I miei discepoli

Questa mattina mi ha colpito un’inquietante domanda che si è posta una fedele californiana: “Chi sta seguendo Gesù grazie al mio esempio?”.

Questa discepola di Gesù annota poi tra il compiaciuto e il confortato: “Quando un’amica ha notato che, durante la pausa pranzo, leggevo la Bibbia mi ha chiesto se fosse quello che mi manteneva serena”. Continua poi dicendo che l’amica le aveva chiesto di cominciare a studiare la Bibbia e a pregare assieme. Credo che una domanda del genere dovrebbe porsela ogni cristiano convinto e in modo particolare ogni prete e in maniera particolarissima un vecchio prete come me che è giunto ormai quasi al termine della sua vita e dei suoi giorni.

Questa mattina quindi mi sono sentito costretto a fare il punto sul risultato dell’attività di apostolato che ho cercato di svolgere, al meglio delle mie possibilità, durante i novant’anni della mia vita e i sessantacinque anni del mio ministero pastorale. Di primo acchito mi ha consolato ricordare che due miei ragazzi sono diventati sacerdoti molti anni fa: uno, uscito dalle fila dell’Azione Cattolica, si è fatto gesuita e da tantissimi anni è missionario in Giappone mentre l’altro, uscito dai miei scout, da molto tempo è il parroco di una piccola parrocchia in riva al Piave. Alcune ragazze, che mi consideravano il loro padre spirituale, sono diventate suore e una grande moltitudine sono diventate ottime mamme. Non passa giorno poi che qualcuno, più o meno anziano, non mi fermi per ricordarmi i “bei tempi” dei Gesuati, di San Lorenzo, di Carpenedo, della San Vincenzo, degli Scout, del Pacinotti, delle Magistrali, dei Maestri di Azione Cattolica o mi ricordi che li ho sposati, ammessi alla comunione o celebrato il commiato dei loro cari.

Di certo la mia vita è stata lunga e intensa, e credo che moltissima gente mi ricordi con affetto e riconoscenza però non so se le tante persone che ho incontrato, attraverso la mia testimonianza, siano diventate veramente discepoli di Gesù. Ora non mi resta che pregare per tutti.

“Conversione” parziale

Pochi giorni fa ho tentato di fare un abbozzo di riflessione su un fenomeno religioso che è suggerito, e forse anche imposto dalla globalizzazione perché, mai come oggi, vuoi per i mass-media, che raggiungono anche l’angolo più remoto della terra, e vuoi per il rimescolamento progressivo che sta avvenendo tra popoli tanto diversi, si genera anche un rimescolamento di culture, tradizioni e costumi.

Nella mia fanciullezza non ricordo di aver mai incontrato nel mio paese natio un uomo di colore. I primi li ho conosciuti al tempo delle elementari quando ci veniva insegnato che l’Italia aveva bisogno dell’Impero e per raggiungere tale scopo il Duce inviò in Etiopia i nostri soldati a “civilizzare” i sudditi del Negus. Quelli erano i tempi di “Faccetta Nera”. Il Don Vecchi ora, invece, è un centro cosmopolita nel quale si possono incontrare cittadini di tutte le nazionalità. Riferendomi alle parole del Cardinal Scola, nostro vecchio Patriarca, che amava definire questo rimescolamento “meticciato” civile e religioso, mi sono chiesto “Ma io sto subendo qualche influenza a livello civile, culturale e religioso dal progressivo contatto con culture e civiltà tanto diverse?”.

Ho constatato che purtroppo, o per fortuna, questo sta avvenendo. Tutti sanno come il buddismo predichi il rispetto per ogni creatura. Un tempo il rispetto per le vacche, tanto diffuso in India, mi faceva ridere, ora non più. Ho scoperto di aver imparato in maniera inconscia a rispettare anche le creature più minute. Quando suor Teresa spazza la casa dalle formiche mi disturba, accetto a malapena la “guerra” alle zanzare perché la considero legittima difesa. Da un po’ di mesi, sul grande prato davanti al terrazzino del mio alloggio, è comparsa una famigliola di nutrie che verso sera escono per brucare l’erba e, quando ho appreso che le vogliono eliminare, confesso che mi dispiace tanto sembrano pacifiche e indifese. Confesso anche che questa mia parziale conversione all’induismo non mi provoca né dispiacere né pentimento.

