“Foyer San Benedetto”

So di correre il rischio d’essere etichettato di referenzialità perché parlo sempre delle mie cose. D’altronde, non avendo una cultura tale da poter scrivere dei saggi, se voglio comunicare le mie idee e confrontarmi con i colleghi e con i concittadini sulle problematiche della solidarietà non posso fare altro che rifarmi alle mie esperienze!

Il discorso di oggi nasce dal fatto d’aver incontrato una povera donna bulgara che, venuta in Italia come numerose altre donne dell’Est per fare la badante, è stata investita da un’auto perdendo così lavoro e casa, vagando quindi poi come “un’anima morta” in cerca di aiuto. Nell’incontro più recente mi ha riferito che negli ultimi quindici giorni ha dormito nelle sale d’attesa dell’aeroporto Marco Polo. Questa soluzione, pur estrema, non può durare perché l’organizzazione aereoportuale non può accettare soluzioni del genere.

Messo con le spalle al muro e non sapendo più a che santi rivolgermi ho telefonato ad una delle mie vecchie “creature”: il Foyer San Benedetto di Via G. Miani 1. Il problema dell’alloggio esisteva purtroppo anche trent’anni fa. Con l’aiuto di una mia piccola scout di un tempo, riuscii a comprare un appartamento abbastanza capiente e a ricavarne undici posti letto in sei camerette. Allora si pagavano dieci lire a notte, ora sono arrivati a tredici euro, quindi due volte tanto! Mi ha risposto al telefono la giovane donna che conduce questa bella esperienza: alla mattina fa scuola e al pomeriggio e alla notte fa da madre, sorella ed amica a chi ricorre a questo “rifugio”.

Lei è una splendida ragazza giunta dal Sud, che avendo avuto bisogno di un alloggio lo trovò in questa soluzione di emergenza, allora condotta da Bianca, un’altra splendida donna ora in Paradiso, che le ha lasciato in eredità non solo le chiavi ma anche la sua capacità pressoché infinita di aiutare il prossimo.

Per parlare di queste due donne bisognerebbe richiamare in vita il De Amicis del “Cuore” o Giovannino Guareschi del “Piccolo Mondo”, solo loro saprebbero farne un ritratto con una cornice adeguata! Penso che siano sufficienti due o tre donne come queste perché Dio sia indotto a salvare la città! Sono molto contento di poter dire ai miei concittadini: “Sappiate che a Mestre non ci sono solamente mafiosi o politici ma anche tante magnifiche creature!”.

Nessuno è profeta nella sua patria!

Qualche giorno fa due docenti dell’università di Padova hanno accompagnato a visitare il Don Vecchi una cinquantina di universitari sia italiani che stranieri. Noi non abbiamo mai pensato di brevettare “la formula del Don Vecchi” anzi, convinti che rappresenti una soluzione valida sia per la terza che per la quarta età, abbiamo tentato di reclamizzarla con ogni mezzo nella speranza che possa offrire una vecchiaia più serena e dignitosa ai tantissimi anziani che si trovano in difficoltà.

Qualche anno fa ho capito che nel nostro tempo una delle scommesse da vincere è quella di tentare di risolvere il problema della moltitudine di anziani che affollano soprattutto gli stati della vecchia Europa. La visita degli universitari è stata l’ultimo segno dell’interesse che ha destato in Italia “la formula del Don Vecchi”. Qualche anno fa sono venuti a farci visita anche tecnici dell’Emilia Romagna, regioni notoriamente all’avanguardia a livello di servizi sociali. Non sono mancate neppure le visite di operatori, sia milanesi che torinesi, per non parlare di quelle dei comuni delle Tre Venezie, cito a memoria le ultime: Musile, Marcon, Mogliano, Tambre d’Alpago, Cortina, Eraclea, Pieve di Cadore ecc. Si è mosso anche il mondo dell’imprenditoria privata che però si è anche ritirato molto velocemente percependo immediatamente che nella nostra formula è assolutamente escluso il profitto.

Una volta tanto siamo stati innovatori anche nel mondo religioso perché da noi il business è escluso! Quello però che più mi sorprende è constatare come il mondo delle diocesi e delle parrocchie, anche della nostra città, sia rimasto assolutamente indifferente come se la nostra fosse un’iniziativa squisitamente marginale e non riguardi la pastorale. Sono tentato di pensare che queste realtà, per quanto riguarda la solidarietà, siano rimaste al pacco natalizio o all’armadio del povero! Ossia se non sono rimaste all’età della pietra, certamente, non si sono spinte molto più in là della beneficenza dell’Ottocento!

