I codini

Un tempo le persone un po’ effeminate ed untuose che fanno la corte agli uomini che contano, quelli che si lasciano andare a forme di servilismo esagerato, erano denominate “codini”, lacchè, portaborse. Ora pare che la società accetti più pacificamente queste forme di adulazione più o meno interessate che un tempo erano proprie dei servi, dei segretari, dei barbieri e categorie del genere.

Attualmente mi irritano certi rimasugli di questi atteggiamenti servili che mi pare di riscontrare negli addetti alle imprese di pompe funebri nei riguardi dei famigliari “del caro estinto”. Questo fenomeno, ahimè, lo riscontro ancora ben presente nell’ambiente ecclesiastico nei riguardi della gerarchia, un atteggiamento adulatorio e servile verso l’autorità, per possibili vantaggi a livello di carriera che si nasconde dietro la virtù dell’obbedienza.

Una lunga tradizione ed educazione mistica, favorita certamente da chi detiene il potere, per motivi perfino troppo facili da comprendere, ossia per facilitare il governo, è venuta a esaltare la “virtù della santa obbedienza” inducendo praticamente gli inferiori al “signorsì” del mondo militare.

Ritengo che l’obbedienza sia tutt’altra cosa che l’esporre con rispetto le proprie opinioni che talvolta possono essere diverse e perfino opposte a quelle del superiore. Io non arrivo a parlare, come qualcuno ha teorizzato, della “virtù della santa disobbedienza”, però ritengo che il rapporto debba essere sempre franco, onesto, virile, perché solamente così si dimostra rispetto per l’autorità e soltanto così si può trovare il coraggio di obbedire anche su qualcosa che non si ritiene giusto ed opportuno.

Purtroppo talvolta è più comodo e più facile offrire un consenso formale; questo è un doppio male perché non si è onesti, non si ha vero rispetto per l’autorità e soprattutto si abitua il superiore a non confrontarsi e ad accettare opinioni diverse dalla sua.

Rosmini ha parlato delle cinque piaghe della Chiesa, non so se il servilismo sia una di queste, comunque di certo è uno dei suoi difetti.

Il mio piccolo mondo antico

Ho ancora intelligenza per capire che il mio è un mondo crepuscolare, intinto di nostalgia per delle realtà umane e spirituali che ho intensamente vissuto, ma che ormai sono al margine della vita. Sono perfettamente cosciente che la società oggi corre su binari nuovi e diversi, che sono percorsi con disinvoltura dalle nuove generazioni, anche se mi capita molto di frequente di domandarmi come fanno gli uomini del nostro tempo, e soprattutto le nuove generazioni, a godere di questo nuovo modo di vivere che a me pare tanto arido, desolante e decisamente brutto.

Quando mi rifaccio alla razionalità, che fortunatamente non ho ancora totalmente perduto, concludo che non è il mondo che è diventato insipido, superficiale e assurdo, ma sono i miei occhi stanchi che non ne colgono la validità. Non è che il mondo sia più brutto, ma la mia vecchiaia, che non è più capace di leggere con attenzione e stupore il libro della vita.

Ieri sera, a “Rai storia”, il canale televisivo che ho scoperto con l’avvento del digitale terrestre, ho seguito un programma su Beniamino Gigli. Minoli, il conduttore onnipresente, raccontava la vita del grande tenore presentando una serie di spezzoni di musica lirica e di canti popolari di questo tenore dalla voce calda e melodiosa.

A dire il vero avvertivo nella figura ed anche nella voce, un qualcosa di vecchio e di passato che invece non ho mai avvertito in Pavarotti, che pur cantava le stesse arie, ma quando confronto parole e melodia di Gigli con quelle di Vasco Rossi o Jovanotti o qualcuno di peggio ancora, non posso non dire che i cantanti di oggi, anche i migliori, sono l’espressione di un mondo sconclusionato senza sentimento, senza poesia e senza ideali.

