Il fiuto della gente

Una volta, soprattutto nel mondo ecclesiastico, si infiorettavano i discorsi con sentenze latine. Qualche anno fa ho riletto quel bellissimo volume “Il giornale dell’anima” nel quale don Loris, o più precisamente il Cardinale Francesco Maria Capovilla, ha raccolto propositi, riflessioni, confidenze e pensieri spirituali di Papa Roncalli. Durante la lettura di quel corposo volume mi sono imbattuto mille volte nelle massime latine con le quali Papa Giovanni XXIII condensava le sue riflessioni. Ho constatato che in quel tempo la cultura ecclesiastica dei vecchi preti e soprattutto di quelli più intelligenti e più colti era veramente vasta mentre noi preti del terzo millennio abbiamo, quando va bene, una cultura da quotidiani e da telegiornali fatta di informazioni non supportate dalla sapienza del passato.

In queste ultimissime settimane, venendo a conoscenza delle folle sterminate che sono andate ad ascoltare e ad acclamare Papa Francesco, sono arrivato alla conclusione che la gente ha un fiuto particolare per valutare gli uomini di spessore e per dare loro il giusto riconoscimento. Pochissimi giorni fa un milione di persone si sono recate a Roma per ascoltare il Papa esprimersi sui problemi della famiglia, alcuni giorni prima settantamila ragazzi e giovani scout avevano partecipato, in maniera vivace, all’incontro con il sommo Pontefice e la settimana successiva settecentomila persone a Torino si sono unite a Papa Bergoglio per venerare la sacra Sindone.

Non passa settimana che alla catechesi del Papa, Piazza San Pietro non si riempia di fedeli desiderosi di ascoltare la lezione di catechismo del Pontefice e ogni domenica la stessa piazza è pressoché insufficiente per contenere la folla accorsa per l’Angelus. Non credo che ci sia personaggio in tutto il mondo che abbia il “successo” del Papa, nonostante egli sia anziano, il suo italiano non sia perfetto, le sue prediche assomiglino spesso ai sermoni dei vecchi parroci di campagna e il suo charme sia modesto. Papa Giovanni avrebbe detto a proposito di questo fenomeno: “Vox populi, vox dei”. È il Signore che si manifesta sotto le povere e logore vesti del nostro Papa e il popolo lo avverte e lo segue come pastore dell’umanità.

L’ateo cristiano

Recentemente i familiari di un nostro concittadino, trovato morto da alcuni giorni in casa, mi hanno chiesto di celebrare il commiato cristiano per questo nostro fratello. Come sempre mi sono messo in contatto con loro per ricevere qualche informazione, sulla sua vita e sulla sua testimonianza umana, per non correre il rischio di dire qualche parola “stonata” durante la breve omelia o meglio durante la breve catechesi nella quale, ogni volta, tento di fare emergere le verità della fede sulla vita e sulla morte ma, soprattutto, sulla benevolenza e sulla paternità di Dio.

Ho avvertito immediatamente che i congiunti del defunto erano di una decisa estrazione religiosa, l’ho capito dalle parole con le quali mi hanno parlato del defunto, dalla cura con la quale hanno preparato la liturgia del commiato e soprattutto perché mentre mi parlavano sono emersi dalle nebbie della memoria lontani ricordi del defunto, membro un po’ anomalo di questa famiglia cristiana. Quando però ho chiesto se era credente ho percepito imbarazzo e titubanza. Dopo un po’ mi hanno confessato che lo ritenevano nella sostanza un credente anche se non frequentava la chiesa, per poi affermare in maniera franca e sicura: “Noi però siamo credenti e vogliamo pregare per lui in occasione della sua partenza per l’aldilà”. A queste parole non ho avuto più alcun dubbio, anzi in realtà non l’ho mai avuto, sull’opportunità di celebrare il commiato cristiano per questo nostro fratello.

Questo problema l’ho già affrontato seriamente anche in passato e mi pare di averlo risolto in maniera molto tranquilla. Ancora una volta ho pensato al discorso di Sant’Agostino sui cristiani formali e su quelli reali: “Ci sono uomini che la Chiesa possiede e Dio non possiede ed altri uomini che Dio possiede e la Chiesa non possiede”. Di certo il mio defunto apparteneva a questa seconda categoria. La sua onestà, la sua volontà di essere autentico e sincero con se stesso e con gli altri, la sua disponibilità nella ricerca della verità e nell’aiutare il prossimo mi hanno dato questa certezza, motivo per cui ho pregato di tutto cuore con i parenti del defunto e l’ho consegnato con serena fiducia all’amore del Padre, sicuro che Egli lo avrebbe riconosciuto come suo figlio. Questo evento mi ha riconfermato che in questo nostro tempo non è tanto di primaria importanza portare la gente in Chiesa quanto seminare sempre e ovunque i valori cristiani.