Una parola che Renzi non ha ancora detto

La strada dello scout del Mugello, diventato capo del governo, si fa ogni giorno sempre più in salita. Ritengo che i nervi di Renzi siano ben più saldi dei miei e che la sua ambizione di governare l’Italia sia molto più alta di quella che avrebbe un comune mortale perché altrimenti, come farei io al suo posto, prima o poi direbbe: “Me ne ritorno al mio paesello ad educare i ragazzi piuttosto che pretendere di governare questa banda di matti!”.

Non passa giorno che i grillini non lo attacchino “all’arma bianca” coprendolo di insulti e di insinuazioni, che “Fratelli d’Italia”, “Sel” e compagnia cantante non lo invitino a mollare perché incapace, ma soprattutto che la minoranza del suo partito non pretenda di dettare le regole come fosse la maggioranza, non gli tirino trabocchetti e non treschino contro di lui per farlo scivolare su una buccia di banana. Io sono decisamente preoccupato perché, non vedendo altre maggioranze attualmente possibili e constatando quanto il nostro Paese sia pericolante e rimanga il fanalino di coda del carrozzone europeo, temo vedendo che i sindacati, arroccati da anni su posizioni conservatrici, lo combattono accanitamente, che i magistrati, ormai abituati a condizionare la politica italiana pontificando da intoccabili, lo mettono in difficoltà nei momenti cruciali, temo, ripeto, che prima o poi Renzi si stanchi e lasci o venga costretto a lasciare.

Allora sono propenso a suggerire a Renzi: “Sappi Matteo che in Italia c’è un precedente significativo che può offrirti una via d’uscita nobile e dignitosa. Ti ricordi che alle elementari ti hanno insegnato che ai tempi di Roma un certo Cincinnato, trovandosi pressoché nella tua stessa situazione, disse ai romani: “Torno a lavorare nei miei campi e se avrete bisogno di me venitemi a chiamare”? Allora, caro Matteo, non potresti fare un discorso simile alla televisione a reti unificate: “Cari italiani tutti sono contro di me, tutti mi accusano di sbagliare ogni cosa, tutti affermano di possedere una ricetta miracolosa per cui ho deciso di ritirarmi nel mio paese a educare i ragazzi a crescere onesti e se un giorno l’Italia avesse ancora bisogno di me venitemi a chiamare!”. Penso che otterresti molto di più con i tuoi scout perché certi tuoi amici ed avversari, sono convinto, siano proprio irrecuperabili”.

La sorpresa degli irlandesi

Un tempo mi avevano raccontato che una buona metà degli irlandesi andava a Messa tutti i giorni, mi avevano anche raccontato che gli irlandesi d’America erano la punta di diamante dei cattolici americani. Avevo anche appreso però che questi signori erano inclini al bere, ma soprattutto ho appreso direttamente che, pur avendo molte ragioni dalla loro parte, non si erano fatti scrupoli di combattere i protestanti dell’Irlanda del Nord con gli attentati e la guerriglia urbana promossi dall’IRA.

Ora poi questi isolani sono saliti alla ribalta dell’opinione pubblica mondiale per il referendum sulle nozze gay. In questo paese nonostante il capo del governo sia cattolico, e la popolazione continui a professarsi cattolica, la maggioranza si è espressa a favore delle nozze omosessuali nei confronti delle quali, finora, la Chiesa ufficiale si è espressa in maniera decisamente negativa. La prima reazione della gerarchia ecclesiastica di quel Paese mi è parsa fin troppo cauta e rispettosa, senonché è arrivata prima la dura presa di posizione del “Vice Papa” cardinale Parolin con la sua dichiarazione perentoria: “Il referendum irlandese è un fatto nefasto per l’umanità” seguita subito dopo da quella, non meno dura, del cardinal Bagnasco.