Dall’altro lato sono assolutamente certo che se parlassi di questi confronti alle ragazzine che sono andate al Lido per “adorare” i nuovi divi, mi guarderebbero come chi indossa vesti ammuffite, sgualcite e polverose trovate in soffitta.

Così va la vita, nonostante i miei criteri che ritengo seri e oggettivi!

La tariffa

Un mio amico, che conosce le mie idee circa il ministero sacerdotale e il rapporto del prete con la sua gente, poco tempo fa mi ha portato un trafiletto. Lo pubblico per intero, avendo però cancellato il nome del sacerdote, della parrocchia e del luogo dove sarebbe avvenuto il fatto.

Credo che la notizia provenga da certa stampa che è avvezza a raccogliere spazzatura anticlericale e antireligiosa e perciò bisogna inquadrarla in questo contesto.

Dalle nostre parti sono convinto che le cose non stanno così, però credo che anche nel nostro ambiente avvenga qualche eccezione alla norma di un comportamento più saggio. Soprattutto ho la scusante che qualche religioso (prete o frate, poco importa) applichi invece in maniera pedissequa, senza un po’ di tatto e di sensibilità, certe norme della curia che hanno pur una qualche giustificazione, ma appaiono di cattivo gusto e quanto mai venali, qualora non vengano accompagnate da qualche parola che inquadri la questione e soprattutto non tenga conto della sensibilità dei singoli fedeli e non sia sempre disposto alla duttilità e alla disponibilità a fare tutte le possibili eccezioni. Eccovi il trafiletto.

Il prete a tariffario
(lettera firmata)

Nei giorni in cui si svolgevano i solenni funerali del cardinale Carlo Maria Martini, ricordato da tutti, laici e credenti, per la sua visione “moderna” della Chiesa, si celebrava il trigesimo della morte di mia madre, officiato da don Peppino. Ad agosto non è stato possibile perché era in ferie e, si sa, le messe per i morti possono aspettare. Ed eccolo sull’altare abbronzato, scocciato, annoiato per quel rito che deve ripetere ai parenti della defunta, una ventina di minuti tirati al massimo, non di più. I parenti si avvicinano per le condoglianze, e nella calca chiedo a mia sorella cosa le ha chiesto don Peppino per il disturbo. Indovinate? Cento euro. Non ha detto “fate un’offerta” qualcosa a piacere, ma più prosaicamente cento euro. Come se ci fosse un prezziario per le funzioni.

Attualmente i sacerdoti percepiscono uno stipendio che permette loro, senza fare i salti mortali, di vivere decorosamente nella sobrietà. Per noi, preti in pensione, le cose non vanno diversamente. A me pare quindi che ci siano delle soluzioni che permettano alla religione e al sacerdote di star ben al di sopra di qualsiasi rapporto economico e qualsiasi remunerazione specifica per la preghiera.
Pur essendo convinto che è comprensibile che il fedele, in determinate occasioni, accompagni la richiesta di una intercessione con Dio, con una offerta per i poveri e per i bisogni essenziali della comunità.

Quando la gente, per una brutta abitudine imparata dalla vita sociale, ma anche dai preti, domanda: «Quant’è, che cosa le debbo?» mi pare che il rispondere: «Niente, ma comunque, se crede di fare un’offerta la destiniamo ai poveri» (e poi farlo, si capisce!), non dico sia più elegante, perché qui non si deve trattare di furbizia o di eleganza, ma di stabilire un rapporto umano e spirituale di più alto livello.

Questo comportamento credo che sia a tutto vantaggio della fede e della stima verso il sacerdote.

Il monaco e la tonaca

Con i tanti problemi che ci sono nella vita, quello della divisa non è certamente uno dei più importanti, però credo che dobbiamo prestare una qualche attenzione anche a questo.

