Le verità sopravvivono

Mi si è incisa nella memoria una frase pronunciata, di fronte al plotone di esecuzione, da un uomo di governo profondamente religioso, durante l’ultima persecuzione avvenuta in Messico: «Voi potete spegnere la mia vita ma non il mio pensiero».

Ultimamente mi sono tornate in mente le parole di questo martire cristiano in occasione della morte e dei funerali del cardinale Martini. Una folla di popolo ha partecipato alle esequie del presule ambrosiano, la stampa di tutti gli indirizzi ha incorniciato la sua testimonianza e il suo pensiero, gli uomini di Chiesa hanno tessuto grandi elogi, nonostante in passato ci siano state posizioni di pensiero ben diverse e non condivise.

Guai però se qualcuno si illudesse che questa splendida pietra tombale possa seppellire per sempre la testimonianza di questo grande vescovo che ha contribuito e può contribuire ancora alla crescita spirituale della Chiesa alla quale ha dedicato la vita.

Il messaggio del cardinal Martini sopravvive di certo alla sua morte fisica. Io ritengo doveroso facilitare il dono che questo vescovo ha offerto e può ancora offrire alla comunità cristiana riproponendo alcune sue riflessioni.

Riporto un passaggio di un articolo del Corriere della sera che può offrire al mondo ecclesiastico e a quello che gli è vicino, un’occasione per un serio e positivo esame di coscienza.

Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al Papa stesso”. E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.

Almeno da parte mia ringrazio di cuore il cardinale Martini e mi impegno a far tesoro delle sue parole sperando che molti altri ecclesiastici più “tentati” di me e facciano altrettanto.

Che Guevara e la monachella

Ci sono delle tematiche religiose e sociali che non mi lasciano pace. Per quanto mi arrovelli l’animo per coglierne l’anima profonda e mi sforzi di passarle alla coscienza della comunità di cui mi occupo, quasi come un cristiano che soffre di scrupoli, sono tentato di ripensare e di precisare in maniera più approfondita l’argomento, tanto che ho paura di ritornarci in modo ossessivo. “Ripetere, dicevano gli antichi, giova”, ma i contemporanei aggiungono “Ma stufa!”.

Uno degli argomenti che suscitano un tormento nella mia coscienza di uomo, cristiano e prete, è quello di precisare quale sia l’argomento portante, l’anima e il cuore della religione. Ho spesso la sensazione che per tanti, forse troppi, battezzati, la religione sia ridotta ad un ritualismo, anche se devoto ma formale, quasi un guscio di seme vuoto che non metterà mai germoglio e quindi non porterà mai frutto, mentre per me la religione deve essere necessariamente una tensione interiore, una convinzione di un valore assoluto che germogliando dovrà diventare libertà, verità, giustizia, amore, pace, verità, serenità e speranza.

Una religiosità fine a se stessa non mi interessa, è un seme sterile ed infecondo che come il sale scipito può essere buttato e calpestato dai passanti.

In questi giorni questo pensiero mi si è ripresentato in maniera forte in seguito all’affermazione di quella maomettana di cui parlo nell’editoriale de l’Incontro del 30/12/2012. E’ vero che i maomettani sono più praticanti, più ligi alle regole, più assoluti nel loro credo e che i cristiani sono quasi l’opposto. Ma mentre nei Paesi di civiltà cristiana i contenuti e le proposte delle fede sono diffusi e presenti, tanto da far dire a Benedetto Croce “Perché non possiamo non dirci cristiani”, da noi i contenuti e i frutti della fede sono presenti anche nei non praticanti, nei liberi pensatori e perfino negli atei schierati, mentre nelle nazioni di fede islamica questi valori non solo sono pochissimo presenti, ma anzi la religione che dovrebbe farli fiorire appare all’incontrario: fanatismo, spirito di vendetta, intransigenza, settarismo e discriminazione tra uomo e donna.

E’ pur vero che anche nelle nazioni cristiane sono purtroppo presenti queste male piante, però mentre da noi sono peccati e mancanze, per l’Islam sono pseudo valori cercati e proposti ufficialmente come virtù.