Io sono un povero cristiano e non pretendo di ergermi a maestro di nessuno ma mi pare doveroso offrire la mia pur modesta opinione. Premetto che sono arciconvinto della concezione cristiana della famiglia, che sono pure convinto che lo Stato debba regolare con leggi opportune le unioni omosessuali, unioni che si possono però chiamare in qualsiasi modo ma non certamente con il termine “famiglia” perché in realtà non hanno nulla a che fare con essa e quindi è sia stupido che meschino volerle definire e regolare legalmente come l’istituto familiare. Sono anche convinto che noi cristiani, e soprattutto noi cattolici, dobbiamo offrire una testimonianza limpida, coerente, coraggiosa ed entusiasta della nostra concezione della vita e della famiglia però, proprio a motivo della nostra fede, non dobbiamo e non possiamo imporla a nessuno. Almeno da questo punto di vista mi pare che ci sia qualcosa di positivo anche nella presa di posizione del popolo d’Irlanda.

La madonna “da miracoli”

A fine maggio, noi del Don Vecchi, abbiamo chiuso la stagione primaverile dei nostri mini pellegrinaggi. Queste uscite pomeridiane le chiamiamo mini pellegrinaggi non solamente perché durano solo un pomeriggio ma anche perché dedichiamo metà del tempo all’aspetto religioso e l’altra metà alla merenda e alla passeggiata turistica. Il successo di queste iniziative, che stanno tra il pastorale e il turistico, penso sia dovuto non solo alla formula, certamente indovinata, ma anche al costo: dieci euro tutto compreso.

La meta dell’ultimo mini pellegrinaggio è stato il santuario, costruito dal Sansovino nel 1500, dedicato alla Madonna dei Miracoli a Motta di Livenza. La gita è ben riuscita anche se il cielo è stato sempre imbronciato e minaccioso di pioggia. Questo pellegrinaggio però ha posto un piccolo dramma a me vecchio prete che mi preoccupo dell’obiettivo spirituale da raggiungere. Il problema mi è sorto perché la precedente uscita ha avuto come meta un piccolo ma grazioso santuario in quel di Monastier dedicato ad una piccola Madonna Nera che non ha mai fatto miracoli. Questo fatto allora mi ha dato l’opportunità di sviluppare il pensiero di un grande e santo pastore protestante fatto impiccare da Hitler, il quale afferma che “Dio non accetta di fare il tappabuchi delle piccole difficoltà che l’uomo normalmente incontra, perché gli ha dato la capacità di sbrigarsela da solo”.

Questo discorso mi è parso molto opportuno per quei cristiani che si aspettano di ricevere tutto o quasi tutto dal Cielo. A Motta di Livenza però quella Madonna è proprio una “Madonna da miracoli!” e il discorso è diventato complementare al precedente perché mi ha dato l’opportunità di affermare che la Vergine, come una vecchia e saggia Madre, accontenta i suoi figli solamente quando hanno veramente bisogno e quando se lo meritano. Mi sono quindi ispirato a Sant’Agostino che afferma che Dio non ci ascolta, non solo quando non ce lo meritiamo perché siamo cattivi o pretendiamo in modo arrogante il suo intervento, ma anche quando chiediamo cose che Lui sa che ci farebbero male. Nonostante questo, penso che la Madonna di Motta di Livenza un “miracoletto” quel giorno lo abbia fatto, perché tutti i pellegrini sono tornati a casa molto contenti!

Dove posso trovare Dio?

Sono certo che tutti, prima o poi durante la vita, facciano degli incontri un po’ strani diversi dal solito, incontri particolari che fanno riflettere. Penso però che un prete, per il suo ruolo, ne faccia più degli altri ma soprattutto faccia incontri particolarmente densi di umanità.

Qualche giorno fa, avevo appena aperto la mia “cattedrale tra i cipressi”, erano le sette e un quarto e in sagrestia stavo verificando l’agenda per dispormi agli incontri del giorno quando ho udito i passi decisi di una persona che veniva verso la mia porta. Subito dopo è apparsa sulla soglia la figura di un giovane trentenne che mi ha detto senza tanti preamboli: “Padre può dedicarmi due minuti?” e senza interrompersi mi ha confidato: “ho un posto di responsabilità in una grande azienda che fattura sessanta milioni all’anno”. Pareva mi volesse dire: “Non sono il solito mendicante che tenta di spillare qualche soldarello”, vestiva infatti alla moda d’oggi con blue jeans sbrindellati ed una semplice camicia, cosa che facilmente poteva far pensare che fosse tale! Poi è andato dritto al bersaglio: “Come posso incontrare Dio?” ed ha continuato quasi a giustificare quella domanda che non dovrebbe risultare insolita per un prete ma che in verità lo era: “Sono caduto nel vortice della droga e non riesco ad uscirne!” poi in silenzio, guardandomi negli occhi, ha atteso la mia risposta.