La divisa normalmente serve per cogliere, fin da subito, la funzione che una persona esercita all’interno della società. Fin qui tutto va bene. Motivo per cui ritengo giusto che poliziotti, soldati, magistrati, ecclesiastici, medici ed altri ancora, indossino degli indumenti il più possibile conformi al corpo sociale di cui fanno parte.

Per uno sportivo le vesti devono essere leggere, funzionali, in maniera che gli arti si muovano con libertà. Per un militare invece, la divisa deve esprimere ordine, severità, deve incutere fin di primo acchito rispetto e soggezione. Più difficile è sempre risultato per i magistrati, i quali, quasi sempre, si rifanno a toghe fuori uso, spesso eccentriche, che credo esprimano il legame col passato e con la tradizione, quindi vesti non legate al tempo.

Per gli ecclesiastici poi la scelta è sempre stata anacronistica ed ancora più difficile. La talare era ingombrante, femminile ed insignificante. Fu scelta dai preti per dimostrare fedeltà al Pontefice e rifiuto dello Stato italiano dopo Porta Pia. Infatti, non appena il Concilio lo permise, fu abbandonata in un battibaleno da quasi tutti e le si preferì il clergiman, più adeguato ai tempi. Volesse poi il Cielo che i preti rimanessero fedeli a questa divisa più sobria e funzionale!

Per le vesti liturgiche poi, credo che il problema sia ben lontano dall’essere risolto. I paramenti dovrebbero di per se stessi dimostrare che chi li porta rappresenta la comunità che si mette a colloquio con Dio. In realtà, spesso, essi sono ampollosi, spagnoleschi, ridondanti, tanto da apparire ad un occhio critico, goffi e fuori dal mondo.

Ci sono stati tanti tentativi di semplificazione che il basso clero ha accolto, mentre l’alto clero si muove ancora nella ridondanza di qualcosa che spesso sembra assurdo e tendente al magico.

C’è, pare, qualche tentativo, però non ho l’impressione che attecchisca. Ho letto su un supplemento de “L’espresso” che il vescovo di Marzara del Vallo (Sicilia), nel suo desiderio di innovazione, ha fatto studiare dalla casa di moda “Armani”, un paramento innovativo e poi si è fatto fotografare come in passerella. Questo mi pare un po’ troppo! Comunque mi piacerebbe vedere il risultato.

Io continuo a sognare una veste di assoluta semplicità, ma contemporaneamente essenziale nella sua dignità.

Tribunali mai nati

Sarà perché ogni giorno passa davanti ai miei occhi la miseria europea, quella africana e quella asiatica, perché al “don Vecchi” i poveri arrivano vestiti nelle fogge più diverse e parlano le lingue del mondo, che mi capita sempre più spesso di pensare che noi, paesi opulenti, siamo gli assassini e i ladri che sfruttano e rubano il necessario a molte etnie e a molte nazioni che oggi vengono a mendicare da noi il maltolto.

So che questa colpa è minimamente imputabile al singolo, o almeno solamente in maniera indiretta, avendo noi esigenze esagerate, sprecando e non premendo sui nostri governanti responsabili di guidare la nazione, però i veri e ben identificabili colpevoli sono i nostri governi.

Il singolo cittadino talvolta è mosso da sentimenti di pietà e talvolta apre il cuore e porge la mano a chi è in difficoltà. Mentre pare che i governi non abbiano alcuna coscienza e, meno ancora, pietà verso i Paesi di cui depredano le ricchezze, vendendo loro i prodotti non commerciabili in Europa, impiantando le fabbriche più inquinanti e nei quali trasportano i veleni dei rifiuti dei loro stabilimenti industriali.

Quando i poveri del mondo si affollano al “don Vecchi” per chiedere generi alimentari, vestiti o mobili, tutti noi ci sentiamo dei gran benefattori, offrendo loro abiti usati e non più alla moda e generi alimentari vicini alla scadenza e non ci ricordiamo che i nostri governi assieme alle grandi aziende, depredano i beni più preziosi che questi popoli posseggono e pagano in modo irrilevante cinesi e indiani che confezionano i nostri vestiti.

