Tutto si paga

Moltissimi anni fa lessi un romanzo ambientato ai tempi della rivoluzione francese, era un romanzo a tesi che voleva dimostrare che, a chi si macchia di gravi cattiverie, prima o poi la Provvidenza presenta il conto per la sua meschinità. Confesso che la lettura di questo volume, tanto semplice da sembrare perfino ingenuo, mi ha fatto bene e mi ha conficcato una spina nel cuore che si fa sentire ogni qualvolta sono tentato di fare qualcosa di non troppo nobile. Il titolo di questo romanzo però è significativo anche da un altro punto di vista perché afferma che ogni gratificazione ha anche essa un suo costo che prima o poi devi pagare e tanto più è consistente il beneficio tanto più alto è il prezzo.

In tempi ormai lontani chiesi a Monsignor Vecchi di poter acquistare una veste liturgica bella ma che costasse poco. Monsignore, con il tono sapienziale che talvolta usava con me quando voleva trasmettermi una lezione di vita, mi rispose: “Ricordati Armando che tutto quello che è bello, vero, onesto, nobile costa sempre caro e tanto più è valido tanto maggiore è il prezzo!”. Qualche giorno fa ho confidato agli amici de “L’incontro” che in città mi sento benvoluto perché spesso fortunatamente ricevo attestazioni di stima e di affetto soprattutto per le mie “imprese solidali”, per la mia franchezza e per la libertà con cui esprimo le mie opinioni: tutto questo mi fa molto bene.

Sento però il bisogno di confidare ai miei amici e ai miei generosi estimatori: “Sappiate che le mie imprese, il mio stile di vita, le mie scelte mi sono costate sempre care e talvolta molto care!”. L’aver scelto come motto quello che caratterizzò la vita di don Primo Mazzolari, che io ritengo uno dei migliori maestri di vita: “Libero e fedele”, mi è costato molto e sia i miei confratelli che i miei colleghi e talvolta i miei avversari, mi hanno fatto pagare un prezzo, dal mio punto di vista, esageratamente elevato!

Don Chisciotte

Normalmente quando qualcuno persegue obiettivi difficili o umanamente impossibili nel gergo corrente viene definito un Don Chisciotte. Quasi sempre si utilizza questo termine con una accentuata ironia e con un atteggiamento di commiserazione come se si trattasse di un personaggio fuori dal mondo, con la testa tra le nuvole e privo di un sano realismo. Io però sono convinto che in realtà questo comportamento spesso sia un comodo modo per auto assolversi, per giustificare la propria pigrizia o la propria ignavia. Con questo metro di giudizio tutti i profeti, tutti i testimoni, tutti martiri che hanno impegnato e impegnano la propria vita inseguendo qualche alto ideale e tutti gli uomini che perseguono le più alte e le più nobili utopie dovrebbero essere definiti come dei poveri Don Chisciotte.

Ho già accennato che qualche giorno fa mi sono lasciato vincere da un senso di nostalgia e di amarcord andando a scartabellare nell’armadio in cui ho raccolto gli scritti che documentano tutta la mia attività pastorale del passato recente e lontano. Ho curiosato in particolare in due raccolte: “Radio Carpini attualità” nei cui volumi sono raccolti i programmi di Radio Carpini, l’emittente che ha impegnato me ed un esercito di duecento volontari per una ventina d’anni. La seconda raccolta, molto più corposa, è quella relativa al mensile Carpinetum che ha tenuto aperto un dialogo con tutte le famiglie della comunità in cui per trentacinque anni sono stato parroco. Qualcuno probabilmente mi definirà un Don Chisciotte per il mio modo di proporre il messaggio cristiano ma sfido chiunque a trovare mezzi più idonei.

Premesso che il numero di concittadini che vengono in chiesa ad ascoltare i sermoni di noi preti non supera mai il dieci-quindici per cento della popolazione, come pensano i miei colleghi di raggiungere l’altro ottantacinque-novanta per cento? Radio Carpini è stata un’impresa che avrebbe avuto bisogno del coinvolgimento dell’intera diocesi, essa è fallita perché pur potendo contare sulla collaborazione di molti volontari ha incontrato l’indifferenza pressoché assoluta di tutta la realtà ecclesiale mentre la rivista, che mensilmente entrava in ogni famiglia, è morta quando ho lasciato la parrocchia.