Il problema di Medjugorje

Qualche giorno fa ho scritto che sono quanto mai preoccupato per Papa Francesco perché si ritrova tra le mani una bruttissima “gatta da pelare”, deve infatti prendere una decisione sulla veridicità delle apparizioni di Medjugorje.

Dopo vent’anni di indagini, di studi, di verifiche, gli esperti recentemente hanno portato al Papa i risultati di questa inchiesta infinita. Io non conosco l’esito di questa indagine pluridecennale però suppongo che non avalli l’autenticità di queste presunte apparizioni a catena. Sono più che certo, partendo da alcuni accenni del Papa, dal suo modo di pensare e di agire, che egli sia ancora meno convinto di quanto non lo siano i teologi ai quali è stato necessario così tanto tempo per arrivare alla conclusione del loro lavoro e per riferire le loro conclusioni.

A Medjugorje ogni anno aumentano i fedeli che sperano di assistere alle apparizioni perché hanno bisogno di qualcosa di eccezionale e di straordinario per rinvigorire la loro fede.

Io ho ascoltato tante persone che mi hanno parlato con grande entusiasmo di queste apparizioni e molte di loro si sono meravigliate perché io, a Medjugorje, non ci sono ancora andato e non sono nemmeno troppo entusiasta di questo fenomeno, anche se genera conversioni e ritorni alla fede. Più volte ho confessato il mio scetticismo verso queste rivelazioni ma soprattutto ho confessato di non sentire l’esigenza di fare questa esperienza perché quello che Gesù e la tradizione cristiana mi hanno donato mi è più che sufficiente per credere. Che la Madonna sia apparsa e continui ad apparire credo che nessuno lo possa mai affermare con assoluta certezza, neppure i presunti veggenti, però se tanta gente trova in quel luogo aspro e remoto la testimonianza di fede di tanti credenti e si sente spinta a Dio, il fatto che ne possa beneficiare mi pare sia già un dono del Cielo. Che poi i veggenti vedano o credano di vedere la Madonna per me non ha nessuna importanza. L’unica cosa di cui sono preoccupato è che qualcuno, soprattutto i veggenti o la Chiesa, trasformi l’evento in un business.

Io comunque ribadisco sommessamente che sono scettico per natura, che i discorsi e i messaggi attribuiti alla Madonna sono abbastanza smorti, scontati e ripetitivi: dalla Madonna mi aspetterei qualcosa di più.

La scoperta di una ricchezza che non avevo valutato fino in fondo

Moltissimi anni fa ho letto, non so più dove, un articolo di un famoso scrittore fiorentino: Piero Bargellini. Ho conosciuto e letto con tanta ammirazione gli scritti di questo autore cattolico durante la mia adolescenza. Bargellini mi piaceva non solamente perché affrontava tematiche che mi erano quanto mai care durante i miei primi anni di liceo, trascorsi in seminario per prepararmi al sacerdozio, ma anche per il suo stile fresco, scorrevole, pieno di incanto e di poesia. A mio parere Bargellini ha attinto alla sorgente del Poverello di Assisi per la sua lettura degli eventi e al Beato Angelico nel dare soavità ai suoi scritti.

Ricordo un pezzo, letto non so più dove, che aveva come titolo “Le vecchine delle nostre Chiese” e con il quale Bargellini ha tratteggiato, con la tecnica di un delicatissimo acquarello, le vecchie signore tanto devote che normalmente frequentavano le nostre Chiese. Lo scritto di Bargellini ha fatto emergere dai miei ricordi i volti e i comportamenti di quelle vecchiette in scialle nero, sempre presenti ad ogni triduo e ad ogni novena, intente talora ad accendere una candela davanti al Santo preferito, talaltra a far scorrere tra le dita i grani del rosario, confidenti affettuose del parroco e talvolta scandalizzate dal modo di vestire e di comportarsi delle ragazze del loro tempo.

