A Maria, “Grazie, grazie, di esserci!”

Non tanto tempo fa, l’11 febbraio, abbiamo celebrato la festa della Madonna di Lourdes.

Al Centro “don Vecchi”, nonostante la presenza di una minuscola comunità delle suore di Nevers, consorelle della veggente santa Bernadette e nonostante che per l’occasione abbiano offerto frittelle e galani a tutti i residenti, la celebrazione è avvenuta in tono minore nella “sala dei trecento” che si trova nel seminterrato del don Vecchi.

Ricordo con infinita nostalgia questa celebrazione, quando ero parroco a Carpenedo; ricordo la fila interminabile dei cento chierichetti in tunica bianca e con in mano il tradizionale flambeau di Lourdes; ricordo la presenza dei quattrocento aderenti all’opera parrocchiale pellegrinaggi e il canto plurietnico del coro che eseguiva la preghiera in lingua congolese – da parte di una morettina, parrocchiana acquisita – in portoghese – da parte di una signora dello stesso coro – e di suor Michela con la sua madrelingua francese parlata nella sua infanzia in Tunisia.

Ma soprattutto ricordo le preghiere e il canto corale che saliva al cielo possente quando, al ritornello, tutti ripetevano “ave, ave Maria!” alzando al Cielo i flambeaux!

Quest’anno dissi, nel mio breve ed infervorato sermone, che festeggiavo la Madonna di Lourdes non tanto per i miracoli che avvengono nella terra benedetta dei Pirenei, miracoli relativamente pochi, ma per il fatto che la Madonna ci disse a Lourdes come nell’infinito numero di santuari a lei dedicati in tutto il mondo, che lei c’è, magari in penombra, vigile, attenta e pronta a darci una mano. Sapere di poter contare sull’amore di questa nostra “Madre”, anche se silenziosa, discreta e in disparte come a Cana di Galilea, è un fatto che conforta e rasserena.

Quest’anno confidai a Maria, assieme agli anziani: «Grazie, grazie, di esserci! Il fatto di sapere che ci sei, ci dà speranza e coraggio!»

Certe cose non cambiano!

La gente non ama ricorrere al conto corrente postale per fare un’offerta ad un ente benefico perché gli uffici pubblici sono sempre sovraffollati, il personale pare “un po’ lentino” e quindi bisogna fare la coda.

Un anno fa, quando ho promosso la campagna per recuperare il denaro per finanziare i nuovi 64 alloggi per anziani poveri di Campalto, ho scelto questa soluzione datata perché gli anziani sono ancora poco propensi ed abituati alle soluzioni d’avanguardia offerte dalle banche o da internet, ma soprattutto perché era la soluzione che mi permetteva di avere un riscontro dei benefattori e del loro relativo indirizzo. Ho stimato che la pubblicazione dei nomi e dei relativi importi avrebbe funzionato da volano per mettere in moto questa “campagna” che costituiva la mia unica tavola di salvataggio. Così è stato!

A Natale ho inserito ne “L’incontro” il conto corrente postale ed è iniziata così una pioggerella di offerte, che tutto sommato rappresentano ancora, in questo settore, “l’umile goccia” di cui è formato perfino l’oceano. A Pasqua, visto il relativo successo, ripeterò l’iniziativa per esaurire i diecimila conti correnti postali che avevo fatto stampare!

Che le poste italiane siano lente, ferruginose, poco efficienti, lo sapevo da una vita, infatti tante sono state le mie lettere di protesta inviate in questo mezzo secolo, senza ottenere risultato alcuno, né prima né dopo la riforma delle poste. In questa occasione ho scoperto che la sconfitta inferta dai mille di Garibaldi a Franceschiello delle due Sicilie, non ha risolto quasi nulla. In Italia, nonostante Garibaldi, Cavour, Mazzini e i Savoia, e nonostante che Napolitano arrischi di passare alla storia della Repubblica perché si è impuntato a festeggiare i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, poco è cambiato!

Ho scoperto che le poste italiane, per informarmi che un concittadino mi ha donato cinque euro, mi manda un plico con ben quattro fogli di carta A4.

Spero che Brunetta, prima o poi, s’accorga anche di questo, se vuole portare l’Italia nel terzo millennio.