Osmosi religiosa

L’anno scorso o due anni fa, non ricordo, parlai ai miei amici lettori de “L’incontro” del forte impatto interiore e dei molti problemi di ordine religioso e soprattutto ecumenico che mi aveva posto la lettura del volume: “L’uomo planetario” di Ernesto Balducci, un padre scolopio di cui avevo conosciuto il pensiero attraverso la lettura della rivista “Testimonianze”, rivista che questo religioso ha diretto per molti anni.

Le tesi di questo volume sono quanto mai avanzate a livello religioso, egli parla infatti della fatale commistione che sta avvenendo tra le varie religioni. In un mondo globalizzato, come il nostro, la cultura e la fede non sono più legate fortemente ai continenti e alle tradizioni particolari ma si stanno mescolando nel “villaggio globale” in cui ora viviamo. Balducci si spinge anche oltre immaginando che è possibile ed auspicabile che si cerchi un denominatore comune tra le varie religioni perché esso diventi asse portante della religiosità e ci consenta di arricchirci del meglio che ogni cultura e ogni tradizione possono offrire alle altre chiese e alle altre fedi.

Queste tesi sono per me ardite e non so quanto si debbano considerare ipotesi di studio o dati di fatto ormai acquisiti. Mi astengo quindi dall’esprimere un giudizio anche perché si tratta di discorsi difficili e finora poco esplorati.

Sento però il bisogno di fare qualche piccola confidenza di carattere personale. Un paio di anni fa mi ha edificato e commosso un vecchio mussulmano che, tra le auto del parcheggio del Don Vecchi, si è inginocchiato per lodare Dio incurante del giudizio dei passanti. Mi fa bene incontrare quei giovani mormoni, vestiti in abito scuro, corretti e ordinati, che a due a due, muovendosi ora a piedi ora in bicicletta, offrono un anno della loro vita per fare i “missionari” nella nostra come nelle altre città; mi fanno riflettere anche quei giovani buddisti vestiti di arancione che, imperturbabili e sorridenti, offrono la loro testimonianza di fede in un mondo lontano anni luce dal loro; non condivido invece l’atteggiamento insistente da integralisti dei Testimoni di Geova anche se sono edificato dal coraggio con cui accettano rifiuti talora sgarbati alla loro proposta religiosa; mi commuovono, mi edificano, mi inorgogliscono e mi mettono in crisi i giovani cattolici del movimento “Nuovi Orizzonti” che danno testimonianza di fede ed invitano alla preghiera la gente che incontrano per strada e ammiro gli adulti che in silenzio testimoniano il valore della famiglia. Mi pare tanto bello che ognuno offra il meglio del suo bagaglio spirituale accogliendo positivamente anche la testimonianza di fede dei “comunque” credenti.

Conversione al rovescio!

L’anno scorso mio fratello don Roberto ha scritto su “Proposta”, il bollettino parrocchiale della Parrocchia di Chirignago, un articolo che mi ha lasciato di stucco e che ha cominciato a farmi riflettere su un problema che mai aveva sfiorato la mia mente. In questo articolo mio fratello scriveva che da un po’ di tempo non vedeva uno dei ragazzi della sua parrocchia e quando gli capitò di incontrarlo per caso gli chiese: “Come mai? È un bel pezzo che non ti vedo!” e questi, sereno come dicesse una delle cose più banali e scontate, gli rispose: “Scusi don Roberto, mi sono fatto mussulmano!”.

Qualche mese fa una donna, vedova di un mio carissimo amico, cristiana convinta e praticante assidua, mi confidò con amarezza che uno dei suoi figli si era convertito al buddismo e poi continuò: “È rimasto però tanto buono e caro con la moglie e con i figli”. Nonostante queste note positive però era sgomenta di fronte a questa inaspettata conversione perché, evidentemente, come me, aveva sempre pensato che la conversione semmai riguardasse il passaggio da un’altra religione alla nostra e non viceversa. Mi fece così tanta tenerezza che tentai di consolarla dicendole che forse era preferibile un buon buddista ad un cattivo cristiano!

Infine qualche giorno fa mi è capitato un altro caso che mi ha lasciato letteralmente stordito. Un concittadino al quale ho telefonato perché l’indomani avrei celebrato il funerale di suo padre mi ha detto che questi era un laico, cioè in pratica voleva dire: un libero pensatore, non praticante o perlomeno indifferente nei riguardi della religione e soggiunse poi con naturalezza che lui e sua sorella si erano convertiti al buddismo. L’indomani ho celebrato il commiato cristiano e non ho avvertito nessun disagio e stridore interiore, abbiamo pregato il buon Dio e assieme abbiamo riflettuto sul mistero della vita e della morte in maniera più seria del solito.

