“Un minuto per Dio”

Molti anni fa mi è capitato di leggere un volume che aveva questo strano titolo: “Un minuto per Dio”.

In questi ultimi anni la televisione di Stato è diventata sempre più secolarizzata e mette a disposizione della proposta religiosa sempre meno spazio offrendo, al massimo, la cronaca di qualche evento religioso. Chi non ricorda le rubriche del passato: “Il Santo del giorno”, “Il pensiero religioso del mattino” e altre simili, rubriche nelle quali, molto spesso, sacerdoti o frati offrivano le loro riflessioni ai telespettatori. I più anziani ricorderanno Padre Mariano, il cappuccino dalla lunga barba bianca che, con quel suo fare accattivante, ebbe tanto successo presso il pubblico italiano.

Il libro in cui mi sono imbattuto raccoglie le riflessioni di fede di un intero anno offerte da un sacerdote bravo e intelligente che una casa editrice cattolica ha pensato di divulgare come raccolta di pensieri mattutini riunendoli in questo volume. Ricordo il pensiero del primo gennaio che riportava il contenuto della prima riflessione ed era presentato con il titolo del volume. Ricordo ancora il filo conduttore del discorso che diceva pressappoco così: “Ogni giorno, per tutti i giorni dell’anno, il buon Dio, per sua liberalità e senza avere alcun obbligo, ci offre 1440 minuti. È possibile essere tanto poco riconoscenti da non dedicargli almeno un minuto per dirgli grazie e per ascoltare la voce del Padre? Ebbene talvolta non gli dedichiamo neppure quel minuto”.

Sollecitato da questa lettura, per vent’anni, ogni giorno, le trasmissioni di Radio Carpini iniziavano con la rubrica: “Il Dio del mattino” a cui io ho dato voce per tutto il tempo che la nostra emittente ha operato. Radio Carpini è stata fatta morire di inedia e per disinteresse ma ogni giorno, quando alle cinque inizia la mia giornata, offro ancora la primizia al Signore e mi trovo bene.

Non posso tacere!

Ieri una mia “giovane” coetanea, che ho conosciuto occasionalmente una dozzina di anni fa, mi ha telefonato per informarmi che “l’operazione” era finalmente giunta in porto.

Sento non solo il dovere ma anche il bisogno di far conoscere ai miei amici lettori de “L’Incontro” questo felice evento perché troppo bello per tenerlo solamente per me. Alcuni anni fa è morta una “signorina” funzionaria del Comune di Venezia, con cui, fin dai tempi in cui ero a San Lorenzo avevo instaurato un rapporto di collaborazione per aiutare i poveri. Questa creatura, che mi ha preceduto in cielo da parecchi anni, aveva fatto testamento a favore della sorella disponendo che ella destinasse tutti gli averi ricevuti in eredità alle missioni e ai poveri. La sorella è la cara “giovane” coetanea che ieri mi ha telefonato per annunciarmi la lieta novella. Ieri ho ricevuto la “parte che aveva destinato ai poveri” perché facessi da suo tramite nell’aiutarli.

“L’operazione”, a cui l’amica fa cenno nella telefonata, non è stata né breve né facile perché si trattava di mettere in regola, con le norme attuali, un “bacaro” vicino a Piazza San Marco e trovare un acquirente che disponesse del denaro necessario per l’acquisto, denaro destinato alla Fondazione per la costruzione di 65 alloggi in quel degli Arzeroni per i divorziati in miseria, per i disabili, per i vecchi preti, per i parenti dei degenti dei nostri ospedali. Ieri la mia “giovane” coetanea mi ha dato il lieto annuncio con voce squillante, fresca, sorridente ed affettuosa come fosse una giovane ventenne felice ed innamorata. In altre occasioni, nel passato, avevo ricevuto questo genere di notizie e ricordo che, anche in quelle occasioni, la voce era la stessa: squillante, fresca ed affettuosa ma sentire a quasi novant’anni che una creatura ti mette a disposizione 675.982 euro è qualcosa che profuma di miracolo! Le ho mandato un bacio per telefono e questa mattina sono andato agli Arzeroni per accertarmi che i muri degli ulteriori 65 appartamenti per i concittadini in difficoltà profumassero di questa carità meravigliosa.

