Le più belle chiese di Mestre

Forse il mio atteggiamento e il mio desiderio di appartenere ad una chiesa bella, viva, pulita, aperta al domani, generosa e coerente è talmente forte per cui rimango triste e desolato quando alla prova dei fatti m’accorgo che essa è ben poco di tutto questo.

Io ho fatto una delle mie prime esperienze ecclesiali nel duomo di San Lorenzo di Mestre, e quindi della storia di questo diacono, della prima comunità cristiana di Roma, ne ho sentito parlare tante volte in largo ed in lungo. La bella immagine di questo giovane uomo di Dio e della chiesa, che all’invito del Prefetto romano a presentargli i tesori della sua chiesa gli presenta un folto gruppo di miserabili, non ha inciso solamente nella mia fantasia, ma anche nella mia concezione di chiesa.

La mia chiesa non può essere che la chiesa dei poveri, la chiesa che lava i piedi, la chiesa in “grembiule” come amava definirla don Antonino Bello, l’indimenticabile Vescovo di Barletta.

Questa immagine è rimasta così incisa nella coscienza, che quando ai Magazzini San Martino o al nostro Banco alimentare vedo una folla di poveri di tutte le razze, vestiti con le fogge più diverse, sento un’ebbrezza particolare, mi pare di assistere ad un pontificale, in una cattedrale tra le più belle del mondo e i volontari e le volontarie mi paiono i più venerati ministri della chiesa di Dio!

Dicono che il Vescovo è il presidente della carità, se le cose stanno così, il nostro Patriarca, un giorno sì e l’altro pure, dovrebbe venire nell’interrato del don Vecchi, dai Cappuccini, a Ca’ Letizia o ad Altobello.

Queste realtà sono per me le più belle e vere chiese di Mestre!

Gli errori degli uomini di Chiesa

Ho avuto modo di constatare che i motivi, o forse i pretesti, che fanno decidere a qualche persona di allontanarsi dalla chiesa e talvolta perfino a combattere Dio e la comunità cristiana, sono spesso non di ordine ideologico e razionale, ma spesso sono determinati da delusioni avute per il comportamento di qualche ecclesiastico.

Motivazioni quindi banali, inconsistenti a livello ideologico e razionale!

Augias, il giornalista della Rai, che si distingue per la sua acredine nei riguardi della fede e della chiesa, ha confessato che la “rivelazione” che l’ha portato all’ateismo militante, è nata dal comportamento amorale di un prete sporcaccione incontrato nel periodo della sua fanciullezza.

Mi rendo conto che motivazioni del genere razionalmente non possono giustificare scelte esistenziali così importanti, però pare che, molto di frequente, sia questa la causa scatenante.

A livello personale, ho avuto anch’io recentemente un’esperienza, non grave, ma che faccio fatica a dimenticare.

Ho incontrato una persona intelligente, che occupa un posto abbastanza rilevante nella nostra società ed appartiene ad un movimento ecclesiale che, tutto sommato, ammiro e stimo, la quale mi ha deluso per un suo comportamento, che sarei tentato di definire settario, ma che con un po’ di buona volontà, potrebbe ritenersi un po’ fazioso, troppo attento all’affermarsi del suo gruppo, e poco rispettoso della vita e delle scelte di altri cristiani.

Nulla quindi di scandaloso e di grave, però questa delusione seguita all’iniziale ammirazione, mi ha turbato alquanto tanto che mi è difficile dimenticarla.

Lo scandalo è sempre scandalo, ma se proviene da un uomo o una donna di chiesa, diventa di per sè stesso una aggravante che chi non è santo, gli è difficile comprendere e perdonare!

Un umile strumento

Talvolta sarei tentato di scoraggiarmi, perché spesso mi capita di meditare assieme alla mia piccola comunità, che condivide con me l’ascolto dei messaggi di Cristo, e di avvertire che la mia gente vibra con me nell’ascoltare certe proposte così vere e coinvolgenti.

Quasi sempre mi impegno a fondo perché l’attuazione del messaggio sia quanto mai adeguata alle nostre situazioni ed attese esistenziali, e mi pare d’avvertire, dal silenzio assoluto e profondo dei partecipanti alla liturgia, la condivisione e perfino l’entusiasmo esaltante di fronte a verità che danno conforto e significato alla vita. Però ho poi la sensazione che, passato il momento di emozione interiore, nulla cambi; i fedeli non escono nuovi, rigenerati nello spirito, non avvenga quella conversione radicale per cui ci poniamo di fronte alla vita e al quotidiano in maniera diversa, cioè da credenti e da discepoli veri del maestro.