La fede attinge alla sostanza, non alla forma, tanto che uno scrittore cattolico è arrivato ad affermare: «Non mi meraviglierei che in Paradiso ci fosse anche Che Guevara con il suo kalashnikov seduto accanto ad una monachella vergine pudibonda e timorata di Dio, perché se Che Guevara ha cercato giustizia e difesa degli ultimi con cuore sincero e convinto, ha onorato Dio e s’è guadagnato il Paradiso!».

I miei Padri spirituali di carta stampata

Di primo mattino, mentre mi sto preparando per il nuovo giorno, la Rai trasmette una rubrichetta nella quale un giornalista intervista il sindaco di un piccolo paese d’Italia che si sta impegnando in una iniziativa particolare che merita di essere conosciuta da tutti i concittadini. Mentre mi faccio la barba ascolto con qualche curiosità su come “gira questo mondo”.

Questa mattina mi si sono drizzate le orecchie sentendo che invece del sindaco l’intervista era rivolta ad un parroco di un piccolo paese del Friuli di cui qualche mese fa ho letto un volume, “Fuori dal tempio”. Siccome dalla lettura ho capito quanto intelligente e quanto questo prete si prendesse a cuore in maniera appassionata le problematiche della Chiesa e della società, ho ascoltato con estremo interesse l’intervista.

In sostanza questo sacerdote, che si rifà al messaggio di Padre Balducci, morto vent’anni fa, ha aperto una casa di accoglienza per rifugiati politici di ogni Paese e ora organizza un convegno internazionale su Padre Balducci per incorniciare la sua testimonianza e il suo messaggio che egli ritiene attuale e quasi profetico.

Padre Balducci è il prete scolopio, pure a me caro, perché libero, di pensiero, critico nei riguardi degli apparati, in dialogo con la società e teso a scrutare il futuro. Diresse la rivista “Testimonianze”, rivista che ha avuto un ruolo importante nel mio pensiero, a cui sono stato abbonato e che ho letto fin dal suo inizio.

Padre Balducci è anche per me un testimone e un profeta del nostro tempo che, pur divergendo spesso dal pensiero ufficiale della Chiesa, amò e la servì offrendole il suo contributo intelligente.

In questa occasione ho avuto modo di ricordare con riconoscenza le riviste che sono state determinanti nella mia formazione: da “Adesso” di don Mazzolari a “Testimonianze” di Padre Balducci, dal “Gallo” di Genova al “Nostro tempo” di Torino, dal “Molino” di Bologna a “La rocca” di Assisi. Una volta ancora ho capito quanto debbo a questi miei maestri e padri dello spirito. Cosicché sento il dovere di consigliare i miei amici di scegliere dei periodici che esprimano ricerca, che non si accodino al pensiero dominante, che abbiano il coraggio di andare controcorrente e amare la Chiesa anche denunciando i suoi limiti, le sue contraddizioni e le sue lentezze.

Muoia io ma muoiano pure i Filistei

Ho già confidato ai miei amici che quando ero un parroco superimpegnato sognavo di andare in pensione, anche per avere la possibilità di godere la mia amata musica sinfonica, leggere con tranquillità qualche buon volume e poter vedere qualche film in pace.

Le cose non sono andate così perché non sono riuscito a liberarmi del “senso del dovere” e dalla convinzione che non si debba buttar via il tempo e le risorse interiori per cose di poco conto. Ora però nel dopocena non riesco più a lavorare e quindi avrei il tempo per realizzare i vecchi sogni. Confesso però che nel dopocena di tutta questa lunga estate, prima di addormentarmi – cosa che è avvenuta sempre e presto – non ho fatto altro che girare la manopola del televisore senza trovar nulla che mi potesse interessare.

E’ vero pure che durante le ferie estive le televisioni offrono materiale scadente che molto probabilmente comperano a poco prezzo ed è ancor vero che l’infinità di offerte di programmi diversi finisce per creare nausea e rifiuto.

L’altra sera finalmente, girovagando tra l’etere, mi sono imbattuto in quelle immagini naif che introducono “Ballarò”. Sono rimasto sveglio, anzi troppo sveglio perché sono passato dallo scoramento alla esasperazione per la purulenza che è venuta fuori da quella trasmissione. Quella sera si trattava delle ruberie della Regione Lazio e giornalisti, politici ed esperti se la pigliavano con l’agguerrita presidente prestata dal sindacato alla politica.