Mi sono ricordato di un’affermazione della Bibbia a cui tante volte mi sono aggrappato nei momenti più difficili della mia vita: “Dio si fa trovare da chi lo cerca con cuore sincero!”. Era evidentemente disperato e d’istinto capiva che solamente Dio lo avrebbe potuto salvare. Mi è sembrato però che egli avesse scarsa dimestichezza con il Signore! Gli ho consigliato di rivolgersi ad un mio amico prete che è esperto in queste cose e gli ho assicurato che lo avrei ricordato ogni giorno a quel Dio a cui si era rivolto. È poi uscito rituffandosi nei ritmi della sua vita. Forse non lo rincontrerò mai più ma spero tanto che non smetta di cercare il Signore. Da parte mia, per quanto posso, chiederò al buon Dio ogni giorno di avere per questo ragazzo un supplemento di attenzione.

La soglia minima

Tanto tempo fa mi sono imbattuto per caso in un’espressione un po’ paradossale di San Francesco di Sales, il santo vescovo di Ginevra. Questo santo francese è stato nominato dalla Chiesa patrono dei giornalisti per aver adoperato, in maniera egregia, la penna per contrastare le tesi delle Chiese protestanti assai agguerrite ai suoi tempi e fortemente anticattoliche e per aiutare le anime a vivere un cristianesimo autentico. Ebbene San Francesco di Sales ebbe a dire che “la verità che non è trasmessa con carità non è neppure verità!”.

Io, ispirandomi a questa sentenza, penso di dover dire soprattutto al vasto mondo del volontariato che “la carità che non è fatta con cortesia, garbo, pazienza e tolleranza non è neppure carità anche se sta distribuendo tonnellate di frutta e verdura, altrettante in generi alimentari e in vestiti per i poveri”. Nel mondo laico i titolari di attività, o chi li rappresenta, sono soliti affermare che il cliente va rispettato e trattato con cortesia e normalmente i dipendenti, per non perdere il posto di lavoro o per migliorare la loro posizione, si attengono fedelmente a questo principio. Nel mondo del volontariato invece le cose spesso vanno diversamente. I volontari frequentemente si sentono benefattori dell’umanità e spesso sono portati ad usare un atteggiamento tanto determinato da sconfinare nell’arroganza, caratteristica purtroppo abbastanza diffusa in questo contesto.

Premetto che trattare con una “clientela” proveniente da culture diverse non è la cosa più semplice di questo mondo perché molti ritengono che tutto sia loro dovuto, perché hanno sempre il sospetto che li si tratti guardandoli dall’alto in basso ma soprattutto, poiché da noi tutto si “paga”, anche quando il tributo richiesto è semplicemente simbolico ed irrisorio, c’è sempre il tentativo di tirare sul prezzo. Detto questo però credo che noi cristiani e noi volontari, per coerenza e per essere testimoni credibili, non dobbiamo mai dimenticare che fare la carità è un privilegio che ha un prezzo elevato, prezzo che però è giusto pagare senza protestare!

Carità con la “C” maiuscola

Io sono sempre stato per la trasparenza e, da quando ho cominciato ad avere una qualche responsabilità in parrocchia, ho sempre pubblicato l’elenco delle offerte che ricevevo dai fedeli per i motivi più diversi. Ci fu una quindicina di anni fa un vecchio parrocchiano, uno che seguiva con fin troppa attenzione le vicende della parrocchia che, leggendo sul foglio parrocchiale i dati che andavo comunicando, faceva i conti su quanto “incassavo” ogni mese.

Faccio questa premessa per dire che se ci fosse tra i lettori de “L’incontro” un cittadino altrettanto attento e pignolo come quel mio vecchio parrocchiano interessato ai miei incassi, avrà notato che ogni paio di mesi pubblico sul nostro periodico nella rubrica delle offerte questa annotazione: “Un noto professionista di Mestre, che chiede l’anonimato, ha sottoscritto un’elevata quantità di azioni pari ad una cifra altrettanto significativa”. Ebbene ritengo di dover svelare almeno in parte l’identità di questo “misterioso” benefattore. Si tratta di un noto dentista che, almeno da un decennio e forse anche di più, cura gratuitamente i denti dei residenti al Don Vecchi che la direzione segnala come persone bisognose e agli altri residenti, considerando poi che nessuno di loro è certamente un riccone, pratica prezzi accessibili devolvendo alla Fondazione dei Centri Don Vecchi il ricavato.