Nonostante batta ogni settimana il chiodo che il nostro incontro non è teso a ricordare avvenimenti, per quanto nobili ed importanti, ma a vivere un’esperienza religiosa personale ed attuale, ho poi la sensazione che passata “la grandinata di Spirito Santo” tutto, in poco tempo, torni come prima.

Ho un bel dirmi che la cultura generale dei praticanti è quella di partecipare ad un rito, ad adempiere ad una prescrizione ecclesiastica, e non certamente di partecipare ad un incontro per scoprire il volto vero di Dio! Neanche mi consola che se anche un prete riuscisse sempre con una predica a far cambiare idea agli ascoltatori, questo sarebbe quanto mai pericoloso perché vorrebbe dire che non ci sarebbe più in essi difese personali non solo per il bene, ma soprattutto per il male!

Chissà che il Signore mi aiuti a voler seminare sempre e a lasciare a Lui il raccogliere quando e come crede più opportuno! Bisogna che mi ricordi più spesso che io sono e rimarrò sempre un umile strumento, ma la musica la compone e la suona solamente il buon Dio che conosce molto meglio di me il mestiere di salvare i suoi figli!

Perché L’Incontro

Un mio amico, che in verità non ha mai avuto molta dimestichezza con la penna, che ha sempre svolto in maniera ordinata, ma mi pare senza troppa passione, il suo ministero pastorale, attenendosi alle regole canoniche, essendogli capitato per caso in mano “L’incontro”, mi disse quasi sgomento: “Chi te lo fa fare?”

Evidentemente aveva fatto quattro conti sui costi, sul tempo impiegato, sulle difficoltà di organizzare l’inserimento a computer, sull’organizzazione del menabò, sulla stampa ed era quasi inorridito che io ad ottant’anni e per di più in pensione, liberamente, senza ordini di sorta, mi sia imbarcato in questa impegnativa avventura.

La battuta non mi giungeva nuova e la risposta ho dovuto darmela prima di cominciare ed ogni settimana, nel momento in cui scelgo gli argomenti.

A me pare lapalissiano che il monito di Cristo “Vi mando perchè portiate frutto e il vostro frutto sia abbondante” oppure “Siate miei testimoni voi che siete stati con me fin dall’inizio”.

Se fare il prete fosse un mestiere per sbarcare il lunario o peggio per avere una posizione di un qualche prestigio, io avrei mollato dopo un paio di settimane dalla mia ordinazione sacerdotale.

Per me fare il prete significa avere un messaggio da proporre, avere una missione ed un servizio da compiere, offrire ai fratelli una soluzione valida per la vita. Tutto questo lo faccio nella chiesa, ma non tutto quello che nella chiesa si fa, si predica, si propone, mi convince. Penso che l’amore per la comunità e per Cristo, mi imponga di rendere vero, significativo e attuale il messaggio, combattere certe incrostazioni anacronistiche, tradurre a livello esistenziale la proposta cristiana, impegnarmi contro un ritualismo inconsistente.
Smantellare impalcature macchinose che hanno poco a che fare con Gesù, calare nel quotidiano il comandamento dell’amore, coniugare in maniera intensa ed armoniosa la fede con la vita concreta in cui vive l’uomo d’oggi.

Tutto questo esige e merita il contributo di tutti ed anche il mio seppure si tratti del contributo di un povero vecchio prete in pensione.

L’incertezza

Un signore notevolmente preoccupato per la sua salute, temeva, per certi sintomi, di essere colpito da un tumore, chiese al medico che cosa ne pensava della sua preoccupazione.

L’oncologo, evidentemente dovendo contare solamente sugli elementi sommari riferiti dal paziente, forse per prendere tempo rispose al paziente in ansia: “Forse sì, forse no!”

Quando questa persona mi raccontò, un po’ stizzito ed un po’ deluso, la risposta salomonica del medico, per associazione di idee mi venne in mente la pagina del Collodi, in cui lo speziale dà una diagnosi un po’ simile: “Se non è vivo è certamente morto” poi quasi per riconfermare ciò che aveva detto soggiunse altrettanto salomonicamente “Se non è morto è vivo!”

