Il volontariato sta perdendo la bussola?

Molti anni fa la San Vincenzo cittadina, della quale ero assistente, invitò un responsabile a livello nazionale di un organismo che si occupava del volontariato. Non ricordo il nome di questo signore, mentre ricordo bene l’angolatura cristiana con cui affrontò il problema del volontariato, l’entusiasmo con cui parlò di questo argomento.

Ricordo pure un’osservazione che mi fece molto piacere e che ora sarebbe valutata come “il legittimo orgoglio padano”. Disse infatti, quell’animatore a livello sociale, che il Veneto era il fiore all’occhiello del volontariato per il numero degli aderenti e per il largo ventaglio di attività sociali che affrontava. Ricordo pure che affermò che all’interno di questo settore i volontari di matrice cristiana erano la stragrande maggioranza.

Ora temo che le cose non stiano più così, sia a livello numerico che, ancor più, per quello che riguarda i volontari di ispirazione religiosa.

Presso i magazzini del “don Vecchi” c’è un cartellone, fatto esporre dall’organizzazione para-comunale “Spazio Mestre Solidale” (organizzazione che ha lo sportello in via Olivi), in cui si possono leggere tutte le organizzazioni di volontariato operanti a Mestre e, con mia sorpresa ed amarezza, quelle che si dichiarano formalmente cristiane sono un’assoluta minoranza.

Ho l’impressione che ci sia nel settore qualche cedimento sia numerico che di stile. Talvolta si formano delle congreghe abbastanza chiuse in se stesse, poco disponibili al confronto e poco aperte alla crescita, allo sviluppo e all’aggiornamento. Io sono un sostenitore convinto che si deve fare il bene e che il bene va fatto bene, con apertura, con rispetto, con entusiasmo, senza interessi di sorta e con la volontà di far sempre meglio.

Qualche tempo fa sono stato casualmente presente ad un episodio che mi ha gelato il cuore. Una persona, forse con fatica, s’era decisa ad offrire la sua opera in una di queste associazioni. Ho avuto l’impressione che di primo acchito ci fosse un sordo rifiuto, quasi che lei venisse a turbare l’assetto del gruppo che viveva in un clima autoreferenziale, mentre fino ad un momento prima, e forse un momento dopo, si lagnavano perché erano in pochi e perché si domandava troppo, non pensando che il volontariato cristiano deve essere, prima di tutto e soprattutto, cristiano, quindi aperto, umile, disponibile, generoso, paziente e tollerante. Un volontario senza cuore, senza bontà e senza fraternità è solamente un manichino, non un fratello aperto alle attese degli altri fratelli.

La lettera di quel carcerato che ho pubblicato a Pasqua

Nel numero di Pasqua de “L’incontro” ho creduto giusto, dopo una seria riflessione, pubblicare la lettera che un ergastolano scrive a Gesù in occasione della Pasqua. Un certo signor Giancarlo Zilio, veneziano approdato in campagna, m’ha inviato questa “lettera” con il suggerimento di pubblicarla. Devo premettere che questo signore pare abbia scelto come apporto di solidarietà e di carità cristiana quello di tenere corrispondenza con i carcerati. Già in passato avevo conosciuto un vecchio parrocchiano di via Lorenzago, che corrispondeva con i carcerati.

Il mio parrocchiano di un tempo era un cristiano tutto d’un pezzo, sano, saggio, virile e sapiente, un cristiano senza fronzoli e con i piedi per terra, che mi confidava che quella povera gente che doveva marcire in cella per tutta la vita, poteva sentire conforto nel dialogare con qualcuno che li riteneva ancora uomini e soprattutto fratelli, nonostante essi fossero consci d’essersi macchiati di crimini esecrandi e pure fossero convinti di dover pagare i loro delitti.

Il mio parrocchiano mi metteva pure in guardia sulle difficoltà e sui pericoli di tale apostolato, perché non tutti gli ergastolani sono “santi”!

Ho pubblicato la lettera di quel carcerato pensando che Cristo ha patito, è morto e risorto, proprio per tutti, anche per chi è all’ergastolo. Quel sant’uomo di don Primo Mazzolari, in una predica della settimana santa, parlò del traditore di Gesù chiamandolo “il nostro fratello Giuda”. A maggior ragione può essere fratello chi è in carcere.

