Vorrei una Chiesa fatta di Vangelo e semplicità!

Sono del tutto d’accordo con coloro che continuano a ripetere che l’abito non fa il monaco, però resto ancora convinto che una certa qual importanza, anche se non rilevante, la fa pure “l’abito”.

Partendo da questa convinzione fui tra dei primi, assieme a don Vecchi, che smisi la tonaca per il clergyman, però non condivido la scelta dei preti che si sono sbarazzati in maniera disinvolta da ogni segno che indichi la loro appartenenza al clero.

Non sono certamente i “termini” che qualificano le scelte e le persone, ma i contenuti. I comunisti, in proposito, hanno tagliato corto e sono stati quanto mai radicali, sostituendo ogni denominazione dell’autorità con il termine “compagno”, ma la loro è stata solamente ipocrisia, perché certi “compagni” lo erano più degli altri, così da diventare despoti e dittatori.

Prima dei comunisti anche la Rivoluzione francese aveva tentato di risolvere il problema dell’eccessivo peso dei gradi coniando il termine “cittadino”, ma pure la loro fu solamente un’ipocrisia.

Gesù tentò anche lui una riforma radicale introducendo il termine “fratello”, ma i suoi seguaci nel tempo non sono stati assolutamente fedeli a questo termine, e gli hanno preferito l’ampollosità spagnolesca di altri quali, Monsignore, Eccellenza, Eminenza, Santità e via dicendo.

A me in verità non disturbano più di tanto queste locuzioni, ma mi sembrano stonate, fuori tempo o, perlomeno, fuori moda. Mi interessa di più che le persone definite da questi termini siano paterne ed operino in spirito di autentico servizio piuttosto che di governo, ma confesso che non mi dispiacerebbe che certe parole scomparissero dal vocabolario ecclesiastico, come certi segni, sacri palazzi, fasce e bottoni rossi, cuffie e vesti dalle fogge strane, stemmi araldici e cose del genere sono qualcosa che penso sporchino la semplicità; ad essi preferisco segni e parole che sappiano di Vangelo piuttosto che di cerimoniale.

Il mio augurio a mons. Beniamino Pizziol

In queste ultime settimane è stata annunciata con grande rilievo la nomina di mons. Beniamino Pizziol a vescovo di Vicenza, una delle più grandi ed importanti diocesi del Veneto.

Vicenza, con Bergamo e forse Padova, sono sempre state considerate come la Vandea d’Italia, come serbatoio dei voti della Democrazia Cristiana, delle vocazioni alla vita religiosa, dei “cattolici”, dell’associazionismo.

Il Papa e il nostro Patriarca hanno dimostrato di avere una notevole stima di questo confratello per avergli affidato uno dei “gioielli di famiglia” della Chiesa del Nordest.

La “carriera ecclesiastica” di don Beniamino s’è sviluppata un po’ in sordina: cappellano a San Lorenzo Giustiniani, alla scuola dell’intellettuale don Antonio Moro, parroco della miniparrocchia di San Trovaso, vicario generale di un Patriarca dal respiro internazionale, vescovo ausiliare di primo pelo e quindi vescovo di Vicenza “la bianca”, ora un po’ meno immacolata, ma ancora tendente al bianco!

Sono convinto che l’equilibrio, la semplicità, l’umiltà e la moderazione di “don Beniamino”, cresciuto in una Chiesa tranquilla, tra un clero individualista e sornione, libero ma fedele, l’aiuteranno ad essere un buon vescovo.

Ho pregato e continuerò a pregare per lui che ha accettato un “servizio” che a me metterebbe angoscia per le difficoltà immani che il cattolicesimo veneto dovrà affrontare se non vuole scomparire dalla scena. Spero che lo Spirito di Dio lo sorregga e l’aiuti ad essere un pastore buono, paziente ed esemplare. Mi fa ben sperare il fatto che, se è riuscito a farsi amare da un prete irrequieto, intransigente e polemico quale reputo di essere io, gli sarà più facile guidare un popolo ed una Chiesa che ritengo più quieta ed allineata.