Discorsi del genere sembrano battute di carattere letterario, suggerite da un certo humour. Poi ho pensato alla prima risposta “Forse sì, forse no” e mi è parsa prima che prudente, molto saggia.

Ai nostri giorni pretendiamo risposte immediate, precise e perentorie, come se fossero sempre possibili e come se da tali risposte i problemi trovassero soluzione.

Non ci rendiamo conto, stupidamente, che non serve a nulla cercare in dettaglio quello che sarà, ciò ci carica fin da subito del peso di una sentenza amara, o ci offre un’illusione pericolosa. Tutto quello che è importante fare è affidarsi al Signore. “Forse sì, forse no” mi da il tempo di vivere nella quiete e predisporre il mio animo a fare la volontà di Dio che comunque è sempre il meglio per noi.

Dice l’antica massima: “Ogni giorno ha la sua pena”; non è certamente saggio caricarmi anche di quella del giorno dopo, o nascondere la testa sotto la sabbia, forse è più sapiente procrastinare scelte, dolori o esultanze a tempo debito perché in quel tempo il Signore ha già provveduto a darci l’aiuto necessario.

55 anni

Nel trambusto del trasloco dalla canonica di Carpenedo al minialloggio del don Vecchi, tante cose, che da più di 35 anni di permanenza in quella grande casa avevano trovato una loro collocazione tranquilla e giacevano in pace, come per miracolo sono venute e galla. Con sorpresa trovai un mazzetto di immaginette della mia ordinazione sacerdotale che mai avrei creduto di possedere ancora.

Ho ripreso in mano, con una certa emozione, quella immagine povera e un po’ ingiallita. Ricordo ancora la scelta del volto della Vergine; si celebrava allora l’anno Mariano. Una Madonna del Luini, dolce, dimessa, dal volto molto umano, con gli occhi bassi sullo sfondo di un lago sulla cui sponda cresce un albero filiforme, con poche fronde di un verde pallido.

I colori sono nitidi ma poco fedeli; le quadricromie del tempo riproducevano molto lacunosamente e senza brillantezza i colori originali.

Dietro la frase di San Paolo che tradussi dal latino, accomodandola un po’ perché dicesse il mio sgomento e la paura per la decisione di assumere un compito così arduo, consapevole della modestia delle mie scarse risorse.
“Vi scongiuro, o fratelli, per il Signor nostro Gesù Cristo e per la carità dello Spirito Santo che mi aiutiate con le vostre preghiere affinché venga a voi per volontà di Dio nella gioia.
Il Dio della pace sia con voi tutti.”

Il nome e cognome con sotto il termine lapidario: “sacerdote”.

Nella parte finale del retro: Venezia – S. Marco 27 giugno 1954. esattamente 55 anni fa.

Ricordo chi mi impose le mani, poi ricordo il Patriarca Roncalli, che dopo il rito condusse me, mio padre e mia madre, impacciati e felici quanto mai, nella sua casa per dire loro la riconoscenza per il sacrificio che avevano fatto permettendo che il primo di sette figli si fosse posto a servizio della chiesa.

Sono qui di fronte a quella data, scritta a caratteri minuti, e la mente le scrive accanto, 27 giugno 2009.

Sto pensando a quanto ci sta dentro a queste due date, niente nella scrittura, ma enorme come spazio di vita.

Di certo la mia vita di prete è stata una grande ed appassionata avventura, spero d’aver, almeno tentato di essere sempre fuori dalla trincea, sempre all’attacco, sempre avanti, sempre guardando al futuro!

S. Paolo, in un momento un po’ simile a quello che sto vivendo, di fronte al santino ingiallito della mia ordinazione a prete, afferma: “Ho fatto la mia corsa, ho combattuto la mia battaglia, ho conservato la fede, ora non mi resta che ricevere la corona di gloria”.

Io spero di poter affermare che almeno per quanto concerne la “corsa” e la “battaglia” d’averle fatte senza risparmiarmi, per il resto mi rimetto al buon Dio!

Le cose che non so

Non ricordo chi sia stato a dire una frase che ha finito per passare alla storia: “Il saggio è chi sa di non sapere!” La frase pare bella, serve a mantenersi umili, ma a non molto altro!

