I nizioleti

La querelle dei “nizioleti”, ossia della denominazione dialettale o italianizzata delle calli, dei campielli, delle corti, delle salizade o dei rio terà veneziani che ha appassionato per circa un mese la stampa cittadina e di cui non ci è stato dato di sapere quale sia stato il risultato, da noi ne ha avuto, almeno per il Don Vecchi, uno di positivo. Infatti chi ha avuto la fortuna o la grazia di visitare il Don Vecchi 1 e 2 si è certamente accorto che all’inizio di ogni corridoio o di ogni luogo a stare c’è un’indicazione simile a quella che contrassegna le strade e le piazze di Mestre.

Al Don Vecchi, per accentuare che la struttura non è né una casa di riposo né una casa albergo e men che meno un residence per anziani ma bensì un borgo abitato da trecento cittadini di una certa età, autonomi, liberi ed indipendenti, ogni “via” ha la sua indicazione toponomastica indicata dal nome di un fiore, di una pianta, di un astro o di un animale e i relativi numeri civici. Io ad esempio abito in Via delle Rose al numero 59 e chi vuol venire a casa mia non ha che da suonare il campanello che sta alla porta della quale soltanto io ho le chiavi.

Ricordo che suor Teresa qualche tempo fa ha incontrato un’anziana, appena arrivata nel nostro borgo, in lacrime perché non riusciva a trovare la sua casa. Chiese allora alla malcapitata: “Si ricorda il nome e il numero del suo alloggio?” e lei rispose: “Si, abito in Via dei Ghiri 6” e così fu facile condurla alla sua dimora!

Tornando ai “nizioleti” veneziani la disputa, tra i venetisti puri e quelli imbastarditi, ci ha suggerito di adottare per i corridoi e per gli spazi comuni, un po’ per amor di patria ed un po’ perché la struttura degli Arzeroni è intricata e i suoi abitanti in età avanzata, i nomi dei nizioleti veneziani così da dar vita ad una “nuova Venezia” più vicina a quella dei nostri padri che si sono resi meritevoli per la loro laboriosità ed indipendenza. Ora chi vuol visitare Venezia senza affrontare la fatica dei ponti, l’affanno delle folle di “foresti”, non è necessario che vada alla Venezia ricostruita nelle mini città della Romagna o a quella di Las Vegas negli Stati Uniti ma è sufficiente che venga in Via Colombara agli Arzeroni presso il Don Vecchi 5 e ne vedrà la ricostruzione, almeno a livello toponomastico.

Brugnaro al Don Vecchi

Io so quando scrivo ma non so assolutamente quando il mio scritto sarà pubblicato. L’Incontro porta in testata la definizione di settimanale ma potrebbe portare anche quella di “mensile”, semestrale o pure quella di numero unico. La catena di montaggio è veramente infinita, premetto questa annotazione perché il numero de “L’incontro” in cui verrà pubblicata questa mia pagina di cronaca potrebbe uscire sia nel bel mezzo della tornata elettorale sia successivamente quando il sindaco di Venezia sarà già stato eletto.

Noi del Don Vecchi siamo “amici di tutti e fratelli di chi ci vuol bene” come dice la legge scout. Abbiamo perciò invitato tutti e faremo anche un brindisi con i candidati al comune di Venezia e alla Regione Veneto che ci vorranno fare visita perché siamo interessati a farci conoscere, a collaborare per il bene della comunità e ad offrire, a chi ci amministrerà, il nostro contributo specifico per quel che riguarda gli anziani e i poveri.

Il primo a venirci a trovare è stato il candidato sindaco Luigi Brugnaro, l’imprenditore che è diventato celebre perché ha fatto della nostra squadra di pallacanestro una tra le migliori squadre d’Italia. Il basket è uno dei pochi primati positivi di cui possa vantarsi Venezia mentre essa brilla come la stella polare per quelli negativi, vedi il deficit comunale. Brugnaro è diventato noto per aver tentato di comprare l’isola di Poveglia, purtroppo non gli è andata bene perché uno dei soliti comitati guastafeste e con la testa tra le nuvole l’ha avuta vinta e così l’isolotto è rimasto un rifugio per cocai e pantegane! I veneziani di oggi sono purtroppo fatti così!