Vedendo la squadra di operai che lavorava di gran lena, ancora una volta ho preso a prestito una frase del Manzoni piena d’incanto: “Là c’è la Provvidenza!”.

San Francesco in versione hippy

Qualche giorno fa mi è giunta la “partecipazione” alla “Professione perpetua” di un giovane del mio quartiere. Forse non tutti sanno che quando un giovane o una ragazza decidono di entrare in un ordine religioso non vengono spalancate loro le porte dei conventi e non viene nemmeno fatta indossare loro la tonaca. Prima devono compiere un lungo tirocinio, che in linguaggio religioso è chiamato “noviziato”, per verificare se la chiamata viene veramente dal Cielo e se hanno le attitudini per abbracciare la vita religiosa.

La “partecipazione” mi ha informato che il 5 settembre, in un convento milanese dei Frati Cappuccini, questo giovane, assieme ad altri sei compagni, emetterà i voti di povertà, di castità e di obbedienza secondo la regola dettata da San Francesco, il poverello di Assisi. Questa notizia mi è particolarmente cara perché stimo e voglio un gran bene a questo ragazzo quasi trentenne che ho conosciuto, nella mia “cattedrale tra i cipressi”, in una tarda mattinata di quattro anni fa.

Ricordo come adesso l’emozione che provai quando mi confidò che, dopo aver fatto diverse esperienze e dopo una intensa ricerca interiore, aveva deciso di entrare nell’Ordine dei Cappuccini indossando il saio di San Francesco per vivere la sua spiritualità. Ricordo ancora che, pochi giorni dopo avermi fatto questa confidenza, si spogliò dei suoi averi donandomi settantamila euro, cioè tutto quanto possedeva, per i poveri e poi chiese ai frati di accoglierlo. La cartolina di partecipazione mi ha aperto il cuore alla letizia francescana perché non era per nulla sussiegosa e formale ma riproduceva il globo terrestre sorretto da sette fraticelli sereni e sorridenti.

Finché si possono incontrare giovani del genere possiamo tranquillamente sognare un mondo migliore

Il polo solidale del don Vecchi

Monsignor Valentino Vecchi pensava di avere fiuto per l’economia, fiuto che sosteneva di aver ereditato dalla madre, rimasta vedova con due bambini piccoli, uno dei quali era appunto lui. Lei si era inventata materassaia prima e poi padrona di una bottega di carbone. Quando Monsignore cedette il terreno di via Carducci sul quale fu costruito uno dei primi ipermercati di Mestre, noi giovani preti eravamo decisamente contrari: in primis perché ci veniva a mancare il campo da gioco del patronato che si trovava accanto al cinema Concordia e in seconda battuta perché pensavamo che l’ipermercato avrebbe messo in crisi le piccole botteghe di Mestre. In realtà le cose andarono proprio così ma Monsignore tentava di indorarci la pillola affermando che secondo le leggi di mercato dove c’è una concentrazione di negozi significativi prosperano anche quelli minori se si specializzano. Devo dire che non aveva proprio tutti i torti, ma neanche tutte le ragioni.

In forza di questo principio, io ho sempre lavorato perché le varie agenzie caritative che ruotano attorno al Don Vecchi non si lasciassero incantare dalla delocalizzazione, ma rimanessero unite, da un lato perché “l’unione fa la forza” e dall’altro perché la concentrazione di questi servizi aiuta tutti ad avere una clientela più numerosa e garantita. Finora, nonostante tutte le “tentazioni” e tutti i tentativi la cosa è andata avanti così e mi auguro che continui. Ho però una certa preoccupazione perché non tutti i responsabili si sono formati alla scuola del Don Vecchi e non sono neppure discepoli di don Mazzolari, di don Milani, dell’Abbé Pierre, di Madre Teresa di Calcutta o di San Vincenzo de’ Paoli! In questi giorni di agosto nel capofila del Polo Solidale “Vestire gli Ignudi” che conta su circa cinquantamila clienti all’anno c’è più silenzio e meno folla del solito, tanto che sono un po’ preoccupato anche per gli “affari” di “La Buona Terra” che si occupa della distribuzione di frutta e verdura e dello “Spaccio Solidale” che distribuisce generi alimentari donati dagli ipermercati Cadoro.