Purtroppo non è ancora nato nel mondo un tribunale che condanni e punisca i “delitti commerciali” perpetrati dai governi della nostra vecchia Europa e dell’America del nord. Però, prima o poi, verrà!

I poveri di famiglia

Ieri ho fatto qualche annotazione amara circa l’organizzazione e la pratica della virtù cardinale della carità all’interno delle comunità parrocchiali. Non è la prima volta che lo faccio e certamente non sarà l’ultima. Sono ben consapevole della sorte toccata al “grillo parlante” del Collodi, però ci sono delle denunce talmente doverose, che credo si debba essere disposti a pagarle anche a caro prezzo.

Senza scomodare i termini impegnativi quali testimonianza o profezia, guai se verranno a mancare le voci scomode che denunciano storture, carenze e deviazioni.

E’ più che mai doveroso affermare a chiare lettere che una parrocchia che non abbia una lucida conoscenza dei suoi poveri – e col termine “poveri” intendo non solamente quelli che non riescono ad avere il necessario per vivere, ma anche gli infermi, gli anziani soli, le persone colpite da drammi gravi, disoccupati, ecc. – non è una parrocchia che possa fregiarsi del titolo di comunità cristiana.

La solidarietà esige conoscenza aggiornata e capacità di risposta, avendo a disposizione personale e mezzi da impiegare. In una città come la nostra c’è pure l’esigenza di strutture e servizi a livello cittadino, cosa che una singola comunità, per quanto grande e ben organizzata, non riesce a promuovere e sostenere, e che perciò devono essere promossi e gestiti dalla collettività nel suo insieme – e qui torno ancora una volta al progetto della “cittadella della solidarietà” che dovrebbe nascere ed essere gestito con la collaborazione dei singoli e delle comunità parrocchiali.

Ogni parrocchia però, se vuol essere non solo di nome ma anche di fatto una comunità cristiana, non può prescindere da un minimo di organizzazione interna, attraverso la quale si fa carico dei suoi fratelli fragili e bisognosi di aiuto. Oggi però questo avviene in un numero assai ridotto di comunità parrocchiali.

La comunità

Nella Chiesa s’è sempre parlato di comunità, ma ai nostri giorni se ne parla più di sempre.

Monsignor Vecchi, che cito di frequente e non potrei fare altrimenti, perché lui fu uno dei maestri che incise maggiormente sulla mia educazione – era solito dire che quando si cita tanto di frequente un termine, significa che la gente ha già smarrito la sostanza. Credo che avesse ragione perché le nostre comunità di fede, ossia le parrocchie, a livello di spirito comunitario sono tanto striminzite e carenti, per cui il dialogo tra i loro membri e l’aiuto reciproco sono pressoché venuti meno. Se poi si esamina con obiettività e sano realismo l’impegno che la comunità dovrebbe necessariamente avere nei riguardi dei più poveri, c’è veramente da essere preoccupati e delusi.

Un tempo la gente si conosceva all’interno della parrocchia e quasi sempre dava personalmente una mano a chi annaspava nel bisogno, ma oggi c’è una organizzazione sociale e una mentalità che esige sempre associazioni, servizi e strutture che avvertano i bisogni e diano una risposta.

Gli strumenti nati nelle parrocchie e nell’ultimo mezzo secolo, per aiutare i poveri, sono la San Vincenzo, la Caritas – che è giunta più tardi e ne è una copia mal riuscita – e, un tempo, il tentativo del FAC (fraterno aiuto cristiano) che però mi pare sia totalmente scomparso. Al di fuori di questi gruppi caritativi si possono trovare in qua e in là, altri servizi diversi, ma sono pochi e spesso sorgono ove c’è già una sensibilità ed una qualche organizzazione di solidarietà.