Brugnaro ha condensato la sua impressione sul Don Vecchi con una frase che è ricorrente ma soprattutto vera: “Ne avevo sentito parlare bene ma mai avrei creduto che fosse così!”, questo vale sia per il centro sia per il polo solidale impegnato ad aiutare i poveri. Sono convinto che, sindaco o non sindaco, Brugnaro d’ora in poi sarà sempre dalla nostra parte. So che verranno a trovarci anche Casson e la Zaccariotto e mi auguro che vengano anche tutti gli altri candidati, sia al Comune che alla Regione, perché la “dottrina” del Don Vecchi può diventare una carta vincente non solo per Venezia ma per tutti i veneti!

Vi porto fuori a cena

Papa Giovanni, il nostro vecchio Patriarca, era una persona colta, soprattutto per quanto riguarda la storia e il mondo religioso, ed era solito esprimere in detto sapienziale le sue letture della vita. Chi ha letto “Il giornale dell’anima”, il grosso volume che contiene i suoi appunti, si accorge subito come egli fosse solito condensare il suo pensiero con una citazione biblica o con una frase con cui trasmetteva le sue riflessioni. Io, che sono povero di memoria, non ne ricordo molte di queste sentenze però ogni tanto qualcuna riemerge dai ricordi della frequentazione che ho avuto con lui. Penso di aver fatto tesoro e talvolta di essermi felicemente avvalso di questa sua saggezza comunicata attraverso espressioni che condensavano la sua esperienza.

Ricordo di aver ascoltato, più di una volta, questo suggerimento di ordine assai pratico: “Quando qualcosa ti sta a cuore parlane con tutte le persone che incontri perché prima o poi troverai qualcuno disposto a darti una mano!”.

I miei amici sanno quanto sia convinto e quanto abbia tentato di creare occasioni conviviali per i poveri, gli anziani o semplicemente per i collaboratori. Diceva Papa Giovanni: “I problemi con le persone si risolvono più facilmente mettendo le gambe sotto la tavola” ossia mangiando assieme.

Spesso è più facile creare comunità con una cenetta che con meditazioni sublimi e da questa idea è nato l’incontro conviviale del mercoledì sera. Avendo trovato un localino ad hoc, una cuoca semplicemente meravigliosa ed un catering disponibile ho detto ai miei colleghi anziani: “Stasera vi porto fuori a cena!”. Con tre euro abbiamo iniziato con l’aperitivo a base di sangria, mangiato le patatine al peperoncino ed una pizza gigante oltre ad aver bevuto un bicchiere di birra. Alla prima “serata assieme” hanno aderito ben centoventi anziani. Raramente ho incontrato vecchi così felici, penso che un clima simile si sia respirato soltanto nel “Paradiso Terrestre”! La serata è stata bellissima e si è conclusa, come da tradizione, con il canto: “Viva Venezia e il nostro leon!”.

I pifferai

Io sono nato ad Eraclea ed un secolo fa questo paese era costituito da un modesto agglomerato di case adagiato sulla sponda sinistra del Piave. Da qualche decennio il paese ha recuperato il nome nobile di Eraclea che ricorda il suo illustre passato ma ai miei tempi si chiamava Grisolera, nome che si rifaceva all’ambiente povero e palustre in cui era situato. Ora a Eraclea c’è per Ferragosto la sagra ma, ai miei tempi, per vedere un po’ di gente e di festa, bisognava andare, all’inizio di ottobre, alla fiera della Madonna del Rosario a San Donà. Ricordo ancora il clima festoso e i venditori ambulanti che reclamizzavano in maniera colorita, fantasiosa e convincente la loro mercanzia. A quel tempo, in cui la gente semplice veniva convinta a comprare, io non conoscevo ancora la storia del pifferaio che seduceva il popolo e lo imboniva con le sue chiacchiere colorite finendo per illuderlo e poi portarlo alla rovina. Questa storia la appresi solamente sui banchi delle elementari quando iniziò la mia istruzione.