L’ho pure pubblicata perché ritengo che la nostra società sia profondamente ipocrita quando dice che il carcere deve “rieducare”, mentre in realtà esso diventa una “punizione” senza prospettive di redenzione, o perlomeno c’è poco sforzo per riconoscere nell’uomo che ha pur sbagliato, una persona, un figlio di Dio, e dargli la possibilità di vivere, di sperare e di redimersi.

Non è giunta reazione di sorta a quella pubblicazione. Però chi me l’ha inviata mi ha scritto per ringraziarmi e lamentandosi che il suo parroco – più giovane e più elegante di me – e poi “Il Gazzettino” e “L’Unità” avevano lasciato cadere l’invito.

In aggiunta una signora è andata un po’ oltre dicendo che anche Gesù, quando ha parlato, è stato messo in carcere, arrivando a concludere che chi vuole incontrare il Maestro, deve andare in carcere per trovarlo.

Forse queste conclusioni sono esagerate, anche se a pensarci bene anche Gesù ha affermato: «Ero in carcere e tu …?»

Conclusione: ogni problema dell’uomo deve interessarmi e coinvolgermi e quello del carcere, della giustizia e di tutto il resto non posso, non debbo e non voglio delegarlo solamente alla magistratura e alla politica. Dio, nel suo giudizio, chiederà anche a me: «Dov’è tuo fratello?».

Cristo è nella realtà della vita e del mondo

L’onda lunga del mistero pasquale non cessa di lambire la mia anima, seppure la celebrazione liturgica della Resurrezione sia abbastanza lontana. Penso che sia giusto che l’eco dell’alleluja di Pasqua canti nel cuore dei fedeli non solamente durante il sacro rito che fa memoria e rinnova l’annuncio, ma continui a cantare nel cuore di chi ha recepito la lieta notizia e sente il dovere di riportarla a chi ancora non è giunta.

Nella mia vita di prete e soprattutto nei miei sermoni non mi sono mai stancato di ripetere che il dono del Signore non può rimanere racchiuso nel breve tempo della celebrazione liturgica, ma anzi che questa celebrazione è quasi solo l’occasione e il mezzo per recuperare, rafforzare la lieta notizia e per rilanciarla per illuminare la vita quotidiana con questa verità che permette di leggere in modo nuovo o da un’angolatura che supera il contingente.

A proposito delle apparizioni di Gesù dopo la Resurrezione, il cui racconto la Chiesa ci fa leggere nei giorni e nelle settimane dopo Pasqua, quest’anno ho fatto un’altra piccola “scoperta” che mi ha prima incuriosito e poi fatto felice. Ho notato che i luoghi in cui Cristo si è manifestato, dopo la sua morte, ai suoi discepoli, non sono luoghi sacri, quali il tempio o la sinagoga, e le persone a cui s’è mostrato non sono degli “addetti ai lavori”, quali i sacerdoti o i leviti o semplicemente i farisei scrupolosi e pignoli, osservanti delle rubriche liturgiche, ma sempre luoghi “profani” e persone “laiche”.

Faccio alcuni esempi: alla Maddalena s’è fatto vedere in cimitero, ai discepoli di Emmaus prima per strada e poi in osteria, a Pietro e Giovanni mentre erano in barca a pescare, agli altri discepoli nel cenacolo, che in sostanza non era che una povera sala da pranzo.

Questa constatazione m’ha portato a pensare che bisogna che desacralizziamo i luoghi e i tempi normalmente dedicati all’incontro con Dio. A ben pensarci Gesù ha detto alla samaritana: «E’ giunto il tempo, ed è questo, che Dio non si adora in questo o quel luogo, ma i veri adoratori lo adorano in spirito e verità».

Un tempo m’è parso di dover mettere in guardia dal “magico”, ora mi vien da pensare che dobbiamo accostarci anche al “sacro” con una certa cautela, mentre tutta la realtà della vita e del mondo diventa un autentico ostensorio di Cristo.