Sto ancora domandandomi se sono stato davvero un Don Chisciotte o se invece non ho semplicemente tentato una soluzione difficile, però forse l’unica percorribile, per raggiungere con la proposta cristiana ogni persona. Spero sempre di scoprire all’orizzonte soluzioni alternative migliori ma da una dozzina di anni non ne ho avuto neanche il più piccolo riscontro.

Le decisioni di don Roberto

Don Roberto, parroco di Chirignago e mio fratello; ha vent’anni meno di me, però ho notato, leggendo il suo settimanale, che ha iniziato un po’ troppo presto il vezzo di considerarsi anziano. La gente non lo perdona neppure a me questo vezzo, figurarsi se lo concede a lui che ha ancora davanti a sé almeno un quarto di secolo di vita in parrocchia.

Nell’ultimo numero di “Proposta”, il periodico della sua comunità, scrive che hanno chiuso l’anno pastorale e che ora sta apprestandosi a mettere in atto la pastorale estiva. Ho letto con piacere che ha mantenuto invariato l’orario delle quattro celebrazioni domenicali nonostante sia azzoppato in quanto come aiuto ha soltanto don Andrea a mezzo servizio perché inspiegabilmente i superiori lo hanno incaricato di dedicare il resto del suo tempo alla curia.

Anch’io nella mia vita di parroco mi sono sempre dovuto arrabattare celebrando oltretutto un numero quasi doppio di messe festive. Ora però leggo sui bollettini parrocchiali della nostra città che il numero delle messe viene ridotto non solo durate l’estate ma, anche d’inverno; in più di una parrocchia alla domenica se ne celebra una soltanto. Mi viene da pensare che alcuni preti attualmente siano tentati di rifarsi più ai diritti sindacali o all’opinione pubblica corrente che all’esempio di Cristo.

Un’anziana signora, che segue le nostre iniziative, mi ha quasi rimproverato perché sono molto critico con le vacanze dei preti: cosa quanto mai vera. Sono riuscito a trattenermi ma mi pizzicava la lingua per chiederle perché non si fa portare in vacanza dal suo parroco? Ho avuto quasi la sensazione che don Roberto, quando ha affermato che da decenni ha impostato la pastorale estiva sui campi in montagna, si sia sentito in obbligo di giustificarsi con i suoi parrocchiani perché non organizza in parrocchia il Grest (un paio di settimane di vacanza guidata per i ragazzi). Penso di poterlo “assolvere” affermando per esperienza diretta che vivere un paio di settimane in un campo scout, sotto le tende o in un campeggio con i ragazzi e i giovani della parrocchia, immersi nella natura e a stretto contatto con il proprio prete, è infinitamente più incisivo di quanto non lo siano le poche ore passate nello scontato ed arido ambiente cittadino! Bene il Grest ma meglio ancora i campi scuola in montagna!

Don Armando Berna

Fra la posta che mi hanno consegnato questa mattina c’era anche una busta abbastanza rigonfia. L’ho aperta con un pizzico di curiosità anche a causa del suo spessore e vi ho trovato due fogli con una corposa testimonianza su don Armando Berna, il prete dell’Onarmo, che ha speso l’intera sua vita per l’evangelizzazione degli operai di Porto Marghera e che fu poi il parroco della parrocchia di “Gesù Lavoratore” a Ca’ Emiliani.

La lettura del manoscritto e la fotocopia di un piccolo manifesto del 1965, che invita a celebrare il 48° anniversario della nascita di Porto Marghera e la festa dell’infiorata della statua della Madonna di Fatima, mi hanno indotto a ritornare alle vicende di mezzo secolo fa. Inizialmente sono stato tentato di pubblicare su “L’incontro” la testimonianza di questo ammiratore di Don Berna, il protagonista dei preti degli operai delle fabbriche di Marghera, poi, il fatto che il testo è sì denso di passione ma un po’ sconclusionato nella stesura e soprattutto privo di firma, mi ha indotto a metterlo da parte per ripensare ancora un po’ sull’opportunità di pubblicarlo.