Ho vissuto una lunga vita, mi pare però che purtroppo non sia cambiato quasi nulla nella sostanza. Gli imbonitori di professione forse non battono più le fiere di paese ma siedono in Parlamento e alla televisione per incantare i citrulli con le loro chiacchiere colorite piene di promesse. Quando alla sera, dopo cena, mi siedo in poltrona per vedere uno dei tanti telegiornali, mi pare di essere tornato ai vecchi tempi della sagra. I pifferai non sono più quelli di un tempo, quelli che ho conosciuto da bambino, perché ormai da anni sono andati nell’aldilà, oggi hanno nomi diversi però la sostanza non è cambiata. Fortunatamente Morfeo, prima che mi arrabbi di fronte a tanta impudenza, mi fa addormentare anche se, pur inascoltati, loro continuano a parlare e a sproloquiare come proponessero merce preziosa mentre tentano solamente di svendere fondi di magazzino.

In questi ultimi tempi ce ne sono alcuni che emergono su tutti, due in particolare sono quelli che i sondaggi dicono essere particolarmente ascoltati e seguiti: Salvini e Grillo. Il secondo è un figlio d’arte, esce infatti dalla scuola del baraccone; mentre il primo non so da dove provenga però pare conosca tanto bene questa arte da avere conquistato il quattordici per cento dell’elettorato. Mi auguro tanto che l’incantesimo degli attuali pifferai si dissolva velocemente come le bolle di sapone prima che riescano a fare troppo male alla nostra povera Italietta!

“Le vicende del Fondo di Rotazione”

Recentemente i mass-media hanno scoperto una cooperativa che, dopo aver beneficiato del Fondo di Rotazione della CEE gestito dalla Regione Veneto, invece di usare il contributo per occupare disabili, come aveva affermato, con quel denaro ha costruito un albergo di lusso. Tale notizia ha tenuto banco sulla stampa cittadina per un paio di settimane ed è stata presentata come l’ennesima truffa perpetrata con i soldi pubblici. Nell’elenco degli enti che hanno beneficiato di suddetto fondo è apparso anche il Don Vecchi, quasi che anch’esso appartenesse alla congrega del malaffare. I giornali hanno poi annunciato che una commissione avrebbe fatto delle verifiche: “Ben venga” ho pensato, le diremo il fatto suo.

Ripeto ancora una volta come sono andate le cose da noi.
Sernagiotto, allora Assessore alla Sicurezza Sociale della Regione ci ha chiesto di portare avanti un’esperienza pilota per dimostrare che è possibile gestire, in maniera più economica e più umana, quella fascia di anziani che vanno dagli 85 ai 95 anni, senza ricorrere alle case di riposo per non autosufficienti. Suddetti ricoveri costano all’interessato, alla famiglia e all’ente pubblico circa tremila euro al mese ed offrono una qualità di vita assai discutibile. La Fondazione ha accettato di buon grado la sfida e così la Regione ha finanziato, con 2.800.000 euro, il nostro progetto. In dieci mesi la Fondazione ha portato a termine la struttura e, sull’impegno che la Regione si era assunta di promuovere un bando per finanziare l’assistenza di questi anziani residenti, nei due mesi successivi l’ha riempita con 65 ultraottantenni. Partito Sernagiotto dalla Regione perché eletto al Parlamento Europeo, la burocrazia ha bloccato tutto, cosicché la Fondazione, essendo venuto meno il contributo per la gestione, ha dovuto ridurre l’assistenza ad un semplice monitoraggio che garantisce però un pronto intervento sia di giorno che di notte. Attendiamo quindi al varco il nuovo presidente della Regione perché onori gli impegni e soprattutto attui, fino in fondo, questo progetto pilota gestito da un ente del privato sociale che non fa business ma sperimenta soluzioni innovative e più economiche per la quarta età.

Matteo Vanzan

I concittadini, anche quelli poco attenti alle vicende della nostra città e della nostra nazione, conoscono, almeno superficialmente, la fine tragica del giovane lagunare Matteo Vanzan caduto a Nassiriya. Io ho conosciuto questo ragazzo solamente attraverso i mezzi d’informazione che al tempo della sua morte ne hanno parlato diffusamente. Ho approfondito la sua conoscenza in occasione della sua sepoltura vicino all’Altare della Patria del nostro cimitero ma soprattutto nella pubblica commemorazione, della quale è sempre parte integrante la Santa Messa in suo suffragio, organizzata ogni anno dall’associazione dell’Arma dei Lagunari in congedo. Qualche anno fa celebrò la Messa in suffragio di Matteo il cappellano militare del reggimento del nostro “eroe” e dall’omelia ho appreso che era un ragazzo di sani principi morali che credeva nell’ideale dell’amor di Patria.