La Polverini non è certo una sprovveduta, comunque ha fatto esplodere un polverone che ha ingrigito in maniera ancor più evidente le malefatte dei nostri politici.

Io mi ero illuso che gli scandali che hanno coinvolto ora l’uno ora l’altro partito avessero convinto “la casta” se non ad un ravvedimento, almeno ad una certa moderazione. Invece no, sempre peggio, anzi constato una fretta per liberarsi da quella gente sana che oggi governa il Paese e che sottolinea ancor più il degrado e il marcio del mondo politico italiano.

Per la prima volta nella mia vita provo la tentazione di votare scheda bianca per dichiarare lo schifo che provo!

Le testimoni dell’assoluto

Ieri ho sentito il bisogno di spezzare una lancia a favore delle claustrali ed oggi ci ritorno perché ripeto che si può trovare nei loro conventi, un po’ tetri ed incorniciati di passato, una sorgente di vita fresca e pulita.

Per trentacinque anni sono vissuto a ridosso di una piccola comunità monastica; soltanto una strada divideva la mia canonica, settecentesca e tirata a lustro, dal loro convento che era più bello e più antico, ma che una tradizione monacale assai discutibile ed un geometra di pochissimo ingegno hanno oscurato con un gran muraglione, quasi fosse necessario perché qualcuno non rubasse qualche monaca o non ne turbasse la sensibilità, come avvenne per la monaca di Monza.

L’alta mura io però non l’ho mai letta come una difesa di una comunità di vergini, ma ai miei occhi è sempre sembrata uno sgorbio che impediva di vedere le belle linee della villa patrizia del nobile Michiele. Ripeto: nella mentalità ufficiale di certi conventi ci sono purtroppo rimasugli di un mondo fortunatamente scomparso che bisognerebbe rimuovere.

Un giorno chiesi alla badessa di poter celebrare un matrimonio nella loro chiesa, ma essa mi rispose che non era possibile se non con un permesso particolarissimo della curia. Cercai le origini di questo divieto e mi fu detto che era proibito perché le giovani monache non ne fossero turbate vedendo la bellezza dell’amore umano e non rimpiangessero d’essere entrate in convento. In realtà, fortunatamente, ora le cose non stanno così. In questi vecchi conventi ci sono anime belle e preziose.

Ricordo una famosa intervista di Sergio Zavoli ad una monaca di clausura di un monastero di Bologna. Quando Zavoli chiese se non si sentissero isolate, fuori dal mondo, essa rispose con voce calda e convinta: «Noi vogliamo avere il cuore aperto, disponibile ad accogliere l’ultimo naufrago della vita per dirgli: “entra, tutto è pronto per te, ti abbiamo aspettato con amore”».

Nei vecchi conventi ci sono anime sublimi come questa sarebbe vantaggioso frequentarle un po’ di più, perché ci offrirebbero sempre qualcosa di essenziale e di genuino.

Un mondo prezioso ma poco conosciuto

Tante volte nella mia lunga vita ho preso la penna per dare un significato comprensibile, anche per gli uomini di oggi, alle monache di clausura.

Non sto qui certamente a criticare la scelta della segregazione, delle sbarre, della ruota e di quant’altro è rimasto di quell’armamentario di regole e di strutture che spesso ancor oggi inquadrano le religiose claustrali. Anche in questo settore c’è molto da sfrondare e da rimuovere. Ritengo però che per un vecchio prete sia doveroso dire alla comunità che i conventi di clausura non sono come i soldi scaduti o le foglie secche, e che le ragazze che han scelto di chiudersi dentro non hanno sprecato la loro vita.

Più volte ho ripetuto che le suore di clausura, che taluno vorrebbe che almeno si occupassero dei vecchi e degli orfani invece che disinteressarsi della terra, nell’escosistema spirituale son lì puntigliose e decise ad affermare che la medaglia della vita ha anche una faccia nascosta o in penombra che pochi conoscono.