L’incontro con il Risorto

Io penso di avere la coscienza “a scoppio” ritardato. I grandi misteri della fede mi colpiscono come una folgore di primo impatto, quasi mi stordiscono e mi accecano e poi pian piano emergono i filoni di grazia e nello stesso tempo i problemi connessi con questi misteri.

Quest’anno, come è sempre avvenuto in passato, ho celebrato gioiosamente la Pasqua assieme alla mia splendida e meravigliosa comunità della Madonna della Consolazione, pur nella povertà della chiesa prefabbricata. C’era un tripudio di fiori, di canti corali e di profonda e calda spiritualità e fraternità.

Per la Pasqua, una volta ancora, mi sono inebriato della verità affascinante del trionfo della vita sulla morte e del bene sul male, ma nei giorni seguenti sono emersi, come sempre, problemi apparentemente incongruenti nei racconti della Resurrezione che il Vangelo ci tramanda: tutte realtà che io ho bisogno di assimilare pian piano, di ricomporre e innestare nella mia quotidianità.

Quest’anno m’hanno colpito le reazioni da parte di alcuni discepoli, molto vicini a Gesù, che di primo acchito non hanno riconosciuto il loro maestro dopo la sua morte. La Maddalena scambia il suo Gesù con un ortolano addetto al cimitero, i discepoli di Emmaus solo tardivamente e per il gesto rituale del rendimento di grazie s’accorgono che lo straniero incontrato per strada era il Nazzareno. Pietro e Giovanni non riconoscono, se non tardivamente e per la pesca sovrabbondante, che la persona sulla sponda del lago era il Redentore. Tommaso che quasi non si arrende neppure all’evidenza dei fatti!

Mi viene quindi da pensare che i testimoni del Risorto abbiano compreso con fatica che i personaggi “a loro ignoti” che hanno incontrato, avevano dentro di sé il pensiero, le parole e il cuore di Gesù, che perciò Egli era ancora vivo e presente in queste persone le quali, come disse Paolo “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”, avevano l’animo pieno dello Spirito di Cristo.

Se questa ipotesi fosse vera, anch’io ed anche ogni creatura, pur venti secoli dopo, possiamo incontrare, e con una certa facilità, il Signore, presente negli uomini buoni che la pensano ed agiscono come Cristo ci ha insegnato e perciò posso incontrare in essi il Risorto.

Non so se questa tesi teologica possa trovare spazio nei sacri testi, comunque a me fa molto bene incontrare “il Risorto” ad ogni angolo di strada senza dover andare a Lourdes o a Medjugorie.

Giovani, Chiesa e precetti

Occupandomi de “L’incontro”, capisco il meccanismo con cui nascono e si formano i periodici minori del circuito religioso. I responsabili di questi periodici si leggono a vicenda e quando “si scopre” un argomento reputato interessante, non dico che ci si copia, ma comunque, giustamente, si rilancia quell’argomento sul proprio bacino d’utenti.

Ultimamente mi è capitato di leggere, ora su uno ora su un altro periodico della stampa di ispirazione religiosa, dei commenti su un’inchiesta, che dicono sia stata condotta con serietà ed in maniera scientifica da un sociologo di fama in questo settore. Si tratta di Alessandro Castegnaro al quale qualche anno fa il nostro Patriarca ha commissionato una inchiesta sui praticanti al precetto festivo nella nostra diocesi.

Il Patriarca volle iniziare la sua visita pastorale, che ora sta concludendo, avendo a disposizione alcuni dati obiettivi e non solo l’impressione che la folla che ogni prete, forse con grande sforzo, tenta di raccogliere in occasione della visita del vescovo.

Credo che la scelta del nostro cardinale sia stata saggia, perché mentre dall’inchiesta è risultato che certe parrocchie non superavano il 10-12 per cento di praticanti, a leggere i commenti di “Gente Veneta” è sembrato che il Patriarca sia passato di trionfo in trionfo e che le parrocchie della diocesi siano una più bella dell’altra.