Un antidoto contro la disperazione

Più volte ho fatto pubblica confessione di essere un apolide a livello politico, talvolta poi, vedendo comportamenti sempre più deludenti e prese di posizione arroganti, insulti impietosi o il ricorso ad “armi improprie”, dovrei confessare di essere perfino “disperato”. Mi sono addirittura sorpreso a pregare il Signore che mi facesse la grazia di prendere una cotta per un partito, di infatuarmi di un personaggio politico, per avere almeno la falsa illusione di aver trovato un appiglio che regga. Niente! Proprio niente!

Quando comincio a guardare con gli “occhiali buoni” non scopro che prepotenza, arroganza, attaccamento alla sedia, volontà assoluta di primeggiare, incoerenza a tutti i livelli di un tatticismo furbesco ed interessato che non ha proprio nulla a che fare con le qualità di un capo, che deve guidare soprattutto con la vita e non con le chiacchiere.

Spesso invidio amici e concittadini che sono ancora dei politicamente “credenti”. Tutto questo vale per i politici, ma anche per tante altre componenti della nostra società e soprattutto del nostro Paese che non sto a citare solo per carità cristiana. Girando gli occhi attorno, preti compresi, mi pare che si “salvino” solamente i vigili del fuoco e la polizia stradale!

In questi giorni fortunatamente m’ha dato una mano un pensiero di Madre Teresa di Calcutta, donna che se ne intendeva di “poveri uomini”, il cui pensiero ho trovato nel mensile “Sole sul nuovo giorno”. Diceva la vecchietta di Calcutta: «Io non sono che una povera e piccola goccia d’acqua, ma il grande oceano è formato da piccole povere gocce d’acqua».

Mi sono ripreso riproponendomi di condurre la mia piccola guerra personale, nonostante tutto! Credo che i testimoni autentici l’abbiano sempre pensata così. Infatti il mio maestro, don Primo Mazzolari, ne “L’impegno con Cristo”, scrive: “Come la primavera comincia col primo fiore e la notte con la prima stella, così il mondo nuovo comincia quando uno decide di essere una “creatura nuova”: Dono perciò a tutti questo antidoto contro la disperazione.

Una preziosa riflessione del Cardinale Martini

Confesso che io avevo una conoscenza molto approssimativa del cardinal Martini, già Arcivescovo di Milano. Nella mia memoria avevo impresso l’immagine imponente e ieratica di questo prelato, sapevo che era un gesuita esperto biblista e sapevo che “governava” la diocesi più numerosa ed importante del nostro Paese, tanto che m’ero fatto l’idea che egli fosse il “governatore” ecclesiastico di quella “gran Milan”, industriosissima ed efficiente a livello civile, che da sempre si contrappone alla paciosa ed intrigante capitale. Così pensavo che anche in campo religioso intercorressero con Roma gli stessi rapporti che intercorrono in campo civile tra l’efficiente e ricca capitale della Lombardia e Roma, pesante e burocratica.

Di Martini avevo letto una delle prestigiose “lettere pastorali” (“Farsi prossimo”) in cui egli aveva magistralmente messo con precisione e forza i puntini sulle “i” riguardo il problema della carità e poi aveva coerentemente tradotto, a livello di scelte ed iniziative pastorali, la presa di posizione messa a punto a livello di principio.

Martini, a suo tempo, ha dato le dimissioni per limiti di età ed è ritornato, vecchio e minato nella salute, ai suoi amati studi.

Riscopro, in questi ultimi anni, un Martini nuovo, più umano, con una religiosità discesa dalla cattedra, umile, disponibile ed in ricerca, come qualsiasi altro mortale. M’ha fatto un enorme piacere e m’ha aperto il cuore il leggere in un trafiletto apparso in uno dei suoi ultimi volumi:

“L’angoscia nasce dall’insicurezza e dalla fatica a trovare nel proprio bagaglio risposte rassicuranti. E’ la paura di dover affrontare un futuro incerto, rimanendo privi di quel poco di terreno solido che si pensava di aver conquistato.
Tuttavia, se impareremo a guardarci negli occhi, con rispetto e da fratelli, ci troveremo uniti nella fiducia, o almeno nel presentimento, che ci deve pur essere qualcosa in cui possiamo ancora credere.
Oggi i credenti debbono mettere assieme le loro riflessioni e la loro ricerca, senza ostentazioni di sicurezze impossibili e senza la presunzione che i cattolici abbiano tutte le verità in tasca, ma assieme a tutti debbono invece difendere ‘quel poco di terreno solido che pensano di avere ancora’”.