In merito a questo problema sono arrivato per ora a due conclusioni. Noi cattolici non siamo per nulla attrezzati per far capire la bellezza sovrana del messaggio di Gesù e perciò è assolutamente necessario riflettere sulla questione più seriamente e la nostra religiosità deve diventare più aperta, più accogliente, scoprendo un denominatore comune tra i credenti che ci aiuti a sentire che abbiamo comunque un Padre comune che ci ama e che ci spinge ad una vita veramente più fraterna.

Una magnifica opportunità

Nota della redazione: questo articolo, come gli altri, risale a diverso tempo fa. Come è noto il ristorante è stato poi realizzato.

Don Gianni è il nuovo direttore de “L’incontro” ma il compito di impaginarlo è stato affidato ancora a me. Credo di essere un collaboratore poco allineato, con idee alquanto personali e poco disposto a non alimentarle.

Non ho ancora capito se don Gianni e il Consiglio di Amministrazione della Fondazione abbiano colto la magnifica opportunità che consente di aprire un ristorante per le famiglie e per i singoli che apparentemente vivono una vita dignitosa e normale ma che in realtà versano in condizioni di notevole disagio per la scarsità di risorse economiche. Che esista questa categoria di persone credo che nessuno possa metterlo in dubbio; che a Mestre non ci sia una risposta a questo tipo di “povertà dignitosa” è altrettanto certo; che la disponibilità del catering “Serenissima Ristorazione” sia una grazia del cielo nessuno lo può negare ed è altresì certo che la Fondazione dei Centri Don Vecchi abbia, a portata di mano, la possibilità di realizzare questo progetto senza esporsi economicamente. Ritengo che offrire un aiuto a questi concittadini in disagio oltre a essere un dovere morale sia anche un dono per un centinaio di mestrini generosi e desiderosi di impegnarsi in questa opera buona. Se avessi vent’anni di meno e se fossi io il responsabile della Fondazione non ci penserei un istante e come Cesare getterei il dado certo di fare la volontà di Dio e il bene del prossimo. Beneficerebbero di questa iniziativa i poveri ma anche chi contribuirà a realizzarla, però a novant’anni e da prete “fuori corso” come posso azzardare di imbarcarmi in un’impresa che indubbiamente presenta qualche difficoltà?

Io, però, non sono un soggetto disposto ad arrendersi alle prime difficoltà perciò, da mane a sera, sto seminando, nei solchi delle coscienze delle persone che mi sono vicine, questo seme bello e fecondo coinvolgendole con ogni mezzo in questa impresa difficile anche se non impossibile ma soprattutto sto coinvolgendo, da mane a sera, il mio “Principale” perché mi dia una mano!

Il bianco e il nero

Credo che mai come ai nostri giorni i cittadini ricevono tante informazioni su tutti gli aspetti della vita. I mass-media ci sommergono letteralmente di notizie però, a questo riguardo, c’è da osservare un fatto che mi pare importante: gli strumenti di comunicazione di massa, oggi estremamente efficienti, tendono per natura a privilegiare le notizie negative e cioè tutto quanto riguarda drammi, rivoluzioni, soprusi, ruberie e malaffare mentre concedono uno spazio assolutamente marginale a tutto ciò che è positivo come la generosità, l’altruismo, lo spirito di abnegazione e le opere buone. Questa sperequazione ci induce a pensare che la società sia più cupa, più rissosa e più guasta di quanto non lo sia in realtà e che l’onestà, la generosità e l’impegno stiano scomparendo dal nostro mondo. A livello personale ho compreso e affrontato questo problema già da molti anni, mi sono infatti sforzato di creare strumenti di comunicazione sociale più attenti a quello che c’è di positivo nella nostra società; da queste considerazioni sono nati i vari periodici a cui ho dato vita: l’emittente radiofonica “Radio Carpini” e la testata de “L’Incontro”.

In questi giorni il problema mi si è riproposto leggendo un fatterello, una specie di parabola, su una rivista poco nota. In questo periodico si raccontava di un docente universitario che prima della lezione, dopo aver mostrato ai suoi studenti un grande foglio bianco con una piccola macchia nera in un angolo, chiese loro: “Cosa vedete in questo foglio?”. Tutti risposero all’unanimità: “Una macchiolina nera!”. Il professore, a quel punto, iniziò la sua lezione sui mass-media facendo osservare che nessuno si era accorto che il foglio, per più di nove decimi, era bianco. Quel docente era certamente un uomo saggio. Credo che in assoluto nel mondo il bene sia più presente del male. Da quando ho letto questo fatterello, con felice sorpresa, sto accorgendomi che il mondo è molto più bello e più buono di quanto i giornali e la televisione vorrebbero farci credere!