Ancora su don Ciotti

Don Ciotti, il prete di cui ho parlato ieri, non lo ritenevo molto gradevole, un po’ per quella sua voce rauca, un po’ per la capigliatura trasandata ed un po’ perché mi pareva che bazzicasse troppo la gente di sinistra. Ora però ho capito che è un gran prete, uno dei sacerdoti più significativi del nostro tempo e del nostro Paese.

A farmi cambiare idea è stato un suo discorso riportato su una rivista cattolica in cui affermava che il Cardinal Pellegrino, il grande arcivescovo di Torino che l’Ordine dei Benedettini ha offerto alla Chiesa Italiana, il giorno in cui lo ha consacrato prete, forse intuendo, da uomo di Dio quale fu quel vescovo, la particolare personalità di quel giovane prete montanaro delle Dolomiti, gli assegnò come parrocchia la strada. In realtà don Ciotti è sempre stato un prete di strada, un prete che ha sempre voluto incontrare non gli uomini e i cittadini da manuale ma gli uomini autentici del nostro tempo, con i loro pregi ma anche con le loro enormi deformazioni assunte da un mondo assolutamente secolarizzato. Ebbene oggi ho avuto modo di “incontrarmi” con don Ciotti. Vi dico come.

Un mio amico pompiere in pensione, attualmente in montagna, mi ha telefonato dicendomi di mettermi in contratto con un droghiere di Piazza Ferretto che mi avrebbe fornito l’indirizzo per ottenere un carico di pesche. Luigi, il factotum del don Vecchi, l’uomo per ogni evenienza, anche la più imprevedibile, ha preso il suo furgone ed ha portato a casa una quindicina di quintali di pesche di prima qualità provenienti dall’Italia del Sud. Queste pesche sono state raccolte da una cooperativa di “Libera”, l’organizzazione di don Ciotti a cui sono state assegnate le campagne sequestrate alla mafia e che, non so per quale strada, sono giunte alle organizzazioni di beneficenza del nostro Nord. Pochi giorni fa ho letto una frase in cui si afferma che “l’impatto di un sasso lanciato nel fiume provoca dei cerchi concentrici che arrivano fino a sponde quanto mai lontane e sconosciute”. Il sasso di don Ciotti, ossia le sue pesche, ha raggiunto anche me e i poveri di Mestre!

“La mia pagina bianca”

Da molti anni sono abbonato al bimestrale “Se vuoi”, una bella rivista edita dalle suore di San Paolo, le discepole di don Alberione l’apostolo dei mass-media cattolici, rivista che pone ai giovani il problema delle scelte nella vita. Il discorso, che di certo pone il problema della propria vocazione e del posto che si vuole occupare nella società, penso sia di grande interesse per queste suore perché oggi anche la loro congregazione religiosa, che fino a una trentina di anni fa poteva contare su un crescente numero di ragazze che sceglievano di dedicare la propria vita alla diffusione dei mezzi di comunicazione con cui la Chiesa tenta di calare il progetto cristiano nella società attuale, risente della crisi che ha investito in maniera massiva tutto il mondo delle suore.

Qualche giorno fa, mentre sfogliavo un numero di questa rivista per cogliere i servizi più interessanti, sono stato colpito da una frase di don Luigi Ciotti, il sacerdote cadorino che con il progetto “Abele” per molti anni si è dedicato ai tossicodipendenti e che in questi ultimi dieci anni ha spostato il suo obiettivo impegnandosi, con tutte le forze, contro la mafia, ogni tipo di mafia.