Messa così, finisco per poter ambire anch’io alla saggezza, però mi è di poca utilità questo titolo onorifico acquistato a buon mercato!

Quanti interrogativi non risolti, quanti a cui non so ancora dar risposta, pur avendo ormai poco tempo per pensarci!

Non so perché i mentecatti o semplicemente gli stupidi, che non sanno far quadrare un ragionamento, però le parolacce le sanno tutte e le dicono spesso.

Non so come mai vi sono persone che non si interessano per nulla del così detto “bene comune”, pare siano assolutamente inidonei ad impegnarsi per la collettività, perché impreparati culturalmente, perché impegnati nel proprio lavoro, ma quando si tratta di difendere i propri interessi, sono attenti ed astuti quanto mai.

Non so come mai ci siano persone mai disponibili ad impegnarsi in un’opera di volontariato, infatti a lavorare per un qualcosa che superi gli interessi personali, ci sono sempre i soliti “quattro gatti” che si arabbattono nelle associazioni, nella parrocchia o nel quartiere, mentre gli altri li stanno a guardare e criticare se mai non sono perfetti.

Non so perché nel prato le erbacce sono le prime a manifestarsi, le più sfacciate e le più resistenti.

Non so perché “I figli delle tenebre sono più astuti dei figli della luce”.

Non so perché i papaveri inodori, invadenti e presuntuosi, s’impongono all’attenzione nei campi di grano mentre viole delicate e profumate si debba cercarle perché umili e nascoste.

Tutta questa mancanza di conoscenza non mi rende per nulla presuntuoso della mia “sapienza”.

Mi piacerebbe, pur rimanendo “stolto”, che il buon Dio mi facesse capire perchè ciò che è negativo prospera facilmente mentre il bene per essere acquisito richiede una continua fatica.

Spero che non si dica che il premio del bene sia nel dopo, e spero che prima o poi capisca che ciò che è conquistato faticosamente anche al di qua dona soddisfazione vera e profonda!

Politica

Durante la campagna elettorale credo che, come tutti o quasi, sono stato maggiormente sollecitato dai discorsi, dalle dichiarazioni e soprattutto dalle scelte operative dei vari schieramenti.

Di volta in volta che si ponevano nel mio animo interrogativi, ipotesi di progetti, orientamenti e reazioni, ho buttato giù qualche appunto pensando di riordinare questi miei “pensieri” per avere anch’io una “dottrina politica” a cui rifarmi. Ora però mi accorgo che non sono ancora pronto e non so se lo sarò mai per avere una “summa” che inquadri le mie idee o solamente le mie speranze.

Tento di buttar giù una prima bozza, estremamente sommaria e provvisoria.

1) Escludo per scelta e per un sano criterio, le ali estreme, perché ritengo siano prima che dei radicali, dei psicopatici che non hanno nulla da dare e tutto da ricevere, tanto sono sognatori inconcludenti. Mi rimane quindi il Centro-sinistra e il Centro-destra.

2) Ritengo che dai politici io, ma credo anche dalla nostra gente, si desideri un maggior rispetto reciproco, una maggiore collaborazione, una capacità di convivenza.

3) Il Centro-sinistra, mi pare che l’obiettivo di questo incontro tra culture diverse per creare uno schieramento con un denominatore comune sostanzialmente, sia nobile e lodevole. Però sto vedendo che non solo i cattolici, ma anche i credenti finiscono di non aver più rappresentanza politica e questo è un guaio che mina fin dalle radici questo tentativo. Se i laici, (vedi ex comunisti per intenderci) che sono più furbi e più agguerriti, non fanno spazio anche ai valori e ai rappresentanti dei credenti, i voti di questi saranno costretti a posarsi altrove.

4) Il Centro-destra, mi disturba la fierezza, l’atteggiamento da operetta, la forma da imbonimento pizzaiolo, la politica vera mi sembra abbia bisogno di misura, di ponderazione, di costume e di testimonianza anche personale. La piazza è sempre stata volubile, domani potremmo trovarci con un pugno di mosche in mano.

5) Il Centro. Talvolta ho paura che faccia il furbetto e speri di governare, come fece Craxi, spostando l’ago della bilancia, ora a destra ora a sinistra, qualora sia determinante. Mi piacerebbe che bonificasse l’ambiente dall’interno di uno schieramento o dichiarasse di dare l’apporto dei credenti in rapporto alla validità delle proposte indipendentemente dal partito che governa.