Don Berna però merita un ricordo ed un ricordo significativo. Io porto ancora nel cuore una bella memoria di lui che per me è stato un prete vero, un prete con una grande passione per le anime. I miei rapporti con questo sacerdote, ben più vecchio di me, non sono stati molto profondi però hanno inciso decisamente sul mio animo. Ricordo un ritiro spirituale che egli ha tenuto in seminario. Non dimenticherò mai questo sacerdote che dialogava in maniera appassionata con Gesù tanto da bussare sulla porticina del tabernacolo quasi per farsi ascoltare meglio da Cristo! Lo ricordo quando con un gruppo della San Vincenzo abbiamo aperto un dopo scuola a Ca’ Emiliani e lui parve soffrire pensando che considerassimo la sua comunità un po’ degradata, evidentemente l’amore gliela faceva immaginare migliore. Ricordo quando mi mandarono a dirgli di non incoraggiare i suoi fedeli convinti che la Madonna della sua chiesa si muovesse. Don Armando Berna fu un uomo di fede, forse un po’ particolare, però l’amore per Cristo lo scuoteva nell’intimo del suo sentire ed operare. Mi auguro che ci sia qualcuno in grado di ricordare ai preti e ai fedeli di Mestre questa forte figura di sacerdote.

Un riferimento ideale

Una delle collaboratrici più dirette nella mia vita di vecchio prete è certamente suor Teresa, suora che appartiene alla minuscola comunità religiosa con la quale le suore di Nevers hanno tentato di tornare alle origini della loro congregazione destinando alla pastorale parrocchiale alcune delle loro consorelle. L’esperimento mi pare sia stato del tutto positivo.

Per almeno vent’anni suor Michela, la più anziana, si è dedicata con grande profitto all’insegnamento del catechismo, alla cura degli anziani e poiché non potevo contare su un sagrestano mi ha aiutato in occasione di funerali, battesimi e matrimoni.
Suor Teresa ha mantenuto economicamente la sua piccola comunità lavorando come infermiera in ospedale ed impegnando tutto il tempo libero con i chierichetti. Ricordo a questo proposito che per vent’anni abbiamo mantenuto il record italiano, e forse mondiale, con i nostri centodieci chierichetti. Si è dedicata anche alla cura della chiesa e l’ha fatto talmente bene da farla considerare da tutti la più bella della città.

Con il mio pensionamento queste due suore mi hanno seguito al Don Vecchi continuando a spendersi in questa nuova esperienza pastorale tutta da inventare. Ora suor Michela, ormai novantenne, ha dovuto arrendersi, anche se non completamente, perché continua a soffrire e a pregare per il “regno dei cieli” e suor Teresa, che non ama che si parli della sua età, continua la sua “battaglia” aiutando la consorella quasi inferma, interessandosi in maniera attiva della “cattedrale tra i cipressi”, ricoprendo il ruolo di presidente dell’associazione “Vestire gli ignudi”, impegnandosi come tappabuchi da mane a sera al Don Vecchi, curando i miei malanni, perché io sembro una solida “roccia” ma in realtà sono una roccia friabile e per evitare che mi sgretoli brontola da mattina a sera di non trascinare i piedi, di stare diritto, di non mangiare dolci, di non impegnarmi troppo, di guardarmi da chi non tiene conto della mia età, di chiudere la finestra, di rilassarmi e via di seguito!

Ho tentato più volte, e continuo a tentare, di ricordarle la mia data di nascita: 15 marzo 1929 e la mia volontà di compiere il mio dovere fino alla fine ma da quell’orecchio pare non ci senta proprio per nulla e così continua imperterrita con le sue prediche che sono più noiose di quelle dei preti. D’altronde quando penso a Nino Brunello, il maestro di violino, che a 97 anni suonati accompagna con la sua musica due volte alla settimana tutte le liturgie che celebro, come posso prendere in considerazione le lagne di questo “grillo parlante”?

L’annuario

Io faccio parte della Chiesa veneziana ma, un po’ per l’età ma soprattutto perché sono sempre stato allergico alle vicende della curia e del “palazzo”, vivo ai margini dell’attualità del patriarcato di Venezia. Le uniche notizie che lo riguardano le leggo su “Gente Veneta”, il settimanale della diocesi, e rarissime volte su “Il Gazzettino”, quotidiano locale che, a differenza di un tempo, interviene raramente sulle vicende della nostra comunità cristiana.

Questa premessa non significa che io non sia interessato e che non viva le problematiche della Chiesa a cui ho dedicato l’intera esistenza perchè talvolta il mio coinvolgimento è così profondo da farmi preoccupare e soffrire, nonostante ormai non abbia più alcuna responsabilità diretta in queste vicende. A testimonianza di questo, quando posso o riesco, in maniera attiva o passiva tento di mandare messaggi al “governo” della nostra comunità.