Perché faccio questa segnalazione? Primo perché a me fa enormemente bene incontrare persone altruiste e generose. Secondo perché anche gli altri professionisti, che operano nei settori più disparati e che normalmente traggono dalla loro attività guadagni significativi, sentano il bisogno di ringraziare il buon Dio per averli favoriti nell’avere una professione redditizia aiutando i concittadini meno fortunati. Terzo perché in città cresca la cultura della solidarietà. Posso assicurare a tutti che, per quanto mi riguarda, riesco a raccogliere da questa semina frutti consolanti!

Un relitto di donna

Qualche giorno fa si è presentata nella mia sagrestia una “giovane” anziana dal portamento dignitoso ben diverso da quello di una mendicante. Mi ha raccontato il motivo per cui mi chiedeva aiuto però, ricevuti i cinque euro, se n’è andata ringraziando e senza aggiungere parola. È ritornata un paio di altre volte e gli incontri si sono svolti alla stessa maniera.

Normalmente ai miei mendicanti abituali offro uno o due euro che tengo sempre in tasca e che attingo da una scatoletta che conservo per questa “bisogna”. C’è qualcuno che si accontenta e ringrazia, altri hanno spesso in serbo dei motivi particolari per ottenere qualche cosa di più. Raramente, dal momento che ho fatto la scelta di impiegare tutto quanto posseggo per realizzare una struttura solidale che possa rappresentare un aiuto più serio e più duraturo, offro più di uno o due euro arrivando fino a cinque o dieci euro in casi veramente particolari.

L’altro ieri ero un po’ più libero del solito per cui ho potuto aprire un dialogo più profondo con questa povera creatura. Ho appreso quindi che è bulgara e che come moltissime donne dell’Est è venuta in Italia a cercare lavoro come badante, senonché un’automobile l’ha investita rendendola inabile tanto da farla camminare con estrema difficoltà e con l’aiuto di due stampelle. Ha perso quindi il lavoro e anche la stanza perché non può pagare l’affitto. Queste cose le ho apprese solo dopo averle dato i soliti cinque euro.

Enrico, il mio “aiutante di campo”, che ha assistito ai colloqui, le ha dato una somma ben più consistente e poi l’ha accompagnata “a casa” in automobile ma da allora l’immagine di questa donna è diventata per me quasi un incubo; il pensare a questa creatura sola e senza denaro mi ha fatto perdere la pace. Ho cercato la sua parrocchia, ho telefonato poi ad uno dei “miei ragazzi” di mezzo secolo fa che fa parte della “Banca del Tempo Libero” ottenendo che la signora, per almeno quindici giorni, possa stare a “Casa Talierco” del Sacro Cuore. Trascorso questo tempo però poi sarà di nuovo in strada e questo pensiero mi angoscia. Di certo non l’abbandonerò ma so fin da ora che non sarà facile trovarle una collocazione dignitosa. Una volta ancora ho provato sdegno verso la mia Chiesa che in tanti anni non si è ancora decisa a realizzare un progetto veramente serio per soccorrere chi è in difficoltà!

I balletti del dialogo

Qualche mese fa ho scritto d’aver “partecipato”, un po’ in disparte, al funerale di un maomettano. La bara era stata posta nel giardino antistante alla “mia cattedrale tra i cipressi” di fronte al fazzoletto di terreno coperto di ciottoli di fiume tra cui desidero vengano disperse le mie ceneri quando il Signore chiamerà in cielo la mia anima.

Sono stato colpito dalla compostezza di un folto gruppo di uomini attenti alle parole del loro Imam. Sapendo che anche i mussulmani credono in una vita ultraterrena, che anch’essi ritengono più bella e più felice di quella presente, penso che il loro ministro del culto abbia richiamato questa verità di fede ed abbia chiesto per tutti l’aiuto del profeta Maometto.