Anch’io, in tutte le chiese in cui ho prestato il mio servizio, ho conosciuto queste devote che non mancavano mai alle Messe feriali, al rosario e ai sacri riti e che talvolta ho avuto l’impudenza di definire bigotte. Ora però, che almeno nella mia “cattedrale tra i cipressi”, un po’ alla volta esse sono venute meno e che mi ritrovo a celebrare i funerali spesso con la presenza dei soli parenti dei defunti invitati a partecipare al rito di suffragio con lettera personale, rimpiango queste care anziane, che ne sapevano poco di teologia, ma conoscevano però quasi tutto di Gesù, della Madonna, di Santa Rita, di Sant’Antonio e di Padre Pio; senza di loro la chiesa mi pare più vuota, più solitaria e meno viva, tanto che ho deciso di fare un appello alle mie coetanee: “Non lasciatemi solo ma restatemi accanto “vecchine” care, almeno noi vecchi rimaniamo accanto al Signore”.

Su questo argomento la penso assolutamente come don Roberto

Un paio di settimane fa un giornalista della “Nuova Venezia”, che dimostra di leggere con attenzione e profitto “Proposta” – il periodico della parrocchia di Chirignago dove è parroco mio fratello don Roberto – e L’Incontro – il periodico dei Centri Don Vecchi – ha notato una qualche divergenza fra me e mio fratello circa l’assistenza ai poveri e, sfruttando questa dialettica tra i due fratelli preti, ha tratto un pezzo per il suo giornale.

Assolutamente niente di grave anzi un confronto che non può che risultare positivo. A questo riguardo tantissime volte ho scritto che io ammiro, anzi sono entusiasta della prosa di don Roberto, prosa che riconosco immediata, scorrevole ed incisiva mentre sono meno contento del mio modo di scrivere che sta diventando sempre più prolisso ed aggrovigliato. La prova della mia ammirazione per lo stile degli scritti di don Roberto sono gli articoli che spesso ritaglio dal periodico di Chirignago per riportarli su L’Incontro perché ritengo opportuno fare da cassa di risonanza coinvolgendo i nostri lettori che ormai hanno raggiunto un numero veramente considerevole.

Coerente con questo discorso, avendo appena letto un corsivo sulla famiglia concepita cristianamente e sulla “zizzania” che “l’uomo nemico” semina di soppiatto, credo opportuno pubblicare il pezzo di “Proposta” affermando che condivido totalmente il discorso in tutti i suoi passaggi anzi ne sottolineo con decisione e convinzione la tesi di fondo. Eccovi quindi l’articolo di don Roberto.

NON RINUNCEREMO
In questi giorni, a Roma, si è svolta una manifestazione per ribadire i valori della famiglia naturale come viene proposta dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione e dalla fede cattolica, e che ci viene continuamente ricordata da Papa Francesco.
A questo modello di famiglia non rinunceremo, e continueremo a chiamare le cose con il loro nome. Non parleremo di genitore uno e di genitore due, ma diremo Papà e Mamma, come da sempre si è fatto. E sia dall’altare che, nelle aule di catechismo riproporremo ciò che riteniamo sia giusto a prescindere da quello che si dirà attorno a noi. Come per tantissimi altri valori è inevitabile che a difenderli e a riproporli sia la Chiesa. E se per far questo dovrà subire minacce o persecuzioni, vorrà dire che anche a noi sarà chiesto e dato di soffrire qualcosa per la verità. Quanti nostri fratelli in tante parti del mondo arrischiano continuamente la vita per non abbandonare la fede. E perché noi dovremmo essere esentati da questa fatica? Ma non subiremo passivamente: occorre contestare questo modo di far politica insinuando veleni i cui risultati scopriremo (come avviene per l’inquinamento) quando sarà quasi impossibile rimediare. Faccio una proposta ai nostri vescovi: più nessun zucchetto viola o rosso alle tante manifestazioni, inaugurazioni, concerti ecc. Sarà poco, ma sarà un segno. E non è detto che il poco sia inutile. La bocciatura del dottor Casson è dovuta a molti motivi, ma più di qualcuno, che non conta niente, nell’esprimere il voto s’è ricordato di come la pensa a proposito di queste cose. E ne ha tenuto, giustamente, conto.

don Roberto Trevisiol

La lezione di Mastroianni

La settimana scorsa ho confidato a voi amici che ho rivisto ancora una volta, non solo volentieri e con piacere, il film “Don Camillo” ma che mi hanno anche fatto bene spiritualmente i dialoghi confidenziali tra quel parroco particolare e il Cristo partecipe delle vicende del suo discepolo e ministro.