La situazione, a mio avviso, è semplicemente desolante. Spero che l’anno della fede, proclamato all’interno della Chiesa italiana, produca il frutto naturale della fede che è la carità. Mi auguro che quest’anno ci sia una fioritura a livello personale e parrocchiale di questa virtù. Se ciò non avvenisse vorrebbe dire che l’anno della fede sarebbe fallito.

Il breviario quotidiano

Nel breviario, che la Chiesa mi chiede di recitare ogni giorno, vi sono delle parti, sia delle “letture” che dei salmi, che trangugio come l’olio di ricino che mia madre mi imponeva ogni volta che avevo fatto indigestione. Tutto il breviario dovrebbe essere preghiera, però io penso che possa avere questa valenza solamente se il Signore accetta la fatica che faccio nel leggere cose tanto lontane dalla mia sensibilità e dalla mia coscienza.

Spesso certe omelie dei Padri della Chiesa e pure certi salmi che mi vengono proposti li sopporto solamente se li accetto come un “fioretto” da offrire al Signore. Credo che avrò qualche merito solamente perché mi costa pronunciare certe frasi e leggere certi discorsi che mi sono totalmente estranei. Mentre talvolta mi imbatto in certe preghiere che sono veramente deliziose e che mi coinvolgono fino al midollo del mio spirito.

Qualche sera fa, a compieta, la preghiera diceva pressappoco così: “Signore ti prego che i semi di bene che in questi giorni ho seminato nel cuore delle persone che ho incontrato abbiano a fiorire e portar frutti abbondanti”. Da un lato mi incantava che certi gesti, certe parole e certe scelte che forse, neanche con troppa attenzione, ho offerto al mio prossimo, con l’aiuto di Dio, possono portar frutto. Dall’altro lato mi nasceva nel cuore la preoccupazione di aver seminato nel campo del Signore come “l’uomo nemico”, della gramigna.

Questi pensieri sviluppano nel mio animo una sana dialettica, che mi spinge ad una preghiera vera ed accorata e mi fanno desiderare ardentemente di crescere nello spirito.

L’anno della fede

La Fondazione Carpinetum sta perseguendo un progetto, un sogno, o forse un’utopia. Però sono convinto che essi siano i più validi per celebrare seriamente l’anno della fede, che per essere autentica e credibile deve diventare solidarietà.

La Cittadella della solidarietà sarebbe così il frutto più genuino dell’anno della fede. Per quanto riguarda il progetto, avendo la curia avocato a sé la sua realizzazione, mi pare che ai fedeli della base rimanga solamente il dovere di pungolo, cosa che speriamo facciano.

Per quanto riguarda invece il “Villaggio solidale degli Arzeroni” il finanziamento per il “don Vecchi 5” c’è quasi già. Per tutto il resto (l’ostello per i famigliari degli ammalati, degli operai ed impiegati poveri, dei senzatetto, gli appartamenti per i mariti divorziati, gli alloggi per il vecchio clero, gli alloggi per i disabili e quant’altro) penso che la Fondazione possa offrire alle parrocchie principali la possibilità di realizzare ognuna una di queste strutture. Volete che San Lorenzo, il Sacro Cuore, via Piave, non possano fare quello che Carpenedo ha già fatto? Per le parrocchie più piccole potremo proporre degli abbinamenti: San Pietro Orseolo con Santa Maria Goretti, la Favorita con San Lorenzo Giustiniani, ecc.

Se per la fine del 2013 a Mestre ci sarà questo gran cantiere della solidarietà, credo che sarà meglio del coro della Fenice per cantare la gloria di Dio.

Il Patriarca Luciani

Rai tre in questo ultimo tempo ha offerto degli ottimi servizi sugli avvenimenti principali della seconda metà del secolo scorso. Ho seguito con interesse quei documentari perché gli avvenimenti descritti li ho vissuti in prima persona anche se dal “loggione”, o guardando per il buco della chiave.