Le suore rimangono tuttora testimoni dell’Assoluto, del silenzio, della meditazione e della preghiera. Se si togliesse completamente questa componente della vita, essa diventerebbe presto insapore, acida e stomachevole. Le suore di clausura sono a ricordarci la verità di Gesù: “L’uomo non vive di solo pane, ma ha anche bisogno di qualcosa di assoluto che ha dimenticato o perduto”.

La nostra società, della quale ogni giorno scopriamo una magagna ed una miseria in più, è tale perché ha smarrito quei valori dei quali queste suore sono assai ricche. Esse testimoniano in maniera forte con il loro silenzio e la loro preghiera Colui che è la sorgente dell’amore e della vita.

Le prediche e l’eloquenza

Ai miei tempi nel corso di teologia c’era una materia che ora, di certo, è scomparsa dai programmi, cioè l’eloquenza. Questa materia doveva insegnare ai nuovi preti l’arte di parlare ai fedeli. A quel tempo ci si rifaceva ai grandi predicatori: La Cordaire, Bossuet, Semeria; quindi si offriva una vecchia metodica con cui doveva essere impostata la predica. Ora tutto questo è scomparso, perfino il termine con cui era definito questo insegnamento; infatti oggi questa materia è definita omiletica.

Allora il vescovo nominava una commissione, i cui membri restavano anonimi, perché in incognito dovevano andare ad ascoltare le prediche dei preti per valutarne i contenuti e il modo di porgere la dottrina.

Ripeto che tutta questa impostazione è completamente scomparsa; lo stile e le modalità giustamente devono rifarsi al mondo contemporaneo. Oggi ci sono degli ottimi oratori, capaci e brillanti, basta sentir parlare i nostri parlamentari. Non so se nella sostanza, e fatte le doverose trasposizioni di tempo, le cose siano migliorate per quanto riguarda le prediche, tanto più che la “concorrenza” del mondo laico è quanto mai più agguerrita in confronto al passato. Per migliorare questo settore della pastorale, che lascia tantissimo a desiderare, basterebbe perlomeno un rimedio alla portata di tutti, per il quale non sarebbero necessarie doti particolari: l’impegno!

Sto leggendo il volume che raccoglie le ultime prediche del compianto cardinal Martini, ove mi ha sorpreso ed incuriosito un passaggio. Confratelli e fedeli, tentando di incoraggiare il prelato, ormai stanco e logorato dalla malattia, gli facevano osservare che una folla di fedeli gremiva la chiesa ove lui celebrava, per poterlo ascoltare. Il cardinale, in maniera sorniona, commentò: «Forse vengono soltanto perché le mie prediche sono brevi!».

Il requisito perché il sacerdote possa passare il messaggio di Gesù non è solamente la brevità, però anche questa è una componente importante e, almeno, è alla portata di tutti.

Il seme vive nel tempo

Molti anni fa conobbi in parrocchia una splendida coppia di sposi profondamente religiosi. Mi pare di vederli ancora! Si mettevano ogni domenica nel solito banco e partecipavano devotamente alla santa messa. Lui era un ottimo medico, lei, nata in Algeria o in Tunisia, s’era convertita da adulta al cristianesimo, però aveva una fede tanto semplice, ma altrettanto luminosa. Crebbero tre figli, come si diceva un tempo, “Nel santo timor di Dio”.

Una volta in pensione il marito fece volontariato, dedicando mezza giornata alla settimana al Ritrovo parrocchiale degli anziani. I miei vecchi gli chiedevano consigli sui loro immancabili acciacchi e lui, con voce pacata e sommessa, dava delle indicazioni, che di primo acchito sembravano elementari, ma in realtà erano ricche di saggezza. Egli, da medico, usava poco le medicine, convinto che il paziente ha in se stesso le risorse per reagire ai suoi malanni.
Morirono tutti e due santamente.

Ebbi modo di conoscere i figli, riscontrando sempre in loro lo stile sobrio e sereno dei loro genitori. Recentemente cercavo un negozio per aprire un mercatino in occasione del Natale per finanziare la nuova struttura per gli anziani in perdita di autonomia. Un’azienda ci ha donato una camionata di addobbi natalizi e perciò pensavamo di venderli a prezzi simbolici perché le famiglie possano dare un tono festoso alla loro casa in occasione della nascita di Gesù.

