Mimma e gli altri che ho incontrato

Ho appena scoperto che l’epigrafe che mi è arrivata dall’agenzia di pompe funebri, per il funerale che mi si chiede di celebrare domani, riguarda una cara “ragazza” conosciuta nella chiesa di San Lorenzo trenta o, forse, quarant’anni fa. Apprendo con sorpresa, dal necrologio, che aveva quasi ottant’anni.

Era tantissimo tempo che non la vedevo, motivo per cui, nella mia memoria, dietro il nome di Mimma, mi si affacciò il volto bello ed armonioso di una giovane donna che divise il suo tempo tra il lavoro di commessa, la cura dei suoi cari e la vita di chiesa. La ricordo silenziosa e riservata, di poche parole, ma ricca di umanità, schiva ed umile, ma capace di spendersi senza riserve per i suoi cari che amò più della sua stessa vita. Anche con me era estremamente riservata, pudica nel manifestare i suoi sentimenti, ma si avvertiva dietro questa riservatezza, un cuore ricco e generoso capace di amare in silenzio, preoccupata più di dare che di ricevere.

La vita di Mimma è stata difficile, perché si è sempre fatta carico dei mali degli altri e non ha mai chiesto, e meno ancora preteso, che gli altri si facessero carico dei suoi guai.

Chiara, che le fu fedele amica per tutta la vita, ogni tanto, furtivamente, mi informava di questi suoi guai; le avevo perfino proposto di venire al “don Vecchi” sperando di darle un po’ di sollievo ma, come sempre, si rifiutò, richiudendosi a riccio e tenendo per sé prove e dolore.

Ora rimpiango di non esserle stato più accanto e di non aver detto più di frequente a questa donna anonima che ho incontrato sulla mia strada l’affetto e la stima che provavo per lei. Come sento amarezza struggente per le infinite persone che ho incontrato e che ho perso di vista. Anche sotto questo aspetto avverto più che mai il mio limite e riprovo la mia incapacità di dire le parole care nel tempo giusto.

Affido con tenerezza al Signore questa creatura, sapendo che lei di certo mi comprende e mi perdona, come affido al cuore di Dio la folla di uomini e donne che il buon Dio ha messo sulla mia strada.

La bestia

Una decina di anni fa sono rimasto stupito nel leggere uno sfogo amaro di padre David Maria Turoldo, l’ardimentoso frate dei Servi di Maria.

Padre Turoldo fu un combattente impavido, che si schierò con coraggio e con passione dalla parte degli uomini poveri e dei cittadini oppressi dai prepotenti di turno. Ricordo la preghiera appassionata che egli mise in bocca ai partigiani: la preghiera del ribelle. Le sue parole suonavano come squilli di tromba. Come ricordo le parole dolcissime con cui cantò la Pasqua del Signore: «Voglio passare per le strade della mia città e donare un fiore, senza parlare, voglio mettere nel cuore di chi incontro, buono o cattivo, credente o meno, il lieto annuncio della Resurrezione del mio Signore». Turoldo fu un uomo vero, coraggioso e forte, dolce e ricco di poesia.

Ebbene padre Turoldo, colpito dal tumore, scrisse con penna forte e tagliente, come solo lui sapeva adoperare: “La bestia s’è insediata, come su un trono, all’interno del mio corpo”. S’avvertiva la lotta dura, forse la sfida e un duello in cui si sentiva, purtroppo, perdente. Morì, non tanto tempo dopo, di cancro.

Spesso anch’io avverto con preoccupazione ed anche, devo ammetterlo, con paura, il ruggito di questa bestia. Non so fin quanto rimarrà alla catena. Mi rifugio sempre più spesso nelle parole sagge di Giobbe: “Se ho ricevuto dalle mani generose di Dio i giorni lieti, perché non dovrei ricevere dalle stesse mani anche quelli della prova e dell’amarezza?!” O nelle parole dolci e soavi di frate Francesco: “Laudato sii, mi Signore, per sora nostra morte corporale”. Sono pensieri che mi aiutano, ma che tuttavia non riescono a togliermi preoccupazione e timore.