Il recente sondaggio, al quale la stampa locale, e non solo, ha dato tanta pubblicità, verteva sulla religiosità dei giovani. L’analisi risulta complessa ed articolata, ma il dato che mi ha colpito è che le nuove generazioni, che risultano logicamente più influenzate dal secolarismo e dall’indifferenza religiosa, non rifiutano in modo pregiudiziale il fatto religioso, ma contestano decisamente tutta l’impalcatura precettistica mediante cui oggi è espresso. In una parola i giovani ricercano dalla religione più valori e meno precetti. Mentre in realtà attualmente la Chiesa veneta è ancora condizionata da tutta una architettura di pratiche che sopravvivono, magari malconce, e che sono ormai aride ed ininfluenti sulla vita.

Credo che queste conclusioni ci debbano far pensare e, almeno per quanto mi riguarda, sono più che deciso a tenerne conto.

Una tradizione che è opportuno mantenere!

Io sono un ammiratore di Giovannino Guareschi e sono convinto che egli sia un narratore piacevole, arguto e, tutto sommato, saggio. Le vicende umane di Guareschi, legate, sia a livello letterario che a quello esistenziale, ad un periodo ben determinato della storia irrequieta e passionale del nostro dopoguerra, non tutte sono valide e brillanti, comunque sono convinto che gli siamo debitori di qualcosa che vale la pena raccogliere.

C’è una pagina, che spesso ho citato, in cui il narratore della “bassa” fa recitare al figlioletto di Peppone una poesia di Natale. Al che il sindaco rosso mostra di indignarsi perché don Camillo gli rovinava con soluzioni reazionarie la coscienza proletaria del figlio. In realtà, fuori dagli occhi indiscreti del pubblico, Peppone porta il figlio tra i filari delle viti e lo costringe a recitare dieci volte la poesia, concludendo “anche quando il proletariato sarà al potere dovranno rimanere le poesie!”

Il giorno di san Marco mi sono ispirato a “questo santo, padre della miglior tradizione” e di buon mattino ho regalato la rosa col fiocchetto rosso a mia sorella Rachele, vedova da poco tempo, a suor Michela e suor Teresa. E poi, come faccio ogni anno, a due donne alle quali penso che nessuno faccia un complimento ed un gesto di tenerezza: alla Maria, una ultraottantenne un po’ selvaggia che piega migliaia di copie de “L’incontro” ogni settimana, e alla Lucia, la badante moldava di suor Michela.

La prima mi ha raggiunto nella sacrestia del cimitero, incapace come sempre di esternare i sentimenti più belli, confessandomi con gli occhi lucidi che nei suoi quasi novant’anni di vita soltanto un uomo le aveva donato la rosa per San Marco e questo era un prete! M’è stato facile capire che ero io e più facile ancora capire quanto felice fosse.

La seconda, una robusta moldava, lavoratrice generosa e indefessa, m’ha detto che le lacrime le sono scese grosse grosse lungo le gote.

Ho concluso che anche nella nostra società apatica, egoista e con pochi sentimenti, sarà comunque opportuno donare il bocciolo di rosa come facevano i nostri avi veneziani.

L’offerta del “bocolo”

Un professionista serio e devoto quest’anno ha manifestato la sua approvazione alla miscellanea di argomenti con i quali ho intessuto il mio sermone nel giorno di Pasquetta.

Quest’anno il cosiddetto “lunedì dell’Angelo” combaciava con la festa di san Marco, il giorno commemorativo della liberazione e con la tradizionale offerta del “bocolo”, argomenti che normalmente sono considerati dalla maggioranza dei fedeli non attinenti alla fede.

Addussi, come premessa al mio discorso, una tesi teologica di Romano Guardini. Questo teologo di spessore afferma che nella realtà della vita la distinzione fra sacro e profano è soltanto fittizia, perché tutto quello che attinge alla vita appartiene di sicuro al mondo del sacro.

Partendo da questo principio, dedicai un pensiero al nostro san Marco, bandiera unificante della nostra città e della gente veneta. Per passare poi alla liberazione, per sottolineare quanto questo dono sia costato a chi ha sacrificato la vita per garantircelo e quindi la necessità e il dovere di custodirlo, difenderlo e gestirlo con estremo rigore, perché quel dono è stato pagato col sangue degli uomini migliori.