Intanto per ora spero, prego, parlo, scrivo e voto “tappandomi il naso”!

Paesaggi in fiore

Fortunatamente i miei percorsi sono sempre quelli e avvengono sempre alle stesse ore.

Non per questo il paesaggio non cambia d’aspetto e non appare con luci e prospettive diverse. Altro è percorrere la strada che va dal don Vecchi al cimitero di prima mattina, altro è fare lo stesso percorso col solleone, che repentinamente ha cacciato tutti i piovaschi dell’inizio di questa primavera.

Io preferisco di gran lunga il panorama che incontro con le prime luci, quando la città è ancora addormentata e la natura s’è appena svegliata dal riposo della notte.

Esco dal don Vecchi verso le 7,20, imbocco la piccola strada della “Società dei 300 campi”, attraverso via Vallon e percorro tutta la graziosa via Sem Benelli, che mi ricorda infallibilmente l’autore del corposo romanzo “Il mulino sul Po”. Sbocco su via Trezzo, incontrando i platani secolari di Villa Franchin, mi immetto in via Santa Maria dei Battuti, che mi ricorda la congregazione dei flagellanti, per arrivare alle 7,30 alla mia amata chiesetta tra i cipressi del camposanto.

La mia Fiat Uno conosce la strada così bene che se anche mollassi il volante e togliessi il piede dall’ acceleratore, sono certo che, come la “Cavallina storna” mi porterebbe da sola alla solita meta.

Stamattina non ho fatto altro che guardare i fiori, di tutte le forme e di tutti i colori, che fioriscono sugli alberi che costeggiano queste vie.

Mi hanno detto che sulle rive del lago di Como, c’è una villa con un tripudio di azalee, ma io posso pur affermare che tutto il tragitto, che mi porta ogni mattina al mio luogo di lavoro, è fiancheggiato da alberi di tutte le specie con fiori di tutti i colori.

Anche l’albero più umile e modesto quale il salice, è in fiore. Una tavolozza infinita, sempre varia, perché basta un soffio di brezza o una nuvola in cielo perchè la scena cambi.

Questa mattina ho fatto la meditazione, concludendo che se ogni uomo, giovane o vecchio, maschio o femmina, fiorisse come ogni pianta, vestendosi al meglio, il mondo sarebbe semplicemente stupendo, per i miliardi di fiori diversi che ogni uomo può sfoggiare.

Chissà che un giorno scoppi primavera anche tra i figli di Dio!

Vivere di politica

E’ un fatto scontato che l’evoluzione oggi è estremamente più rapida che nel passato. Certi processi sociali che nel passato avvenivano in un secolo, oggi avvengono in meno di dieci anni.

La campagna elettorale intorno alla metà del `900 era da noi un fatto epico. Ricordo benissimo quella del ’48. La mia famiglia, con un figlio in seminario, era impegnata fin sopra i capelli: la guerra dei manifesti, a cui pure io ho partecipato, era una specie di crociata. I comitati civici avevano la canonica come fortino o trincea, e la casa del popolo ove operava il fronte democratico.

Ricordo mio padre che non finiva mai di raccontare una sua “impresa gloriosa”, quando ha trafficato una notte intera, assieme ad un suo amico fabbro, per imbastire un marchingegno con la figura di Garibaldi, simbolo delle sinistre, e dopo qualche istante la figura si rovesciava per mostrare il baffuto e sanguinario dittatore della Russia sovietica Giuseppe Stalin. La mamma che diceva alle amiche che se avessero vinto “loro” avrebbero portato via i bambini in Russia per educarli senza Dio.

Erano cose d’altri tempi che Giovannino Guareschi ha immortalato nei suoi racconti.

Ora tutto è molto più prosaico: non ci sono più utopie, non c’è più dottrina, non c’è aria di rivoluzione, non si sa più per che cosa si dovrebbe votare, uno piuttosto che un altro.

Un mio amico mi ha fatto una confidenza che mi ha veramente agghiacciato: “Don Armando, gli uomini della politica oggi, vivono di essa e vivono bene, se non fossero rieletti non hanno più nè arte nè parte sanno fare solo i politici ossia non sanno fare niente!”