Da una sincera collaborazione fra persone prima che politici nasce qualcosa di importante!

Nota della redazione: come sempre, questo appunto di don Armando scritto a penna e trasformato in articolo per “L’Incontro” e post per il blog, risale ad alcune settimane fa.

Oggi è stata per me veramente una splendida giornata, ma soprattutto per gli anziani poveri in perdita di autonomia. Quando ho cominciato ad occuparmi della terza età, avevo intuito che tra l’autosufficienza, che fortunatamente è presente anche in persone notevolmente anziane, e la non autosufficienza c’è un’ampia zona grigia in cui una persona non è né questo né quello, ossia non è da ricovero, però non può neanche bastare completamente a se stessa.

I responsabili del settore della Regione finora non avevano mai messo a punto dei provvedimenti per tutelare la dignità della stagione del tardo autunno delle persone anziane con pochi mezzi economici. In un incontro fortuito con Gennaro Marotta, consigliere regionale dell’Italia dei Valori, ritornando a Mestre da un dibattito tenuto presso la sede dell’emittente “Antenna Veneta”, avevo conversato con questo politico sul problema grave che affligge il “don Vecchi”, ossia sugli anziani in perdita di autonomia che non vorrebbero abbandonare il loro domicilio presso il Centro e nello stesso tempo hanno infinite difficoltà di ordine economico e di accettazione da parte delle Case di Riposo.

Il signor Marotta, con squisita disponibilità e cortesia, ci ha portato al “don Vecchi” l’assessore alle politiche sociali della Regione, il quale ha scoperto, con favore e con entusiasmo, che la soluzione prospettata dal Centro corrispondeva esattamente al suo sogno di dare una risposta valida ed umana ai nostri concittadini che vengono a trovarsi in questa zona di nessuno rappresentata dalla parziale perdita di autonomia.

E’ stato facile mettere le basi perché, con una collaborazione tra la Fondazione e la Regione, il “don Vecchi” diventi il progetto pilota che permetta la sperimentazione necessaria per mettere a punto le leggi relative.

Sono stato felice non solamente per questo accordo, per la sinergia tra pubblico e privato sociale, ma anche che persone espresse da realtà pur diverse abbiano aperto un dialogo sereno e collaborativo su un problema concreto, lasciando da parte scelte di ordine ideologico o religioso. Di tutto questo sono infinitamente grato a Gennaro Marotta dell’Italia dei Valori e all’assessore Remo Sernagiotto dell’Udc.

Dobbiamo avere Fede, anche per la soluzione dei problemi di questa nostra povera Italia!

Sono veramente desolato quando al mattino, prima di iniziare il mio ministero sacerdotale, do una veloce scorsa al “Gazzettino”.

Un premier che assomiglia un po’ a Nerone, che mentre Roma brucia si esibisce a cantare, a raccontare barzellette e a passare la notte con donne frivole, compiacenti per denaro, e di cattivi costumi!

L’opposizione che, pur eletta e pagata profumatamente per operare per il bene del Paese, pur divisa e con contrasti “interni”, è unita solamente nel rovesciare l’avversario per potersi sedere sulla stessa sedia, e non tenta un accordo serio; i mass-media che fanno a gara per mettere in mostra le vergogne del Paese e la magistratura che confessa pubblicamente d’avere un arretrato di quasi dieci milioni di cause, spendacchia soldi a non finire ed impegna il suo tempo per spiare la vita privata di Berlusconi che, manifestamente, non le è simpatico, per denunciare le debolezze, pur deprecabilissime, trascurando di rendere giustizia a chi legittimamente attende invano da anni.

Stamattina, mentre leggevo il brano del Vangelo che riguarda la tempesta che nel lago sbatacchia paurosamente la barca dei discepoli, mentre Gesù dorme, mi veniva da protestare perfino col buon Dio che pare se ne stia in disparte tacendo, mentre la barca d’Italia sta miseramente affondando.