Ho finito il sermone affermando che il bocciolo di rosa della tradizione veneziana è una delle tante componenti di cui si compone il comandamento dell’amore fraterno e che deve essere un segno di stima e riconoscenza per quanto le donne offrono di bello e di umano alla comunità e per esse un invito ad essere autentiche perché solo così sono un vero dono di Dio.

Alla conclusione m’è parso che l’assemblea abbia gradito il discorso e sia stata convinta che tutto quello che c’è di nobile nella vita è sempre sacro e dono del Signore.

Politica e rassegnazione

Nota della Redazione: mai come per questo caso è d’obbligo ricordare che gli scritti pubblicati risalgono a un paio di mesi fa.

Il nostro Comune, fortunatamente, non è interessato dalle attuali votazioni per il rinnovamento delle amministrazioni comunali. In questi ultimi mesi, però, tutta la stampa pubblica le diatribe tra i partiti tradizionali, le liste civiche spontanee e quelle promosse dagli stessi partiti, le altre liste fatte da fuoriusciti dell’uno o dell’altro schieramento, ma comunque mette in mostra il gran numero di cittadini, in qualche modo dediti alla politica, che si contendono “un posto al sole”.

A me pare strano e mi risulta pressoché inconcepibile che tanta gente ambisca oggi al mestiere dell’amministratore pubblico in tempo di crisi economica. Se è sempre stato difficile amministrare, in questo momento è pressoché impossibile, o comunque estremamente arduo farlo.

Parlavo, qualche giorno fa, con un mio amico, più giovane di me, ma che ha vissuto, pure lui, il sessantotto, con la relativa contestazione. Quest’amico, di fronte al discorso della deludente amministrazione del Comune di Venezia e di quelle probabili che usciranno dai pretendenti amministratori – che fin da ora si dimostrano intrallazzatori, transfughi, mestieranti e furbastri – mi disse: «Ai tempi del sessantotto si puntava ad un radicale cambiamento e si tentava di mandare al potere gente di fantasia; ora pare che la tendenza sia quella della rassegnazione, pare che gli italiani siano rassegnati che li amministri gente mediocre e politici di mestiere!».

Purtroppo penso di dover dar ragione a questo mio amico, perché non vedo all’orizzonte neppure un filo di novità. Io rimango aggrappato alla speranza che prima o poi i managers di aziende sane, i professionisti seri e gli operatori commerciali decidano di buttarsi nell’agone della politica dei fatti e ci sbarazzino di tanti arrivisti ed arruffapopoli di mestiere.

Opposti

Nel numero di Pasqua de “L’incontro” ho pubblicato dei pezzi veramente importanti, anche se diametralmente opposti.

Il primo è una poesia del servita, padre David Maria Turoldo. Questo poeta, così forte e appassionato, il frate che ha avuto come convento il nostro Paese e il cui pulpito sono stati i giornali, la televisione e le piazze, immagina, con struggente dolcezza, che chi porta l’annuncio della Resurrezione, passi in silenzio, con grande rispetto, per le strade, ed offra il bel messaggio come un fiore deposto sulla finestra di ogni casa, suoni a festa le campane della vecchia torre, vesta di bianco e doni la grande verità che fa sognare e rende libero e coraggioso l’uomo, con discrezione, rispetto e pudore, non volendo far violenza ad alcuno, ma quasi a dare l’annuncio come una carezza dolce e leggera.

Il secondo pezzo consiste nella lettera di un ergastolano scritta a Gesù, in occasione della Pasqua. La lettera è di un’amarezza sconfinata, quasi un grido disperato di un uomo senza orizzonti, senza domani e senza speranza: Una lettera in cui si denuncia l’insensibilità, la crudeltà degli “uomini buoni” che neppure gli usano la carità di ucciderlo con un colpo solo, ma che lo costringono in gabbia, come un animale selvatico, in un carcere che, come essi affermano, ha il compito di rieducare e di reinserire chi ha sbagliato nella società.

Mentre rileggevo questo messaggio disperato a Cristo, l’unico che può capire tanta disperazione, ho concluso che il vento della Resurrezione trova ancora tante strade chiuse e che il messaggio pasquale fatica ancora tanto ad entrare nel cuore degli uomini della politica, della burocrazia e della magistratura.