La frase che ha attirato la mia attenzione e che mi ha letteralmente investito è la seguente: “Non dobbiamo fermarci, la storia ha bisogno di noi. Nella storia c’è una pagina bianca che siamo chiamati a scrivere. È nostra! Ci è stata affidata. È Dio che ci dice: Scrivila Tu!”. Quest’ultima battuta è scritta in rosso e a caratteri cubitali tanto che ho avuto l’impressione che mi prendesse per il bavero e mi mettesse contro il muro. Ormai da parecchi anni non sogno altro che di farmi da parte, di delegare e mi ripeto frequentemente: “Ho fatto il mio tempo, ora tocca ad altri”. Adesso, dopo aver letto questo messaggio, mi vien da pensare che Dio si aspetti da me ancora qualcosa anche se piccola. Posso dirgli di no?

Incidenti sul lavoro

Ho scritto fin troppe volte che, essendo un prete vecchio e pensionato, la mia occupazione principale è quella del “suffragio” e del “commiato”, un “lavoro” che a molti può sembrare marginale ma che invece io vado scoprendo ogni giorno di più quanto può diventare importante ai fini dell’annuncio del regno. Mi pare quindi quanto mai doveroso che io tenti di specializzarmi in questo aspetto della vita pastorale per poter fare il meglio possibile.

Il commiato cristiano mi offre sempre l’opportunità di fare una breve ma incisiva catechesi su argomenti fondamentali: la vita considerata come dono di Dio, l’opportunità di trasformare l’esistenza come un servizio ai fratelli, la prova come mezzo per una purificazione interiore, la prospettiva di una vita nuova, l’annuncio della misericordia e della paternità di Dio, l’assurdo di una esistenza senza la prospettiva dell’eternità.

Questa catechesi risulterebbe abbastanza arida però se non ci fosse almeno qualche piccolo riferimento alle vicende della persona a cui mi si è stato chiesto di dare l’ultimo saluto guidando la preghiera della comunità. Questi cenni particolari dovrebbero essere marginali mentre alcuni familiari si aspetterebbero che trasformassi l’omelia in un elogio funebre.

Tempo fa la figlia di un defunto se n’è avuta a male perché non ho citato il nome del nipotino tanto amato, in un’altra occasione un congiunto si è lagnato perché non avevo accennato all’amore del morto per gli animali. Qualche giorno fa, ho preso contatto con la moglie di un defunto e lei mi ha detto di lui quanto di meglio si può dire: buono, generoso, altruista, impegnato; però mentre lo accompagnavo alla sepoltura e parlavo della generosità dell’estinto con l’incaricato delle pompe funebri egli mi ha detto: “Ma don Armando, la signora non le ha anche detto che il marito ha trascorso più anni in galera che fuori?”. Purtroppo anche questi sono incidenti del mestiere!

Gli arti delle parrocchie

La parrocchia è la comunità di base dell’organizzazione della Chiesa Cattolica, essa ha compiti specifici e per perseguire i suoi obiettivi necessita di strumenti. Mi pare sia di dominio pubblico che la parrocchia debba provvedere al culto organizzando la preghiera pubblica e privata, debba provvedere alla catechesi sia per i bambini che degli adulti per far loro conoscere il messaggio di Gesù ed infine debba organizzare la carità al suo interno. Una parrocchia che non sia impegnata per il culto, la catechesi e la carità è una comunità monca, incompleta e carente di quegli elementi che sono essenziali per la sua stessa vita.

Per quanto riguarda il culto e la catechesi non c`è parrocchia che in qualche modo non provveda, vi sono parrocchie seriamente impegnate che mettono in atto le soluzioni più avanzate e rispondenti alle attese e alla sensibilità degli uomini d’oggi, mentre altre tirano a campare rifacendosi ad una tradizione ultra secolare con risultati evidentemente deludenti, comunque tutte le parrocchie in qualche modo sopravvivono anche se talora vegetano.

La carità invece pare che in molte di esse non desti alcuna preoccupazione, tanto da farle apparire prive di un arto e quindi squilibrate e terribilmente zoppicanti. Questa è una carenza mai sufficientemente denunciata! Una parrocchia, che non abbia un’organizzazione della carità almeno decente, dovrebbe chiudere perché priva di un arto essenziale per esercitare il suo ruolo.