M’è venuto spontaneo ripetere la supplica desolata dei discepoli spaventati e preoccupati per il possibile naufragio: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Ma subito mi è giunta la risposta: «Perché avete paura, non avete ancora fede?». Mi veniva da ribattere: «Non riesco proprio a leggere positivamente questa misera, tragica realtà!» Poi ho capito che era meglio, o forse non mi era possibile far altro che fidarmi, nella speranza che Cristo metta fine a questo dramma che non riusciamo a risolvere da soli.

La “malattia religiosa” del nostro tempo

Oggi, fortunatamente, non si usa più fare il panegirico del caro estinto. Le “orazioni funebri” sono serie e talvolta perfino troppo austere, teologiche ed impersonali. Alle lodi esagerate si preferisce un taglio più dimesso ed una cornice non solamente sobria, ma anche più vera. Questo mi pare giusto. Però credo che qualche accenno discreto sulla testimonianza offerta dal fratello che il Signore ha chiamato a sé, sia ancora opportuna, perché umanizza il rito e lo rende più vero e coinvolgente.

A me capita tanto spesso di “dare l’ultimo saluto” a relitti delle case di riposo, a creature vissute ai margini della società, o a persone provenienti da altri Paesi e perciò sconosciute, per cui il funerale arrischia sempre di essere anonimo, mentre quando ero in parrocchia le cose erano ben diverse: mi capitava sempre di “salutare” persone care perché conosciute e vicine, per cui i partecipanti al commiato facilmente erano coinvolti a livello emotivo, come pure a livello religioso e spirituale.

Talvolta sono i parenti a chiamarmi per parlarmi del caro estinto, ma più spesso sono io a chiedere qualche notizia perché il fratello o la sorella che presento al Signore e da cui vorrei ricevessimo “l’eredità” che ci lascisa, sia veramente fratello o sorella non solo a livello teorico, ma a livello sostanziale.

Le note più frequenti che ricevo sono che il morto era altruista – e ciò mi consola -, che era religioso ma non praticante – e questo mi rende meno felice. Pare che la caratteristica del cristiano medio della nostra società sia quella di una persona che non rifiuta il mondo religioso in cui vive, ma la cui fede incide assai poco sulla sua vita, perché non alimentata e non fatta crescere pari passo con la sua maturazione umana. Questa religiosità passiva ed inerte, che non diventa “luce” e “lievito” del vivere, mi pare una malattia religiosa alquanto preoccupante!

O sole mio!

Vi sono alcune tra le canzoni un po’, o molto, romantiche, che i nostri giovani non amano e perfino non conoscono, che io ascolto sempre molto volentieri: “O sole mio!”, “Mamma”, “Romagna mia” e qualche altra che si muove sulla stessa lunghezza armonica.

Ormai capita di rado che la radio, e peggio ancora la televisione le mettano in onda; non è di moda, non avrebbero un bacino di ascolto, ma soprattutto rappresenterebbero la reazione più sorpassata per le nuove generazioni.

Se qualcuno della mia età vuole ascoltare queste canzoni, deve accendere il giradischi nel chiuso della sua camera ed ascoltarle di nascosto come durante la guerra si ascoltava “Radio Londra”! Perfino al “don Vecchi”, la cui popolazione ha un’età che si aggira intorno agli 85 anni, e i giovani sono appena due o tre, non si riesce ad ascoltare musica del genere. Ogni volta che faccio presente che abbiamo un impianto di diffusione efficiente e che potremmo trasmettere in sottofondo musica sinfonica, canti di montagna, romanze celebri o musica da camera per ingentilire ulteriormente l’atmosfera del Centro che, fatalmente, nonostante i quadri e i fiori, sa di vecchio, m’arriva invece il gracidare acidulo e nevrotico del rock freddo o di qualche suo parente prossimo che mi irrita ed aumenta il malumore.