Da parte mia ho fatto il mio piccolo tentativo di girare la lettera ai cristiani ai quali compete trattare queste cose, ma nel contempo ho chiesto al Risorto di fare anche Lui la sua parte.

Ricordo di Papa Vojtyla

A Pasqua chiudono il cimitero, luogo del mio ministero, a mezzogiorno, per cui potevo godere di una mezza giornata di riposo.

Nel primo pomeriggio mi sono concesso un’oretta di televisione, potendo così seguire una rubrica, condotta da quel simpatico e intelligente giornalista che io reputo essere Giletti. Ho acceso il televisore dopo il breve “pisolino”, quando ormai il programma era iniziato da qualche tempo, rammaricandomi di aver perso la parte iniziale della trasmissione. Era in corso un’intervista con l’ex direttore della sala stampa del Vaticano, Joaquin Navarro Valls, persona che è stata a stretto contatto con Papa Carol Vojtyla per più di vent’anni.

Giletti è certamente un giornalista sciolto, brillante e intelligente, oltre che ricco di umanità e il suo interlocutore medico e giornalista, altrettanto intelligente e preparato, ma soprattutto capace di tradurre in testimonianza palpitante le sue “confidenze” sulla vita e sul modo di operare di quel meraviglioso Papa polacco, prima immagine splendida di vitalità e poi icona della sofferenza.

Dall’intervista è emersa soprattutto la calda umanità del pontefice e la sua fede forte e capace di determinare ed illuminare la sua vita e il suo ministero.

Più volte mi sono commosso, leggendo nel volto tanto espressivo di questo “servitore della Chiesa” l’ammirazione incondizionata e l’ebbrezza, quasi, di poter offrire agli ascoltatori una immagine così bella e così alta del “Papa venuto da lontano”.

Nei miei ottant’anni di vita ho “incontrato” capi di stato, artisti, uomini di cultura e di scienza, che hanno attraversato, come meteore, il cielo di questo e dello scorso secolo, ma forse la figura più bella, più completa e più positiva è stata quella del nostro pontefice, che ha saputo tradurre il Vangelo di Cristo nell’unica lingua comprensibile e la più amata dagli uomini del nostro tempo l’autenticità.

La Chiesa si è macchiata di mille magagne, ma se è ancora capace di esprimere uomini del genere, rimane la realtà più importante e più positiva del nostro tempo.

Il dramma dei preti di oggi

L’opinione pubblica radicale pensa che il prete sia uno che rappresenta il passato meno nobile e che campa sull’ignoranza e sui pregiudizi di ceti meno acculturati e più retrivi della società attuale. Mentre la gente normale è convinta che il sacerdote sia ancora una funzione sociale tesa soprattutto ad educare le nuove generazioni a valori sani e condivisibili.

Le persone di questo ceto, che tutto sommato amano, in qualche modo, il sacerdote ed apprezzano la sua funzione sociale, immaginano che il sacrificio maggiore che la Chiesa richiede ai suoi preti sia quello del celibato, che pone il prete in una condizione di solitudine pressoché disumana.

Di certo anche questo è un problema, ma almeno per me, non il più grave. Da parte mia il peso maggiore per un sacerdote oggi, è quello di avere un messaggio, delle verità, delle proposte, una lettura della vita, e non possedere parole, schemi mentali e motivazioni facilmente comprensibili dalla nostra gente. Io ho spesso la sensazione di avere una proposta, ma di essere quasi un “muto” che non ha suoni per passarla agli uomini che ancora vengono in chiesa per attingere speranza e coraggio per vivere.

In occasione dell’ultima Pasqua, ancora una volta ho sofferto e penato molto, senza forse riuscire, almeno a mio parere, a spiegare che oggi possiamo fare incontrare gli uomini del nostro tempo col Risorto, nella misura in cui riusciamo a formare cristiani capaci di assimilare il discorso di Gesù, che con le parole e con l’esempio ha proposto l’uomo nuovo del Vangelo, l’uomo rigenerato, l’uomo della resurrezione, che ha vinto la prepotenza, la meschinità, la paura, l’egoismo avendo creduto in Dio amore, verità e vita.