I preti oggi predicano molto però, a causa dei loro impegni pastorali, hanno poche occasioni, di ascoltare le prediche altrui anche se ne avrebbero molto bisogno. Nostro Signore, ben consapevole di tutto questo, pare abbia usato uno strumento singolare, quale è il film di Peppone e Don Camillo, per farmi comprendere che il prete deve avere un dialogo costante e vero con il suo Maestro, dialogo che dovrebbe avvenire durante la preghiera ufficiale che però, in realtà, spesso genera l’effetto di un anestetico.

Tempo fa ho detto che il buon Dio adopera la mano “sinistra” con la stessa destrezza ed efficacia con cui adopera la “destra”, ossia fuori dalla metafora spesso ci parla, ci consiglia e ci ammonisce non solamente dal confessionale, dal pulpito e dall’altare ma anche attraverso alcuni film come quello trasmesso qualche sera fa da “Rai Storia” il cui protagonista era Mastroianni.

Molte volte ho ribadito che provo un’assoluta allergia nei riguardi della produzione televisiva attuale, mi annoiano, mi infastidiscono e mi schifano certe pellicole dolciastre così come quelle violente in cui non avverto poesia, autenticità e problematiche vere affrontate da attori capaci. Un paio di giorni fa ho capito, fin dalle prime inquadrature, che il film nel quale mi ero imbattuto valeva la pena di essere visto. Le immagini ricche di poesia, la bravura autentica di Mastroianni come attore protagonista e il tema trattato mi hanno convinto che meritassero l’impegno di un’ora abbondante del mio dopo cena.

Nel film Mastroianni, che interpreta il ruolo di un giornalista colto interessato alla letteratura, incontra un giovane di talento legato sentimentalmente ad una ragazza impegnata politicamente contro la dittatura di Salazar in Portogallo. Il giornalista si lascia coinvolgere così profondamente da questo problema sociale da pagare la sua partecipazione con l’intervento della polizia segreta che però non riesce ad impedirgli di far pubblicare un “pezzo” forte contro il regime. Il film trasmette un messaggio pregnante: nessuno può appartarsi e non partecipare ai problemi sociali del proprio Paese. Quando è apparsa sullo schermo la fatidica parola “fine” mi sono augurato che moltissimi concittadini avessero visto questa pellicola.

Povero Papa!

La popolarità, per il modo di offrirsi del nostro Sommo Pontefice e per la sua linea pastorale, è veramente alle stelle; non passa settimana senza che Piazza San Pietro si riempia come un uovo e i mass-media facciano a gara nell’informare sulle iniziative evangeliche di Papa Francesco.

Anch’io seguo con ammirazione, orgoglio ed affetto filiale le parole e le scelte di Papa Francesco; talvolta mi preoccupo per la sua incolumità perché il nostro mondo pare sempre più pieno di esaltati e di fanatici, tal’altra mi preoccupo per la tenuta della sua salute, sia per i precedenti, sia per la sua età e sia per il suo donarsi da mane a sera senza risparmiarsi. Talvolta mi addolora che certe frange bigotte e oltranziste manifestino riserve, che anche se non definirei eclatanti comunque si fanno sentire; che molti cristiani pur plaudendolo ed osannandolo in realtà continuino a vivere la loro fede alla vecchia maniera, paghi di qualche pratica di pietà e di qualche rito, senza seguire però l’esempio del nostro Papa che persegue un cristianesimo da Vangelo.

Tutto sommato mi pare che molti cristiani, preti e vescovi preferiscano il solito trantran piuttosto che imbarcarsi nel tentativo faticoso di diventare il “rifugio” dei poveri, degli ultimi, dei disperati e degli emarginati. Ora poi, specie in queste due ultime settimane, mi crea una certa angoscia il sapere che Papa Francesco ha sul suo tavolo due “brutte gatte da pelare”, non solo perché di difficile soluzione ma anche perché qualunque sarà la scelta che egli farà si ritroverà con mezza Chiesa scontenta e probabilmente anche contro.

Mi riferisco alle apparizioni di Medjugorje e ai problemi relativi alla famiglia. La Chiesa ormai non può più evitare di prendere posizione ma qualsiasi scelta faccia temo che non sarà compresa né dal mondo tradizionalista, ingessato nella tradizione, né da quello che preme per camminare al passo con i tempi, che chiede risposte vere e non solo formali.