Ho fatto questa premessa perché questa mattina mi è giunto per posta “L’Annuario” della diocesi, un volume che informa minuziosamente su tutta “l’architettura “della nostra diocesi, tanto che una volta letto questo volume, la cui compilazione ha certamente richiesto tempo, fatica e denaro a chi lo ha compilato, si può avere una visione esauriente, dettagliata e pignola sull’organizzazione e sulla realtà della nostra diocesi. Confesso di aver speso più di un’oretta per trovare una risposta alla mia curiosità un pochino morbosa e confesso anche le conclusioni o meglio quali sono state le mie reazioni a caldo.

Primo: per dirla con Occhetto, che la nostra è una magnifica e perfetta “macchina da guerra”, un’organizzazione così perfetta con la quale sembrerebbe possibile convertire non solo il nostro pezzettino di Veneto ma il mondo intero!

Secondo: ho anche constatato con piacere che sono ricomparsi i titoli onorifici di Monsignore e simili, nonostante la passata burraschetta in cui sembrava fossero stati aboliti, burraschetta che evidentemente si è dissolta come una bolla di sapone. Sono comunque contento perché così sono ritornato ad essere uno dei pochi “soldati semplici” senza titoli e senza galloni e questo non è cosa da poco!

Il servizio

Ho già scritto più volte, che fino ad una ventina di anni fa, il volontariato, specie quello motivato dalla fede, era il fiore all’occhiello delle popolazioni del Triveneto. In questi ultimi anni però, anche se c’è stata una indubbia contrazione a livello quantitativo, esso regge ancora e bene.

Noi ad esempio per i molteplici settori nei quali è articolata l’attività a favore del prossimo possiamo contare su quasi trecento volontari: disponiamo di un buon numero di volontari che operano nel settore del Polo solidale, realtà che vive in profonda simbiosi con la Fondazione e comprende i magazzini indumenti, lo spaccio alimentare, il gran bazar, i magazzini dei mobili e dell’arredo casa, il chiosco per la frutta e verdura e il banco alimentare. Un altro buon numero di volontari, operando all’interno del Centro Don Vecchi, gestiscono: il bar e il servizio al senior restaurant, gli appuntamenti ricreativi culturali, la raccolta dei generi alimentari in scadenza, il ritiro quasi quotidiano delle paste da alcune pasticcerie mestrine, il ritiro dei mobili e dei vestiti, il coro che anima ogni settimana la liturgia sia al don Vecchi che nella chiesa del cimitero e il personale che collabora nella cattedrale tra i cipressi, scrivono, impaginano, stampano e distribuiscono il settimanale “L’Incontro” e organizzano le gite-pellegrinaggio.

L’attività del nostro volontariato è articolata, ordinata ed efficiente. Vorrei in questa occasione spendere qualche parole in più per due gruppetti i cui componenti, nella loro infanzia e giovinezza, hanno ricevuto una particolare educazione al servizio. Mi riferisco alla dozzina di vecchi capi scout (in pensione) che ogni lunedì stampano L’Incontro. È un vero spettacolo vedere questi piccoli scout, ormai pensionati e nonni, svolgere affiatati ed allegri la loro mezza giornata di servizio per la comunità. A questi si aggiungono anche i vecchi scout, una decina in tutto, che indossando il loro “glorioso” fazzolettone servono la “clientela” dello “spaccio solidale”. Tutti i volontari del Don Vecchi svolgono bene e serenamente il loro servizio ma i vecchi scout che hanno ricevuto un’educazione specifica lo fanno con un tocco di allegria e di cameratismo quanto mai simpatico.

Alternativa o complementare?

La celebrazione della festività del Corpus Domini di quest’anno, una volta ancora, ha scatenato nel mio animo un conflitto che ora, che la celebrazione di questa importante tappa della liturgia è passata, non ho ancora risolto.