Ferragosto o Assunta

All’inizio di questa settimana, quando ho cominciato a preparare il mio sermone per la festa dell’Assunzione della Beata Vergine in Cielo, il primo pensiero che mi si è affacciato alla mente è stato abbastanza desolante: “Questa è la sessantaduesima volta che parlo di questo soave e dolcissimo mistero che però, nonostante la sua soavità, è sempre lo stesso. Cosa mai posso dire di nuovo di quanto non abbia già detto?”. È pur vero che è molto più facile per me di quanto non lo sia per i fedeli ricordare i concetti già espressi anche perché, per preparare l’omelia, rifletto a fondo sull’argomento e mi gioco la vita sulle verità che esso contiene. Sono però cosciente che, anche se i fedeli non sempre ascoltano con grande attenzione le mie parole, per il rispetto che ho nei riguardi del messaggio di Dio e del suo popolo non posso ripetere a pappagallo ciò che ho già detto in passato anche perché sono convinto che tutto invecchia e quindi la riflessione deve essere viva, fresca e attuale e non una “minestra riscaldata”.

Passato il primo momento di sgomento mi è parso di intravvedere una pista convincente. Ho cominciato con il fare un confronto tra il Ferragosto, la festa laica in cui la stragrande maggioranza dei concittadini cerca nell’evasione faticosa e certamente deludente pace, serenità e “felicità”, e l’assunto, “Dio ci ama come siamo e nonostante tutto, ci aspetta, ci offre una mano per salvarci e la comunità ci è accanto per incoraggiarci, sostenerci e condividere questo dono”, che ci offre verità veramente belle. A questo proposito ho citato un racconto di Tolstoj in cui si narra di un padre che sul letto di morte dice ai figli che nel suo podere c’è un tesoro e tocca a loro scoprirlo. I figli tanto lavorano quella terra per cercare il tesoro che essa comincia a produrre grano, uva, verdure e finalmente capiscono che il bene e la felicità non si devono cercare lontano ma dentro di noi. Ho proseguito dicendo che il percorso che portò Maria al “Magnificat”, e che anche noi possiamo seguire, fu quello di fidarsi di Dio, di abbandonarsi alla sua volontà, fu quello di credere alla fecondità dell’aiuto reciproco e di cantare la gloria di Dio per aver scoperto le cose belle della vita. La predica che mi sono fatto ha offerto al mio animo serenità e pace. Mi è parso poi, dall’attenzione con la quale i fedeli mi hanno ascoltato, che il discorso abbia fatto del bene anche a loro e che tutti siano usciti dalla chiesa più sereni di quanto non lo sarebbero stati dopo una gita a Cortina d’Ampezzo o in Costa Azzurra. Spero che tutti si siano convinti a non cercare lontano quello che possono trovare dentro di loro.

I Miserabili

Qualcuno, quando saprà che ieri sera mi sono concesso il lusso di vedere su Rai Storia “I Miserabili”, potrebbe pensare che anche questo vecchio prete si lasci andare al divertimento o quantomeno cominci a perdere tempo. Le cose sono andate così. Dopo cena, quando come ogni sera ho acceso il televisore, il film era già cominciato ma ho capito quasi subito che si trattava della versione cinematografica del famoso romanzo di Victor Hugo “I Miserabili”.

Il film era vecchiotto, lento, spesso scontato e di maniera ma l’ho visto ugualmente fino alla fine per due motivi.

Sapevo che il romanzo del grande scrittore, esponente di punta del romanticismo francese, in un primo momento era stato messo all’indice dal Santo Uffizio e, anche se poi era stato riabilitato, mi interessava conoscere il motivo per cui la Chiesa, o meglio certi uomini di chiesa, ne avevano proibito la lettura ai cristiani. Ho seguito il film con attenzione ma non sono riuscito a capire il motivo per cui la Chiesa fosse stata tanto severa dal momento che il messaggio del romanziere francese mi è parso assolutamente positivo e perfettamente in linea con quello di Cristo. Sono arrivato alla conclusione che il protagonista, l’ex ergastolano redento, possa essere additato come un vero cristiano mentre l’ispettore di polizia, che rappresenta la moralità laica, esprime il peggio di un legalismo purtroppo ancora molto presente nella cultura laico-radicale e in certi apparati non solo dello Stato ma anche della Chiesa.