Qualunque passo in avanti il Papa farà di certo non basterà né all’una né all’altra parte. Ricordo che un bravissimo giornalista cristiano intitolò la sua biografia di Paolo VI: “Le chiavi pesanti”. Paolo VI dovette veramente portare sulle spalle le chiavi pesanti di San Pietro ma quelle ora appaiono leggerissime se confrontate con quelle che oggi Papa Francesco deve sobbarcarsi di portare.

La guerra, un’infamia tragica e vergognosa

Mentre nel passato consideravo il tempo del dopo cena come la terza parte della mia giornata lavorativa ora, finita la parca cena che consumo con suor Teresa, che giustamente mi vuole tenere a dieta, mi metto davanti al televisore, pigio svogliatamente i tasti del telecomando ma ben presto inizio a sonnecchiare e poi mi addormento sognando pressappoco quello che il programma mi propone. Tante volte ho tentato di suddividere la giornata come saggiamente prescriveva ai suoi monaci san Benedetto da Norcia: otto ore per lo spirito, otto per il lavoro e otto per il riposo, non sempre però ci sono riuscito e adesso i miei orari sono proprio sballati ma non posso fare altro che sperare che lo siano prevalentemente per l’età e non per il disordine e per la pigrizia.

Tornando poi alla televisione del dopo cena, che io mi illudo di considerare ricreazione, finisco quasi sempre per sintonizzarmi sul canale 54, il canale di Rai Storia: non è il canale che prediligo ma solamente quello che mi dà meno fastidio e che rifiuto di meno. Il guaio è che a causa del centenario della Prima Guerra Mondiale anche Rai Storia ci propina la guerra in tutte le salse.

Antimilitarista quale sono, dopo la breve stagione in cui sono stato balilla, con il passare degli anni sono diventato sempre più nemico giurato della retorica patriottarda, delle divise, delle medaglie, dell’esercito, delle armi e di ogni esaltazione della violenza. Per me chi impugna le armi, ma soprattutto chi le fa impugnare, è solamente un assassino ed un omicida senza alcuna attenuante di sorta. Mi fa rivoltare lo stomaco e mi avvilisce chi vuole avere ragione non con argomentazioni dialettiche ma ricorrendo alla forza. Non resisto più a vedere gente che si “spara addosso” senza conoscersi e senza avere alcun motivo personale per farlo. La celebrazione del centenario di uno degli eventi più nefasti dell’inizio del secolo scorso mi toglie serenità e soprattutto fiducia in chi conduce l’umanità ad eventi tanto tragici.

La quinta età

Non so quando sia nata la moda di catalogare gli uomini in funzione degli anni comunque so che almeno da quasi mezzo secolo si dice che gli anziani fanno parte della terza età. I sociologhi, i politici e i medici hanno fatto studi ed hanno tentato di offrire risposte specifiche alle esigenze dei cittadini di età compresa tra i sessanta e i settantacinque anni.

Da vent’anni a questa parte però essendosi allungata la vita, soprattutto nei Paesi della vecchia Europa, si è cominciato a parlare sempre più frequentemente di quarta età che, a parere degli esperti, va dai settantacinque ai novant’anni circa. Ormai c’è anche una letteratura particolare che si interessa di questa nuova categoria di anziani e ne sappiamo qualcosa anche noi dei Don Vecchi che abbiamo accolto, nella quinta struttura, anziani “autosufficienti” ultranovantenni.

Sono convinto però che la catalogazione non sia ancora terminata e spererei proprio di “passare alla storia” come il primo che si è occupato delle problematiche della quinta età, periodo della vita di un uomo non ancora esplorato compiutamente. Come esploratore di questo settore di vita voglio offrire qualche testimonianza di persone che hanno già passato la soglia dei cento anni. La signora Gianna Gardenal, residente al Don Vecchi con alle spalle cento anni a gennaio, mi ha confidato: “Io sono pronta alla chiamata ma avendo molta pazienza sono disposta ad aspettare ancora tranquillamente”. Ad un vecchio prete, che è a mezzo servizio per l’età, il nipote ha suggerito: “Zio non continuare ad andare troppo in chiesa perché a nostro Signore, vedendoti, non venga il desiderio di chiamarti in cielo”. Una terza centenaria ha confidato al figlio: “Io non ho troppa fretta, aspetto volentieri”. Il Centro Studi della Fondazione si è già messo all’opera per trovare soluzioni adeguate.