Nel mio sermone avrei potuto battere il sentiero comodo ed assai semplice di un fervorino sull’opportunità di accostarsi frequentemente alla Comunione con consapevolezza, oppure insistere sulla presenza eucaristica e sull’opportunità di un dialogo con Cristo presente sotto le spoglie eucaristiche custodite nella nostra chiesa deserta e silenziosa. Invece no. Una volta ancora mi sono posto il problema se sia preferibile incontrare il Signore nell’Eucarestia, memoriale e segno del permanere di Cristo e del Suo messaggio tra gli uomini d’oggi, oppure cercarlo, incontrarlo ed accettare il Cristo quello incarnato nell’umanità che è presente nel dramma degli uomini del nostro tempo bisognosi di amore e di solidarietà.

Le motivazioni del testo sacro sono ben chiare e presenti in entrambe le opzioni. Nella prima, la ricerca del Cristo s’ispira a quanto detto da Gesù durante l’ultima cena quando mostrando il pane e il calice di vino disse ai suoi discepoli: “Prendete e mangiatene tutti questo è il mio corpo, prendete e bevetene tutti questo è il calice del mio sangue, fate questo in memoria di me perché io continui a essere presente anche materialmente tra di voi!”. Nella seconda, invece, la ricerca si ispira a quanto affermato da Gesù stesso in altre occasioni: “Avevo fame, avevo sete, ero ignudo, ero ammalato, ero carcerato e tu mi sei stato vicino e solidale” e poi: “Quando avrete avuto pietà di uno di questi miei fratelli più fragili e bisognosi l’avrete fatto a me!”. Penso che Gesù abbia voluto evidenziare con le sue parole due aspetti del medesimo insegnamento affinché non riducessimo il suo messaggio esclusivamente ad un rigido rispetto della liturgia ed io anche quest’anno ho preferito imboccare la strada della concretezza anche se non lascia spazio ad evasioni misticheggianti!

La dolcezza della vecchiaia

Un tempo i nostri vecchi erano venerati e rispettati come testimoni della saggezza e dell’esperienza. Nel popolo ebraico, nell’antica Grecia e nella Roma di un tempo godevano del rispetto delle nuove generazioni purtroppo, ai giorni nostri, continuano a goderne solo nei paesi dell’Africa e dell’Estremo Oriente. In Italia dal sessantotto in poi pare che questo rispetto e questa venerazione siano quasi totalmente spariti. Spesso i vecchi sono relegati nelle case di riposo trattati come bambini dell’asilo o lasciati soli soletti nella loro casa con una badante straniera oppure abbandonati a se stessi come relitti nei grandi condomini anonimi ed indifferenti. Ricordo che ai tempi della contestazione una cara vecchietta mi chiese quasi preoccupata di non capire il linguaggio dei nipoti adolescenti: “Don Armando che cosa significa Matusa perché spesso i miei nipoti mi chiamano così?”. Ebbi pietà di lei e non le spiegai che quel termine significava: cariatide, superato o rimbambito ma minimizzai dicendole solamente che quel termine corrispondeva al nuovo gergo parlato dai nostri ragazzi.

Ormai da anni non tratto più con i giovani perché al Don Vecchi l’età media è di ottantaquattro anni e quando vi entra come nuovo inquilino un settantenne tutti lo guardano come se fosse un ragazzino o un adolescente. In cimitero poi i miei fedeli non sono tutti anziani ma comunque la maggioranza è composta da persone mature, confesso però, con grande soddisfazione, che mi sento molto amato e che tante persone, uomini e donne, mi trattano con grande tenerezza e tanto rispetto. Spesso mi chiedo che cosa posso aver mai fatto per godere di tanta simpatia e tanto affetto. Ringrazio il Signore che mi ha donato una vecchiaia non solo serena ma anche circondata da tante attenzioni. L’amabilità dei miei concittadini mi rende quanto mai gradevole questa stagione della vita e per tutto questo ringrazio di cuore il Signore.

Il regalo della moglie

Qualche giorno fa ho incontrato un noto professionista di Mestre di cui ho conosciuto sia la nonna sia i suoi genitori e che una ventina di anni fa ho sposato nella piccola chiesa mestrina di San Rocco. Non so proprio se sia praticante, come lo erano i suoi genitori, però sono assolutamente certo che nella sua vita si ispiri ai valori cristiani soprattutto per quanto riguarda la generosità e l’altruismo.