Auspico per l’Italia una rivoluzione morale!

Più volte ho confessato in queste pagine che ogni giorno dedico un qualche tempo per un aggiornamento sugli eventi della vita del nostro Paese.

Al mattino, prima di prendere la strada che porta al luogo ove svolgo il mio ministero, sfoglio Il Gazzettino per un quarto d’ora: do una scorsa ai titoli e leggiucchio qualcosa che mi interessa maggiormente. Vedo poi il telegiornale delle 13,30 e delle 20. La risultante? Una vera desolazione!

E’ vero che i giornali si stampano e si vendono quasi esclusivamente per la cronaca nera, perciò per trovare qualcosa di positivo debbo cercarlo come Diogene col lanternino anche in pieno giorno.

E i telegiornali? Ancora peggio! Imbrogli, delitti, raggiri, scandali, volgarità, e chi più ne ha più ne metta. La politica, che nei mass-media la fa da padrona: peggio di peggio. Il parlamento, che dovrebbe essere la scuola che educa i cittadini ad un vivere civile, sembra l’università in cui le varie facoltà insegnano in maniera specifica il peggio del comportamento umano; l’insulto, l’arroganza, la mancanza di rispetto, la demagogia, il perditempo, l’ipocrisia, il fariseismo, la furbizia, ecc. Per non parlare della condotta morale dei docenti di queste tristi facoltà. Sono arrivato alla conclusione che le riforme tanto auspicate sono perfettamente inutili.

L’Italia ha invece bisogno di una rivoluzione morale per insegnare e soprattutto per testimoniare il rispetto, la pacatezza, l’onestà, la buona educazione, il dialogo, la ricerca della verità e lo sforzo di collaborazione nel cercare il bene comune.

Temo però che, almeno i “capi popolo” siano ormai irrecuperabili.

Davanti agli occhi miei ogni giorno Dio allestisce galleria d’arte più bella!

Il mio minialloggio è tanto piccolo, ma anche così confortevole da avere perfino un terrazzino con la balaustra, ove suor Teresa in ogni stagione mette le piante in fiore e che si affaccia su un grande prato che si veste, in ogni stagione, di splendidi colori diversi.

Quando mi affaccio a questo terrazzino per contemplare il cielo e la terra, le piante e gli uccelli, il mio animo ritorna spesso alle parole cariche di nostalgia con cui Celentano rimpiange i prati di via Gluck. Per fortuna io ho la grazia straordinaria di non dover rimpiangere alcunché, anzi posso incantarmi e non stancarmi mai di stupirmi e di contemplare il manto con cui si veste il grande campo. Di certo né Gucci, né Stefanel, né Cristian Dior potrebbero suggerire tinte così delicate e smaglianti quanto quelle che il buon Dio fornisce gratuitamente alla terra incolta del mio grande prato, amico di ogni stagione.

Tante volte, pressato dalle richieste, ho sognato e tentato di costruirvi un’altra dimora per i miei anziani e tante volte il Signore si è servito dell’insipienza o forse della gelosia dei miei concittadini per impedirmi di destinare agli anziani poveri qualche appezzamento di terra, perché voleva che rimanesse uno splendido prato godibile da tutti.

Ora il prato è tutto coperto di piccoli fiori color oro, fiori che da bambini chiamavamo “le scarpette della Madonna”. Chagall sarebbe stato affascinato da tanto giallo-oro che riflette i raggi tiepidi del sole di primavera.

Credo che la regina di Saba non ebbe mai un vestito così bello come quello del prato oltre il terrazzo del mio soggiorno, né mai l’avrà la principessina d’Inghilterra appena sposata. L’artista divino, con una fantasia ineguagliabile, ci offre un quadro sempre nuovo che diventa ogni settimana la galleria più bella della nostra città.