In questi giorni, dopo settimane e settimane di tempo cupo, di nebbie, di pioggia fredda che mi ha fatto temere che anche in Italia fosse calato il clima del nord Europa, ho sentito il desiderio di “vedere una” delle poche cose belle che sono rimaste nel nostro sud: il sole. E ho ascoltato “O sole mio” a tutto volume; l’ho ascoltato come una accorata preghiera al Creatore, che dopo essere stati privati di un governo sano, di una economia efficiente e di un vivere sereno, non ci venga tolto anche il “sole bello e radioso” che faceva cantare il cuore a san Francesco, il poverello di Assisi.

Le nostre colpe

Ci è stato insegnato fin da bambini a riconoscere le nostre cattiverie e a batterci il petto in segno di pentimento. Continuo, come tutti i praticanti, a farlo all’inizio della messa prima di incontrarmi con nostro Signore. Purtroppo, molto spesso questo atto si riduce ad essere puramente formale, o al massimo esprime il dispiacere per qualche cattiveria appena commessa.

Almeno per me, è molto raro che la mia “confessione” sia una vera ammissione di colpa nei riguardi di Dio e della società alla quale il mio peccato arreca sempre quella rottura di armonia che è invece la condizione essenziale per un buon vivere. Meno che meno il mio battermi il petto esprime il dolore per le cattiverie attuali e passate commesse dalla comunità a cui appartengo.

Papa Vojtyla prima, e Ratzinger poi, hanno compiuto questo gesto profetico. Sono assolutamente convinto che per questi uomini di Dio la richiesta di perdono sia stata una vera ammissione di colpa per i peccati gravi della Chiesa. Non credo però che la loro “confessione” abbia coinvolto anche l’intera comunità cristiana, come sarebbe giusto che fosse. C’è stato anzi qualcuno che si è ufficialmente dissociato da questa ammissione di colpa.

Ora che la televisione digitale ci offre la possibilità di una informazione più vasta, ho scoperto il canale “Rai storia”, che seguo con estremo interesse. M’è capitato di vedere, qualche settimana fa, i locali sotterranei appena aperti al pubblico, ove la “Santa” Inquisizione, fino a pochi secoli fa, sedeva in tribunale e soprattutto le prigioni orride ove i condannati per “delitti di pensiero” dovevano scontare lunghi anni di detenzione: un orrore da far rabbrividire!

Ho pensato, con infinita tristezza, ai discepoli del poverello di Assisi e di san Domenico, che si sono prestati a questa operazione così disumana e soprattutto così opposta al pensiero di Gesù, ed ho concluso che in ogni caso l’uomo non può e non deve mettere mai a servizio di qualsiasi apparato, sia pure quello della propria Chiesa, se questo non è conforme alla propria coscienza e alla propria umanità. Ho pensato pure che anch’io sono figlio di quella colpa e che io pure posso rendermi colpevole di questi crimini, perciò debbo battermi il petto per motivi di solidarietà esistenziale, anche per le colpe della mia Chiesa, colpe che non sono poche né piccole.

L’accattonaggio

Nota della redazione: come sempre, questo appunto di don Armando scritto a penna e trasformato in articolo per “L’Incontro” e post per il blog, risale ad alcune settimane fa.

Questa mattina la mia amica de “La nuova Venezia”, una giovane giornalista che segue con passione le vicende del “don Vecchi” di Campalto, mi ha telefonato chiedendomi che cosa ne pensavo in merito all’accattonaggio.

La notizia che un prete di un paesotto della marca trevigiana aveva dal pulpito messo in guardia i suoi parrocchiani a diffidare degli accattoni e di non prestarsi a dare l’elemosina ai mestieranti della carità, aveva suggerito a questa giovane giornalista, sempre a caccia di notizie, di scrivere un pezzo per il giornale con cui collabora, sull’argomento.

Domani mattina sono certo che avrò una foto nella pagina cittadina con, molto probabilmente, l’affermazione che anch’io sono contrario all’accattonaggio e che diffido i concittadini dal far l’elemosina.