Con il passare del tempo il responsabile dell’Associazione dei Lagunari si è reso conto che diventava sempre più difficile reperire un cappellano militare per il rito e quindi è ricorso sempre più spesso a me in qualità di Rettore della chiesa del cimitero. Ho sempre accettato volentieri questa richiesta anche perché, a me “pacifista” per scelta, si offriva l’opportunità di parlare ai graduati precettati per partecipare a questo rito.

L’anno scorso insistetti sul concetto che bisogna preparare i nostri giovani non a morire per la Patria, come vorrebbe una certa retorica patriottarda, ma a vivere per il bene della comunità non adoperando le armi ma la ragione. Quest’anno invece, partendo dal fatto che ho appreso che il Vanzan era animato da nobili ideali e dal fatto che il dramma di Nassiriya è diventato il dramma amaro e tragico di tutto il Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale, ho insistito sulla funzione della testimonianza che non produce mai frutti in tempi brevi ma, che seguendo la logica di Dio, produce invece “salvezza” personale ed una riproposta dell’utopia della pace, della libertà, e della democrazia. Mi è parso che tutta quella gente in divisa, con il petto pieno di decorazioni, sia rimasta pensosa di fronte a questo discorso.

“Beati i poveri”

Da molti anni sono stato costretto dall’esperienza fatta tante volte personalmente a modificare l’interpretazione tradizionale della prima beatitudine proclamata da Gesù: “Beati i poveri di spirito perché di loro sarà il Regno dei Cieli”.

Di certo non mi permetterei mai di obiettare alcunché a quanto ha giustamente affermato il Figlio di Dio ma credo che si debba sottolineare decisamente che la seconda parte dell’affermazione di Gesù non intende beatificare tout court chi è povero a livello economico. Quasi certamente Gesù voleva affermare che può aspirare alla beatitudine chi vive una vita semplice ed umile, chi si accontenta di quello che può avere, chi non si lascia lusingare dalla ricchezza, chi non è arrogante, avaro e avido di benessere a qualsiasi costo.

Il discorso invece è ben diverso quando ci si riferisce a gente oziosa e refrattaria al lavoro che si riduce volontariamente in miseria, che vive di espedienti e di mendicità. Io penso che ci si debba far carico in qualche modo anche di queste persone però non credo proprio che la loro condizione, molto spesso voluta, sia un titolo valido per accedere al Regno e aspirare alla beatitudine promessa da Cristo.

La Chiesa della nostra città tenta di provvedere in qualche modo a chi si trova in condizioni economiche disagiate e provvede all’essenziale per chi si è ridotto in miseria per mancanza di buona volontà e a questo scopo ha approntato mense, magazzini per l’abbigliamento senza però incoraggiare questa scelta di vita o additare ad esempio questa categoria di poveri né tantomeno mettere loro l’aureola. La beatitudine evangelica è tutt’altra cosa! Anzi l’occasione mi è propizia per affermare che chi si occupa di questo tipo di poveri deve ancorare il suo servizio, non tanto all’indigenza di costoro ma, a dei valori più alti perché i poveri per indolenza costituiscono un problema di difficile soluzione a livello ideale e sociale e spesso mettono a dura prova chi sceglie di porsi a servizio degli ultimi.

Una rosa per la Fornero

Credo che in questi ultimi due anni non ci sia stata in Italia una donna tanto rifiutata, insultata e vilipesa quanto la Fornero, la donna del governo Monti che si è resa tristemente famosa per la riforma delle pensioni, ossia del blocco della rivalutazione per le pensioni più consistenti. I capofila di questa “crociata” sono, come sempre, i sindacati guidati dalla Camusso. Sono sempre stato convinto che il sindacato sia una delle istituzioni più necessarie della nostra società ma sono altrettanto convinto che i sindacati operanti oggi in Italia siano una delle corporazioni più parassitarie, sorpassate, inconcludenti e dannose che si possano immaginare. Dietro di loro c’è pure un seguito rappresentato dalla vecchia sinistra, dal mondo padronale più retrogrado, e forse da una parte di lavoratori poco amanti del lavoro che sperano di continuare a vivere senza faticare troppo grazie all’impegno di altri molto più volenterosi.