Ho incontrato anch’io una Veronica, anzi due.

Dopo l’ultimo intervento chirurgico, non è finita la mia “via crucis”, che continuerà fino a che, prima o poi, dovrò giungere, come ogni essere umano, all’epilogo. Questa è la “dura lex” della vita per tutti!

Nel tratto di strada che sto percorrendo, come avviene nel pio esercizio della liturgia della passione, ci sono le varie stazioni: il Cireneo, la caduta, la Veronica, ecc., perché anche a noi poveri cristiani capita di percorrere la stessa via dolorosa di Gesù e fare le sue stesse esperienze. Volesse il Cielo che le superassimo come Lui!

Questa mattina ho incontrato nella clinica patavina “la Veronica”, anzi, a differenza di Gesù, due “Veroniche” nelle persone che m’hanno fatto l’instillazione mensile di chemioterapia.

Io appartengo al vecchio mondo e in più al vecchio mondo sacerdotale in cui la riservatezza, il pudore erano regole sacrosante. Ebbene ho incontrato nelle due infermiere addette a questo intervento una delicatezza, un’amabilità ed un rispetto per questo vecchio prete, che non solo non ho sofferto più di tanto, ma non mi sono sentito per nulla a disagio. Anzi, ringrazio il Signore di questo incontro che ai miei occhi e nel mio cuore ha riscattato quel vecchio mondo di dottoroni freddi e sapientoni, il mondo degli avidi, dei burocrati e degli indifferenti alle difficoltà degli altri.

Gesù certamente si rincuorò quando quella dolce creatura che fu per lui la Veronica gli asciugò il sudore ed Egli riprese con più coraggio e serenità il suo cammino verso la croce. Io sono tornato a casa col cuore in pace con me stesso e con l’umanità.

Il buon Dio manda sempre a tempo debito quei raggi luminosi di sole che ti  rassicurano; fortunatamente ci sono in ogni settore delle splendide creature che fanno da contrappeso al grigiore della mediocrità e della cattiveria e che ti aprono il cuore alla speranza e al bene.

Amo l’arte!

I miei debiti nei riguardi di monsignor Valentino Vecchi sono davvero pressoché infiniti. Io sono nato in un paese in riva al Piave dove ho visto biondeggiare il grano sui campi, i grappoli d’uva delle viti, ho sentito i grilli cantare nelle sere in cui il cielo brillava tutto trapunto di stelle. Ho visto file di buoi arare le zolle e sentito i contadini cantare mentre zappavano la terra.

Nel mio piccolo paese di campagna ho imparato tante cose interessanti ed utili per vivere. Ma per quanto riguarda l’arte, ho visto solamente vecchie foto di famiglia, qualche oleografia con la Sacra Famiglia, ma nulla più.

Di Giotto, Cimabue, Pinturicchio, Chagall, De Chirico o Cesetti, Guidi o Carrà e dell’infinito popolo di pittori e di artisti, mai ho sentito parlare, neppure nella vecchia scuola, che un tempo doveva ospitare delle monache, e che tutti chiamavano “il convento”.

Don Vecchi mi ha introdotto nel mondo magico ed affascinante dell’arte, mi ha fatto conoscere la tavolozza, le tele e la bellezza dei colori e delle forme.

Don Vecchi mi ha aperto gli occhi a questo mondo così vario ed affascinante, che mi ha letteralmente fatto innamorare. Da questo amore è nata la galleria “La Cella”, la “Biennale di arte sacra”, la conoscenza e l’amicizia con i tanti artisti veneziani e mestrini e da questo amore è nata pure la secondogenita, la “Galleria san Valentino” del “don Vecchi” di Marghera.

Con l’aiuto, prima, di alcuni critici, poi di un’esperta di itinerari d’arte, infine di una giovane signora, pure innamorata della bellezza, ed esperta nel settore, si è avviata questa bella avventura artistica che ha già promosso molte mostre e che è arrivata perfino ad organizzare un concorso su un tema specifico, che sta riscuotendo notevole successo.