Io, in verità, affronto il problema in maniera più articolata: è giusto, per me, che i preti proibiscano agli accattoni piagnucolosi di stendere la mano alla porta della chiesa, a patto che la parrocchia relativa sia veramente attrezzata a soccorrere i poveri e, al momento presente, credo che quasi nessuna parrocchia della città abbia messo in essere un impianto serio ed efficiente per soccorrere chi ha bisogno. Il prete in questione ha affermato che la Caritas è deputata ad aiutare seriamente i poveri. Io però non conosco parrocchia della nostra città e, meno che meno dell’interland, che si sia munita di strutture atte a dare un aiuto serio.

Sono pure decisamente convinto che le singole parrocchie, anche le più sensibili a questo problema – e sono pochissime, meno forse delle dita di una mano – potranno mai essere in grado di dare una risposta adeguata a chi è nel bisogno e credo che neppure le Caritas, così come sono attualmente impostate, siano in grado di farlo. Per questo sogno la “Cittadella della solidarietà” come risposta seria e globale al bisogno dei cittadini in difficoltà. Spero che il mio sogno non sia una illusione!

Una bella iniziativa del nostro Patriarca Scola

Più di una volta ho sentito, da qualche collaboratore vicino al Patriarca, che il nostro vescovo è estremamente impegnato e che lavora moltissimo. Questo mi fa molto piacere perché ho l’impressione che il mondo clericale di oggi sia gravemente affetto dalla sindrome del risparmio di fatica, mentalità diffusa senza risparmio dai sindacati. Oggi c’è più attenzione ai diritti che ai doveri, più comprensione per chi si risparmia che per chi si spende totalmente.

Non ho mai tenuto nascosto che non accetto chi difende il diritto dei preti ad avere un orario di lavoro apostolico, chi difende e chi rivendica il loro diritto alle ferie estive e non. Io vengo da una scuola diversa, in cui si presentava come motto una frase, forse mal interpretata, del sacerdote Melchisedec e che don Bosco fece sua: “Dammi le anime e poi toglimi pure tutto il resto!”. Io sono rimasto legato al concetto che fare il prete non è un mestiere, ma una missione e, aggiungerei, rifacendomi ad una cultura cinematografica corrente, “una missione impossibile”, ma che deve essere portata avanti con coraggio, abnegazione somma e spirito di sacrificio.

Mi è sempre presente l’immagine di san Francesco Saverio che, pur stremato, sogna di evangelizzare il Paese del Sol Levante. M’è venuto da riflettere su questo argomento, leggendo sul “Messaggero di sant’Antonio”, che il nostro Patriarca avrebbe iniziato una collaborazione stabile con questa rivista, curando una rubrica di questo mensile.

Sono molto grato al Patriarca per questa sua testimonianza di dedizione apostolica, di zelo pastorale e di scelta di “seminare”, non attingendo solamente con la mano nel sacco e spargendo nel solco con gesto sacrale la buona semente, ma adoperando una macchina tra le più moderne ed efficienti (“Il messaggero” è la rivista italiana che stampa più copie) per offrire alla gente del nostro tempo una lettura cristiana della vita.

Nenche gli uomini più grandi, purtroppo, sono immuni da qualche neo

Ho terminato di leggere il diario spirituale di Papa Giovanni: “Il giornale dell’anima”. Avevo letto molti anni fa la prima edizione di questi appunti che Papa Roncalli buttava giù in occasione di ritiri spirituali o conversazioni religiose che egli aveva tenuto nelle occasioni più diverse della sua lunga vita sacerdotale.

Ero rimasto veramente ammirato dalla ricerca spirituale ed ascetica di questo grande uomo di Dio, che seppe vestire di calda umanità la sua vita di cristiano. Ora poi, il meditare su queste riflessioni con gli occhi e col cuore di un ottantenne, mi è apparseo ancora più sublime, facendomi comprendere maggiormente il fascino spirituale che egli esercitò nella Chiesa e nel mondo intero.

Giovanni ventitreesimo è stato veramente un uomo di Dio, che seppe vivere all’interno dell’apparato ecclesiastico senza però esserne condizionato in maniera notevole e contagiato dalle debolezze di un certo clericalismo, in un tempo ancora più imperante e grigio che ai giorni nostri.