Fortuna volle che puntammo gli occhi su un grande negozio libero in una zona centrale della città. Altra fortuna: ci imbattemmo in un amministratore che dona tempo e capacità alla parrocchia e perciò ci rese facile il contatto con i proprietari che scoprii essere i figli dei due vecchi parrocchiani che, nel frattempo, avevano raggiunto i loro cari in Cielo.

Essi ci offrirono il negozio quasi fossimo noi a far loro un piacere. L’iniziativa ha ottenuto un buon risultato.

Comunque ritengo già un dono aver incontrato persone così disponibili e fiduciose che aprono il cuore per consentirci di impegnarci a favore di chi ha bisogno. Una volta ancora sono riconfermato nella validità dell’invito di Cristo a seminare sempre, comunque e dovunque, perché il seme prima o poi attecchisce e produce frutto.

Credo che i miei vecchi amici dal Cielo saranno di certo felici della scelta dei loro figli.

La rassegnazione: virtù o vizio?

Credo che nei libri di spiritualità e di ascetica la virtù della rassegnazione trovi posto tra le virtù morali, ossia tra i comportamenti positivi del cristiano. Rassegnarsi voleva dire accettare la volontà del Signore, gli eventi che ci superano senza che ci avviliamo e ci ribelliamo.

Ora non sono assolutamente certo di mettere nel mio codice morale positivo questa parola e il comportamento che essa esprime, anzi sarei portato a leggere questo termine e questo comportamento come una variante dell’ignavia, della pavidità e del quieto vivere ad ogni costo.

Tanti anni fa mi capitò di leggere un bel volume di un autore che allora era abbastanza conosciuto sotto lo pseudonimo di “Pittigrilli”. Questi affermava che spesso la viltà si veste con gli abiti più nobili ed apprezzati della prudenza. Nello stesso volume, diceva pure che certe parole nobili come: democrazia, libertà, pace, sono spesso una specie di paravento dietro cui c’è solamente sporcizia e meschinità.

In uno degli ultimi numeri di “Lettera aperta”, il periodico della parrocchia di Carpenedo, don Gianni, l’attuale parroco, di ritorno dal campo scout, ha pubblicato la foto di gruppo dei suoi ragazzi in pantaloncini corti e col cappellone scout. Avevo già detto che questo gruppo della mia vecchia parrocchia conta 200 elementi e che al campo in Trentino vi avevano partecipato in 180. Bene: altro è leggere 180, che è un bel numero, altro è vedere la foto panoramica con ben 180 giovani. Impressionante!

Don Gianni non è un rassegnato, ma quanti preti si nascondono dietro a certi paraventi come dietro alle foglie di fico, e dietro a certe parole pie come “santa rassegnazione”, che in realtà sono solo ignavia, quieto vivere, poltroneria.

Per questi motivi ho poca simpatia per la virtù della rassegnazione.

Don Didimo

Da poco è uscito ed ho letto il diario di don Didimo Montiero, il prete vicentino del secolo scorso che, dopo una girandola di parrocchie come cappellano, finì la sua “carriera ecclesiastica” come parroco di Bassano, ove divenne celebre per aver fondato “Il Comune dei giovani”.

Ho letto d’un fiato il diario di questo collega molto buono, un po’ ingenuo ma soprattutto pio ed amante della gioventù. Questa lettura di una vita pulita, fresca, piena di entusiasmo e di fede m’ha fatto bene, tanto che mi riaffiora sovente la sua immagine, come m’ha colpito la meschinità e la pochezza della “piccola gerarchia ecclesiastica” ottusa, arrogante ed invidiosa che a quel tempo era ben presente nel nostro territorio.

Questa storia di prete si abbina ad un’altra storia di un prete friulano del nostro tempio, don Piazza, che ha scritto un altro splendido volume “Fuori dal tempo”. Due preti tanto diversi, forse diametralmente diversi, ma ambedue veri preti. Quanto il primo era ingenuo, remissivo, dottrinalmente allineato, altrettanto il secondo è lucido, critico, problematico, sensibile alle tematiche religiose e civili del nostro tempo ed un pizzico contestatore, ma soprattutto espressione di una religiosità nuova e d’avanguardia,

Un tempo avevo letto molto sui preti, perché fino a quaranta, cinquant’anni fa essi interessavano l’opinione pubblica, poi il prete scomparve di scena. Ora mi fa piacere di aver incontrato queste due figure di certo minori, ma belle e capaci di far pensare.