Domenica mattina, mentre salivo in macchina dopo la Messa, mi sono accorto che nello stesso giardino, tra un verde fresco di primavera e sotto un sole dolce e accattivante, si stava svolgendo un altro funerale. Ho supposto, osservando i tratti somatici dei partecipanti al rito, che si trattasse di un cinese o di un giapponese ed ho osservato la stessa scena composta e serena del funerale maomettano che avevo in precedenza seguito. I giovani che vi partecipavano erano vestiti bene e tenendosi per mano, ragazzi e ragazze compivano una sorta di girotondo silenzioso attorno alla bara coperta da un cuscino di fiori bianchi. C’era tra loro un uomo più anziano che ho supposto guidasse il rito funebre. Non mi pare che recitassero preghiere, però mi sembravano sereni di fronte al mistero della morte.

Mi è venuto spontaneo confrontare quel rito con il commiato cristiano ed ho sognato che, prima o poi, riusciremo a scambiarci opinioni circa la fine della vita, convinto di poter offrire le nostre belle verità ma anche desideroso di apprendere le loro. I due funerali si sono svolti in una bella cornice però sarei stato più felice se anche loro avessero potuto salutare i loro cari e pregare nella mia chiesa. Ora è presto ma verrà pure il giorno in cui metteremo finalmente assieme le preghiere e le speranze.

La minestra dei frati

Dagli “Atti degli Apostoli” si apprende che fin dagli albori della comunità cristiana si diede vita alle mense per i poveri. Questa iniziativa continuò ininterrottamente durante i venti secoli di storia cristiana e fu sempre una prerogativa dei “figli” di San Francesco aprire alla carità i loro conventi. Credo che non ci sia comunità francescana che non gestisca una qualche attività caritativa.

A Mestre i padri conventuali, il cui convento è situato in via Aleardi, gestiscono da molti anni la “Casa Taliercio” che ospita da almeno vent’anni le donne dell’Europa dell’Est che approdano disorientate e in cerca di lavoro nella nostra città. Nella stessa comunità si è dato vita ad una associazione di volontari che si occupa dei poveri ed in particolare assiste i senza tetto che passano le notti nella stazione ferroviaria. A Marghera i frati Francescani assistono con pacchi viveri un numero notevole di poveri ed attualmente collaborano con la nuova mensa promossa dalla Caritas nella ex scuola Edison. A Mestre poi i padri Cappuccini, fin dal loro insediamento avvenuto all’inizio del 1600, hanno aperto le porte del loro convento per donare il pane, frutto della cerca, ai poveri.

Attualmente la mensa dei padri Cappuccini di Via Andrea Costa è leader nel settore con i suoi duecento pasti al giorno, con i settanta volontari e con una cucina e una sala da pranzo all’avanguardia! A Mestre c’è anche la mensa di Cà Letizia gestita dalla San Vincenzo cittadina e quella più modesta dei padri Somaschi di Altobello.

In questi giorni è uscito un opuscolo a firma del cappuccino padre Ubaldo Badan con il titolo “La minestra dei frati”, opuscolo pubblicato in occasione dei settant’anni di servizio della mensa per i poveri presso il convento dei Cappuccini di Mestre. Ho letto con estremo piacere le pagine con le quali padre Ubaldo ha narrato la bella storia dei nostri frati Cappuccini. Mentre i politici lanciano programmi e promettono “il sole dell’avvenire” i nostri poveri frati, con umiltà e generosità, continuano imperterriti a servire gli “ultimi”!

L’ecumenismo che mi piace

Fino ad una ventina di anni fa ero convinto che fosse un impegno di noi cattolici convertire alla nostra Chiesa non solamente i pagani e gli uomini che appartengono ad altre religioni quali l’Islam, il Buddhismo, il Confucianesimo ecc. ma pure i fedeli di altre confessioni cristiane come i Luterani, i Battisti, i Mormoni, i Calvinisti e l’infinito arcipelago di confessioni protestanti e di Chiese ortodosse.

Poi, a Dio piacendo, nella Chiesa Cattolica si cominciò a parlare di rispetto, di tolleranza ed infine di ecumenismo cioè della ricerca per trovare un minimo comune denominatore tra tutti i credenti nella comprensione e nel rispetto reciproco. Per molto tempo però questo discorso è rimasto confinato agli esperti e agli specialisti di teologia che, credo, se lasciati discutere sulle loro questioni di lana caprina non basterebbero i millenni a venire. Per grazia del Signore questi temi hanno cominciato a interessare dalla base il popolo di Dio iniziando a trovare comprensione, intesa e collaborazione.