Nel profondo del mio spirito baluginava quel giorno questa verità, ma credo d’aver faticato, con scarsi risultati, a donare la verità di questa proposta che superava positivamente “il miracolo della risurrezione” poco incidente nella vita dei fedeli. Questo per me è il più grosso dramma del prete, oggi.

Le preghiere del nostro tempo

Ormai da tre anni sto curando l’edizione di un opuscolo mensile che ha come titolo di copertina “Sole sul nuovo giorno”. Nella sostanza si tratta di un’antologia di pezzi d’autore noti o meno noti, ma che hanno in comune la capacità di un forte impatto sulla coscienza del lettore. Li pubblico con la speranza che i miei concittadini, aiutati da questi scritti, densi e forti, prendano posizione di fronte agli eventi quotidiani.

Raccolgo questi brani tra le mie letture vagabonde dei periodici e dei volumi che mi capitano sottomano. Quando verso il 20 del mese il signor Novello, che riordina e impagina, stampa questo periodico, rivedo il risultato di una scelta e di un lavoro fatto molto tempo prima, per cui anch’io sono sottoposto all’impatto esistenziale che spero coinvolga i lettori.

Ultimamente mi sono accorto che molti di questi “pezzi” sono scritti a mo’ di preghiera, tanto che con piacere leggo queste pagine insolite, ma sempre ricche. E mi sono accorto che queste “preghiere” del nostro tempo sono preghiere esistenziali. M’è parso che l’uomo moderno, piuttosto che lasciarsi andare ad espressioni di contemplazione, è alla ricerca di una preghiera che abbia come corde di violino i fatti del vivere quotidiano, dei rapporti con gli uomini piccoli, piccoli e grandi.

Ho la sensazione che le parole e i sentimenti espressi tendano a voler manifestare col vivere di ogni giorno la riconoscenza, la richiesta di perdono, l’impegno a fidarsi del Padre e vivere in pace con i fratelli.

La preghiera più autentica, e quindi quella più gradita al Signore, è quella scandita con i fatti, le scelte e i comportamenti più conformi alla volontà del Padre.

Un sogno nell’arte!

Quest’anno m’ha fatto particolarmente felice l’ottima riuscita della prima mostra concorso della “Galleria San Valentino” di Marghera. Il coraggio, un po’ artisticamente “incosciente” della nuova responsabile della Galleria e la sua assoluta e totale dedizione, il mio struggente desiderio di far decollare nel paese-dormitorio di Marghera un centro d’arte e la generosa disponibilità di Luciano, hanno fatto il miracolo.

L’accorrere di più di cento artisti, con opere di un buon livello, soprattutto pensando alla difficoltà obiettiva del difficile tema “il volto”, l’inaugurazione in un ambiente signorile, la serietà della gestione dell’evento e soprattutto la cornice della struttura che, più di una residenza, appare come una bella hall di un albergo di categoria e la presenza vivace del mondo dei giovani, hanno fatto il resto. Tutto splendidamente bene!

L’avvio della Galleria è stato piuttosto faticoso, ma ora ho la sensazione che in poco tempo diventerà una proposta d’arte tra le più coraggiose e di alto livello della nostra città.

Un esito così felice e riuscito mi sta spingendo a sognare che se “La cella” lascia cadere la Biennale d’Arte Sacra che ho avviato una trentina di anni fa, la Galleria San Valentino possa ereditarne la sigla e soprattutto il contenuto: aiutare l’arte moderna a dare volto e colore d’attualità ai misteri cristiani.

Questa possibilità già mi fa sognare di poter riprendere quel dialogo che ha già prodotto tante amicizie e simpatie tra gli artisti e il mondo ecclesiastico, oltre una serie di opere quanto mai significative, delle quali la città può già godere, perché esposte nella più grande galleria cittadina che i centri “don Vecchi” offrono a Mestre con le quasi millecinquecento opere presenti nelle pareti dei quattro centri esistenti a Mestre.

“Aiutami Signore ad essere testimone credibile della tua resurrezione”

Un tempo ero assai preoccupato per la ripetitività della celebrazione dei fondamentali “misteri” cristiani, concepiti come eventi o riferimenti più importanti della proposta evangelica, quali le feste fondamentali – Natale, Epifania, Pentecoste, Ascensione, ecc. – che finivano per diventare tappe scontate, poco significanti, quasi monotone ed incapaci di suscitare sentimenti vivi e forti.