“Il mio Gesù”

L’altra sera stavo sonnecchiando davanti al televisore quando mi è giunta una telefonata da Luciana Mazzer, la “pungente” collaboratrice de “L’incontro”, la quale si è scusata perché temeva che anch’io stessi vedendo “Don Camillo”. Per questo motivo la telefonata è stata brevissima e per lo stesso motivo ho immediatamente sintonizzato il televisore sul canale che stava trasmettendo “Don Camillo”. Il film di Don Camillo “esiliato”, l’avevo visto parecchie altre volte, ma l’ho rivisto volentieri una volta ancora considerando che la nostra televisione è diventata una “discarica” e difficilmente manda in onda programmi interessanti e educativi.

L’ulteriore visione del film mi impone di spedire in cielo una e-mail di ringraziamento a Giovannino Guareschi, il “genitore” di Don Camillo, di Peppone e delle storie della bassa. Questa volta ho sentito il bisogno di ringraziare il baffuto autore dei racconti che trattano delle vicende politiche e comportamentali dell’Italia dell’immediato dopoguerra, soprattutto per il particolare rapporto del nerboruto prete di Brescello con il Cristo della sua chiesa.

Io devo molta riconoscenza a Don Camillo per i colloqui con il “suo Gesù”. Porto nel cuore le battute furbastre del parroco anticomunista e le osservazioni pacate, bonarie, affettuose e calde del suo Cristo che, ogni volta, lo riportava sui giusti binari della vita. Don Camillo in verità mi ha aiutato a scoprire e a dialogare con il “mio Gesù” della chiesa di Carpenedo. Il mio Gesù, a differenza di quello di don Camillo, veste panni gotici, io, per amor di patria, l’ho fatto risalire al milleduecento e alla bottega di Paolo Veneziano consapevole di commettere un falso storico. Il mio Cristo è stato con me sempre più preciso, meno accomodante e più fedele al suo Vangelo, confesso però che mi ha sempre voluto bene, mi ha confortato e spronato affinché non mi scoraggiassi ed io ho ricambiato, a modo mio, questi sentimenti di tutto cuore. Quando sono “andato in esilio”, come don Camillo, l’ho portato con me perché continuasse ad aiutarmi.

Ho parlato parecchie volte con la mia gente di questo rapporto con il Cristo ed ho scoperto che anche una vecchia maestra in pensione veniva, quando la chiesa era deserta, per non fare anticamera e per parlare con Cristo quando Egli non era impegnato a rispondere ad una moltitudine di fedeli.

Al sindaco Brugnaro

Brugnaro, prima che si offrisse per fare il sindaco di Venezia, non sapevo neppure chi fosse, non conoscevo di lui altro se non il tentativo di comperare l’isola di Poveglia. L’avevo ammirato per questa sua intenzione perché avrebbe finalmente liberato l’isoletta dalle pantegane, dalla gramigna e dal degrado a cui invece la vorrebbe destinare il comitato dei veneziani che non si sono ancora accorti che la Serenissima è morta da più di tre secoli.

Ho incontrato Brugnaro al Don Vecchi un mese prima delle elezioni. Nell’incontro privato che ho avuto con lui gli ho chiesto solamente di sviluppare il dialogo con il “privato sociale”, la realtà più libera, più coraggiosa, più generosa, più intraprendete e disinteressata che esista nella nostra città. Il venerdì antecedente le elezioni gli ho scritto una lettera personale per ringraziarlo di aver offerto alcuni anni della sua vita alla collettività confermandogli che se anche non fosse stato eletto gli sarei stato comunque riconoscente perché questa sua offerta rappresentava già una bella testimonianza di altruismo e di amore per la propria città.

In precedenza avevo scritto su “L’incontro” che sognavo che il Patriarca, accompagnato dal clero e dal popolo, chiedesse ad un imprenditore di fare questa offerta a Venezia. Il Signore mi ha esaudito anche se il Patriarca, a cui non avevo fatto conoscere il mio sogno, non ha fatto questa solenne e pubblica richiesta.

Il lunedì dopo le elezioni ho scritto una seconda lettera personale a Luigi Brugnaro appena eletto manifestandogli la mia ammirazione e la mia gratitudine ma dicendogli, in maniera franca, che avevo votato per lui e non per il centro destra o peggio ancora per Brunetta, Berlusconi, Salvini e compagnia cantante. Ho concluso la lettera chiedendogli che qualora riscontrasse di non riuscire a mantenersi libero dalla tutela di quei soggetti preferirei mille volte che se ne tornasse a casa piuttosto che subire l’influenza di questi cattivi compagni.