Avere fiducia, e non solo Fede, nel Signore

In questi giorni sto pensando che il termine “fede” è, almeno per me, un termine un po’, o tanto, ambiguo. Ho l’impressione che uno ritenga di aver fede quando crede che la realtà in cui vive è stata creata da un Essere superiore, dalle risorse infinite, tanto da essere stato capace di fare un mondo così complesso e nello stesso tempo ordinato, tanto che ogni essere ed ogni realtà ha una sua funzione correlata all’infinita catena di creature, di minerali, di corpuscoli, di atomi o di leggi.

Osserviamo l’universo! Tutto questo ci fa esclamare col ragazzo di Rousseau: “Quanto sei bello o sole, ma quanto più bello deve essere chi ti ha creato!” Di fronte alle meraviglie del Creato sono portato ad ammirare, adorare e ringraziare questo “architetto” così geniale, pieno di intelligenza, fantasia e generosità. Però con questa fede mi fermo qui! Mentre io avverto d’aver bisogno di molto altro per non sentirmi solo, smarrito, indifeso, abbandonato alla sorte ed impotente.

Da queste mie meditazioni piuttosto arzigogolate ho concluso che io più di fede, ho veramente bisogno di “fiducia” nel Signore, di sentire che mi è vicino, pensa a me e sceglie per me quello che è il mio vero bene, non quello che io mi illudo che sia.

Ho letto qualche giorno fa che ad un operaio disoccupato da sei mesi è capitato d’essere convocato per un colloquio. Purtroppo gli è andata male. Si scoraggiò e si lagnò con Dio perché si era disinteressato alla sua sorte. Un mese dopo però apprese che la ditta che l’aveva chiamato era fallita e perciò, se fosse stato assunto, si sarebbe trovato nuovamente disoccupato, mentre nel frattempo egli aveva trovato un buon lavoro, ben remunerato e vicino a casa.

Dio ci conosce a fondo e ci vuol bene, perciò i suoi “no” sono solamente per il nostro vero bene. Aver fiducia nel Signore allora vuol dire fidarci e leggere gli eventi in positivo a qualunque costo e in qualunque situazione. Già a Roma avevano coniato una sentenza a questo proposito, sentenza che io ho fatto scrivere in un mosaico all’entrata del “don Vecchi”: “In spem contra spem”. Bisognerà che me la legga di frequente per non lasciarmi prendere talvolta dall’angoscia o dalla paura dell’ignoto.

Dovremmo convertirci tutti quanti alla Parola del Vangelo

“Oh Italia, si bella e perduta!”. Pensavo che si fosse giunti al fondo, invece il mondo politico ed amministrativo che lo rappresenta, pare che sia inesorabilmente risucchiato da un gorgo buio ed infinito!

So che farei meglio a parlare delle margherite che, pur timide e rare, cominciano a sorridere umili e pudiche nei prati, o degli uccelli che, incuranti della crisi, del tempo balordo e delle vicende sociali del nostro Paese, continuano beatamente a danzare in cielo.

Nel parco del “don Vecchi” c’è ormai una mezza “colonia” di merli che, eleganti nella loro redingote nera, passeggiano da mane a sera, liberi e felici. Io potrei fare come loro e come parecchi dei miei colleghi, mentre purtroppo, o per fortuna, il mio carattere e la mia sensibilità, umana e sociale, si cercano guai a buon mercato; però non riesco a non dire la mia. Sono fatto così e perciò non riesco a comportarmi diversamente.