Il secondo motivo, che mi ha trattenuto davanti allo schermo fino a mezzanotte, è stato il desiderio di vedere tutto il film di cui fino a quel momento avevo visto più volte solo il primo tempo. Nella prima parte viene presentato il famosissimo episodio dell’ergastolano in fuga, braccato dalla polizia e accolto con tanta bontà dal santo Vescovo. L’ergastolano nonostante abbia incontrato un uomo di fede e di carità, durante la notte lo deruba dell’argenteria ma quando, riacciuffato dagli sgherri, viene riportato dal Vescovo con la refurtiva questi non solo non lo accusa ma arriva al punto di consegnargli anche il candelabro che a suo dire il ladro si era dimenticato di prendere. La seconda parte del film viaggia sulla stessa linea della prima e mette in luce che nella Chiesa vi sono stati e vi sono ancora “fedeli” formali che della carità cristiana non solo non hanno capito niente ma anzi sembrano perfino irritati con quei cristiani che prendono sul serio il messaggio di Gesù.

Ieri sera, mentre guardavo il film, mi è sembrato che il comportamento, da vero cristiano, dell’ergastolano redento negli ultimi anni della sua vita ben si accordi con il messaggio e con l’esempio di Papa Francesco.

La Pira e Renzi

Ieri sera mi sono goduto un bellissimo servizio su Giorgio La Pira, il grande e santo sindaco di Firenze. Io, ai tempi di La Pira, ero per la sinistra democristiana e, seguendo gli insegnamenti della scuola di vita di don Mazzolari e di don Milani, facevo un tifo da “curva” per i cristiani progressisti. Allora seguivo con estrema attenzione le vicende del sindaco di Firenze però sentirle raccontare oggi, da chi conosce meglio di me i risvolti, le reazioni e i contraccolpi tra i “benpensanti” fuori e dentro la Chiesa e la politica italiana, ha fatto sì che questo servizio mi investisse e facesse riemergere ricordi di passioni e di discussioni che credevo ormai definitivamente sepolti sotto la cenere del tempo.

La rubrica di Rai Storia ha messo a fuoco la figura di questo amministratore pubblico “fuori serie” offertoci non dalla Bocconi ma dalla mistica Santa Teresa d’Avila o da San Giovanni della Croce; un uomo assolutamente inedito nella storia della Chiesa e della politica del nostro Paese e, mentre sullo schermo scorrevano le sequenze degli eventi che hanno contraddistinto la sua azione, d’istinto l’ho confrontato con un altro sindaco di Firenze, con quel Matteo Renzi che abbastanza di frequente afferma di ispirarsi al suo santo predecessore.

I due personaggi però hanno una caratura molto diversa e, anche se non ho nessuna difficoltà nel pensare a Renzi come ad un cristiano che a modo suo sta spendendosi per l’Italia, devo però ammettere che La Pira era un uomo di una tempra ben diversa, era un uomo che camminava con un altro passo, con ideali tanto diversi da essere il “folle” che si fidava ciecamente di Dio e che sulla fede ha giocato la sua vita ed ha lanciato le sue sfide impossibili. Ho concluso che uomini come La Pira, nel piano dell’economia della Provvidenza, sono un dono preziosissimo del Signore e questi uomini di Dio, fuori dalle righe della logica normale, diventano punti di riferimento straordinari che costituiscono un grande stimolo per chi vuole impegnarsi seriamente a favore della comunità. Rimangono però purtroppo figure uniche ed irripetibili uscite dalla mano di Dio, prototipi a cui non fa seguito una produzione di serie. Mi pare perciò buona cosa che Renzi, anche se per il suo impegno politico dice di ispirarsi a La Pira, continui a rimanere se stesso, magari moderando un po’ quella sua aria scanzonata e provocatrice, perché se tentasse di imitare La Pira farebbe fiasco.

Un medico solidale con la gente d’origine

Io sono un grande ammiratore di Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi. Si deve a questo giornalista, brillante e generoso, se la lebbra, la malattia sopravvissuta purtroppo al passare dei secoli, è quasi definitivamente sconfitta. Questo testimone del nostro tempo affermava che non può ritenersi uomo e men che meno cristiano chi non si fa coinvolgere dal dramma e dalla sofferenza di un suo simile in qualsiasi parte del mondo egli viva. Questo giornalista francese infatti si batté, senza risparmio, a favore degli ammalati di lebbra dei villaggi più remoti e sconosciuti di questo mondo.