In questi giorni ho toccato con mano quanta strada abbia fatto questo movimento non solamente tra i cattolici ma anche nelle altre confessioni religiose. Eccovene una prova! Accanto al don Vecchi di Campalto i cristiani copti egiziani hanno costruito una chiesa secondo i canoni della loro tradizione, edificio che alcune persone, poco esperte, scambiano per una moschea! Fin dai primi passi della nostra avventura sociale abbiamo trovato in questi fratelli di fede una collaborazione calda e fraterna tanto che ci hanno messo a disposizione l’area per il cantiere e ci hanno colmato di molte attenzioni. Qualche giorno fa è venuto a Campalto il loro “Vice Papa”, il vescovo ortodosso che presiede tutte le comunità copte d’Europa. Quest’uomo di Dio ci ha accolto con grande fraternità, ci ha fatto visitare la sua chiesa quasi pronta, ci ha proposto di recitare assieme il Padrenostro ed infine, con mio grande stupore e sorpresa, ci ha comunicato di averci riservato l’altare di destra perché potessimo celebrare la Messa festiva in un luogo degno e sacro.

Raramente ho incontrato un “confratello” tanto generoso e disponibile! Mi auguro di tutto cuore e, per quanto mi riguarda, farò l’impossibile affinché la Fondazione metta a disposizione dei cristiani copti un terreno che serve loro per creare un seminario. Sono convinto che l’incontro e la comunione si trovino in questi gesti piuttosto che nelle discussioni dei nostri teologi.

Adorazione perpetua

Sento il bisogno e il dovere di ritornare su un argomento del quale ho parlato più volte ma che però mi pare non sia ancora riuscito a penetrare nella coscienza collettiva dei cattolici della nostra diocesi. Lo faccio in occasione dell’inaugurazione dell’adorazione perpetua iniziata solennemente qualche giorno fa nella chiesa di San Silvestro a Venezia con la presenza del Patriarca, di numerosi sacerdoti e di molti fedeli.

Quello dell’adorazione all’Eucarestia, a tutte le ore del giorno e della notte, è stata una iniziativa realizzata per molti anni nella chiesa di San Giuliano che poi però, non so per quali motivi, è venuta meno. Don Narciso Danieli, parroco della comunità di Santa Maria Goretti in vicolo della Pineta, ha rilanciato questa pia pratica con successo tanto che pare che ben quattrocento persone si siano impegnate a coprire le 24 ore di tutti i giorni della settimana.

Io non posso che essere contento di questa pia pratica che si aggiunge alle novene, ai tridui, ai pellegrinaggi e alle tantissime altre iniziative che la pietà cristiana ha “inventato” lungo i secoli per manifestare a Dio Padre il ringraziamento, la richiesta di perdono e la lode. Una monaca delle Serve di Maria del Monastero di Via San Donà disse a chi criticava le monache che invece di servire i poveri e i bisognosi passavano le loro giornate in preghiera: “Noi abbiamo scelto di essere le testimoni dell’Assoluto perché vogliamo ricordare agli uomini l’altra faccia della medaglia della vita!”.

Io sono totalmente d’accordo con queste religiose. Guai se non ci fosse al mondo qualcuno che ci ricordi che dobbiamo tutto al Signore! Mi auguro di tutto cuore che la comunità di Santa Maria Goretti a cui si è aggiunta ora quella di San Silvestro siano per Mestre, per Venezia e per le relative chiese le “testimoni visibili dell’Assoluto”.

Mi auguro poi che nella Chiesa veneziana ci siano discepoli di Gesù che sia di giorno che di notte lo amino, lo servano e lo ascoltino cercandolo anche nelle realtà dei poveri. Se l’Eucarestia è un segno che Cristo Figlio di Dio è rimasto con noi, i poveri testimoniano ancora di più la presenza in mezzo a noi del nostro Redentore e Salvatore.

Gesù, San Giacomo, San Giovanni Crisostomo, i Santi di ieri e di oggi e il nostro Pontefice ci ripetono costantemente questa grande verità, nonostante questo però pare che la nostra Chiesa non abbia ancora organizzato un servizio efficiente, sia di giorno che di notte, per amare e servire il Cristo presente nei poveri.