In un momento in cui, uscite dall’ambulatorio le sue collaboratrici, rimanemmo soli, mi disse felice come un bambino: “Sa che regalo mi ha fatto mia moglie in occasione del mio compleanno?” e, senza lasciarmi pensare neppure per un istante, soggiunse sorridendo felice e compiaciuto: “Mia moglie mi ha regalato la partecipazione ad una Messa cantata in gregoriano in una notissima abbazia della Toscana. Un regalo davvero insolito per questi nostri tempi.

Penso che noi, che viviamo in questo mondo irrequieto, senza pace e silenzio, abbiamo proprio la necessità di tuffarci ogni tanto nelle acque fresche e limpide delle sorgenti della preghiera poiché spesso le nostre preghiere sono distratte e frettolose. A proposito di queste singolari e significative esperienze ne ricordo due in particolare. La prima è stata una Messa nell’abbazia di Sant’Antimo dove una comunità di monaci francesi celebrava con calma e con una compostezza sovrana di voci e di gesti il sacro rito dell’Eucarestia. I miei cento anziani, che di solito amano le Messe brevi, rimasero silenziosi e partecipi per un’ora e mezza in assoluto silenzio, estasiati da questa liturgia povera ma solenne. La seconda è stata la visita al monastero benedettino di Marianlach in Repubblica Ceca dove vivono una sessantina di monaci. Al ricordo provo ancora i brividi per il senso di mistero e di assoluto che in quell’occasione ho avvertito nel mio animo.

Anche noi, gente di questo tempo distratto ed irrequieto, abbiamo veramente bisogno di queste esperienze sovrane di dialogo con l’Assoluto.

Sorpresa

Una decina di anni fa mi accorsi che, quando facevo uno sforzo, mi si annebbiava la vista e mi tremavano le gambe, una persona, a cui avevo confidato questo guaio, mi consigliò di chiedere una visita dal cardiologo. Fu il noto dottor Di Pede che scoprì che soffrivo di un’aritmia cardiaca, disagio che egli curò prescrivendomi la pastiglia di cordarone ma aggiunse anche che il mio cuore doveva essere periodicamente monitorato perché ero cardiopatico.

Prima di allora, quando parlavo del cuore, mi rifacevo sempre all’aspetto sentimentale ed affettivo che la tradizione e l’opinione pubblica riferiscono a questo termine ma mai avevo pensato al cuore come a un muscolo che ha una sua funzione meccanica. Il cuore, da un punto di vista fisico, è una pompa che spinge il sangue, elemento essenziale per la vita, in ogni punto del nostro organismo. Quando chiesi all’illustre cardiologo il motivo del funzionamento irregolare del mio muscolo cardiaco, mi rispose bonariamente ed affettuosamente che erano settant’anni che svolgeva in maniera regolare e puntuale la sua funzione. A quel tempo avevo settant’anni e non gli ottantasette attuali!

Al pensiero che il mio cuore ha funzionato per quasi un secolo senza mai rompersi rimango stordito. Neanche le Mercedes o le Jaguar, regine delle automobili, reggono così tanto all’usura del tempo, il cuore invece funziona ininterrottamente 24 ore su 24 per 12 mesi all’anno, senza mai fermarsi. Da quel giorno sorveglio con interesse ed attenzione il battito cardiaco, ammirato dell’opera di Dio che supera infinitamente anche le scoperte scientifiche più avanzate e per questo ringrazio e lodo il Signore con infinita riconoscenza e ammirazione.

Incontri al limite

Una gran parte del mio impegno pastorale lo svolgo celebrando il commiato di concittadini che mi precedono di qualche mese o, alla meglio, spero di qualche anno nell’incontro con il Padre. Confesso che questo ministero, che per molti anni avevo considerato marginale per la vita di un prete, con il passare del tempo scopro quanto sia importante. Non passa giorno in cui non trovi qualcosa di importante per la mia spiritualità e per la mia vita. Sento il bisogno di rendere partecipi anche i miei concittadini di questa “scoperta” che vado facendo mentre saluto, a nome dei familiari e degli amici, chi ci lascia per l’aldilà. Mi piacerebbe proprio saper scrivere un trattatello organico su questo argomento.

In passato, su richiesta dei titolari dell’impresa di pompe funebri Busolin, persone che mi sono particolarmente care e molto vicine, ho collaborato alla stesura del volumetto “L’albero della Vita” per l’elaborazione del lutto. La psicologa dottoressa Gardenal ha affrontato il problema a livello psicologico mentre io, in maniera molto elementare, ho curato l’aspetto squisitamente religioso. Di certo il commiato offre vastissimi e preziosi spunti di riflessione, motivi sui quali, quando ne avrò l’occasione, vorrei ritornare ma oggi desidero soffermarmi su un aspetto che mi pare particolarmente importante.