Vivere nel senso più vero del termine, è cogliere tutta la ricchezza del creato, e per un cristiano ciò diventa perfino preghiera e adorazione di quel Dio che si manifesta a noi in mille modi – e quello dell’arte è uno di questi; forse uno dei modi più privilegiati.

Grazie a quanti lasciano i propri beni in eredità alla Fondazione Carpinetum!

Le risorse della Fondazione sono pressoché nulle, dato che il suo obiettivo primario è quello di permettere che anche l’anziano che percepisce la pensione sociale, cioè 586 euro mensili, possa vivere al “don Vecchi” senza pesare sulla sua famiglia, sulla civica amministrazione e senza andare a mendicare per strada. Finora ci siamo riusciti.

Ho scoperto, fortunatamente, che la stagione dei miracoli non è ancora terminata. Chi ha dubbi venga al “don Vecchi” per credere! Ma vivere vuol dire non accontentarsi di aiutare qualcuno, il nostro assillo è che a Mestre  non solamente i trecento anziani attuali abbiano la fortuna di abitare al “don Vecchi”! Noi vorremmo che non ci fosse più alcun vecchio sopportato in casa da una nuora bisbetica o recluso, solitario e dimenticato, in uno dei tanti palazzoni anonimi della nostra città.

Da questo assillo sono nati il “don Vecchi” uno, poi il due, quindi il tre, ora il quattro a Campalto, ma c’è già il progetto per il cinque.

Per realizzare tutto è certamente servita la generosità dei concittadini, ma la pioggerella costante delle offerte dei benefattori non è sufficiente, perché per realizzare una struttura che offra confort e sicurezza servono ingenti somme. Mi pare di aver capito che la strada più sicura e quella risolutiva sia quella dei testamenti e delle eredità. I quattro “don Vecchi” sono “sbocciati dalla terra” soprattutto per merito di gente generosa ed intelligente che, non avendo doveri particolari verso i famigliari, ha deciso di lasciare in eredità i suoi beni, prima alla parrocchia, ed ora alla Fondazione.

Ricordo con immensa ammirazione la signora Luigina Corrà che ci ha lasciato un miliardo di vecchie lire, la signorina Giammanco, settecentocinquanta milioni, la signora Scaldaferro, trecentocinquanta milioni ed altri ancora, i cui nomi sono ben incisi nella mia memoria.

Salderemo pure il conto dei nuovi 64 appartamenti di Campalto se riusciremo ad avere le eredità lasciateci da un’anziana di Marghera e da un vecchio di Mirano. Se la burocrazia dello Stato ci permetterà di ricevere presto la generosità di queste persone sagge e generose, avremo vinto ancora una volta!

La vecchia chiesetta del cimitero, la buona volontà dei cittadini e l’amministrazione

Nota della redazione: i lavori alla chiesetta sono comunque potuti e sono in corso nel momento in cui inseriamo questo scritto.

Speravo proprio che per Pasqua fosse rimessa a nuovo la vecchia chiesa del nostro cimitero, cuore dei due porticati che abbracciano il piccolo spazio del camposanto voluto da Napoleone quando portò anche in Italia il respiro della rivoluzione francese.

Il camposanto del piccolo borgo di Mestre si riduceva al campo tagliato a croce, circondato da mura, nel quale si entrava dalla bella cancellata in ferro battuto ancora esistente. Mestre contava, allora, si e no dieci-quindicimila anime e perciò il piccolo cimitero, che aveva come cuore e punto di riferimento la povera e piccola chiesetta, era sufficiente. Era però un cimitero raccolto, sobrio ma familiare, non come ora, così ridotto ad un agglomerato di campi, strutture cimiteriali anonime e senza alcuna armonia.