Nelle ultime settimane mi è riaffiorata alla memoria questa testimonianza in occasione di una colletta promossa da un medico mio amico, nato nel Sud dell’Italia, che venuto a conoscenza della situazione tragica in cui si trovava un suo conterraneo, si è dato talmente da fare da riuscire a raccogliere una somma veramente significativa. In un paio di settimane, parlando con amici e conoscenti, è riuscito a racimolare quasi 15.000 euro, somma necessaria per evitare la messa all’asta della casa di questo operaio con moglie e figli, disoccupato ormai da diversi mesi a causa della chiusura dell’azienda in cui lavorava. Conoscevo già da tempo la disponibilità e la generosità di questo medico che, quando mi è venuta a mancare l’anziana organista che accompagnava il coro del Don Vecchi, dopo aver letto su “L’incontro” il mio appello per trovare un sostituto, si è offerto senza batter ciglio. Oltre che medico è anche un bravo organista e ha offerto la sua disponibilità due volte alla settimana per le prove e per l’esecuzione dei canti.

A chi crede veramente nella solidarietà nulla è impossibile. Gandhi, l’apostolo della liberazione dell’India, ha scritto: “L’amore risolve ogni difficoltà e se ciò non avviene non è perché quella difficoltà è irrisolvibile ma solamente perché quello non è vero amore”. Mi pare giusto che si conoscano anche questi lati belli della vita, per quelli negativi ci pensano già fin troppo bene i mass-media.

“Cadoro” e lo “Spaccio solidale”

A me piace giocare sempre a carte scoperte e comunque spero che, così facendo, i concittadini, ma soprattutto i colleghi sacerdoti, possano conoscere come nascono, crescono e si sviluppano certi progetti di solidarietà in grado di tradurre nel concreto il comandamento di Cristo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Dedico queste poche righe all’informazione sulla genesi, sullo sviluppo e sui risultati del progetto che abbiamo denominato “Spaccio Solidale”.

Circa un anno fa il signor Danilo Bagaggia, direttore del magazzino degli indumenti per i poveri, ha avuto la fortuna di conoscere la segretaria del nostro concittadino Cesare Bovolato, presidente della Cadoro, la catena di supermercati che dispone di una trentina di punti vendita. Questa cara signora ci ha organizzato un incontro con il signor Bovolato dal quale è nato un protocollo d’intesa tra Cadoro e la Fondazione Carpinetum che, nel rispetto della normativa vigente, prevede che la Società Cadoro conceda ogni giorno i prodotti alimentari di prossima scadenza e quindi non più commerciabili, in giacenza nei sette ipermercati di Mestre.

In quattro e quattr’otto abbiamo acquistato un furgone usato del costo di 5000 euro e abbiamo allestito due locali, uno per la distribuzione dei generi alimentari ed uno destinato alla catena del freddo per l’immediata conservazione. In un paio di settimane si è costituita una squadra di una trentina di volontari che, a turno, riordinano e distribuiscono i prodotti. Il furgone parte verso le undici e in un paio d’ore procede alla raccolta, verso le 14.00 una squadra dispone i generi alimentari in bella vista su delle scaffalature e alle 15.30 d’estate e alle 15.00 d’inverno inizia la distribuzione. Ogni “cliente” sceglie cinque prodotti a sua discrezione e normalmente offre un euro per coprire i costi di gestione (carburante, luce, sacchetti contenitori, ecc.).

La scelta del Polo alimentare del Don Vecchi, di chiedere ad ogni beneficiario un contributo, è scaturita anche dall’esigenza di aiutare altre persone con bisogni diversi così da far maturare una cultura della solidarietà. La gestione quindi non è in passivo, anzi riusciamo ad accantonare sempre qualche “cosetta” da destinare ad altre opere benefiche. L’iniziativa è attiva tutti i giorni dal lunedì al venerdì. Normalmente ogni giorno vengono aiutate dalle 180 alle 220 persone ed ogni giorno circa una decina di volontari si guadagnano la riconoscenza di chi è in difficoltà, riconoscenza che si somma al centuplo promesso da Cristo e questo non è poco.

Desidero ricordare che ho scritto questa relazione con la speranza che ognuna delle 28 parrocchie del mestrino, non essendo impegnata in altre imprese solidali, possa fare altrettanto se non di meglio.

L’amara sorpresa

Una delle accuse che le persone abituate a pensare solo ai fatti propri spesso rivolgono a chi si sforza di aiutare il prossimo è quella di soccorrere i mendicanti di professione, i fannulloni e le persone viziose trascurando i veri poveri cioè quelli che hanno dignità, che non chiedono nulla e soffrono in silenzio.