Come risolvere il problema? Ci dovrebbe essere una sensibilizzazione da parte del Vescovo e della Caritas che è l’organismo istituzionale a cui è stato affidato l’incarico di promuovere la solidarietà. Purtroppo pare che anche questi organismi siano poco sensibili a questa esigenza che rimane ancora tanto marginale nella preoccupazione di Vescovi e parroci. Temo che anche le parrocchie più sensibili a questo dovere e più attrezzate per realizzarlo sbaglino quando tentano di fare supplenza. Ritengo sia doveroso stimolare le singole parrocchie ad attrezzarsi per la carità perché le supplenze favoriscono la pigrizia e l’incoerenza.

Burocrazia

Sono da sempre convinto che qualsiasi apparato burocratico, specie se di enti statali o parastatali, sia una delle più grosse palle al piede che impedisce alle strutture un passo veloce ma soprattutto una produttività che giustifichi un numero così grande di dipendenti. In tempi lontanissimi di questa sensazione, quasi istintiva, ebbi una dimostrazione teorica.

Monsignor Vecchi era molto amico della famiglia Coin, i notissimi imprenditori veneziani, ma soprattutto di uno dei suoi giovani rampolli: il dottor Piergiorgio. Monsignore, quando questo giovane imprenditore veniva a fargli vista, spesso lo invitava a pranzo. Il dottor Piergiorgio, che collaborava con il fratello Vittorio alla conduzione della grande azienda familiare, come tutti i giovani era curioso e desideroso di aggiornarla dal momento che essa poggiava ancora sul fiuto commerciale dei vecchi fratelli Alfonso e Aristide, rispettivamente loro zio e padre. Durante il pranzo normalmente si parlava sia della nostra parrocchia sia della sua azienda e a questo giovane imprenditore piaceva quanto mai raccontarci dei viaggi in America che faceva per aggiornarsi sulle metodologie più avanzate di gestione e di vendita. Ricordo di aver appreso allora che quando in un’azienda il numero di impiegati supera un certo livello invece di essere produttivi finiscono per intralciare il lavoro e per costituire un peso per l’azienda stessa.

Quando penso ai tremilaseicento dipendenti del Comune di Venezia e agli oltre seimila delle società controllate dal Comune, mi spiego l’assoluta inefficienza dell’apparato comunale e penso che questa realtà valga anche per la Regione per non parlare poi dello Stato. Quindi non capisco perché, se è scientificamente dimostrato che un numero di dipendenti così elevato è più dannoso che utile, Renzi non faccia fare una cura dimagrante all’apparato statale e Zaia e Brugnaro non facciano altrettanto in Regione e in Comune rendendo questi organismi leggeri, efficienti, meno costosi e soprattutto impegnati a servire i cittadini e non a rendere la loro vita sempre più difficile.

Onore ai militi ignoti

Perdonatemi amici lettori se ancora una volta ricordo “il mio maestro”, Monsignor Valentino Vecchi, però una sua affermazione calza così bene al discorso che voglio fare, che proprio non riesco a non citarlo una volta ancora. Gli antichi affermavano “Repetita iuvant” perché il chiodo per conficcarsi deve essere colpito più volte con il martello però è altrettanto vero anche quello che noi studenti di tempi lontani aggiungevamo in un latino maccheronico che non serve tradurre: “ma stufant”.

Questa è l’osservazione di don Valentino Vecchi: “Quando una persona entra in un edificio di pregio, d’istinto cerca con gli occhi i marmi lavorati artisticamente, i capitelli corinzi, ionici o dorici con le relative colonne e quasi mai il suo sguardo e il suo pensiero vanno a quelle umili pietre di terracotta coperte dall’intonaco che sostengono l’edificio”. Ebbene in questi ultimi anni della mia vita, in cui spesso vengo a conoscere concittadini ai quali porgo l’ultimo saluto prima di consegnarli alla paternità di Dio, sento il dovere di onorare e di ringraziare quegli uomini e quelle donne umili che hanno fatto il loro dovere, che si sono spesi per le loro famiglie e che spesso si sono anche fatti carico dei fratelli più poveri.