Con l’apertura, un anno fa, della chiesa provvisoria sulle carte, ma forse eterna nella realtà, è stata mia premura che la vecchia cappella non si riducesse ad un rudere abbandonato alla sua sorte. Però neppure speravo che Comune e Veritas l’avrebbero restaurata perché rimanesse memoria della fede dei nostri padri e luogo di preghiera e di raccoglimento per i concittadini del nostro tempo. Sennonché il signor De Faveri, che frequenta il nostro cimitero, perché in esso riposano i suoi congiunti, s’è offerto di pagare personalmente il restauro totale, all’interno e all’esterno della chiesa.

Pensavo che la Veritas e il Comune sarebbero venuti in processione per ringraziare questo cittadino benemerito, invece no! Sono più di quattro mesi perchè, prima la Veritas e poi la Sovrintendenza, gli fanno produrre carte su carte. Penso che appena per costruire una centrale nucleare servano tante garanzie! Mi sono accorto, ancora una volta, che l’apparato della pubblica amministrazione è talmente farraginoso che anche i problemi più semplici diventano complessi ed impossibili, perché l’esercito dei quasi diecimila dipendenti tra la Veritas e il Comune – e non so quanti della Sovrintendenza – deve pur passare il tempo per giustificare i suoi stipendi.

Ogni giorno di più mi sorprendo che la nostra Italietta stia ancora in piedi con una tale organizzazione statale e parastatale affollata, inefficiente, anzi organizzata perché tutto proceda lentamente.

Ai bordi di Mestre ho trovato una bella chiesa e un’ancor più bella Comunità

In questi ultimi quindici giorni (l’articolo come sempre risale a qualche settimana fa, NdR) sono morti due congiunti di due carissimi amici e collaboratori da una vita. La prima era la figlia quarantenne di Orfeo, un volontario che dopo la pensione dedica da una decina d’anni tutta la sua vita a trasportare generi alimentari per la Bottega Solidale a favore dei poveri. Il secondo era il fratello di Lino, il quale ha scelto, dopo la morte della moglie, di dedicare tutto il suo tempo agli anziani assumendosi il compito, non facile, di fungere da responsabile, sempre a titolo di volontariato, del Centro don Vecchi di Marghera.

Ho sentito, prima che il dovere, il bisogno di concelebrare ai relativi funerali per dimostrare cordoglio, riconoscenza ed affetto a queste care persone. Tutti e due i riti di commiato si sono svolti nella chiesa della Santissima Trinità del villaggio Sartori, ove da alcuni anni funge da parroco don Angelo Favero, l’ex preside del liceo classico Franchetti.

Ho avuto modo di ammirare la chiesa, che avevo conosciuto un tempo malandata e povera, ora restaurata con gusto e con amore, pur mantenendo le linee miserelle con cui è stata costruita. Ma soprattutto sono stato felicemente impressionato dalla folla dei fedeli che hanno partecipato al rito mesto, ma sorretto dalla speranza cristiana.

Fatalmente ho confrontato i “miei funerali”, solitari, spesso freddi e formali, col calore di una vera comunità partecipe al dolore dei propri compaesani. M’ha fatto sognare l’assemblea che rispondeva ed esprimeva col canto la fraternità e la speranza cristiana. Sono stato felice che ai bordi di una città anonima e senza calore esista ancora un popolo di Dio affiatato e coinvolto nel dramma di famiglie della comunità. Sono pure stato edificato nel sentire il parroco, che aveva dedicato l’intera vita allo studio e alla scuola, così “innamorato” della sua gente e così pastore del suo popolo.

Abbiamo ancora valori da trasmettere al “confratelli” d’Europa!

L’Italia ha vinto la guerra del crocifisso!

Sono contento perché l’Europa dei forti non manca occasione per umiliarci, in forza della tenuta dell’economia della Germania, dell’Inghilterra e della Francia. Pare che nel contesto dell’Europa, sia per il poco spessore del nostro governo e sia per la fragilità della nostra economia, agli italiani sia riservato solo il compito di fornire i suoi soldati per favorire strategie militari ed economiche promosse da altri e per i loro esclusivi interessi.