Non riesco proprio né a stimare né tantomeno ad approvare chi non sa fare altro che criticare senza impegnarsi in prima persona, sono però costretto ad ammettere che nella loro critica c’è qualcosa di vero. In quest’ultimo periodo della mia vita, pur non riuscendo a non dare un euro a chi mi tende la mano con fare mieloso ed avvilito, sto impegnandomi più del solito per tentare di aiutare i concittadini che con dignità preferiscono soffrire in silenzio piuttosto che stendere la mano. Credo che molti conoscano già il mio sogno, che spero stia per trasformarsi in un progetto concreto e realizzabile, di aprire un “ristorante” per le famiglie con un reddito molto basso, per le persone disoccupate o in mobilità. Più ci penso più mi appare un progetto difficile da realizzare, sono però sereno perché l’Arcangelo Gabriele ha detto a Maria che “Nulla è impossibile a Dio”.

Mentre sto perseguendo questa meta, inaspettatamente, l’Associazione di Volontariato “Vestire gli Ignudi” mi ha messo a disposizione una certa somma per offrire il pranzo (euro 5 al giorno) ai residenti dei Centri Don Vecchi con minori entrate. Ho chiesto alla segreteria di svolgere un’indagine e il risultato mi ha messo letteralmente in crisi. Al Don Vecchi tutti vestono benino, nessuno, se non i soliti due o tre scioperati, chiede mai nulla ma i numeri che l’indagine ha evidenziato mi hanno fatto accapponare la pelle! Ho letto con estrema tristezza le note sulle condizioni dei cinquanta residenti: tre non hanno alcun reddito, due dispongono di 250 euro, una quarantina dispone di un reddito compreso tra i 250 e i 500 euro mensili (la maggior parte va dai 300 ai 400 euro) per non parlare poi di quelli con un reddito compreso tra i 500 e gli 800 euro. Spero che gli utili di “Vestire gli Ignudi” mi permettano di offrire il pranzo ad almeno cinquanta residenti sia nel 2015 sia nel 2016.

Vi informo di questa situazione sperando che chi ha del superfluo si ricordi di chi non ha il necessario!

La carità estiva

So che la mia denuncia è perfettamente inutile ritengo però giusto fare il mio dovere fino in fondo. Qualche tempo fa, in occasione dell’inaugurazione dell’Adorazione perpetua a San Silvestro a Venezia, auspicai che anche per la carità ci fosse un servizio ininterrotto, ventiquattro ore su ventiquattro perché, come la presenza di Cristo nell’Eucarestia è parte del nostro credo, così lo è la certezza che lo stesso Cristo è presente nei poveri, ossia nei fratelli che soffrono e vivono in disagio qualunque ne sia il motivo.

A questo proposito ci sono, per grazia di Dio, a Mestre e a Venezia dei servizi efficienti e lodevoli. Ricordiamo per tutti: le mense dei Cappuccini, della San Vincenzo, dei Padri Somaschi di Altobello e quella di Papa Francesco a Marghera, oltre ai servizi del “Polo Solidale” del Don Vecchi di cui fanno parte: i Magazzini San Martino per gli indumenti e San Giuseppe per l’arredo della casa, “La Buona Terra” per la frutta e la verdura, lo “Spaccio solidale” per i generi alimentari offerti dai sette ipermercati Cadoro, la “Bottega solidale” di Carpenedo, le docce e il parrucchiere alla San Vincenzo.

Ogni anno però in agosto tutti chiudono contemporaneamente lasciando sul campo un presidio assai fragile: l’offerta del pranzo all’asilo notturno di Santa Maria dei Battuti.

A proposito di queste chiusure estive ho scritto, tuonato, denunciato ma sono rimasto una voce nel deserto. Ho fallito anche quando nel passato ho tentato di precettare le suore affinché si facessero carico di questa supplenza.

Io non conto nulla ma nella diocesi c’è un Patriarca, un Consiglio presbiteriale, un Consiglio pastorale, i Consigli di vicariato, la Caritas, la San Vincenzo, un Vicario generale ed altro ancora. Non so se anche loro siano stati sconfitti oppure finora non abbiano avvertito il problema tanto da farmi pensare che la diocesi, una volta ancora, si sia disinteressata della presenza di Cristo nei poveri. Per ora non posso che fare un plauso alla “Bottega solidale”, alla “Buona Terra” e allo “Spaccio solidale” che sono rimasti aperti anche nel mese di agosto, consapevoli che i poveri hanno bisogno di mangiare anche durante le ferie di ferragosto!