La Fornero è stata chiamata alla responsabilità di governo in uno dei momenti più difficili della storia del nostro Paese. Si è resa conto della voragine creata dall’insipienza e dalla demagogia dei governi precedenti e ha tentato di salvare le pensioni delle nuove generazioni di lavoratori. Una settimana fa ho ascoltato l’autodifesa di questa signora che, con pacatezza e misura, ha risposto alle obiezioni che l’Annunziata le ha fatto durante la rubrica domenicale “Mezz’ora”. L’ex ministro ha ricordato l’urgenza assoluta e le difficoltà che ha incontrato non riuscendo a ricevere dati certi dai funzionari dello Stato ed avendo assoluta consapevolezza che, se non fosse intervenuta subito, avrebbe compromesso non solamente i limiti di bilancio imposti dall’Europa ma soprattutto la possibilità di erogare pensioni adeguate ai giovani lavoratori del domani.

Aggiungo che, anche se queste due motivazioni pur comprensibili e necessarie non fossero del tutto condivisibili, bloccando la rivalutazione delle pensioni di chi ha avuto stipendi, a volte ingiustificatamente esagerati, ha fatto la scelta più sacrosanta che si potesse fare. Mando quindi una rosa alla Fornero ed un mazzo di ortiche alla Camusso e ai componenti della Corte Costituzionale che ha annullato il suo saggio provvedimento.

La fioritura del vecchio tronco

Anch’io abbastanza di frequente auspico con molta convinzione un aggiornamento dell’ormai vetusto impianto pastorale delle nostre comunità cristiane. Talvolta sarei tentato di sperare in una “rivoluzione” radicale però sapendo, anche per esperienza diretta, quanto sia elevato il “costo” di queste rivoluzioni, ripiego sulla richiesta di un aggiornamento più rapido e più adeguato alla sensibilità e alle attese dell’uomo d’oggi.

Tagliare le “radici” è sempre un’operazione dagli esiti estremante aleatori; è di certo più saggio e più produttivo, per rafforzare la pianta, effettuare una bella potatura e se necessario anche una concimatura appropriata ed abbondante per darle rinnovato vigore. Recentemente ho riflettuto su questo problema riconfermando la mia conclusione sull’opportunità di un aggiornamento piuttosto che di una difficile e pericolosa rivoluzione.

Questa ulteriore riflessione è stata determinata dalla richiesta di don Gianni, il mio giovane successore nella parrocchia di Carpenedo, di un aiuto per le prime confessioni dei suoi ragazzi giunti a questa tappa del loro itinerario cristiano. Sono arrivato in chiesa in anticipo tanto che ho potuto assistere al “fioretto” del mese di maggio dei ragazzi della parrocchia. La chiesa era letteralmente gremita di ragazzi e di genitori, la preghiera e il canto partecipati con intensità e vivacità dall’intera assemblea e le parole del giovane parroco appropriate e quanto mai convincenti.

Non si può dire che il vecchio fioretto, al quale pure io ho partecipato quasi ottant’anni fa, rappresenti la punta più avanzata della pastorale della parrocchia eppure ho assistito alla sua splendida e gioiosa fioritura. Quindi mi è venuto da concludere: bisogna tagliare solamente i rami secchi, potare quelli improduttivi ma, finché il tronco produce fiori così belli e promettenti, sarebbe sciocco ed assurdo abbattere questi vecchi “tronchi” nati nella Chiesa in tempi tanto lontani.

Un’affermazione che fa pensare

Nelle settimane dopo Pasqua la Chiesa offre alla riflessione dei fedeli soprattutto brani tratti dal Vangelo di San Giovanni. San Giovanni, almeno per me, è il più mistico tra gli evangelisti, infatti rielabora in tutte le possibili varianti il comandamento di Gesù di volersi bene, di credere e di vivere nell’amore. Talvolta il commento diventa faticoso perfino per chi deve commentare ed analizzare le proposte evangeliche tanto le sue riflessioni risultano ripetitive.