La mia ammirazione è somma, nonostante che in una nota del suo diario abbia rilevato ancora una volta il limite della nostra umanità e del nostro vivere da seguaci di quel Gesù che è stato un autentico maestro di anticonformismo e di libertà.

Papa Giovanni racconta che don Ernesto Bonaiuti, verso cui dai suoi scritti trapela la sua stima e il suo rispetto, l’aveva aiutato con affetto fraterno il giorno della sua prima messa, ad indossare le vesti sacre. Poi però annota, in maniera quasi sfuggente, la condanna di questo prete, accusato di modernismo dall’apparato clericale. Siccome la condanna era tra le più gravi, quindi “scomunicato da evitarsi in qualsiasi modo”, la Chiesa lo ridusse in miseria mediante una clausola, certamente illiberale, inserita nel concordato, che poi gli tolse la cattedra universitaria. Una volta morto, questo prete intelligente, libero ed onesto, è condotto in cimitero senza funerale religioso e senza che almeno uno dei suoi “discepoli” e confratelli abbia avuto il coraggio di accompagnarlo alla tomba.

Nelle parole del vecchio Papa m’è parso di avvertire tutta l’amarezza e lo smarrimento morale; però neanche lui, che credo fosse tutto sommato, un ammiratore o perlomeno che comprendesse il dramma di Bonaiuti, trovò il coraggio e la libertà di accompagnarlo al camposanto.

Anche gli uomini più grandi, purtroppo, non sono immuni da qualche neo! M’è tornata, purtroppo, alla mente, la massima evangelica: “Sfortunato chi confida solamente nell’uomo!”

Sognate con me!

Credo che non ringrazierò mai sufficientemente il Signore per avermi dato lo splendido dono di sognare ad occhi aperti. Il sognare in modo nuovo però, che non si riduce ad un’utopia lontana ed irraggiungibile, ma come gradini successivi che mi portino più avanti, più in alto e più vicino ad un “mondo nuovo”. Qualche giorno fa ho letto che don Verzè, il fondatore del grande ospedale-università di Milano, il San Raffaele, sta sognando, a più di novant’anni, di sconfiggere il tumore. Allora perché io, che ne ho solamente 82, non posso sognare un qualcosa alla grande?

Voglio confidare agli amici i miei sogni-nella speranza che pure loro non si rassegnino a non guardare più in là del proprio naso. Sognare costa poco, ma dona molto, offre nuove prospettive, scatena risorse interiori, mette in moto sinergie e talvolta, se ti va bene, può offrirti anche qualche realizzazione che gratifica lo spirito.

Comincio col più piccolo: l’Agape. Ogni quindici giorni vorrei, con i volontari della cucina del “Seniorestaurant” del “don Vecchi”, offrire un “pranzetto” cordiale a quaranta, cinquanta anziani della città che vivono soli. Un pranzetto che parte dall’antipasto e termina col dolce, in un ambiente caldo e cordiale. Non è molto, ma se ogni parrocchia ne organizzasse uno, più di mille anziani potrebbero pranzare assieme al costo di una “pipa di tabacco”!

Secondo sogno – che già ha messo radici e sta crescendo decisamente, tanto che col prossimo settembre potrà “camminare con i suoi piedi” – il “don Vecchi 4 di Campalto”: 64 nuovi alloggi per anziani poveri.

Qualche ostacolo, qualche bastone fra le ruote, qualche preoccupazione economica, ma ormai pare tutto in via di superamento, e soprattutto quanta gioia poter pensare che un’altra settantina di anziani trascorrerà la vecchiaia senza timore di sfratto e senza dover chiedere l’elemosina a nessuno.

Terzo sogno: la cittadella della solidarietà. Un ostello con duecento stanze, un ristorante con trecento coperti, un'”Ikea” per i mobili, un “Coin” per i vestiti, un ipermercato per i generi alimentari, un poliambulatorio, un centro di ascolto collegato con tutti i servizi in atto in città, un complesso-docce, un salone di parrucchiere per uomo e donna, un ufficio legale, una banca per miniprestiti, ecc.

Per ora ci sono le idee, ma non è impossibile, prima o poi, mettono le ali e comincino a volare.