Da quanto ho appreso dalla stampa, capisco che se il nostro Capo del Governo avesse un minimo di dignità e di decenza, nonostante i voti presi, dovrebbe ritirarsi, dopo lo scandalo che ha dato all’intero Paese, e cominciare una vita migliore – con questo sono perfettamente d’accordo con i suoi oppositori. Non sono però d’accordo con loro quando pretendono di governare quando sono radicalmente in disaccordo e poi il popolo italiano ha preferito a loro, nonostante tutto, Berlusconi, benché essi dicano di avere la ricetta giusta e affermino d’essere un’accolta di anime celestiali.

Meno ancora sono d’accordo con i magistrati, talmente preoccupati di far giustizia su Berlusconi per i suoi peccati, che si dimenticano dei quindici milioni di processi pendenti, di spendere mesi su mesi per indagini , scrivere una mezza Treccani per dimostrare le sue colpe, spendere milioni su milioni per le relative intercettazioni e dare scandalo infinito mettendo in pasto all’opinione pubblica tutto il marciume possibile e immaginabile, senza spiegarci perché non si occupano delle centinaia di migliaia di prostitute di tutte le età che infestano le nostre strade e dei relativi clienti, che non sono tutti scaricatori di porto, o marinai appena sbarcati!

Avendo dimenticato un po’ tutti il discorso di Cristo: “Chi non ha peccato, scagli la prima pietra!”

Come vorrei dire a tutti, a cominciare da me: «Riconosciamo i nostri peccati, convertiamoci e rifacciamoci, per la nostra condotta, alle parole del Vangelo!»

Il buon seminatore

Uno dei miei crucci è di riuscire a razionalizzare la diffusione de “L’incontro”. Il periodico, pur scritto, stampato e diffuso da volontari, costa molto per la carta, le matrici, l’inchiostro e le macchine da stampa, e costa ancora di più a chi ha nel cuore un messaggio che crede doveroso offrire ai fratelli per aiutarli a dare un senso, una dignità ed un sapore alla vita, ma deve trovare le parole e la forma più opportune per passare questo messaggio. Questo non è assolutamente facile, ma impegnativo e faticoso alquanto.

Ogni lunedì esce dalla tipografia una pila alta un metro-un metro e mezzo di fogli stampati, perché un piccolo esercito di anziani del “don Vecchi” possa piegarli nel primo pomeriggio. Poi partono i “corrieri” per collocare il periodico nei posti prestabiliti per la diffusione. I primi a partire sono i coniugi Giovanna e Primo Molin che ne collocano a destinazione tra le 1200 e le 1400 copie. Poi parte lo storico “strillone” de L’incontro, Luciano Valentini, che distribuisce 6-700 copie, poi don Armando ne porta 400 a Carpenedo, e ancora suor Teresa, che ne colloca quasi 1000 all’Angelo. Infine c’è una miriade di liberi battitori che si riforniscono nelle chiese del cimitero per distribuire il periodico nei siti più impensabili, dalle pasticcerie al supermercato, dalle banche ai chioschi di giornali.

La distribuzione de “L’Incontro” si rifà esattamente alla logica della parabola evangelica del “Buon seminatore”, perché il seme è seminato sia tra le spine, che sulla strada, sempre nella speranza che almeno una parte della rivista cada “nel terreno buono e produca il buon frutto”.

Immagino che i consulenti economici ci sconsiglierebbero decisamente un “investimento” così incerto, però penso che, o per fede o per necessità, non mi resti che seminare sempre, e seminare largamente, in ogni caso ed in ogni situazione, affidandomi ciecamente alla logica del Vangelo!

L’esempio di vita di Lucia

Mia sorella Lucia, la caposala in pensione dell’oculistica del nostro ospedale, è partita in questi giorni, per la centottesima missione in Kenia.

Una trentina di anni fa Lucia aveva accompagnato il prof. Giovanni Rama nella sua avventura africana. Mia sorella era partita con l’équipe della sua divisione oculistica per andare ad offrire ad un piccolo ospedale sperduto nella savana e diretto da un medico “gentleman all’inglese” la prestigiosa capacità professionale del professor Rama.

L’Africa ha letteralmente sedotto mia sorella, tanto ch’ella ha sposato con un “solido matrimonio” i problemi e i drammi di quella povera gente affamata e disperata.

Lucia è ritornata parecchie volte con Rama, poi con altri medici mestrini e dell’alta Italia, poi s’è messa in proprio fondando un’associazione, coinvolgendo la nostra città e portando ogni anno soldi e cuore a quella povera gente bisognosa di tutto.