Inizialmente nel mio sermone cercavo di illustrare feste particolari, imprese di valore, episodi significativi ma poi, piano piano, ho capito che non c’è niente di meglio e di più importante per la società che incontrare galantuomini, donne di casa e genitori che hanno cresciuto la loro famiglia trasmettendo valori autentici. Sono assolutamente certo che la nostra società non si è ancora sfasciata e sta ancora in piedi solamente grazie a questi uomini e donne che hanno fatto il loro dovere in silenzio, con tanto sacrificio e non certo per merito di quei parolai che riempiono ogni giorno le pagine dei giornali con i loro volti, le loro chiacchiere e le loro beghe inconcludenti. Perciò oggi depongo, con rispetto e riconoscenza, la mia corona d’alloro per onorare la vita e la memoria di questi “militi ignoti” ai quali dobbiamo tutto, ma proprio tutto!

Democrazia

A me piace la democrazia però senza aggettivi che la qualifichino, aggettivi che temo la svuotino del suo contenuto autentico. Io non ho mai accettato l’abbinamento tra il termine “democrazia” e l’aggettivo “proletaria”, abbinamento in uso tra i comunisti di un tempo convinti di rafforzare, con questo connubio, il concetto stesso di democrazia perché questa parola è già sufficientemente densa di significati anche senza l’integrazione di aggettivi vari. Ritengo che la democrazia, il cui significato è “governo del popolo”, sia un po’ come una coperta che viene tirata ora da una parte ora dall’altra a supporto di decisioni e di scelte in cui spesso quel popolo, che dovrebbe esercitare la sovranità in via indiretta attraverso rappresentanze elettive, viene ignorato.

L’ingovernabilità è una malattia endemica del nostro Paese e spesso ci ha fatto assistere alla paralisi decisionale anche quando i governi potevano contare su solide maggioranze. La dialettica interna recentemente è degenerata in lotta ideologica e di potere, sia all’interno del partito di maggioranza relativa che in altre formazioni politiche, creando tensioni che generanno instabilità. Anche il premier Renzi, all’interno del suo partito, deve fare i conti con queste tensioni provocate da divergenze con la minoranza interna, tensioni che anche Renzi ha cavalcato quando, a sua volta, era minoranza. Noi non possiamo fare altro che pregare e sperare che il buon senso prevalga in tutti coloro che hanno responsabilità politiche.

La maggioranza deve quindi esercitare il mandato di governare, l’opposizione il suo ruolo di controllo propositivo e ambedue, superando sterili contrapposizioni, non devono dimenticare che il loro mandato è quello di operare, nel rispetto dei reciproci ruoli, per il bene di tutti senza continui ed inutili balletti per rimpallarsi la responsabilità della realtà in cui stiamo vivendo.

Ho fatto questa premessa non per un’esercitazione dialettica ma per affermare ad alta voce che mi irrita che Camilla Seibezzi, delegata dal sindaco Orsoni per i diritti civili, le politiche contro la discriminazione e la cultura, pretenda di imporre all’attuale sindaco Brugnaro, che tra l’altro non condivide le sue convinzioni, di adeguarsi ai suoi sballati concetti sul sesso, sui genitori e sulla teoria gender. Desidero mettere in guardia il nuovo sindaco affinché non si lasci condizionare dagli schieramenti politici estremi, dai sindacati, dai centri sociali e dai comitati che spuntano come funghi dopo una pioggia perché se così facesse non avrebbe scampo e quindi gli consiglio di accettare il messaggio di questo vecchio prete: “Tenga duro e non si lasci condizionare da questi cattivi profeti!”.

Il ristorante

Il Patriarca Roncalli mi ha insegnato che quando mi sta a cuore qualcosa, che ritengo utile o necessaria, se ne parlo un po’ con tutti, prima o poi troverò qualcuno disposto a darmi una mano. Ho fatto tesoro del consiglio di questo santo vecchio e confesso che mi sono trovato bene e, anche se non sempre le cose sono andate secondo i miei calcoli, le mie attese e i miei convincimenti, ho comunque “ho portato a casa” sempre qualche risultato. Io sono un uomo che si “innamora a prima vista”, ed è soggetto ai “colpi di fulmine”, quindi quando intravvedo la possibilità di realizzare un nuovo progetto mi butto a capofitto e finché non riesco a realizzarlo non trovo pace e non demordo.