La vicenda della Libia e dei profughi, che sbarcano a migliaia sulle nostre sponde, ha messo in luce questo atteggiamento di arrogante superiorità dell’Europa sulla cui solidarietà l’Italia pensava giustamente di poter contare, mentre invece i “confratelli” hanno risposto, uno dopo l’altro “picche”.

Qualche domenica fa ho seguito la trasmissione “L’arena”, condotta dal brillante giornalista Massimo Giletti, e finalmente ho avvertito un coro unanime di orgoglio per la nostra cultura e la nostra sensibilità, che nonostante tutto si rifà ai valori cristiani.

Perfino Sgarbi ha avuto un guizzo da cui è emerso il fondo cristiano che fortunatamente, magari flebile, è ancora universalmente presente nella coscienza degli italiani, pur militante sotto bandiere diverse. Ha detto Sgarbi, arrabbiato come sempre: «Noi siamo figli di quella cultura in cui vale il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso!”» L’Italia è povera, ha un governo in confusione, ma per fortuna è ancora ricca di cultura, d’arte, di civiltà e di umanità.

Questi ultimi avvenimenti mi hanno reso certo che anche l’Italia ha delle cose preziose da donare ai “colleghi” europei più ricchi e più forti. C’è voluta la “guerra” per il crocifisso e il dramma dei profughi per farmi prendere coscienza che posso e devo avere ancora l’orgoglio di essere italiano!

Parlerò ancora di Fede e Carità!

Mi ha molto colpito una frase del nostro concittadino Nerio Comisso, direttore, fino a poco tempo fa, dell'”Asilo notturno” di via Spalti, in rapporto al suo impegno decennale a favore dei senzatetto di Mestre: “Io non credo, però mi sono sempre comportato come se io credessi”.

Tutto il contesto dell’intervista m’ha rassicurato che la sua affermazione non era una delle tante smargiassate di quella gente senza spessore umano e culturale, adoperato per accreditarsi presso l’opinione pubblica come uomo “a la page”.

Il rapporto tra fede e carità mi ha sempre appassionato e ritengo che sia anche oggi un grosso problema che molti “cristiani” – tali solamente per aver ricevuto il battesimo da piccoli o perché praticanti pedissequamente senza tanti problemi interiori – non si pongano seriamente. Il problema non è certamente nuovo, perciò sono ben conscio di non scoprire l’America ponendomelo e proponendolo all’attenzione dei miei concittadini. Già san Giacomo, venti secoli fa, l’ha affrontato in maniera forte e polemica, quasi una sfida: “Voi che dite di credere, mostratemi la vostra fede ed io ve la mostrerò invece mediante la mia carità!”

L’affermare di essere credente nel messaggio di Cristo, non traducendo la fede in carità, penso sia una pia illusione o una comoda affermazione, mentre chi pratica la solidarietà, pur ritenendo di non essere credente, quasi certamente è in realtà un discepolo di quel Cristo che ha fatto dell’amore reciproco il cuore e la sostanza del suo messaggio.

Io sono tanto perplesso e dubbioso sulla consistenza della fede di quei “cristiani” che non “si sporcano le mani con i poveri”, che non si spendono per la giustizia e la solidarietà, non si fanno prossimi con l’uomo ferito a morte ed abbandonato sulla strada della vita. Sono pure altrettanto perplesso sull’autenticità cristiana di comunità parrocchiali senza servizi efficienti nei riguardi degli svariati bisogni dell’uomo contemporaneo.

Una volta ancora sono convinto che non basta mettere un’etichetta con la croce su una comunità cristiana perché essa sia tale, mentre sono invece i contenuti che qualificano la vita religiosa. Tutto questo mi pare di doverlo affermare a scanso di deludenti e dannosi equivoci.

Quelli che trattiamo come “rifiuti d’uomo” sono ancora e sempre figli di Dio!