Un paio di settimane fa ha destato nel mio animo un sentimento di sorpresa che mi ha costretto a riflettere più a fondo, un’affermazione di Gesù riferita appunto da San Giovanni: “Se uno mi ama osservi i miei comandamenti”. Di primo acchito non solo non l’ho compresa ma ho avuto perfino la sensazione che Gesù volesse condizionare la sua amicizia al fatto di poter condurre i suoi discepoli al “guinzaglio” e ciò non mi pareva in sintonia con il rispetto che Egli manifesta per l’autonomia e la dignità dell’uomo. Poi pian piano ho capito che si può diventare uomini nuovi e più autentici solamente se si accetta la logica di Dio. La fede quindi non può essere ridotta ad un atto formale sganciato dalla morale ma deve invece illuminare dall’interno le scelte esistenziali.

Ho capito infine la pericolosità di certi modi di pensare degli uomini del nostro tempo che si dicono credenti forse solamente per non dover giustificare qualcosa di difficilmente dimostrabile: l’assurdità e la patente irrazionalità del non credere. Quando l’essere umano sgancia la fede dalla vita si ritiene poi in diritto di fare delle scelte egoiste, illogiche che non rispondono al suo vero bene e a quello della comunità. La fede quindi deve fare da supporto e da guida saggia al vivere quotidiano. Questa credo sia la vera giustificazione dell’affermazione di Gesù riportata dal Vangelo di San Giovanni.

“Capitani coraggiosi!”

Sono ben cosciente che quando queste “note” verranno lette, nella nostra città certamente si parlerà d’altro. I mass-media hanno sempre più bisogno di novità perciò le notizie “invecchiano” molto velocemente, purtroppo però i problemi evidenziati non si possono considerare risolti solo per il fatto che di essi non se ne parli più e che i titoli dei giornali trattino d’altro!

Finalmente dopo tante reticenze è venuto a galla che il Comune di Venezia ha accumulato un miliardo e mezzo di debiti lasciati in eredità dalle precedenti amministrazioni. Credo che se nel mondo della politica, nel corpo della Guardia di Finanza e nella Magistratura ci fosse un minimo di serietà si dovrebbero incriminare tutti quegli amministratori comunali che hanno provocato un “buco” tanto enorme, processando sia loro sia chi non ha vigilato sul loro comportamento. Quando le aziende falliscono se c’è stato dolo chi ne è responsabile va in galera ed è costretto a pagare i debiti, non capisco però perché nelle amministrazioni pubbliche questo non avvenga e non capisco neppure perché chi aveva il compito di vigilare non lo abbia fatto.

La prima conclusione di questo discorso dovrebbe essere quella di costringere suddetti amministratori a risarcire la collettività per i danni arrecati dalla loro cattiva amministrazione; la seconda quella di mandare in galera chi ha imbrogliato; la terza di incriminare chi doveva vigilare e non lo ha fatto; la quarta di impedire a coloro che hanno provocato tali danni di ricandidarsi a compiti per i quali si sono già dimostrati incapaci, inetti o imbroglioni! Non capisco proprio perché questo non sia previsto e perché non si legiferi in tal senso.

Quello poi che per me rappresenta un mistero assolutamente incomprensibile è il come mai tanta gente e con tanto accanimento si sia offerta e si arrabatti in tutti i modi per farsi carico di una missione veramente impossibile! Se non ci troviamo in presenza di santi o eroi, per offrirsi a risolvere problemi così impegnativi in una situazione così fallimentare, costoro o sono assolutamente matti, totalmente stupidi ed irresponsabili o sono astutamente interessati e propensi al malaffare! Quando queste note saranno pubblicate conosceremo i nomi e i volti di questi “candidati coraggiosi” (scelgo l’ipotesi più nobile) però Magistratura, Guardia di Finanza ed opinione pubblica dovrebbero imbracciare il fucile e premere il grilletto al minimo errore!

Fiore di ortica

In una delle precedenti riflessioni ho riferito della mia passione di raccogliere “fiori”, fiori normali simili a quelli che nascono nei prati delle periferie della nostra città o perfino nei vasi sui davanzali delle finestre delle nostre case. Fuori dalla metafora confesso che mi piace quanto mai deliziarmi della scoperta e della raccolta di certi gesti semplici, gentili, espressione di calda umanità.