Queste ricostruzioni storiche mi hanno offerto dei tasselli interessanti, che io non avevo colto perché offerti dalla stampa che quasi sempre legge gli avvenimenti da un punto di vista interessato. Ad esempio io non avevo colto fino in fondo il fatto che la IOR, banca vaticana, ha venduto a Calvi, tramite la mediazione di Sindona, su ordine di Marcinkus, la Banca Cattolica, quel gioiello di famiglia dei cattolici veneti che essi avevano costruito con tanti sacrifici.

Aldo Nicolussi, il mio vincenziano direttore di suddetta Banca, non lasciava passare occasione per condannare i vescovi del Veneto per aver ceduto anche “quella perla di gran valore!”. Ora però, che ho capito come il nostro Patriarca Luciani ha dovuto amaramente subire “l’esproprio” di questo ente da parte del Vaticano, ancora una volta mi sento portato a rivendicare l’autonomia di scelte e di giudizio da parte delle Chiese locali, che non dovranno ridursi a pedine in mano di poteri occulti che tramano da lontano. Credo che anche a questo livello il concetto di corresponsabilità dei fedeli col loro vescovo e di apporto critico, vada ripensato, ma soprattutto valorizzato.

“L’amico” del clero

Un tempo si stampava “Amico del clero”, una rivista che dava anche dei buoni suggerimenti, ma era soprattutto preoccupata di informare su tutti i diritti dei preti. A quei tempi la curia ci abbonava obbligatoriamente a questo periodico.

Io, che allora ero molto più garibaldino di adesso, respinsi la rivista affermando che essa rappresentava sostanzialmente un vero “nemico” perché sempre preoccupata di difendere i diritti del clero. Per me il prete deve essere sempre in prima linea, fuori dalla trincea, se vuole avere l’autorità di guidare i cristiani verso una vita di impegno e di servizio.

Qualcuno mi ha detto che dopo Mazzini in Italia non c’è più stato nessuno che abbia parlato dei doveri dei cittadini. Oggi credo che sia male blandire il ceto sacerdotale, mentre sia giusto ricordare che per quanto i preti si impegnino, sono ben lontani dall’essere in croce come il nostro Maestro. In tempi difficili credo si debba ricordare che la dedizione per le anime deve essere ancora maggiore di sempre.

Fuoco “amico”

Il 27 luglio il Gazzettino annunciava, con un articolo a quattro colonne, che “Il Consiglio comunale, in seduta notturna, con un voto bipartisan” aveva sdoganato il “don Vecchi 5”. Traduco: il Consiglio comunale di Venezia aveva deciso di concedere alla Fondazione ventisettemila metri quadrati di terreno in località Arzeroni in uso di superficie, ossia il suolo rimaneva di proprietà del Comune, ma concedeva alla Fondazione Carpinetum di costruire, a proprie spese e di gestire per 90 anni il “don Vecchi 5” che vi sarebbe sorto.

Un paio di settimane dopo mi è arrivato un messo comunale con il documento della comunicazione ufficiale. Da questo documento ho appreso che Bonzio, di Rifondazione Comunista, aveva votato contro, i due consiglieri della Lega si erano astenuti e un paio di socialisti, tra cui il capo dei miei chierichetti di un tempo, erano usciti in occasione della votazione.

Io sono del parere che si debba costantemente interloquire con i nostri amministratori. Ho scritto a quello di Rifondazione Comunista: “Non mi sarei mai aspettato che proprio Lei, che ha fatto la ragion d’essere della sua politica la difesa dei poveri, avrebbe votato contro”. La stessa cosa ho fatto con gli altri, non essendo però valide per questa gente, le regole della buona creanza, nessuno mi ha risposto. Ora spero che per le nuove votazioni girino al largo da noi!