Quando per la prima volta ho votato per il PD, tra i cui antenati ci furono Pajetta, Berlinguer, Ingrao e Napolitano, ho inviato un messaggio a mio padre, morto da vent’anni, democristiano purosangue: “Papà sappi che ho votato Renzi, lo scout di Firenze, ma non mi sono macchiato l’anima e non ti ho tradito con quelli di Botteghe Oscure”.

Finalmente ho capito!

San Paolo è certamente uno dei testimoni più coerenti dell’adesione al progetto e alle proposte offerte da Gesù ai suoi discepoli. Ammiro San Paolo, perché dopo essere stato “folgorato” sulla strada di Damasco, seguì Cristo con un coraggio, una coerenza ed una dedizione illimitati ed assoluti. Oltretutto proprio questa mattina ho letto una volta ancora la lunghissima litania di prove e di sofferenze che egli afferma di aver subito a causa della sua fede e l’orgoglio con il quale testimonia il prezzo pagato per rimanere coerente alla sua scelta di seguire con i fatti il Maestro e Salvatore che ha incontrato.

Ammiro San Paolo anche per la lucidità e la coerenza con le quali motiva la sua scelta cristiana. L’ammirazione per le affermazioni con le quali san Paolo motiva la sua fede si aggiunge al fatto che proprio questa mattina mi pare di aver compreso l’elemento portante della sua fede e della sua predicazione. Mi spiace di essere approdato tanto tardi a questa scoperta, sono comunque contento d’averla fatta. San Paolo, rivolgendosi ad una comunità cristiana di una città di cui non ricordo il nome, dice in maniera scarna ma assolutamente chiara: “Io non ho altro da annunciarvi e da donarvi se non Gesù Cristo e Cristo crocefisso”. Stop! Una predica, una confessione breve ma essenziale: Cristo, con la sua vita, la sua umanità e il suo messaggio è la ricchezza vera ed incomparabile del cristiano ed è la realtà più bella e risolutiva che io possa offrire ai miei concittadini.

Questa mattina, rivolgendomi alla piccola folla venuta nella mia chiesa per dare l’ultimo saluto ad un loro caro scomparso, ho detto come san Paolo “Io non posso farvi un dono più grande, non posso offrirvi altro in questo momento così buio e amaro della vostra vita se non Cristo, il Cristo che ha patito ed è morto per noi, assolutamente convinto che chi accetta Gesù possiede il miglior sostegno per affrontare tutti i problemi della vita e accettare l’ineluttabilità della morte”.

Un consiglio a Papa Francesco

Il Santo Padre non mi ha ancora concesso il titolo di Monsignore e non mi ha nemmeno nominato suo consigliere per i problemi dell’Italia. Io però, senza nomina e senza stipendio, ho tentato di fargli pervenire qualche suggerimento conoscendo, forse meglio di lui, la mentalità e i comportamenti degli italiani. Faccio questa breve premessa perché sento il bisogno e il dovere di ritornare sulle insinuazioni volgari, irrispettose meschine del segretario della Lega e aspirante leader della destra del nostro Paese.

Il Papa giustamente ci ha ricordato che non possiamo “voltarci dall’altra parte”, che buttare a mare povera gente che tenta di fuggire tra mille pericoli da Paesi dominati dagli stenti e dalla guerra è peccato! “E che cosa avrebbe dovuto dire il Papa di diverso, signor Salvini?”. Non ti hanno insegnato che il Papa rappresenta quel Gesù che ha affermato in maniera perentoria: “Ama il prossimo tuo come te stesso”? Massima di cui benefici anche tu perché in caso contrario ti dovrebbero incriminare e rinchiudere in galera per la tua volgarità e il tuo pescare nel torbido. Il Papa poi ha anche invitato frati, monache, diocesi e quant’altri a mettere a disposizione dei profughi: seminari, conventi, monasteri, abbazie ormai vuote.

Purtroppo il Papa, anche per i preti, i frati e le monache è “il dolce Cristo in terra” finché parla degli Angeli e del Paradiso, però quando scende nel concreto e tocca i lori interessi neanche i suoi “figli” lo ascoltano più di tanto. Accettano volentieri i profughi solamente le cooperative rosse o bianche perché questi disperati costituiscono un business e purtroppo anche le organizzazioni cattoliche prestano il fianco a Salvini.

Qualche settimana fa mi sono azzardato a suggerire alle decine di migliaia di parrocchie d’Italia di mettere a disposizione almeno un appartamentino per ospitare la famiglia di un profugo aiutandola così ad integrarsi più facilmente nel nostro tessuto sociale togliendo a Salvini il facile e demagogico pretesto di far leva sull’egoismo dei benpensanti per trarne vantaggi di ordine politico. Ora mi permetto di suggerire rispettosamente al Papa: “Dia quest’ordine!” affinché poi i cristiani testimonino finalmente con i fatti la loro fede.