Sono passati i tempi del vecchio Cincinnato che abbiamo conosciuto sui banchi della scuola, “Se non mi volete al governo della Repubblica, tornerò tranquillamente a fare il contadino! Se mai ne avreste bisogno venite a cercarmi nei campi”.

In questi giorni mi sono trovato spesso a pregare per gli aspiranti della politica, mi fanno pena, tenerezza e rabbia. Molti di loro sono piuttosto tranquilli perché nei momenti delle “vacche grasse” si sono comportati come l’amministratore infedele del Vangelo, facendo assumere un mucchio di amici al Comune.

Pare che a Venezia vi siano 4600 dipendenti che si contendono le carte da girare!

Altri però temono e a ragione la minacciata scure di Berlusconi e ne hanno ben ragione.

Stiano pur tranquilli c’è sempre posto per i furbi!

La lettera anonima

Nella periferia mestrina si usa ancora purtroppo mandare lettere anonime; è un costume ormai molto marginale e non frequente, però esiste ancora.

Io, nella mia vita, ne ho ricevute più di una di queste lettere. Il fatto che ho sempre tirato dritto per la mia strada, che non mi sono mai adeguato alle mode di pensiero e di comportamento praticato dalla maggioranza, che spesso ho risposto per le rime a critiche che ritenevo non giuste e soprattutto immotivate, e non da ultimo che mi sono sempre preso la libertà di dire con la parola e con la penna ciò che pensavo, ha fatto si che qualcuno non abbia resistito alla tentazione di insultarmi con volgarità e con cattiveria sempre mantenendo l’anonimato.

Quando sono uscito di scena dalla vita pubblica, pensavo che la cosa fosse ormai finita. Invece no! Almeno tre quattro volte c’è stato qualcuno, sempre della stessa cerchia e dello stesso ceppo di pensiero e di comportamento che non è riuscito a non farlo.

Era però almeno un paio di anni che non avveniva più, motivo per cui quando è successo ne ho avuto un contraccolpo piuttosto amaro, perchè se ho sempre contato poco, ora sono proprio il signor nessuno.

La lettera anonima, firmata (si fa per dire) da un ex parrocchiano, è di una volgarità e di una meschinità quasi insuperabili.

Questa volta, forse spinto dal prurito irresistibile di ferirmi, il collega ha avuto la dabbenaggine di scrivere a mano, per cui mi è stato perfino troppo facile individuare il mittente. La sua è stata un’imprudenza veramente imperdonabile.

Stia però pur tranquillo, non procederò certamente a denunce di sorta! I giudici hanno ben altro da fare!

Mi sono ricordato di Saul che fugge mentre qualcuno da lontano, approfittando della sua debolezza l’insulta. Quando una guardia del corpo propone e Saul di trafiggerlo con la spada per i suoi insulti, Saul glielo impedisce, affermando se lo fa è il Signore che glielo permette.

Io non sono Saul, non ho potere alcuno e mi riconosco un povero peccatore e perciò credo che mi possa far bene anche qualche insulto. Ero tentato di pubblicare la lettera anonima, ma poi ho pensato che metterebbe troppo in cattiva luce il collega, che di stima ne ha proprio bisogno!

Anche i vecchi cambiano, a volte in peggio

Ogni tanto mi capita di leggere dei pezzi particolarmente felici, scritti da autori più vari, pezzi talmente incidenti e fortunati che si imprimono nella memoria molto di più che una fotografia.

Lo stesso scrittore riesce a suscitare emozioni che si coniugano talmente bene con la fantasia cosicché rimangono quasi ricordo indelebile. Ricordo di aver letto una mezza paginetta di Piero Bargellini che parlava delle “vecchine”, termine proprio del suo bel fiorentino, che frequentano la chiesa, quasi ci vivono dentro facendo un tutt’uno con il luogo sacro, le funzioni liturgiche e la pietà popolare.

Da quella lettura conservo nella memoria immagine di figurine piccole, asciutte, vestite di nero, che pregano raccolte tra i banchi, riordinano i lumi, sistemano i fiori, tanto da fare un tutt’uno con l’arte, il silenzio e il mistero del sacro tempio.

Ora però non so se le cose stiano proprio così anche in quel di Firenze e nelle chiese toscane.
Da noi certamente no!

Io credo di essere un esperto di donne anziane; al don Vecchi ne abbiamo un campionario infinito.