Il perché della nostra avventura

La gestazione de “L’incontro” è sempre faticosa e la sua nascita settimanale segue ad un lungo travaglio, anche se apre gli occhi alla luce di questo mondo nella tipografia dell’interrato del “don Vecchi” fra l’entusiasmo di un gruppo di vecchi scout.

L'”Incontro” costa, perché costa la carta, costano le matrici, l’inchiostro, l’inserimento nel computer, l’impaginazione e la diffusione. Il prezzo più alto però è quello del messaggio e dei contenuti; nessuno di noi vi opera per consumare carta, per farsi pubblicità o per riempire le pagine, ma c’è in tutti noi la speranza e la volontà di indicare un’angolatura opportuna per leggere gli eventi della nostra città, della Chiesa e della società in cui viviamo. Nessuno di noi vuole essere uomo di fronda o di rottura o di parte, ma tutti invece sogniamo di aiutare i concittadini a maturare valori civili e religiosi sani che aiutino a crescere in umanità per creare una città più solidale ed una religiosità più vera.

Il nostro sogno è quanto mai ambizioso per le nostre risorse; pure con umiltà, coraggio e libertà tentiamo ogni settimana di offrire il nostro piccolo contributo.

Al lunedì mattina lo staff di vecchi scout passa lietamente la mattinata stampando le cinquemila copie, al pomeriggio gli anziani del “don Vecchi” piegano il giornale ed immediatamente i “corrieri” portano in una sessantina di recapiti il nostro periodico.

La distribuzione assomiglia molto alla parabola del Vangelo in cui il seminatore sparge la semente con fiducia e generosità, non troppo preoccupato del terreno su cui cade; così è anche per “L’incontro”, che lo si può trovare in chiesa come al bar, in banca come in ospedale, dal giornalaio come alla Casa di riposo, in pasticceria come all’ipermercato, a Mestre o a Venezia o nei paesi dell’interland.

La nostra avventura vuol essere un gesto di fraternità ed un tentativo onesto di ripensare la vita e la fede in modo positivo!

“E’ meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo”

Questa mattina, durante la recita del breviario, mi ha colpito una frase di un antico vescovo di una chiesa del Medioriente, sant’Ignazio di Antiochia. Leggendo il pensiero di questo santo uomo di Dio, ho provato un sussulto di sorpresa, apprendendo che forse, diciotto o venti secoli fa, questo pastore della Chiesa aveva detto delle verità che io pensavo di aver scoperto negli ultimi decenni della mia vita di prete e che credevo fossero verità di assoluta avanguardia.

Sant’Ignazio, nel suo sermone, afferma: “E’ meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo”. Mi pare che fin d’allora c’è stato chi aveva capito che i cristiani veri non sono quelli iscritti nel registro dei battesimi, o che vanno alla messa alla domenica, o sono schierati tra i cittadini moderati o benpensanti, ma coloro che definendosi religiosi o no, sono persone solidali, oneste, libere, coraggiose e disposte a pagare il prezzo salato che costa l’amore al prossimo.

Nei miei sermoni ritorno quasi con monotonia sulla verità che se la nostra frequenza alle liturgie più o meno solenni, non ci trasforma in “uomini nuovi e migliori”, il tempo che impieghiamo per esse è tempo sprecato, anzi motivo di accusa un domani di fronte al giudizio di Dio.

Talvolta mi pare di battere l’aria, e ciò mi scoraggia, sennonché, qualche giorno fa, una signora che mi chiese di celebrare una data significativa del suo matrimonio tra le commemorazioni e le preghiere per i morti, mi disse: «Forse mio marito accetterà di venire con me solamente in questa chiesa!». E poi, per addolcire l’immagine che io avrei potuto farmi di quest’uomo, soggiunse: «Sa, don Armando, mio marito è di quelli, come lei ripete “che Dio possiede e la Chiesa non possiede”».