Un tempo, come confidavo agli amici, uscivo ogni giorno con il cestello in mano per questa raccolta, tanto che in pochi anni ho riempito due o tre volumetti con questi “fioretti” di stile francescano. Poi uscendo dalla parrocchia ho continuato a mantenere questa passione ma avevo smesso di fissarli sulla carta, come un tempo erano solite fare le ragazze che essiccavano tra le pagine dei loro diari sentimentali certi fiori semplici che ricordavano loro momenti di incontro, di ebrezza e di sogni rosa. Ho ripreso da qualche settimana questa raccolta che allieta il mio animo e lo addolcisce da tutte le brutture e le stonature che purtroppo incontro sui giornali e sullo schermo della televisione.

Confesso però che anche in questa nobile e gentile passione si possono fare degli incontri sgraditi e raccogliere “fiori” che nella sostanza non sono tali perché nascondono sorprese amare e deludenti. Quasi senza accorgermene mi capita talora di cogliere un’ortica oppure un cardo pungente. Eccovi l’ultima avventura amara. Qualche giorno fa due fidanzati controcorrente sono venuti da me per prepararsi alle loro prossime nozze da celebrarsi fortunatamente in chiesa. Durante la conversazione cordiale ed affettuosa mi è capitato di apprendere che in una parrocchia della nostra città, per la sola compilazione dell’atto di matrimonio, sono stati chiesti loro ben duecento euro nonostante lei sia disoccupata e lui un impiegatino di primo pelo. Questo fiore di ortica mi ha riempito di amarezza e di rossore pensando soprattutto a Papa Francesco impegnato in una rivoluzione difficile e piena d’insidie!

Un discorso senza parole

Le mie principali occupazioni sono la celebrazione della liturgia nella mia cara ed accogliente “cattedrale tra i cipressi”, il colloquio con i fratelli colpiti dal dolore per la perdita di un loro caro congiunto e la frequentazione pluridecennale del Camposanto della nostra città.

Ora normalmente entro in cimitero più volte al giorno passando per il grande cancello e attraverso il piazzale degli uffici ma non passa giorno che non imbocchi anche l’entrata storica che dal cancello in ferro battuto porta alla “Cappella della Santa Croce”. A metà strada tra il cancello e la cappella due angeli di bronzo, dalla tomba di don Vecchi ormai da più di vent’anni, annunciano ai passanti la splendida verità: “È risorto, non è più, lo puoi incontrare domani più avanti”. Non passa giorno quindi che non mi soffermi per qualche minuto a guardare l’immagine un po’ sbiadita ma ancora bella di Monsignore, a leggere le due date, quella dell’inizio e quella della fine della sua vita terrena, confrontandole con la mia realtà e a meditare per poi concludere l’incontro con il vecchio maestro con una preghiera.

Durante queste mie soste di riflessione non so più quante volte mi sono ritrovato a pormi le stesse domande: “Chi ricorda ancora la rivoluzione pastorale del delegato patriarcale per la terra ferma? Chi ricorda ancora il suo progetto e le sue opere di pietra e di riorganizzazione della vita ecclesiale? Chi ricorda che Monsignore ha costruito Cà Letizia, Villa Giovanna, il Palazzo delle Comunità, la grande struttura di fronte alla canonica, l’Agorà, il cinema Mignon, il rifugio San Lorenzo? Chi ricorda il progetto per una pastorale globale per Mestre, il centro culturale del Laurentianum, l’opera per i poveri, il segretariato della gioventù, la rivista e il settimanale “La Borromea”? Forse don Franco ed io siamo rimasti gli unici testimoni della grande rivoluzione di Monsignore. Morti noi due tutto sembrerà scontato e normale!

Queste riflessioni mi aiutano a capire che anche per me sarà la stessa cosa e a concludere che l’importante però è rimanere fedeli alla propria coscienza e servire la comunità cristiana senza aspettarsi nulla!