Quando parlo o scrivo di Lucia, dicendo della missione che s’è scelta, tanti pensano che ella sia una suora. No, Lucia è ormai una vecchia “ragazza” che non s’è sposata perché innamorata della povera gente di quella stazione missionaria e di quell’ospedale immerso nella terra brulla ed assolata del centro Africa.

Se penso a quelle tante donne che conosco, che tirano dietro a qualche “mammalucco” inconsistente il loro cuore e la loro femminilità, o peggio vivono per vestirsi, o per pettegolare, concludo che Lucia ha ragione! E’ assurdo vivere per nulla o per qualcosa di fatuo e di inconsistente; la vita è troppo bella e troppo preziosa per buttarla via per nulla. Agli uomini e alle donne della nostra società vorrei gridare: «Cercatevi un ideale, un motivo umano per cui vivere; non trovatevi vecchi e soli con l’amara delusione di non aver fatto felice nessuno o di essere vissuti per banalità che non meritano neppure un respiro della nostra vita!».

…Gesù rimarrebbe deluso?

Le mie “passeggiate spirituali”, com’è giusto e comprensibile per un prete, si svolgono sugli interessanti sentieri della Bibbia e, in particolare, prediligono le pagine del Vangelo.

Il mio animo divaga attratto dalle parole, dai messaggi e dalle verità in cui mi imbatto ad ogni pié sospinto. Come avviene per ogni divagazione della mente parto da una parola o da una immagine e poi, condotto dalla fantasia o dallo Spirito, mi ritrovo ad osservare ed approfondire le verità più diverse, ma sempre ottimali.

Qualche giorno fa m’è capitato di imbattermi in alcune realtà a cui Gesù è ritornato più di una volta nei suoi discorsi. Cristo, rivolgendosi ai suoi discepoli, disse loro: «Voi dovete essere la luce del mondo, il sale della terra e ricordatevi che la luce è destinata ad illuminare e il sale a dare sapore, perché se non adempiono a questa loro funzione, non servono a nulla, possono essere buttate tranquillamente nel cassonetto dei rifiuti!”

Da questi incontri m’ha colpito l’idea che se la luce è destinata ai luoghi bui, il sale agli alimenti senza sapore, il lievito alla pasta inerte e pesante, se queste devono essere le caratteristiche essenziali dei cristiani, ne consegue che i discepoli di Gesù non sono, nel pensiero del loro maestro, gente di convento, da congrega chiusa, da sagrestia, da ombra di campanile o da comunità che vivono dietro staccionate o dietro al reticolato, ma gente da barricate, gente destinata a trascinare, persone che s’immergono nella società, nella storia, nei problemi e nei drammi più difficili, per aprire vie nuove, che portano a soluzioni positive.

Tolstoi, il grande drammaturgo russo, in uno dei suoi racconti, immagina Cristo che, in incognito, va a visitare le comunità che dicevano di rifarsi al suo insegnamento, ma con sua amara sorpresa, scopre che non assomigliano per nulla al progetto da lui sognato.

Temo che oggi la delusione di Gesù non sarebbe meno amara e sconsolata, perché pare che i cristiani temano i luoghi in cui pulsa il cuore della società e in cui si fa la storia.

Una generosità che commuove e costruisce

Mestre conosce la mia trovata di munirmi di una bisaccia da cerca per trovare il denaro per finanziare il “don Vecchi” di Campalto. Non tutti però sanno che avevo in canna più di una cartuccia e nel momento della grande paura ho cominciato a premere il grilletto in tutte le direzioni.

Una delle tante trovate, che poi era una specie di uovo di Colombo, e non una gran scoperta, fu quella di accludere all’interno de “L’incontro” il bollettino di conto corrente postale. All’inizio dello scorso dicembre, stimando che il Natale vicino e la tredicesima potessero intenerire il cuore dei miei concittadini, ho inserito ben cinquemila bollettini nel numero de “L’incontro” della prima settimana di dicembre. Feci stampare in copertina la mia foto per personalizzare la richiesta di aiuto e poi, in prima di copertina, scrissi una lettera aperta intingendo la penna ora nel cuore ed ora nella preoccupazione di un vecchio prete preoccupato di far fallimento.