Ritorno su un argomento che a molti è poco gradito, ma che a me mette veramente paura constatando con amarezza che la nostra società sta vorticosamente producendo “rifiuti d’uomo”, confinandoli nelle case di riposo o in casa propria sotto la tutela di una badante straniera. Il fenomeno è complesso e le motivazioni sono molte, però rimane il fatto che il risultato è comunque terribilmente triste.

Credo che a molti di noi sia capitato, dato che abbiamo il mare Adriatico a due passi da casa, di vedere, specie d’inverno quando non funzionano gli apparati del turismo, di passeggiare sul bagnasciuga e di scorgere ad ogni pié sospinto pezzi di tavola, barattoli, bottiglie di plastica, radici di albero che la risacca spinge sull’ultima propaggine della spiaggia. Il mare butta alla deriva i relitti abbandonati tra le onde.

Nel mio ministero, che svolgo nella chiesa del cimitero, ove celebro spesso il funerale appunto di questi “relitti umani” che giungono dalle case di riposo, dalla solitudine di una vita condotta con una donna dell’Europa dell’est, la quale “accudisce il vecchio” a pagamento, ho l’impressione dell’abbandono, della solitudine e della disperazione umana che si consuma in luoghi anonimi e privi di vita sociale, lontano dai bambini, dalle donne e dalla natura.

Povera società! Povero uomo d’oggi!

La scienza, il progresso, l’economia, l’efficienza stanno abbandonando la persona come uno straccio sporco e inutile, dimenticandosi che anche l’uomo più povero e più desolato rimane sempre e comunque un figlio di Dio.

L’uomo deve tornare al centro di ogni attenzione e scelta sociale

Uno degli elementi originali e specifici del pensiero cristiano circa l’uomo, è quello di ritenere la persona al centro di ogni attenzione e pensarla come la protagonista assoluta della vita sociale.

Il fondamento di questa visione dell’uomo affonda nella Rivelazione e ne trova una conferma specifica quando la Bibbia afferma che “Dio chiama per nome ogni uomo”.

In tutta la cultura che si rifà alla Rivelazione, quando si parla dei doveri verso la società, espressi mediante la solidarietà, la responsabilità prima ed assoluta si riferisce sempre all’individuo, mai alla società in genere.

Il pensiero marxista, e tutti i suoi derivati, invece privilegia sempre “il popolo”, le “masse lavoratrici”, concezione in cui le colpe o i meriti si spostano dalla persona alla collettività, motivo per cui il singolo è deresponsabilizzato e diventa quindi oggetto piuttosto che soggetto della vita politica del Paese.

La poderosa influenza che il comunismo ha esercitato per molti anni sulla mentalità comune e le pressioni che le lobbies internazionali per mezzo dei mass-media, portano avanti, ha fatto sì che tanti cittadini siano quasi rassegnati e subiscano questa violenza e questo depauperamento perdendo autonomia, dignità e libertà personale, lasciandosi trascinare dalle correnti e rinunciando a rimanere al timone della loro “barca”. Tutto questo mortifica la persona e la rende in balia dei furbi di turno.

Mounier, il grande pensatore cattolico d’oltralpe, ha difeso in maniera estrema ed appassionata, mediante il suo “personalismo”, l’uomo del nostro tempo, insistendo perché il cittadino non rinunci ai suoi diritti e non si rassegni a diventare una pedina dei poteri forti.

Sono sempre più convinto che questa battaglia meriti d’essere combattuta, quasi come una guerra di liberazione, per recuperare la dignità di persona offertaci dal buon Dio.

Chiacchierare con Dio

Per tanti anni della mia vita io sono andato avanti tranquillo nel mio impegno sacerdotale, senza sussulti, senza traumi e con poche problematiche nei riguardi della vita religiosa. I superiori del seminario mi hanno messo sulle rotaie di un binario ben definito ed io ho cominciato a correre certo che, pur dopo tante fermate, sarei giunto alla meta definitiva: la casa del Padre. Invecchiando però, il mio modo di pensare non si è per nulla semplificato anzi, di anno in anno è diventato sempre più problematico.