Ciò mi fece molto piacere e celebrai con entusiasmo l’anniversario delle nozze prima del “Memento dei morti”. Però, con un po’ di preoccupazione, mi chiesi se tra la folla che gremisce la mia chiesa alla domenica non ci sia qualcuno “che la Chiesa possiede, ma Dio non possiede?”

Sono innamorato della mia “chiesa-baita”!

Il cimitero è doppiamente “cimitero” durante tutti questi giorni di nebbia, di questo piovviginare fine che inumidisce prima i vestiti e poi il cuore, giorni di pioggia fredda sempre sul punto di trasformarsi in una “ghiacciaiola” gelata.

Il viavai continuo di fedeli delle giornate di sole si rarefà perché gli anziani, che sono coloro che sentono sempre di più la nostalgia e il rimpianto delle persone amate, temono di ammalarsi e se ne rimangono rinchiusi in casa. Solamente qualcuno, come presenza quasi spettrale, si aggira sui viali in cui si affacciano le tombe dei nostri morti, forse perché gravi ferite recenti lo spingono a recuperare memoria ed incontro con le persone che se ne sono andate.

Nonostante questo, nella “mia chiesa-baita” l’andirivieni è continuo. La casa di Dio tra i cipressi è quanto mai accogliente col suo tepore diffuso, con le sue luci calde, coi suoi fiori ordinati e sorridenti e con i testimoni di Dio dell’antico e nuovo tempo che attendono in fila sulle pareti di offrire il loro messaggio di speranza e di bene.

Spesso mi siedo in fondo alla chiesa per assistere dolcemente al dialogo silenzioso, ma intenso, dei fedeli con la Madonna della Consolazione, o con Teresa di Calcutta o sant’Antonio da Padova, con Padre Pio o Papa Luciani, con Papa Giovanni XXIII o Francesco d’Assisi o Papa Woytila. Un incontro intimo, un segno di croce, la lettura del messaggio di queste creature di Dio stampato loro accanto; spesso con gesto lento e affettuoso la mano si posa su un lumino rosso perché continui durante il giorno la preghiera del loro cuore.

La mia chiesa è la più umile tra quelle della nostra città, la più povera e silenziosa, però forse è la più cara ed accogliente. Io ogni giorno di più ne sono innamorato.

Un fallimento devastante

Anche recentemente ho avuto modo, quasi costretto dalla cronaca e dagli eventi, di riflettere sul rapporto tra la vita privata e l’attività, arrivando alla conclusione che “il capo” non è una guida vera se non insegna con la sua vita.

Io poi, che vengo fuori, come educazione e cultura, dallo scoutismo, non riesco neppure ad immaginare che sia possibile guidare una comunità di uomini con la tecnica, l’istruzione, l’intelligenza solamente: Il capo deve impersonare la legge, i valori, i principi, o perlomeno deve tentare di trasmettere tutto questo al meglio con la parola, ma soprattutto con l’esempio del suo modo di vivere.

I cittadini di qualsiasi paese hanno bisogno di un’economia sana, di lavoro, di una sanità efficiente, di un apparato sociale valido, di leggi giuste, ma hanno soprattutto bisogno di un’etica che sorregga e dia indirizzo alla vita sia privata che sociale.

Le ultime notizie sulla vita morale del presidente del nostro governo mi hanno lasciato letteralmente sconvolto: il fallimento del primo matrimonio, la “tragicomica” del secondo, con relativa dichiarazione d’amore sul Corriere della Sera, le chiacchiere scandalistiche sui festini in villa e ora le dichiarazioni per televisione su un “nuovo rapporto stabile” e le infinite insinuazioni della stampa e dei suoi avversari sulla sua sessualità, hanno creato una cornice veramente desolante su un uomo che s’è proposto alla nazione come il redentore dalla mala politica degli intrallazzi! Un fallimento più devastante credo che non si possa neppure immaginare.

Un tempo nella scuola, giustamente o meno, si metteva non solo il ritratto del re ma anche quello del duce, come padri della patria – e di certo si è sbagliato – ora però temo che l’immagine del capo del governo appaia come le foto che nell’America dei cowboys si affliggevano per riscuotere la taglia.