Non è che subito siano piovute le risposte come una pioggia torrenziale d’estate, però cominciò una pioggerella continua di risposte e la somma finale degli euro cominciò a crescere, seppur lentamente, ma in continuità. Ho cominciato a prender nota e a segnalare la sottoscrizione dei B.T.P. (Buoni Tesoro Paradiso), come ebbe a denominarle una cara figliola di un mio amico, per inviare via Internet gli accrediti in Cielo.

Questa pioggerella quotidiana mi rende lieto perché dietro ad ogni nome posso sognare il volto buono e caro di una persona amica, perché sono certo che il Signore terrà conto nel Giudizio Finale di questa generosità e perciò i miei concittadini si troveranno un bel gruzzoletto per la fine della vita ed infine perché posso onorare gli impegni presi con l’Eurocostruzione.

Potrei anche aggiungere che tali offerte assicurano il pane quotidiano per un anno intero ai cinquanta operai del cantiere del “don Vecchi 4°” e in questi tempi ciò non è proprio poco!

E’ bello vivere un’altra primavera!

Da un paio di settimane, nonostante le brinate che hanno imbiancato il grande prato a levante del “don Vecchi”, nonostante le fitte nebbie che mi hanno ricordato quei pomeriggi di novembre di quando, giovane seminarista, Venezia si incupiva e l’aria era solcata dai sordi suoni delle navi e dei vaporetti che, guardinghi, solcavano il canale della Giudecca, mi sono accorto che l’erba del parco aveva alzato il capo verde e pareva sorridesse anche al seppur piccolo raggio di sole. Il cuore s’è messo subito in tumulto a battere veloce, sognando primavera!

La dolce stagione m’è sempre piaciuta, ma in questi ultimi tempi, specie quest’anno, la desidero in maniera ardente ed appassionata. Mi sono sorpreso a pregare: «Signore, fammi il dono di poter vivere ancora una volta la stagione nella quale prati, alberi, cielo ed uomini si vestono a festa con una eleganza ed un’armonia che appaga gli occhi e il cuore»

Com’è bella primavera! Come mi spiace non aver assaporato lentamente e con soave ebbrezza le ottantun primavere che il Signore mi ha donato, dando per scontata questa sinfonia di colori ed atmosfere inebrianti!

Monsignor Vecchi era solito ricordarmi che una cosa vale di più in misura che ce n’è meno a disposizione. Ora comprendo più che mai questa verità e sento giunto il bisogno di gustare, centellinando ogni colore, ogni volto, ogni luce ed ogni sensazione.

Come vorrei dire ad ogni creatura che incontro: «Scrollati di dosso i problemi artificiosi della nostra società, butta lontano da te l’indifferenza, l’abitudine, il dare per scontato e canta col Creato. E se ti mancano note e parole, prendi lo spartito del Cantico delle Creature del Poverello d’Assisi ed intona il “Laudato sii, mi Signore, per l’acqua, le stelle, il fuoco, i fiori e gli uomini e le donne che riempiono il Creato di bellezza e di soavità!»

Dio ha sempre un momento per ascoltarci

Qualche settimana fa ho introdotto la liturgia della messa prefestiva, che celebro con gli anziani del “don Vecchi”, tra la sorpresa generale, con queste parole: “Il Signore, nonostante i suoi infiniti impegni, trova tempo questa sera per venire tra noi anziani a darci i consigli di cui abbiamo bisogno e per ascoltare le nostre richieste”. S’è fatto silenzio e la messa è iniziata, tenendo conto che c’era questo ospite importante tra noi.

M’è parso che il mio sermone, i canti e le preghiere dei fedeli, tenessero conto di questa presenza di Gesù. M’è parso ancora che ognuno si sentisse compreso, come lo furono i partecipanti alle nozze di Cana in cui Cristo fece il suo primo miracolo, sperando anche noi che lui trasformasse noi, “acqua queta della laguna”, in autentico barbera.