L’ultimo “colpo di fulmine” è quello di riuscire ad aprire un “ristorante” per i poveri che soffrono in silenzio, che non sono soliti batter cassa né in parrocchia né in Comune, ma vivono con dignità il loro disagio, magari tirando la cinghia. Tanti anni fa, durante la benedizione delle case, conobbi una famiglia che viveva in una casa pulita e ordinata e manteneva un regime di vita che fino ad allora mi era parso nella norma, successivamente però venni a sapere che erano soliti comperare quasi esclusivamente alette di pollo perché non potevano permettersi molto altro. Ora vorrei dare una mano a questa gente povera, ma dignitosa offrendo loro la cena almeno per un mese o se possibile anche più a lungo con l’auspicio che riescano a superare le difficoltà in cui si dibattono. Finora ho ottenuto la disponibilità del catering “Serenessina Ristorazione” ad offrirci fino a centodieci pasti per sera. Spero che la Fondazione metta a disposizione la sala da pranzo e quanto altro può servire e che qualche concittadino di buona volontà si renda disponibile per il servizio e per l’organizzazione che credo sarà un po’ complessa.

Il guaio e l’ostacolo più grave è la mia età, ormai ho quasi novant’anni e mentre il cuore e il cervello sono ancora in buone condizioni il resto è logoro. Ma volete che a Mestre non ci sia qualcuno più giovane e più bravo di me disposto a dar vita a questa meravigliosa e insperata opportunità?

L’esercito di Brancaleone

Quando qualcuno è costretto ad avvalersi di collaboratori impreparati, rissosi, indisciplinati, poco obbedienti e soprattutto con idee ed obiettivi poco chiari e poco definiti, è normale pensare che con simili soggetti non si possa andare troppo lontano e non ci si possa illudere di vincere la guerra.

Fuori dalla metafora, quello che io con tono pomposo e trionfalistico chiamo: “Il Polo Solidale del Don Vecchi” è composto da cinque brigate: “La Fondazione Carpinetum” e le associazioni di volontariato “Vestire gli Ignudi” (vestiti), “Carpenedo Solidale” (arredo per la casa e generi alimentari), “La Buona Terra” (frutta e verdura) e “Lo Spaccio della Solidarietà” (ritiro e distribuzione di generi alimentari in scadenza dai sette supermercati Cadoro). Queste cinque brigate, possono contare all’incirca su trecento elementi. I comandanti sono tutti “capitani di ventura” provenienti da impegni precedenti svolti nelle attività più disparate. La truppa poi è reclutata in maniera sommaria senza andare troppo per il sottile e tra le sue fila annovera sia persone che hanno fatto scelte precise e meditate e svolgono le loro mansioni in maniera estremamente coscienziosa e responsabile sia soggetti inviati dal Comune per un loro inserimento sociale, tra questi due estremi poi c’è un po’ di tutto: disoccupati, persone che non sanno come passare il tempo, altre che hanno bisogno di compagnia e c’è perfino qualcuno che spera di trarre dal volontariato qualche vantaggio economico, magari in generi alimentari o altro.

Le battaglie a favore dei più bisognosi le dobbiamo fare con questo esercito di Brancaleone, certamente difficile da governare, e quando qualcuno ogni tanto ci suggerisce nuove regole, maggior disciplina e una miglior selezione io non me la sento di accogliere questi buoni consigli perché temo che tutto si sfasci e venga a mancare l’aiuto ai poveri. Alla fin fine però mi consolo perché con questa formazione tanto eterogenea in vent’anni abbiamo distribuito, bene o male, decine di migliaia di tonnellate di aiuti di ogni genere: spero perciò che tutto questo continui almeno finché campo.

Pozzo senza fondo

Ho già raccontato ai miei amici che sessant’anni fa confidavo a Monsignor Aldo Da Villa, mio vecchio parroco di allora e oratore quanto mai brillante e convincente, la mia grossa difficoltà nel preparare il sermone per la domenica e l’angoscia che provavo al pensiero che l’anno successivo avrei dovuto commentare lo stesso brano del Vangelo dicendo qualcosa di nuovo.