Io non celebro mai funerali di Capi di Stato, Pontefici o di personaggi che normalmente riempiono con titoloni le pagine dei giornali e gli schermi televisivi ma accompagno invece all’ultima dimora sempre povera gente senza storia e senza vicende importanti che caratterizzino la loro vita. Tutto questo mi ha fatto scoprire che è proprio questa povera gente, gente che fa il proprio dovere con semplicità e umiltà che regge la nostra società. Monsignor Vecchi era solito affermare che quando si entra in un edificio d’istinto si cercano i capitelli e le pietre lavorate e non ci si accorge che sono invece le umili pietre nascoste sotto l’intonaco a reggere l’edificio. Mi fa tanto piacere aver scoperto che la Provvidenza mi ha assegnato il compito di occuparmi di quelle persone che sono realmente le più importanti per il nostro mondo.

Il breviario

L’immagine del vecchio prete, che passeggia tenendo tra le mani il breviario, credo appartenga all’immaginario collettivo se non altro perché è diventata di pubblico dominio attraverso le pagine del celeberrimo romanzo “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Chi non ricorda, o non vede con gli occhi della fantasia, don Abbondio avvicinato dai bravi mentre recita tranquillo il breviario, la preghiera che la Chiesa “impone” di recitare ai sacerdoti a favore di tutto il popolo di Dio.

Credo che con il tempo anche questa immagine si sia sbiadita, un po’ perché i preti vivono una vita più irrequieta del sacerdote dei “Promessi sposi” ed un po’ perché ho letto che appena il 15% dei preti recita ancora quel breviario che un tempo era loro imposto sotto pena di “peccato mortale”. Io appartengo al piccolo rimasuglio di sacerdoti ottemperanti questa norma ecclesiastica. In verità quella del breviario non è una preghiera che mi esalti e che ami particolarmente perché, buona parte di esso, riporta salmi ebrei di due o tremila anni fa o brani di opere di frati e scrittori ecclesiastici che appartengono o all’Antico Testamento o ai primi secoli del cristianesimo. Rimango però fedele a questa pia pratica sperando che il piccolo sacrificio che faccio di primo mattino recitandolo sia di per se stesso una preghiera, per mia fortuna però quasi ogni giorno mi imbatto, durante questa recita, in qualche “pietra preziosa” che mi arricchisce.

Questa mattina, ad esempio, ho letto: “Signore fa germogliare i semi del bene che avrò modo di seminare durante questo giorno”. Ho passato tutta la giornata ad impegnarmi nell’offrire qualche cosa di buono e di valido a tutte le persone che ho incontrato. Mi è stata dolce e cara l’idea che mi cantava nel cuore di poter seminare nell’animo, di chi ho incontrato, qualcosa di bello e di buono. La mia preghiera non è stata sempre lucida e fervorosa però questo pensiero mi ha offerto un’ebbrezza particolare. Penso che, nonostante tutto, continuerò a “dire il breviario!”.

Lettera Aperta

Il mercoledì mattina arriva puntualmente “Lettera Aperta”, il settimanale che nel 1971, ad una settimana dal mio ingresso in parrocchia, ho fondato per dialogare a cuore aperto con i parrocchiani, superando gli ostacoli che la “coda” della contestazione del 1968 rischiavano di impedire. Io sono un fedele lettore del periodico della mia vecchia parrocchia, mi pare sia uno dei “bollettini parrocchiali” di Mestre più interessanti, ammiro il suo direttore che attualmente ha la stessa età che avevo io quando sono stato nominato parroco di Carpenedo.