Questa frase m’è nata da un vecchio ricordo della mia lunga vita in parrocchia. Tanti anni fa avevo notato che un’anziana maestra in pensione, originaria dell’Istria, passava lungo tempo in chiesa nei tempi in cui essa era deserta. Se ne stava tranquilla nel suo banco, silenziosa ed apparentemente indifferente a quello che accadeva nel tempio. Siccome la conoscevo bene, perché mille volte mi aveva parlato del dramma che pesava sul suo cuore per l’uccisione del marito e del giovane figlio da parte dei titini, un giorno le chiesi come mai venisse sempre in chiesa nei tempi in cui essa era pressoché deserta. La vecchietta mi rispose con candore e naturalezza: «Il buon Dio deve essere molto impegnato con i problemi che gli pongono gli uomini di questa nostra società e perciò penso che non possa perdere il suo tempo per ascoltare questa povera vecchia; allora vengo nei tempi in cui suppongo sia più libero!»

Di certo è semplicemente meraviglioso il poter pensare che il Signore trovi sempre un po’ di tempo per ognuno di noi, per ascoltare spesso le nostre facezie e i nostri discorsi così poco saggi. Eppure è certamente così! Mia madre aveva ben sette figli, ma credo che nessuno di noi si sia mai accorto che ella non avesse tempo per ascoltare ognuno di noi sette. Papa Luciani disse che Dio “ha un cuore” di padre e di madre contemporaneamente. Se è così son ben felice di poterne approfittare.

Il professor Carlo D’Amato

Oggi ho celebrato il funerale di un mio vecchio parrocchiano, un insegnante di matematica e di fisica morto improvvisamente. La moglie e i figli vollero, concordi e determinati, che fosse il loro vecchio prete, che per una quarantina di volte aveva visitato la loro casa, che aveva avuto un dialogo aperto e cordiale con loro ed era stato vicino a questa famiglia in tutti i momenti “nodali” della sua storia, a celebrare il commiato.

Sono stato contento di questa scelta e di aver potuto accogliere nella mia povera chiesa con tanta cordialità, il capofamiglia partito improvvisamente ed in maniera tanto imprevista.

La moglie mi aveva detto che ci sarebbe stata tanta gente, io però non me ne ero preoccupato, abituato come sono a celebrare funerali con presenze tanto sparute. La chiesa invece s’è riempita come mai l’avevo vista, tanto gremita che tanta gente ha partecipato al funerale fuori dalla porta, benché all’interno ci sia posto per almeno 300 persone.

Il defunto non era un parrocchiano molto coinvolto nella vita parrocchiale, né penso abbia avuto alcuna militanza politica, né che partecipasse a salotti o facesse vita pubblica; egli aveva trascorso la vita a fare l’insegnante di matematica e fisica, due materie che normalmente non incantano e fanno sognare. Il professore a cui ho dato l’ultimo saluto era un ottimo insegnante, preparato, serio, appassionato del suo lavoro, coerente e grande lavoratore. Non mi era parso che la città si fosse accorta di questo cittadino serio ed impegnato e forse mai abbia riconosciuto il suo valore e il suo positivo apporto alla vita della comunità.

Ricordai una immagine che monsignor Vecchi adoperava talvolta: “Quando uno entra in un edificio cerca la pietra di pregio, i capitelli lavorati, quasi mai si ricorda dei mattoni nascosti dall’intonaco, che sono quelli che sostengono l’edificio”.

Il professor Carlo D’Amato è stato nella nostra città una di quelle pietre umili, ma consistenti e forti e ha certamente contribuito al bene della nostra città; senza uomini del genere sarebbe impossibile capire come, nonostante l’infinita miseria descritta dai giornali, la nostra società continui a stare in piedi.

Un pranzo di lavoro poco soddisfacente

Qualche giorno fa ho partecipato per la prima volta ad un pranzo di lavoro a cui mi ha invitato il Patriarca.

Premetto che non sono particolarmente entusiasta della soluzione dei pranzi di lavoro per trattare un qualsiasi problema. Chi prende la parola fatica a parlare perché i destinatari del suo discorso sono, naturalmente, più o meno intenti a mangiare, e chi ascolta, invece, mangia mal volentieri, preoccupato di non far rumore, di perdere le parole, e quando gli verrebbe da intervenire è nel bel mezzo del piatto di pasta! Comunque il pranzo di lavoro è andato avanti, seppur con qualche sussulto e qualche pausa per l’andirivieni della cameriera, abbastanza disinvolta, spicciativa e poco interessata al discorso.