La vita religiosa nel borgo di Ca’ Solaro

La vicenda grazie a cui sono diventato il “curato” di Ca’ Solaro, il piccolo borgo ubicato al di fuori delle “mura di cinta” della nostra città, è un po’ complessa ed arruffata. Preferisco evitare di raccontare nuovamente tutta la storia e limitarmi a confidare agli amici che, da un paio d’anni puntualmente verso il tardo vespero di ogni primo venerdì del mese, mi reco a Ca’ Solaro nella umile ma cara chiesa immersa nella campagna ancora coltivata a frumento, granoturco e viti, per celebrare la Santa Messa in quella piccola comunità tagliata fuori dal respiro della sua parrocchia di riferimento: la parrocchia di Sant’Andrea a Favaro.

Quel borgo, fino a una ventina di anni fa, aveva il suo prete, la sua scuola, il suo catechismo e una vita autonoma a livello religioso e civile. A causa della scarsità di sacerdoti, dell’accorpamento scolastico, della fuga dai campi verso attività più redditizie e del decremento demografico, quella comunità è diventata veramente piccola e credo che ora non conti più di un centinaio di anime però non ha perso il senso di comunità strettamente legata alla sua piccola chiesa sobria e ordinata.

Ca’ Solaro come comunità cristiana trova il suo punto di riferimento in “Mario Papa”, il cristiano vecchio stampo che apre e chiude la chiesa, raccoglie le offerte, informa e gestisce la liturgia.

Io mi trovo un gran bene in questa minuscola comunità cristiana, ogni volta che celebro mi sento in famiglia forse perché recupero le mie radici di campagnolo e mi pare che la preghiera, pur umile e dimessa, salga più vera al Signore. Ieri sera poi quando, pur traballante per i miei quasi novant’anni, ho prima salito e poi disceso i pochi gradini del presbiterio e mi sono rivolto con semplicità alla piccola assemblea di una trentina di fedeli che riempiva metà della chiesa, mi sono commosso alle parole di un’anziana signora che mi ha chiesto: “Don Armando perché non viene ad abitare qui da noi?”. Mi fa tanto piacere che questo “piccolo mondo antico” sopravviva al mutare degli eventi e rimanga strettamente aggrappato alla sua piccola chiesa e alla fede dei padri, provo la sensazione che esso offra ancora spazio e motivo di vivere a questo prete di un tempo quasi scomparso.

“Chi vuol essere mio discepolo”

Vi sono frasi del Vangelo che forse, per le sensazioni che suscitano nell’essere umano, sono ormai entrate a far parte della cultura universale. Questo fenomeno avviene anche in Italia, un Paese che per vicende storiche non ha mai avuto molta familiarità con la Bibbia. I motivi sono molti, non ultimo la reazione alla riforma protestante che ebbe, come punto d’appoggio, il divieto della Chiesa cattolica di leggere le Sacre Scritture senza note e senza guida di religiosi. È pur vero che la Chiesa, in questo ultimo mezzo secolo, si è impegnata a fondo per recuperare questa ricchezza spirituale però i risultati sono ancora poco consistenti.

Già altre volte ho confessato ai miei amici che al mattino leggo sempre, come spunto di riflessione, una paginetta della rivista della Chiesa Cristiana Metodista “Il Cenacolo” perché mi rasserenano le riflessioni dei cristiani di tutto il mondo che ci confidano quanto bene faccia loro la lettura di qualche passaggio dei libri del Vecchio e del Nuovo Testamento. Sono riflessioni semplici, elementari ma piene di fiducia e di abbandono nel Signore che parla mediante il Testo Sacro.

Alla mia bella età tento anch’io, partendo soprattutto dai brani del Vangelo che la Chiesa offre all’attenzione dei fedeli durante la Messa, di coglierne il cuore per poi innestarli nel mio quotidiano. Qualche volta il tentativo va a vuoto però, altre volte, grazie a Dio, mi pare di fare centro. Questa mattina la pagina del Vangelo conteneva una serie di affermazioni raccolte da vari discorsi di Gesù e la frase che più mi ha colpito è una frase che tutti conoscono, che fa ormai parte della cultura della nostra gente, in cui Gesù afferma: “Chi vuol essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua”. Mi sono chiesto quale sia la croce che in questi giorni mi provoca maggior disagio, che mi toglie serenità, che mi ammacca le spalle e mi pare di poter dire che è la mia convinzione di non essere più all’altezza della situazione e di non avere risposte convincenti per la gente del nostro tempo. Mi è parso anche che Cristo mi dicesse: “Seguimi!”, cosa che tenterò di fare. Sarò contento se riuscirò a fare bella figura ma sarò contento anche se riuscirò a seguirlo barcollando: in fondo è solo a Lui che debbo piacere!