Delusione monetaria

Una signora, con un po’ di rammarico e tristezza, mi ha portato la bella somma di cinquecentomila lire, somma che un tempo aveva nascosto per paura dei ladri e che in questi giorni aveva riscoperto per caso.

Aveva telefonato alla banca d’Italia per scambiarle in euro, ma le hanno risposto che sono scaduti i termini per questa operazione. Non se l’è sentita di buttarli nel cestino dei rifiuti e perciò li ha portati a me sperando che, “date le conoscenze”, trovassi il modo di recuperarli.

Ho immediatamente telefonato al mio “consulente” bancario il quale, con mia somma gioia, mi ha detto che quei soldi erano recuperabili facendo una certa pratica.

La doccia fredda però arrivò immediatamente quando gli dissi che mettevo a disposizione i duecentocinquantamila euro, che avrei ottenuto dalla Banca d’Italia, per costruire la strada per il “don Vecchi 5”. Al che il consulente, che è direttore di banca, mi rispose che al mezzo milione di lire corrispondono 250 euro, cifra ben diversa dalle mie aspettative.

Rimasi assai deluso, ma poi ho pensato subito di consolarmi: “Piuttosto di niente ben vengano i 250 euro!”.

Sennonché seconda delusione: le vecchie lire non sono assolutamente più recuperabili.

Cinque e un quarto

Le giornate lavorative per un anziano naturalmente si accorciano. Una ventina di anni fa la mia giornata lavorativa si divideva in tre parti: la mattinata, il pomeriggio e il dopo cena. Ora la terza parte è completamente saltata; dopo cena il cervello si intorpidisce e finisce per sonnecchiare comunque, anche se mi legassi alla scrivania come l’Alfieri. Non so perciò che vantaggio ne avrà l’Italia prolungando l’età pensionabile come si sta tentando.

Comunque non mi sono rassegnato a perdere un tempo che si fa sempre più prezioso e quindi ho trovato un escamotage iniziando un po’ più presto la mia giornata. Ora la mia sveglia suona alle 5,15. Il recupero mi è facile perché le mie notti diventano ogni giorno più lunghe. Prima saldo i miei debiti col Signore col dedicarmi alle pratiche di pietà, poi, prima della parca colazione, dedico un po’ di tempo alla lettura. Con questo piccolo stratagemma mi pare di riuscire a combinare qualcosa di più, o perlomeno a far quadrare i conti con ciò che credo che dovrei ancora fare.

Partenza solitaria

L’agenzia di pompe funebri aveva fissato il funerale per un certo giorno e per una certa ora. Ho telefonato a casa della defunta per conoscere dalla sorella colei che l’indomani avrei salutato e soprattutto per cui avrei pregato il Signore. La congiunta che avevo contattato era stata un po’ freddina, quasi meravigliata che il prete volesse conoscere chi avrebbe presentato al buon Dio.

Dopo poche ore infatti l’agenzia mi ricontattò per avvertirmi che i parenti avevano cambiato idea rinunciando al commiato cristiano. Ci rimasi molto male anche se di questa creatura avevo conosciuto poco più che il nome. L’indomani quattro operatori cimiteriali avrebbero calato nella fossa una bara, probabilmente senza una croce, senza un saluto, senza chi raccogliesse e donasse ai fratelli ciò che di buono certamente ella aveva fatto. Un velo di tristezza avvolse il mio animo.

Tra non molti anni i miei colleghi preti più giovani dovranno però abituarsi a questi funerali senza fede e senza speranza. La nostra terra sta incominciando a conoscere la desertificazione.

Ho deciso però che l’indomani avrei deposto su quella bara solitaria e più triste del solito le parole della misericordia del Signore e avrei chiesto con maggiore insistenza al mio Dio di non rifiutarle l’abbraccio riservato al prodigo, perché forse ella non ha avuto il tempo e il modo per pentirsi o, peggio ancora, non ha incontrato chi le abbia parlato con fede autentica e viva dell’amore del Padre.