I poveri e i mendicanti

Le due entrate del camposanto sono ambedue presidiate, con turni ben definiti, sia al sabato che alla domenica, dai mendicanti.

Gli atteggiamenti per impietosire i cittadini che vanno a visitare i loro morti, sono diversi ma tutti obbediscono a certi rituali collaudati. E’ fin troppo evidente che sono dipendenti di una organizzazione malavitosa che approfitta di loro e che molto probabilmente lucra sulla loro mendacità. Tant’è vero che quando li ho invitati al don Vecchi ove potevano trovare generi alimentari, frutta e verdura ed altro, non ne ho trovato uno che abbia approfittato di questa opportunità.

Io, lo dico con pudore ed una certa preoccupazione, diffido quanto mai di questi mendicanti. Non penso che il dar loro un euro sia male, sono convinto però che dobbiamo preoccuparci più seriamente dei poveri e dobbiamo organizzarci perché la nostra risposta al bisogno sia sempre la più adeguata ed esaustiva. Per questo non mi sono rassegnato ad abbandonare l’idea della cittadella della solidarietà con la quale la città e la Chiesa mestrina si attrezzino a soccorrere chi è in difficoltà e, nel contempo, combattano quella mendicità che umilia la persona che chiede, ma altrettanto quella che offre, perché il rapporto è sempre subumano e meschino.

Prete in pensione!

Otto anni fa, quando con la pensione il mio apostolato cominciò a svolgersi esclusivamente in cimitero, impegnato in una pastorale che si svolge prevalentemente sulla corda del dolore e del lutto, nella prospettiva dell’aldilà, mi sentivo un po’ mortificato e menomato perché mi sembrava di dover impegnarmi in un servizio pastorale ridotto, quasi monco, perché non potevo più spaziare nell’ampia gamma di valori umani: nascita, amore, famiglia, gioventù, società. Mi rimaneva solamente il compito di aiutare a buttare lo sguardo verso il domani per intravedere i primi tenui albori del “giorno nuovo”.

Ora non è più così, mi sento pago della mia missione, pienamente realizzato nel mio sacerdozio, non solamente perché conto su una bellissima comunità, numerosa, affiatata, coesa e viva, ma perché mi inebria il fatto di poter seminare a larghe mani speranza a gente disorientata, attonita e smarrita di fronte al mistero della morte, ma soprattutto ancora legata ad una visione di un Dio piccolo, vendicativo, pignolo.

Il mio popolo della domenica è quanto di più bello un prete possa sognare, ma pure mi è tanto caro anche “il popolo del funerale” al quale posso parlare del cuore del Padre, della meta che ci aspetta, della risposta a tutti i perché, della vita nuova.

Il lavoro pastorale della mia vecchiaia non è meno bello ed esaltante di quello della mia giovinezza.

La figlia della Chiesa

Questa estate sono state a visitare la mia “cattedrale tra i cipressi” tre suore delle “Figlie della Chiesa”. Questa congregazione è nata mezzo secolo fa e si dedicava, al tempo in cui ero giovane sacerdote a San Lorenzo, alla diffusione della buona stampa. Attualmente queste suore gestiscono la chiesa di San Girolamo ove, alcuni giorni alla settimana, organizzano l’adorazione dell’Eucaristia.

Avendo sentito che in quella chiesa per un paio di mesi non si diceva messa la domenica, ma che soprattutto durante il mese di agosto la chiesa era rimasta chiusa per tutto il giorno, mi permisi di dire: «Birbanti, come mai?» Ad una di loro, una spagnola di mezza età, scappò detto: «Dobbiamo pure fare un po’ di vacanza anche noi!».

A parte il fatto che aprire il mattino e chiudere la sera la chiesa, non credo infranga il “precetto del riposo estivo”, dapprima mi è venuto da pensare che io mantengo aperta ininterrottamente la mia cattedrale senza sentirmi un martire, poi avrei voluto ricordarle che il nostro Maestro Gesù morì in croce, nonostante in Palestina fosse caldo. Questo però lo tenni solamente per me.