Ancora un sogno

Sognare non solo non costa niente ma soprattutto ci mantiene “vivi” e alle volte si corre il rischio di vedere che il sogno prende forma. Una ventina di anni fa il vivaista che ha curato l’arredo del parco del Don Vecchi ha piantato, accanto alla rete che delimita il parcheggio, alcune piante che d’estate producono un fiore rosaceo dalla forma che richiama quella di una minuscola tromba.

L’estate scorsa ho tagliato una trentina di rami, li ho messi in un secchio d’acqua al sole finché dopo alcuni mesi, quando ormai non nutrivo più alcuna speranza, hanno messo radici. Ho piantato queste talee vicino alla rete metallica che separa il parco dal lago che si trova a sud della nuova struttura ed ora pazientemente aspetto sperando che questi piccoli rami germoglino. Le probabilità penso siano scarse comunque io, una volta ancora, voglio scommettere sul positivo.

Con questa immagine agreste e con questa filosofia di vita voglio piantare nel cuore dei miei concittadini il seme di un altro progetto. Di primo acchito potrà sembrare a tutti un’impresa impossibile però ritengo, basandomi sulla mia esperienza, che nulla è impossibile per chi crede nel bene e desidera aiutare il prossimo.

Ho scritto recentemente, sulla scorta di notizie lette sulla stampa locale, che tra Mestre e Venezia ci sono cinquecento senzatetto e che i posti disponibili per questi poveri diavoli non superano i duecento. Non sono certo un uomo che pensa di potersi cimentare in grandi imprese perciò mi sforzo di commisurare i miei sogni e i miei progetti alle mie risorse e alla mia età.

Eccovi il sogno: spero, ora che il costo delle case è al minimo storico, di trovare un rustico, in una zona adiacente alla nostra città da poter ristrutturare così da ricavare dalle venti alle trenta “cellette” di tipo monastico, ove alloggiare di notte una parte di questi senzatetto. Per la prima parte del “sogno-progetto” mi rivolgo ai titolari delle agenzie immobiliari chiedendo loro aiuto per trovare questo casale ad un prezzo contenutissimo mentre per la seconda fase chiedo a chi dispone di mezzi economici in esubero, rispetto alle proprie necessità, di finanziare il progetto, progetto che chiederei ad un architetto affermato di donare alla comunità. Se tutti i tasselli andranno al loro posto l’impresa certamente riuscirà.

L’opera più celebre di Luigi Scaggiante

Lo scorso anno la comunità cristiana di San Giorgio a Chirignago ha organizzato una bellissima mostra in onore del suo cittadino più illustre: Luigi Scaggiante. Il gruppo culturale di quella comunità si è impegnato a fondo facendo stampare il catalogo con il centinaio di opere esposte che rappresentano l’impegno artistico della sua intera vita di pittore.

Scaggiante, uomo di fede, si è impegnato a fondo su soggetti a carattere religioso, ha partecipato con successo ad alcune biennali di arte sacra promosse dalla Galleria La Cella ed ha dipinto una Via Crucis per la parrocchia di Santa Maria Goretti segnalandosi come artista figurativo che, pur rifacendosi alla tradizione della pittura del sacro, ha avuto la capacità di esprimersi pittoricamente con un linguaggio moderno, comprensibile e gradevole.

L’opera in assoluto più significativa di Scaggiante, che gli organizzatori della mostra non sono riusciti ad esporre, è certamente “La Cena” di Gesù con personaggi del nostro tempo. La grande tela, che gli ho commissionato una quindicina di anni fa per la sala da pranzo del Don Vecchi 1, è un’opera di grandi dimensioni (metri 5 per 2,5) e si rifà alla tradizione monastica che era solita collocare nel refettorio un’Ultima Cena. La particolarità della tela è quella che i personaggi che la animano sono uomini del nostro tempo, personalità note come: Madre Teresa di Calcutta che siede alla sinistra di Gesù, Monsignor Vecchi alla Sua destra, Padre Turoldo, Padre Pio, uomini, donne, bimbi e anziani, in tutto una trentina di figure; nella tela l’autore ha pure avuto la benevolenza di “farmi sedere” alla mensa del Signore e per di più ringiovanendomi di una trentina d’anni. Questa singolare “Ultima Cena” offre soprattutto il fondamentale messaggio che la Redenzione non è una vicenda del passato ma una realtà che coinvolge e salva gli uomini del nostro tempo.