Nulla di più sbagliato, perché se la preparazione e la meditazione sono attente ad approfondite, la stessa verità si manifesta in un contesto sempre diverso, “il mistero”, ossia l’evento – si tratti della vita di Cristo o di un suo discorso o parabola – vengono ad assumere sempre un volto nuovo, sempre “fresco” ed interessante.

La verità, quella vera, è sempre nuova, ha sempre riflessi diversi e suscita nel cuore del discepolo tensioni, sensazioni e stimoli veramente fecondi.

Quest’anno, per la copertina di Pasqua de “L’incontro”, pensando alla Maddalena che, inebriata dalla scoperta della resurrezione di Cristo, torna felice ad annunciare questa meravigliosa novità agli apostoli, ho scelto il bel volto sorridente di una giovane donna e le ho messo in bocca le soavi parole di una poesia di padre David Maria Turoldo.

La mia folgorazione, per Pasqua, è stata il bisogno e il dovere, oltre che il dono e il privilegio, di fare l’annuncio della resurrezione con una voce, un volto veramente bello e felice, che odori di ebbrezza e di gioia indicibile. E’ semplicemente meraviglioso poter dire ai fratelli che incontro: «Cristo ha vinto la morte, io so di camminare verso il mattino di un nuovo giorno, più bello di tutti i giorni che ho vissuto e che potrò vivere.

La mia preghiera ardente ed appassionata per Pasqua è stata questa: “Aiutami Signore ad essere testimone credibile della tua resurrezione”.

Ho tentato di vestirmi a festa, di indossare finalmente gli abiti belli dell’ottimismo, della speranza e del coraggio di vivere. Spero e voglio riuscire a mantenere questo volto!

Dove sono i valori cristiani nella politica italiana?

Tangentopoli fu la punta di spillo che dissolse la “balena bianca”. La vecchia Democrazia Cristiana, che ebbe però l’immenso merito di far evitare al nostro Paese la squallida e terribile esperienza comunista, punta da questo spillo, mostrò tutte le sue vergogne e le sue divisioni interne. Il partito democratico, che ereditò la parte più consistente dei comunisti, resse per ulteriori due decenni, ma ora sta facendo la stessa fine, mostrando le varie anime: marxista, liberale, laica e cristiana. Forse anch’esso sta marciando verso un’ulteriore dilacerazione.

A me non è che non interessi tutto quello che riguarda la mia nazione ma, com’è comprensibile, sono più direttamente interessato a quello che riguarda i membri della mia Chiesa, ossia i cittadini che si rifanno alla cultura e alla tradizione cristiana.

Con la morte del partito dei cattolici è avvenuta ufficialmente la grande diaspora che covava già da parecchi anni all’interno della Democrazia Cristiana. Questo fatto non mi meraviglia né mi rattrista, perché in politica valgono le soluzioni che si ritengono più valide per raggiungere le mete di ogni comunità civile: il benessere, la libertà, la giustizia, la perequazione dei beni, la vera democrazia.

Non mi meraviglia e non sono dispiaciuto che i cattolici siano andati a finire un po’ dovunque: nel PD, nell’UdC, nel PdL e in tutta la meteora di fazioni scaturite dai maggiori partiti politici, anzi questo mi fa felice perché questi cattolici possono così lievitare di spirito cristiano i relativi partiti politici in cui militano. Quello che invece mi preoccupa e mi delude è che quando si tratta di scegliere su ciò che riguarda i valori fondamentali, quali la persona, la solidarietà, la libertà, la vita, la morte, ecc., tutti i seguaci di Gesù, indipendentemente dalla bandiera di partito, dovrebbero trovarsi unanimi a difendere e promuovere i valori cristiani.

Finora però non ho visto niente di tutto questo e purtroppo in ogni occasione è emerso più l’interesse di parte che la fraternità e la coerenza cristiana. Per quanto mi riguarda starò estremamente attento a favorire il contenuto piuttosto che il distintivo del contenitore.