Da noi abbiamo anziane che vestono come arlecchino, altre che si innamorano come ragazzine quindicenni e non si vergognano di farlo, altre che si atteggiano come vamp indistruttibili, altre ancora che non vengono a messa neanche “per morte morire”, altre che hanno un linguaggio da porto o da marittima, altre ancora che in cimitero rubano i fiori che la Vesta, una volta o due all’anno, pianta nei luoghi più in vista e poi abbandona alla loro sorte, che può essere morte di sete o per furto da parte di quelle che Bargellini chiamava “vecchiette” con un dolce ed affettuoso appellativo, ma io non disturberei un termine tanto gentile, per gente dal cuore meschino, senza scrupoli e senza poesia. Purtroppo oggi non cambia solo la gioventù ma anche i vecchi si adeguano alla nuova moda di vivere!

Una Chiesa giovane si può ancora fare

Qualche giorno fa il cappellano di mio fratello, don Roberto, mi ha chiesto di venire al don Vecchi perchè pensava bene che il “coretto” dei bambini della parrocchia, che concludeva l’anno sociale, potesse esibirsi a favore dei nostri anziani.

Gli dissi evidentemente di sì, perché ogni evento diverso dalla monotonia del solito quotidiano “sveglia” un po’ il cronico torpore dei residenti che alternano la giornata tra il sonno e il mangiare.

Sapevo che a Chirignago c’è un vivaio meraviglioso di ragazzi e giovani, ma il termine “coretto” mi aveva fatto pensare ad una dozzina di ragazzini che facessero da coro guida per l’assemblea liturgica.

All’ora fissata arrivò invece una folla di bambini dalle elementari fino alla seconda media, una sessantina di ragazzini, maschi e femminucce, ordinati e composti ma di una vivacità sorprendente per il popolo del don Vecchi.

Incominciò l’esibizione: piano, chitarra e coro a più voci.
La sala Carpineta cominciò a rimbombare, tremare come il Cenacolo a Pentecoste, canti vivacissimi, accompagnati da battimani e movimenti fisici, tanto che mi sembrava di partecipare ad una delle liturgie africane in cui voci, tamburo e danza cantano la gloria del Signore impegnando tutti i sensi.

Terminato il concerto offrimmo loro il gelato e poi si tuffarono letteralmente nel prato verde; l’erba era stata rasata da poco per cui sembrava che in qualche istante sotto gli olivi secolari, fosse fiorita improvvisamente un’aiola multicolore e mossa dal vento.

Talvolta mi capita di incontrare parrocchie incartapecorite, vecchie e stantie e soprattutto mi capita di sentire qualche collega, e purtroppo qualcuno anche giovane, affermare che oggi i bambini sono troppo impegnati, che non è possibile fare un’attività seria ed impegnativa.

Quante volte ho pensato: andate a Carpenedo ad incontrare i cento chierichetti, a Chirignago a vedere “il coretto” dei bambini, o a Scorzè i 400 scout!

Io sono vecchio e come quasi tutti i vecchi brontolone ed intemperante e perciò sono nemico giurato delle foglie di fico che tentano di nascondere la vergogna o i paraventi dietro cui è nascosta la pigrizia e il disimpegno.

Anche oggi si può fare di tutto, forse meglio del passato, ma solamente serve fatica, impegno e sacrificio!

Una nuova spiritualità aderente al reale

E’ da tanto che sto rimuginando un’idea, ma è talmente ardita ed informe e soprattutto è rimasta dentro al mio spirito come un grosso diamante, di cui ho coscienza del valore, ma è un diamante grezzo, non sfaccettato che ha bisogno di mani esperte e di molto impegno per farlo brillare in tutto il suo splendore.

Leggendo degli ultimi numeri di “Gente Veneta”, il periodico del Patriarcato, ho scoperto l’editoriale in cui un giornalista che non conosco, Gigi Malvolta, ha trattato l’argomento su cui sto pensando da tempo, in maniera intelligente e più esperta di quanto io sappia fare.