Quest’oggi ho letto “Lettera Aperta” con particolare attenzione anche perché noto che don Gianni pian piano sta aumentando il numero di pagine, risucchiato e stimolato evidentemente da “L’Incontro”. Avendo un po’ di tempo ho letto il giornale con tranquillità lasciandomi avvolgere dai ricordi, riscontrando che ci “sono ancora dentro” in maniera molto consistente ed arrivando alla felice constatazione che gran parte della parrocchia che ho lasciato è ancora molto presente e vitale. Qualche iniziativa purtroppo si è spenta con il tempo come il mensile Carpinetum al quale davo estrema importanza perché manteneva vivo il dialogo con ogni famiglia della parrocchia a cui ogni mese lo inviavo per posta. Si è spento anche l’altro mensile “L’Anziano” che segnò un’epopea a livello dei gruppi anziani. Qualche altra attività vivacchia come “Il Ritrovo” e “La Cella” ed altre ancora sono morte ma fortunatamente risorte come la “Corale Carpinetum” e il gruppo culturale “La Rotonda” ma molte altre realtà, di cui si parla in questo numero di “Lettera Aperta” con uno stile veloce e frizzante quale è quello di don Gianni, sono quanto mai vive e promettenti.

Nel numero che ho appena finito di leggere si ricorda la “Sagra”, iniziativa che solo io so quanta fatica mi sia costata far nascere e quanti bei risultati abbia ottenuto, vi è pure pubblicata una bellissima foto della “Malga dei Faggi”, la casa di montagna dei ragazzi, del nuovo Patronato, del “Germoglio”, il cosiddetto Centro Polifunzionale per l’Infanzia. La visione di queste realtà mi ha spinto a ripensare al Foyer, a Villa Flangini, alla Foresteria, alla Canonica, al Piovento, ai gruppi sposi, agli scout, al “Mughetto”, al gruppo San Camillo, al restauro della chiesa, al cinema Lux, ai chierichetti …. Sono tanto grato a don Gianni che ha dato una bella “rinfrescata” alla mia vecchia parrocchia che mi vien da dire con Simeone: “Ora Signore posso andare in pace perché non mi è capitato di veder andare in rovina ciò che mi è costato tanta fatica!”.

Nulla va perduto!

Ho letto da qualche parte che sono stati trovati in una tomba, non ricordo se egizia o di qualche altra antica città del Medio Oriente, alcuni semi di frumento e nell’articolo si afferma che questi semi, una volta piantati in terra, a distanza di alcune migliaia di anni, hanno dapprima germogliato e successivamente prodotto le spighe di grano.

Ho fatto questa premessa per presentare un fatto, almeno per me, molto positivo che mi ha donato una grande consolazione. Mio padre, tanto tempo fa, mi confidava che ai vecchi basta poco per provare dispiacere ma pure molto poco per provare consolazione e anche per me, ormai vecchio, vale la stessa cosa! Ne parlo per incoraggiare tutti coloro che sono impegnati nel difficile compito della formazione dei ragazzi e dei giovani ma soprattutto per quelli impegnati nell’ancor più difficile missione di formare i cristiani. Ebbene, me ne stavo tranquillo nella minuscola sagrestia della mia “cattedrale tra i cipressi” quando mi ha raggiunto il rumore di un passo sicuro e cadenzato ampliato dal pavimento fatto di tavole grezze. Mi si è presentato un giovanottone nel fulgore della sua maturità che mi ha salutato con calore ed affetto. Ho fatto dapprima un po’ di fatica a riconoscerlo, non lo rivedevo da almeno una dozzina d’anni, poi, sia per l’accento romagnolo che era rimasto nel suo dire sia per l’aspetto, ho riconosciuto il figlio di una vecchia maestra di Carpenedo, mia preziosa collaboratrice in uno dei mensili della parrocchia: “L’Anziano”.

Immediatamente mi sono ricordato di sua madre dolce ed assennata, tanto preoccupata per la fede dei suoi due figli, di sua nonna – una cattolica di ferro – a cui portavo la comunione a casa, una donna che non ammetteva tentennamenti e che non faceva la minima concessione alla modernità di pensiero e del babbo pacato ed accondiscendente. Il giovane uomo mi ha abbracciato come fossi stato suo padre, mi ha parlato del suo lavoro e della sua vita ormai lontana da Mestre, infine mi ha consegnato una busta dicendomi che conteneva un mattone per la “costruzione” che ho in corso. Quando ho aperto la lettera non vi ho trovato solamente una somma significativa ma anche la nota che mi ricordava che l’indomani sarebbe stato il decennale della morte di sua madre. Egli non mi ha parlato della fede, per la quale sua madre era tanto preoccupata, ma la visita, l’abbraccio e l’offerta sono stati i segni più evidenti che i germi seminati da sua madre e da sua nonna erano tutti in fiore pronti per la spiga.