivo. Questa affermazione mi ha convinto: a livello teorico perché se è vero che la Divina Provvidenza ha stabilito delle leggi per cui tutto il progetto della vita e del cosmo funziona a dovere perché ogni forza ha il suo campo preciso e correlato alle altre leggi, così deve valere anche e soprattutto per i rapporti umani; a livello della pratica perché ho constatato personalmente che ogni volta che incontro una persona il rapporto diventa sempre positivo e gratificante.

Qualche giorno fa, quasi a complemento di questo, ho letto un’altra considerazione fatta da una persona quanto mai razionale e nel contempo mistica, M. Delbrel. Questa creatura, vissuta nell’ultimo scorcio del secolo scorso in Francia e passata dall’ateismo più radicale alla militanza politica di sinistra del mondo operaio, è arrivata, attraverso un cammino faticoso e ricco di esperienze esistenziali, alla fede in Cristo e ad una forma di misticismo radicale quanto lo era stato il suo ateismo, finendo per crearsi una minuscola comunità impegnata e testimoniare la carità nei più squallidi sobborghi di Parigi. Questa anima forte e coraggiosa ha scritto:

“Ogni mattina è una giornata intera che riceviamo dalle mani di Dio: Dio ci dà una giornata da Lui stesso preparata per noi. Non vi è nulla di troppo e nulla di `non abbastanza’, nulla di indifferente e nulla di inutile. E’ un capolavoro di giornata che viene a chiederci di essere vissuta.
Noi la guardiamo come una pagina d’agenda, segnata d’una cifra e d’un mese. Noi la trattiamo alla leggera come un foglio di carta. Se potessimo frugare il mondo e vedere questo giorno elaborarsi e nascere dal fondo dei secoli, comprenderemmo il valore di un solo giorno umano”.

Non appena apro gli occhi, un po’ frastornato al suono della sveglia alle 5,30 di ogni mattina e mi si presentano davanti, come in una rapida videata, tutti gli incontri, gli impegni e i problemi che mi aspettano, dopo la lettura attenta di questo testo, mi dico: “Forza, sta sereno, perché tutto quello che ti aspetti ti è stato preparato da un Padre saggio, intelligente e soprattutto che ti vuol bene!” Apro quindi la porta del mio minuscolo alloggio del “don Vecchi” e letteralmente “mi tuffo” a vivere il giorno preparato con tanta attenzione ed amore per me.

Quando riesco ad operare alla luce di questa splendida verità, arrivo a sera senza ammaccature, rimpianti o sconforti.