Il Concilio Vaticano secondo non ha per nulla risolto i miei problemi, anzi li ha resi più tormentosi. Mentre prima alla guida del Concilio si diceva che c’era, un “macchinista” esperto che ci pensava lui ed io potevo stare tranquillo e perfino sonnecchiare, poi ho compreso che dovevo essere io a scegliere la strada, frenare, accelerare o fermarmi per far scendere compagni di viaggio o per imbarcarne altri.

Da allora ho cominciato a chiedermi sempre più frequentemente se certe soluzioni, che per tanto tempo avevo dato per scontate, erano veramente valide. Ad esempio, da sempre avevo sentito parlare della preghiera, avevo letto di persone che vi dedicavano tanto tempo, che stabilivano una comunione profonda con Dio. A me capitava invece di dire le preghiere mattino e sera, dir messa, recitare il rosario, ma in realtà non ho mai avuto estasi, visioni mistiche o tante altre cose misteriose che dicono che i santi provano, anzi spesso mi distraggo, penso ad altre cose o, recitando il breviario, mi viene da pormi in posizione critica di fronte a certi sermoni poco convincenti dei santi padri della Chiesa o di certi salmi del popolo ebreo.

Attualmente mi sono ridotto a rifarmi ad una affermazione di un giovane scout che affermava che per lui pregare significava “chiacchierare con Dio”.

Potrà forse scandalizzare qualche anima pia, ma confesso che le preghiere che mi appagano di più sono quelle che assomigliano ad una bella chiacchierata confidenziale con il Signore. Io gli racconto i miei guai e i miei progetti, i miei sogni e i miei dispiaceri. Lui mi ascolta e talvolta, con voce leggera, mi dà dei suggerimenti.

Non so se tutto questo sia normale per un ottantenne, però a me capita così!

Le profonde ingiustizie del nostro Stato!

Mi rendo perfettamente conto che deve essere terribilmente difficile governare bene, con giustizia ed equità un Paese grande come l’Italia. Tanto più è grande una comunità, tanto più difficile è stabilire delle leggi sagge e farle applicare a tutti i livelli. Però ci sono talvolta degli “sgorbi” amministrativi tanto grandi che “gridano vendetta al cospetto di Dio” e ai quali non riesco proprio ad abituarmi.

Qualche giorno fa ho appreso che ognuna delle decine di migliaia di creature umane, che dall’Africa settentrionale approdano nel nostro Paese, viene a costare al nostro Stato italiano ben centottanta euro al giorno e qualche tempo fa ho pure letto che ogni carcerato ci costa ben duecentocinquanta euro al giorno! Capisco bene che gli uni e gli altri debbono essere aiutati, sfamati ed alloggiati, però se poi penso che una moltitudine di uomini e donne italiane percepiscono cinquecentottanta euro al mese – quindi 19 euro al giorno e che per gli anziani che risiedono al “don Vecchi” lo Stato, attraverso la filiera del Comune e della Regione, contribuisce con un euro e venticinque centesimi al giorno, io questo Stato non lo posso e non lo voglio proprio accettare!

Di Pietro, estremo difensore della legalità, può dire quello che vuole, ma ritengo che pur con ogni buona volontà uno Stato del genere non possa pretendere in alcun modo di essere credibile e neppure sognarsi di pretendere che i suoi poveri sudditi possano lavorare ogni anno, dal primo gennaio al 23 giugno per pagare questo modo ignominioso di amministrare i suoi cittadini!

E’ vero che i cittadini che ricevono le briciole del bilancio pubblico non sono fisiologicamente in grado di evadere le tasse ma, se lo facessero, meriterebbero “l’indulgenza plenaria” più una medaglia sul petto!