L’idea che mi tormenta si basa su una contestazione che vado facendo: La forma religiosa ereditata dalla tradizione, forma che ha funzionato bene da tantissimi secoli, ora mi pare superata, incapace di alimentare e tradurre i valori religiosi del cristianesimo. Mi sembra quasi che sia uno dei tanti strumenti della civiltà contadina che sono raccolti in alcuni musei sparsi un po’ ovunque nel nostro Veneto, sono strumenti ormai rozzi, superati tecnicamente, che non possono reggere minimamente alla concorrenza sia per quantità che per qualità del prodotto che essi riuscivano a lavorare.

Per noi anziani destano ancora qualche lontano e romantico ricordo legato ai tempi delle nostre prime esperienze di ragazzi, ma che per le nuove generazioni cresciute con il computer non possono destare che curiosità e compatimento.

Il titolo di suddetto editoriale è il seguente: “Una nuova spiritualità che sia aderente al reale”.

Il giornalista fa una premessa intelligente, dando per analizzato il profondo cambiamento della nostra società; “Nessuno riuscirà a farmi dire che i cambiamenti in atto nella società italiana sono una terribile sventura. Tutt’altro, sono convinto che essi siano “Parola di Dio” per noi, “segni dei tempi” che la comunità ecclesiale deve imparare a scrutare e interpretare per leggervi la volontà di Dio su se stessa e sul mondo. E da un attento discernimento su questi segni dei tempi devono derivare le linee di azione pastorale per il futuro.

La questione, però, mi sembra un’altra. Un discernimento della fede, per sua natura, esige rigorosi criteri di spiritualità ecclesiale. Una spiritualità incarnata, vitale, incisiva.

Noi siamo ancora abituati a considerare la spiritualità come qualcosa di intimistico, di personale, di interiore: restiamo piuttosto manichei in materia, ancora avvezzi a separare nettamente l’anima dal corpo, lo spirito dalla concretezza. E qualcuno riesce a scegliersi una spiritualità distaccata dal mondo, completamente separata dalla storia; una spiritualità in qualche modo alienata… e, forse, alienante.

Sono veramente felice di aver letto queste considerazioni che da molto avevo intuito come un possibile sbocco della triste situazione attuale, perché temevo di essere veramente solo a pensarla così. Avere ora il conforto dell’editoriale di Gente Veneta non vuol dire avere risolto il problema, ma almeno non sono solo a farneticare un sogno impossibile!

“Sto imparando a godere anche delle piccole cose”

Un insegnante, che mi è capitato di incontrare qualche volta nel passato, ha manifestato il desiderio di vedermi.

Tanto volentieri ho condisceso a questa richiesta, sia perché è mio dovere di uomo e di prete, sia per il buon ricordo che conservavo di questo signore, e da ultimo perché la cosa m’era molto facile perché abita molto vicino a casa mia. Avevo avuto un qualche cenno, non certo e non preciso, su qualche difficoltà che aveva avuto con la salute, ma mai avrei pensato che essa fosse così invalida. L’incontrai nella sua cameretta linda ed ordinata, assieme alla sua sposa. Fu facile riprendere il discorso interrotto, immagino, da una decina d’anni.

Lo ricordo come un docente preparato, innamorato della scuola, studioso ed efficace, come ricordavo la sua giovane sposa e la sua bambina.

Tutto era cresciuto, cambiato nel tempo, ma come tutti i vecchi, categoria a cui appartengo da un bel pezzo, tutto si era fermato come era nel mio ricordo, quasi una foto di tempi passati, belli e felici.

Il male aveva in realtà provocato grossi danni nel fisico, anche se lo spirito era rimasto del tutto immune, anzi era progredito in scienza e saggezza. Dialogammo lungamente per aggiornare il rapporto e ristabilire dei contatti veri. Rimasi ammirato dalla serenità, dalla saggezza e soprattutto dal coraggio di accettare la situazione grave d’essere immobilizzato nel suo letto, totalmente dipendente dalla moglie anche se carissima, disponibile ed affettuosa.

Sono rimasto colpito da una frase, che sto rimuginando notte e giorno, anche perché m’è parsa saggissima anche se quasi impossibile per me!
“Sto imparando a godere anche delle piccole cose”.

Nel discorso più volte gli erano sfuggite, quasi per caso, l’ammirazione e la riconoscenza per le attenzione e premure della sua sposa.

“Godere delle piccole cose” in quelle condizioni così precarie in cui si trovava, non poteva nascere se non da una coscienza di un uomo buono e veramente sapiente, degno d’essere stato maestro di verità e di vita.