Una scelta sbagliata

L’altra sera, durante il telegiornale, la conduttrice ha letto una laconica notizia: “Civati lascia il P.D.”. Il deputato monzese è uno dei politici di spicco della minoranza o, sarebbe meglio definire, della “fronda” del partito democratico che non condivide le scelte del segretario Matteo Renzi. Premetto che io non condivido per nulla la condotta della sinistra di questo partito, reputo che la sua opposizione sia pretestuosa e preconcetta perché anche se Renzi oggi li accontentasse domani troverebbero altri pretesti per opporsi. Quasi certamente questa opposizione così accanita, tanto da arrivare perfino alla rottura e all’uscita dai ranghi, penso sia dovuta non a motivi ideali ma a “interessi di bottega”! Comunque ammiro, anche se non condivido, la scelta di Civati che abbandona.

Questo episodio abbastanza marginale nella vita del nostro Paese mi offre l’opportunità di ribadire un concetto espresso da Gandhi che ben si adatta a questo tipo di comportamenti. Uscire, sbattendo la porta, credo sia sempre svantaggioso per la causa che si crede giusto portare avanti. Uscendo da una compagine affermata si diventa un nulla ma soprattutto si priva l’organismo in cui si milita di quella dialettica interna che arricchisce sia chi la porta avanti sia chi la subisce. Il confronto, anche polemico, ma soprattutto il dialogo costruttivo fa crescere e fa emergere sempre la linea vincente.

Questo vale nella politica ma anche nella religione. Se torno indietro nel tempo, agli anni del modernismo, i pur validi sacerdoti quali Don Murri o Don Bonaiuti, che hanno rotto con la Chiesa, sono scomparsi e anche più recentemente, al tempo della contestazione del sessantotto, della purtroppo folta schiera di sacerdoti che per dissenso hanno abbandonato, non è rimasto nulla.

Credo sia una scelta saggia e produttiva impegnarsi e perfino contrapporsi rimanendo però all’interno della struttura in cui si milita. Don Mazzolari ebbe come motto “liberi e fedeli” ed ora, nonostante tutte le difficoltà che ha dovuto superare per l’ostilità patita nella Chiesa, pare si ventili la possibilità di introdurre la causa per la sua beatificazione. Da questa convinzione nasce la linea editoriale de L’Incontro.

Benedette parrocchie

In queste settimane, che precedono le elezioni comunali e regionali, ricevo abbastanza di frequente la visita di persone che si sono candidate a compiere questo servizio sociale. Abbiamo ripetuto che i Centri Don Vecchi sono aperti a tutti, proprio a tutti, perché tutti hanno bisogno di imparare qualcosa da essi e noi del Don Vecchi abbiamo veramente bisogno della simpatia e della collaborazione di chi, fra qualche giorno, avrà la responsabilità diretta della comunità cittadina e regionale.

In questi giorni ho avuto modo di fare due considerazioni: la prima è che non tutti i candidati sono degli opportunisti, dei furbastri e degli approfittatori come spesso l’opinione pubblica ritiene e sono sempre più convinto che ci siano dei concittadini spinti da una forte passione civile e da motivazioni ideali alte e molto nobili. Guai al cielo se non ci fossero! Queste persone è giusto, anzi doveroso sostenerle, incoraggiarle perché la società ha bisogno di chi crede nell’utopia! La seconda osservazione è un po’ più amara: in questo mese ho incontrato finora i rappresentanti dei partiti più consistenti e più affermati ma non quelli dei partiti più piccoli che normalmente hanno una carica ideale più genuina e più intensa. Spero che ciò sia avvenuto solamente a causa di un’organizzazione più fragile perché sono profondamente convinto che anche queste formazioni minori abbiano qualcosa di valido da offrire alla Città e alla Regione.

L’altro ieri è venuto il signor Ordigoni, un mio vecchio parrocchiano, che per una vita è stato impegnato nel sindacato e che negli ultimi anni ha fatto il presidente nel quartiere di Favaro Veneto. Quando visitavo i miei parrocchiani, a casa sua incontravo solo la moglie perché l’impegno civile lo ha sempre assorbito. Non vedevo questo “parrocchiano” fin dal tempo in cui ci diede una mano per le vicende del Don Vecchi di Campalto e nella conversazione calda e amichevole che ho avuto con lui mi è piaciuto quanto mai quando mi ha detto: “Don Armando, io credo nelle parrocchie, esse sono sempre disponibili e aperte ad ogni bisogno”. Mi fa piacere che uomini della politica e dell’amministrazione civica abbiano questa considerazione delle comunità parrocchiali!