Monsignore mi rassicurò affermando che la Parola del Signore è la manifestazione di Dio stesso e quindi, per sua stessa natura, sconfinata ed infinita nei contenuti. Ebbi fiducia di quel bravo prete e da più di sessant’anni continuo a commentare il Vangelo scoprendovi, per fortuna, sempre qualcosa di nuovo, di bello e di utile.

La settimana scorsa la liturgia della domenica offriva ai fedeli la pagina del Vangelo di Giovanni che parla della moltiplicazione dei pani e dei pesci, il miracolo con cui Gesù sfama una folla di cinquemila uomini oltre alle donne e ai bambini. Quello che è quanto mai interessante però è la modalità con cui Cristo compie questo miracolo. Fin dal primo approccio della mia preparazione ho scoperto alcune verità che mi sono parse non solo interessanti, ma estremamente attuali e rivoluzionarie. Ne faccio un accenno per sommi capi sperando che mi capiti l’occasione di tornare sull’argomento in maniera più esaustiva.

  • “Una grande folla segue Gesù vedendo i segni che compiva nei riguardi dei sofferenti”: se la Chiesa vuole avere maggior seguito deve occuparsi sempre più concretamente di chi è in difficoltà.
  • “Gesù si preoccupa e sfama la gente”: Gesù quindi è venuto per la salvezza globale dell’uomo e non solamente per le anime o per l’aldilà come pensano troppi cristiani.
  • “Provvedete voi dice agli apostoli”: loro obiettano che neanche con una somma ingente avrebbero potuto farlo, è quindi evidente che mentre noi poveri uomini commisuriamo il nostro impegno per i poveri alle nostre disponibilità, Gesù invece parte dalle esigenze di chi ha bisogno.
  • “II bimbo con i cinque pani e i tre pesci”: ognuno deve fare la sua parte impegnandosi senza se e senza, il resto lo fa il Signore.
  • “Raccogliete gli avanzi”: nulla di più attuale nella società dei consumi.

Sono andato a mendicare!

Oggi ho dedicato la mattinata a fare il mendicante e per farlo ho dovuto perfino annullare la Messa che celebro ogni giorno in cimitero. È vero che in passato ci sono stati preti come don Marella di Pellestrina, che quotidianamente si metteva in un angolo di una delle strade più trafficate di Bologna per chiedere la carità necessaria a mantenere i poveri della “Città dei Ragazzi” che egli aveva fondato ai margini della città attorno agli anni ’30-’40, confesso però che a me è costato quanto mai mendicare presso un funzionario della Regione il permesso di poter continuare a distribuire i vestiti alla folla di concittadini e di extracomunitari che per potersi vestire decentemente accedono “all’ipermercato degli indumenti” del Polo Solidale del Don Vecchi. Mi è costato tanto perché l’ente pubblico, che in questo caso è la Regione, invece di favorire ed aiutare queste associazioni di volontariato del privato sociale, che rappresentano in assoluto il meglio della nostra società, mettono loro i bastoni fra le ruote, con imposizioni banali, assurde ed inconcepibili usando le leggi come un capestro piuttosto che come uno strumento per aiutare i più poveri.

Sono stato in Regione dove come sempre ho incontrato una marea di impiegati e di dirigenti che la comunità purtroppo paga per creare grane piuttosto che per risolvere i problemi. Io sono certamente un povero “Nàne” ma da sessant’anni bazzico tra i poveri e i volontari e potrei aprire una scuola, non solamente per gli impiegati ma anche per i dirigenti, per insegnare a questi funzionari tutto sui poveri e sulle persone che si occupano di loro. In più di un’occasione mi sono trovato davanti a persone assolutamente incompetenti, amanti delle carte con le quali si trastullano da mane a sera, e purtroppo, per amore della povera gente, ho dovuto “mangiare il rospo” e sono stato costretto ad assecondarli perché hanno loro il coltello dalla parte del manico.