L’ultimo tribuno

In questi giorni in cui le esternazioni di Salvini, il nuovo tribuno della Lega, hanno destato sorpresa, indignazione e ribrezzo tra credenti e non credenti, cattolici e laici, mi è tornata alla mente una battuta ascoltata molti anni fa.

Due vecchi amici d’infanzia si sono ritrovati dopo molto tempo e ciascuno pone all’altro domande, proprie di chi non si incontra da tanti anni. Il primo chiede al secondo: “Cosa stai facendo di bello?” e questi risponde che si occupa di circhi equestri, al che l’altro si sente in dovere di chiedere: “Come mai ti occupi di una attività che è in assoluto declino e piace solo a persone dai gusti grossolani e senza interessi culturali?”. Il secondo allora risponde: “Tu quale pensi sia la percentuale di cittadini intelligenti, dai gusti raffinati, che amano crescere culturalmente e cercare risposte ai grandi e difficili interrogativi della vita?”. Questi in maniera assennata gli risponde: “Suppongo sia il venti, trenta per cento!”. Di rimando l’altro ribatte: “Allora io mi rivolgo all’altro settanta, ottanta per cento di poveracci”.

Salvini, che di scrupoli, di preoccupazioni morali e civili pare ne abbia abbastanza poche, credo stia anche lui rivolgendosi da furbastro, disinvolto e interessato solamente al risultato immediato, a quella parte del Paese egoista, poco preoccupata dei valori, facilmente vulnerabile per mancanza di sensibilità civica e morale ottenendo così una consistente risposta a livello elettorale. Vorrei però ricordare ai miei concittadini che i maestri di Salvini: Mussolini, Stalin, Hitler, Franco, Ceausescu e compagnia hanno ottenuto adesioni ben più consistenti di quelle di Salvini stesso ma tutti sappiamo con quali risultati! A Salvini ricordo poi l’ammonimento popolare tutt’ora assai valido: “Scherza con i fanti e lascia stare i santi” se vuoi avere una vita lunga e benedetta.

La mia rosa blu

Chi legge frequentemente L’Incontro è certamente a conoscenza che, su richiesta della dottoressa Federica Causin, ho scritto la prefazione del suo ultimo volume. Dopo averci pensato un po’ ho ritenuto di rifarmi ad una bellissima poesia di Gerda Klein, poesia che io ricordo assai sommariamente dal titolo “La rosa blu”, titolo che una delle più vecchie cooperative di disabili di Mestre ha adottato come nome fin alla sua nascita.

L’autrice di questo volume è una mia coinquilina del Centro Don Vecchi 2, abita nella mia stessa “strada”, collabora con “L’incontro” e gode di tutta la mia stima e del mio profondo affetto. La dottoressa Causin, disabile dalla nascita, si è laureata in lingue a Ca’ Foscari, lavora presso un’azienda di Marcon e vive un’intensa vita sociale portando avanti con intelligenza e decisione le problematiche che sono proprie di queste persone che, soffrendo di menomazioni di carattere fisico, cercano pian piano di inserirsi nel tessuto sociale rivendicando i loro diritti e offrendo generosamente il loro prezioso contributo.

Ho scelto come titolo della prefazione “La mia rosa blu” perché la conoscenza e il rapporto quotidiano con questa giovane donna mi ha reso ancora più cosciente che queste creature non devono assolutamente essere considerate come nel passato uno “scarto” della nostra società ma perle preziose che ci aiutano a guardare con occhi nuovi tutte le manifestazioni di vita che incontriamo ogni giorno. Probabilmente, a causa di questa prefazione, la signora Raffaella Marini Franchin, che da una vita si batte con un coraggio ed una generosità infinita per questa nobile causa, mi ha inviato il testo originale della poesia che è davvero splendido. Neanche poi a farlo apposta in un periodico dei padri del don Orione mi è capitato di trovare la fotografia di una giovane suora che con un sorriso, una bellezza ed una tenerezza soave tiene in braccio un bimbo Down e subito mi è venuto da pensare che se la disabilità non servisse ad altro che a suscitare un amore così intenso, dolce e luminoso avrebbe già donato alla società qualcosa di veramente bello ed incomparabilmente prezioso.