L’architetto Giovanni Zanetti, ha trattato l’argomento della cittadella della solidarietà un po’ girando alla larga ed un po’ con un linguaggio troppo tecnico e ha informato di poter ottenere trentamila metri di terreno a titolo gratuito, in una zona a suo parere ben servita dai mezzi pubblici. Il Patriarca è intervenuto motivando la scelta come logica conclusione della sua “campagna” sul gratuito svolta durante la sua visita pastorale.

Gli interventi circa l’opportunità di dar vita a questa “cittadella della solidarietà” sono stati più smorzati e più soffici di quelli manifestati sullo stesso argomento durante una precedente cena di lavoro alla quale non partecipava il Patriarca; di certo però non ho avvertito troppo entusiasmo e troppa passione; forse ciò è dovuto al fatto che, per non so quale motivo, in questi giorni ho avuto un calo preoccupante di udito. M’è parso che con quella “brigata” non si andrà troppo lontano.

Un mio vecchio amico prete diceva spesso che lui era per la democrazia, però guidata da un forte “leader” – che, tradotto, significava che c’era bisogno di uno che ascolti pure, ma poi decida lui! Io invece penso che sia assolutamente necessario un manager che, dopo aver ascoltato, proceda mettendo in riga tutti, compresi quelli che han deciso! Per la “cittadella” siamo ancora un po’ lontani da questo; spero che non si indìca quindi una “merenda di lavoro” per proseguire il discorso!

Riflessioni su un incontro con i confratelli della terraferma

Oggi, dopo tantissimo tempo, non completamente per mia volontà, ma a causa delle mie mille magagne, dell’ostinazione di occuparmi fino in fondo di ciò che credo, a torto o a ragione, che sia il dovere del mio ufficio, e forse perché non direttamente interessato ai problemi che si dibattono, ho partecipato, seppur parzialmente, ad un incontro con i confratelli della terraferma.

A causa di un recente e notevole calo dell’udito, ho fatto fatica a capire quello che si diceva, comunque ho provato delle strane sensazioni. Avevo l’impressione di partecipare costantemente, seppur da lontano, alle vicende della mia diocesi, mediante la lettura della stampa diocesana, sentendomi coinvolto nelle problematiche che essa affronta, però questa mattina ho avvertito di essere piuttosto lontano e quasi estraneo ai discorsi e ai problemi affrontati.

Ciò mi è dispiaciuto alquanto e mi ha spinto a rinnovare il proposito, in verità poco attuato in passato, di partecipare più frequentemente a suddetti incontri, pur preoccupato che la mia partecipazione, che non sarebbe mai passiva, possa diventare una voce fuori coro e stonata.

Il mio disagio è cominciato col fatto di non conoscere molti dei presenti – questo è comprensibile perché io appartengo ormai all'”antico testamento” – per continuare nel sorprendermi per le fogge così diverse nel vestire dei preti – ma mi son detto che “l’abito non fa il monaco”- e per finire poi con la cosa più importante: non avvertire un linguaggio che mi è ormai estraneo e delle problematiche che tutto sommato non mi paiono così importanti, non solo per il bene della società attuale, ma anche per il Regno!

Non so se debbo essere in pena o essere contento di parlare ormai la lingua parlata dalla gente e non quella del clero ed essere preoccupato solamente delle cose che io ritengo essere essenziali per trasmettere il messaggio che credo possa salvare gli uomini d’oggi dalla miseria, dalla solitudine e dalla disperazione di una vita fatua ed inconsistente.

Sono tornato a casa preoccupato di sentirmi un po’ estraneo al linguaggio clericale e poco coinvolto dai problemi sofisticati a cui esso si appassiona. Perché oggi la mia preoccupazione è invece quella di seminare speranza, solidarietà e fiducia che Dio ci vuol bene, nonostante tutto, e che Cristo rimane tra gli uomini del nostro tempo anche se sono deludenti e poco riconoscenti per tutto quello che ci dona.